Referendum, perché si va alle urne - 12-06-03 - da www.libero.it |
di Giorgia Camandona Domenica 15 (dalle ore 8 alle 22) e lunedì 16 giugno (dalle ore 7 alle 15) gli italiani sono chiamati alle urne per votare per due referendum. I quesiti riguardano l'abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; l'abrogazione della servitù coattiva di elettrodotto. L'elettore deve apporre una croce sul "sì" se è favorevole all'abrogazione delle norme sopra riportate oppure sul "no" se è contrario. Sulla scheda non devono essere apposti altri segni, pena l'annullamento della scheda stessa. Gli elettori saranno ammessi al voto presentandosi nella propria sezione con un documento di identità valido e la tessera elettorale. Se non si raggiungerà il quorum (il 50% più uno degli aventi diritto dovrà presentarsi alle urne) per ciascun referendum, la consultazione sarà considerata nulla. Lo scrutinio comincerà alle ore 15 di lunedì 16 giugno, subito dopo la chiusura delle operazioni di voto. I referendum interessano oltre 47 milioni e 200mila elettori (per un totale di 60mila e 500 sezioni) soltanto in Italia, più 2 milioni e 300mila votanti residenti all'estero, che per la prima volta potranno esprimere la loro preferenza.
Che cosa dice il referendum sull'articolo 18 Come si è arrivati al voto, la proposta di legge La discussione sull'articolo 18 e sui cosiddetti "licenziamenti facili" è iniziata tempo fa, nel settembre del 2001, quando Gianni Agnelli, al meeting di Cernobbio, dichiarò che una riforma era auspicabile oltre che legittima. Un mese dopo il viceministro dell'Economia Gianfranco Micciché annuncia che l'art. 18 è «un vincolo che le imprese del Sud non possono più sopportare e va abolito». Il 15 novembre 2001 il Consiglio dei ministri approva la richiesta di delega al Parlamento per la riforma del mercato del lavoro, che prevede anche modifiche all'articolo 18. Soltanto quattro giorni dopo Cgil, Cisl e Uil chiedono al presidente del Consiglio Berlusconi di cancellare dalla riforma del mercato del lavoro la parte sui licenziamenti, ma nulla di fatto. Così il 5 dicembre prende il via una tre giorni di scioperi regionali, seguita da altre mobilitazioni, fino ad arrivare, il 16 aprile 2002 allo sciopero generale. Il 31 maggio il governo decide di trasferire una parte della delega (articolo 18, arbitrato, ammortizzatori sociali e incentivi) in un disegno di legge ad hoc (848 bis). Le parti sociali hanno due mesi di tempo per trattare: la Cgil dice no al confronto senza lo stralcio della parte che riguarda l'articolo 18. Di lì in poi la strada è stata in salita, il 23 marzo 2002 a Roma, durante la manifestazione nazionale della Cgil contro il terrorismo e in difesa dell'articolo 18, scendono in piazza tre milioni di manifestanti, 750mila secondo la questura. Immediata la reazione di Rifondazione Comunista e di alcune frange dei sindacati: parte una raccolta firme per l'estensione delle tutele, raccolta che ha portato al referendum dei prossimi 15 e 16 giugno. Per come stanno le cose oggi, l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si applica alle aziende con più di 15 dipendenti e impone al datore di lavoro, in seguito a sentenza del giudice, il reintegro del dipendente se questo è stato licenziato senza giusta causa o senza giustificato motivo. La proposta del governo, contenuta nella legge delega, è quella di sospendere il diritto al reintegro in via sperimentale per quattro anni e in tre casi: per i lavoratori il cui contratto a termine viene trasformato in contratto a tempo indeterminato; per coloro che emergono dal sommerso; per le imprese che superano la soglia dei 15 dipendenti. Il quesito referendario, invece, propone che le tutele previste attualmente dall'articolo 18 vengano