Tel Aviv, 5 gennaio 2003 - 11-01-03 - Angelica Calò Livné |
Tel Aviv 5 gennaio 2003
di Angelica Calò Livné*
Eccola, è un’altra volta alla radio quella canzone, “Buona sera disperazione, buona notte speranza”. La mettono sempre alla radio dopo il dolore, come se tutti piangessero per le nuove vittime, insieme ai loro cari, tutti, tutti sembrano chiudersi nel dolore: gli speaker alla televisione, le voci alla radio, la gente per strada, i muri sembrano piangere, le onde del suono sembrano imprigionate nel dolore... Quanti altri morti, 10, 20, 22, bianchi, neri, cinesi, ebrei, tailandesi. Madri, figli, nonni, innamorati, operai, autisti, soldati, maestre.
Dal Ghana, dalla Romania, dalla
Bulgaria: vecchi pionieri ebrei, sabres ed extracomunitari. Più di 100
feriti, 56 ancora all’ospedale, 8 gravissimi, tra i morti alcuni
ancora irriconoscibili. Il Bittuach Leumi, la previdenza sociale
israeliana, ha comunicato che sovvenzionerà il ritorno delle salme
degli extracomunitari nelle loro terre e l’arrivo dei parenti dei
morti non ancora identificati e dei feriti affinché possano vegliare
su di loro negli ospedali. Verrà pagato loro il viaggio e la
permanenza in Israele.
Dopo lo scoppio alcuni operai stranieri
senza permesso di soggiorno feriti gravemente sono fuggiti per
nascondersi temendo che la polizia li catturasse ma è stato emesso
immediatamente un dispaccio secondo il quale i dati di tutti i feriti
giunti in ospedale resteranno segreti, affinché abbiano la possibilità
di essere curati.
Un giovane poliziotto ha dovuto
abbracciare un uomo sanguinante che tentava di fuggire e portarlo
sull’ambulanza quasi a forza, perché non morisse dissanguato.
Davanti alla morte e alla disperazione
tutti qui divengono uomini, in tutti si risveglia qualcosa che
sembrava assopito... invece il terrore no. Il terrore non conosce
pietà, non sa distinguere tra i volti, non vuole, non ne ha bisogno
perché il terrorismo odia tutto, anche se stesso. E in tutta questa
desolazione un po’ di luce, un messaggio. Il messaggio della mia amica
Samar, la mia amica palestinese cristiana.
«Cara Angelica, fra poche ore partirò per tornare in Italia per una settimana, lascerò questo triste paese con il cuore gonfio di dolore per la violenza che c’è ora, sono veramente colpita e senza parole: che bisogno c’è di tutta questa violenza... le mie preghiere sono per tutte le vittime di questa guerra ingiusta e per le loro famiglie... non ho parole... ho lacrime. Che Dio ti benedica. In Cristo, Samar».
Mercoledi, ore 17.00, la sala, in un
posto qualunque in Israele, è gremita di mamme, padri, nonni, fratelli
emozionati e orgogliosi. 70 giovanotti di 20 anni, siedono in fila,
belli, tesi e sorridenti. Hanno terminato il corso infermieri di
guerra.
«Io, soldato nel reparto medicina
dell'Esercito di Difesa dello Stato d'Israele, giuro solennemente di
porgere la mano ad ogni ferito e a ogni malato, a persona qualunque o
a persona importante, ad amico o a nemico, ad ogni uomo in quanto
uomo. Io giuro di portare sollievo e rimedio al corpo e all'anima, di
tenere il segreto, di essere fedele, di rispettare, di pesare le mie
decisione con saggezza e con amore per l'uomo in quanto uomo. Mi
prenderò cura dei miei fratelli durante la battaglia se dovrò essere
accanto a una barella o a un letto di sofferenza. Giuro che nel mio
cuore rimarrà scolpita per sempre la legge più importante del
sacrificio: non abbandonare una ferito nel campo. Lo giuro!».
Un alto ufficiale benedice i ragazzi e
conclude dicendo: «Sperando che non dobbiate mai far uso di ciò che
avete imparato!» Un coro di voci risponde: «Amen, e cosi sia!». Poi
arriviamo a casa e nostro figlio che è tra quei giovani che hanno
appena giurato solennemente, inizia un discorso con i fratelli più
giovani: «Una delle cose più difficili sono stati i dilemmi che ci
hanno posto.
Se arrivate dopo un attentato e c’è
della gente ferita ma non gravemente e l'attentatore che non è morto
ma è gravemente ferito, il vostro dovere è di salvare prima di tutto
il ferito più grave, cioè l’attentatore». Noi guardiamo nostro figlio
con gli occhi sgranati e i fratelli gli dicono: «Ma non è giusto!».
Il nostro soldato ci guarda con grande
serietà: «è un uomo, e il nostro primo compito è di salvarlo! Poi gli
faranno un processo e lo puniranno! Noi diamo la vita. Non la
togliamo!». Ho un figlio soldato. E' già diventato un uomo.
Angelica Calò Livné
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