estese a tutti i lavoratori, compresi quelli che sono impiegati in aziende sotto i 16 dipendenti. L'avvicinarsi della consultazione referendaria, però, ha scatenato cocenti polemiche nel centrosinistra e tra i sindacati. Oltre ai soliti schieramenti, per il no e per il sì, prevedibili a seconda delle colorazioni politiche, il fronte degli astensionisti si è rafforzato con il passare dei mesi. Mentre la Cgil, dopo l'avvicendamento al vertice Cofferati - Epifani, si è schierata, faticosamente, per il sì, la Cisl ha deciso per il no o per l'astensione. Una scelta che è costata al suo segretario, Savino Pezzotta, aspre contestazioni da parte del popolo della sinistra. La Uil, capitanata da Angeletti, ha assunto la stessa posizione, presentando però una propria proposta di legge. E mentre Rifondazione e i Comunisti Italiani si sono schierati apertamente per il sì, in una inusuale allenaza con la Fiamma Tricolore di Pino Rauti, i Ds nicchiano. Qualche deputato ha prestato dichiarazioni spontanee a favore del referendum di Bertinotti, ma i più tacciono e qualcuno consiglia l'astensionismo. Il voto, infatti, non sarà valido se non si raggiungerà il quorum: almeno il 50% più uno degli aventi diritto dovrà recarsi alle urne. Per l'astensionismo, dunque, sono tutti coloro che vogliono che questo referendum caschi nel nulla, compreso il Polo e Confindustria.
Che cosa dice il referendum sugli elettrodotti Come stanno le cose oggi, la proposta di modifica Il secondo quesito referendario, promosso dal partito dei Verdi con 600mila firme, riguarda la cosiddetta "servitù di elettrodotto". Un decreto del 1933 stabilisce il diritto di esproprio dei terreni, senza alcuna autorizzazione, per la costruzione di condutture elettriche. Con questo referendum si propone l'abrogazione dell'articolo 1056 del codice civile, intitolato, appunto, "elettrodotto coattivo", e dell'articolo 119 del testo unico "elettricità e acqua". Entrambi gli articoli stabiliscono che il proprietario del fondo non si può opporre in alcun modo al passaggio dell'elettrodotto, neppure se vicino all'abitazione. I sostenitori del sì ritengono che la normativa sia lesiva dei diritti dei cittadini, oltre che estremamente obsoleta, risalendo a un'epoca in cui il Paese andava elettrificato da capo a piedi. Non solo: alcuni degli elettrodotti attualmente presenti sul territorio sono situati nei pressi di centri abitati, tra caseggiati e scuole e poiché alcuni studi metterebbero in relazione la presenza di condutture elettriche e la diffusione di patologie leucemiche, la scelta, dicono i Verdi, riguarda in primis la salute dei cittadini e non può essere lasciata a terzi in nome di interessi superiori. I sostenitori del no, invece, affermano che la vittoria del sì metterebbe a rischio lo sviluppo del Paese, già compromesso dalla carenza di energia elettrica. Dichiarano inoltre che il passaggio di condutture elettriche vicino a centri abitati risale a tempo fa e non sarebbe più attuato da nessuna azienda elettrica. Sostengono poi che alcuni elettrodotti sarebbero stati preesistenti e che la "colpa" di alcune situazioni incresciose sarebbe da attribuire alle amministrazioni comunali che hanno elargito concessioni edilizie nei pressi di condutture elettriche. La risposta dei Verdi è che l'intento del referendum non è affatto quello di bloccare l'industrializzazione del Paese, ma regolamentarla nell'interesse dei cittadini e in nome della salute. La vittoria del sì, inoltre, darebbe il via, sempre secondo il partito del sole che ride, allo sviluppo di modelli alternativi finora messi da parte, quali l'energia a idrogeno e quella solare, vera scommessa energetica del futuro. 11 giugno 2003 Giorgia Camandona
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