…Il difficile è cominciare

STATE DIETRO

(L’Italia del caso Moro)

 

INTRODUZIONE

Addentrarsi nei meandri del caso Moro è certo operazione difficile e complessa, questo è un caso che ha sconvolto la realtà politica e sociale italiana coinvolgendo livelli di potere altissimi sia nazionali che internazionali; è una vicenda che vede coinvolti una pluralità di soggetti esponenti di ambienti che spaziano dalla politica alla criminalità organizzata passando per i servizi segreti di tutto il mondo.

E’ una storia difficile, anche da raccontare perchè inevitabilmente si finisce per ingarbugliarsi  ed attorcigliarsi intorno ai tanti livelli di approfondimento che si snodano dall’evento principale.

Il caso Moro è storia, è l’evento drammatico di maggiore rilevanza nella storia della nostra Repubblica sia per i presupposti che lo hanno ingenerato sia per le conseguenze ne sono scaturite. E’ pur vero che su questa vicenda tanto si è detto e tanto si è scritto ed inevitabilmente le conclusioni a cui si è arrivati sono sempre le stesse, ovvero che la vicenda ha ancora tanti punti oscuri e misteriosi che chissà se verranno mai chiariti.

Il presente lavoro, senza nessuna pretesa di esaustività, cerca di ricostruirne le dinamiche utilizzando la grande ricchezza di fonti d’informazioni offerte dalla rete, nomi, luoghi, intrecci e fatti storico-politici. Inoltre teniamo a dire che in questo scritto qualche conclusione, intesa esclusivamente come sbocco naturale di un lavoro profondo di analisi, proviamo a tracciarla; solo per onestà intellettuale riteniamo sia corretto porre a valle di tante ricostruzioni, delle conclusioni ragionate senza con questo avere la pretesa di essere depositari della verità che mai come in questo caso risulta opaca, piccola e lontana anche se forse iniziamo ad intravederla.

 

Non possiamo cominciare questa storia senza un quadro della situazione storico-politica in Italia a cavallo degli anni 60/70

 

«"Da Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi stati dell'Europa Centrale ed Orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia; tutte queste famose città e le popolazioni attorno ad esse, giacciono in quella che devo chiamare sfera Sovietica, e sono tutte soggette, in un modo o nell'altro, non solo all'influenza Sovietica ma anche a una altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo da Mosca"
- Winston Churchill 5 marzo 1946 Fulton (USA)

 

DAL 1945 agli anni 70

Le vicende politiche del dopoguerra anno portato verso la fine degli anni 60 ad una situazione tra le potenze vincitrici, definita di guerra fredda. Gli schieramenti infatti sono ormai pienamente delineati, da una parte il blocco Sovietico e dell’altra il patto atlantico Statunitense, in mezzo l’Italia, terra di conquista per entrambi gli schieramenti; in quanto l’Italia fa sì parte degli stati democratici dell’ alveo statunitense ma è anche il paese con il più grande e forte partito comunista dell’area occidentale, è quindi in Italia - e anche nella Germania dell’ovest - che si giocano le partite più importanti dello scontro politico internazionale, è in Italia che affluiscono esponenti dei servizi segreti di tutto il mondo, è in Italia che si concentrano il maggior numero di investimenti dell’economia mondiale e nonostante in quegli anni assistiamo all’ingerenza di una cultura anglofona è l’Italia il vero centro geo-politico del mondo. Il partito che tenta di mantenere un flebile equilibrio fra tutte queste forze in campo è la democrazia cristiana di Alcide de Gasperi, un partito sostenuto anche da forze esterne alla volontà popolare al fine di rendere possibile una minima forma di governabilità in quegli anni così difficili. La DC infatti è un partito politico dotato anche di una forza paramilitare che verrà smobilitata solo nel 1954. E’ in questo contesto che matura l’attività politica di Aldo Moro, ma…

CHI E’ ALDO MORO

Aldo Moro nacque a Maglie, in Puglia, nel 1916 e meglio di chiunque altro seppe condurre la propria attività politica all’insegna della moderazione, del dialogo e della ricerca del compromesso e dell’accordo tra le diverse parti politiche.

Fin dai tempi dell’Assemblea Costituente Moro applicò il dialogo e la ricerca di convergenza tra le parti in causa nella sua opera politica.

Fin dalla fine degli anni ’40 Moro ricoprì importanti cariche pubbliche politiche e di governo: fu sottosegretario, ministro ed infine segretario generale organizzativo dello “scudo crociato” dopo la disfatta fanfaniana nel secondo decennio degli anni ’50.

La politica morotea diede i suoi primi frutti all’inizio degli anni ’60 quando l’allora segretario democristiano si fece portavoce, dopo l’esperienza tambroniana del 1959, della “apertura a sinistra”, ossia del coinvolgimento dei socialisti del PSI di Pietro Nenni - che dopo i fatti d’Ungheria del 1956 si erano allontanati dai comunisti rompendo l’unità d’azione con il PCI ed imboccando la strada dell’autonomismo - prima, con i governi presieduti da Fanfani, nell’area della maggioranza di governo - poi, con i governi presieduti dallo stesso Moro, l’ingresso di ministri socialisti nell’esecutivo. Ma il giovane centro-sinistra subì un duro colpo dal tentativo di colpo di stato del generale Giovanni De Lorenzo (Piano Solo) che pose fine alla fase propulsiva di tale formula politica di governo.

Il Piano Solo e la figura del gen. De Lorenzo sono l’emblema del potere di condizionamento che, per lunghi anni, i servizi segreti in particolare e, più in generale, i corpi armati dello stato hanno esercitato sulla fragilità della politica italiana.
E’ solo nel 1967 che, grazie ad un’inchiesta condotta dal settimanale L’Espresso, viene alla luce quel rumore di sciabole che nell’estate del 1964 riuscì a bloccare il progetto di profonde riforme strutturali avviato con il primo esperimento italiano di governo di centro-sinistra.
Alla base di tutto una pianificazione militare che doveva essere attuata "solo dai carabinieri" (da qui il nome di Piano Solo), comandati dal gen. Giovanni De Lorenzo, che tra il 1955 e il 1962 era stato ai vertici del SIFAR, il servizio segreto delle Forze Armate. Un piano che prevedeva l’arresto e la deportazione di uomini politici di sinistra e sindacalisti, l’occupazione delle prefetture, di sedi di partito, della RAI, delle redazioni di alcuni giornali, oltre che l’acquisizione del potere da parte dei militari. Se attuato, il Piano Solo avrebbe condotto ad un vero colpo di stato. Tutto comincia il 26 giugno del 1964 quando, dopo sei mesi di difficile coabitazione, va in pezzi il primo governo organico di centro-sinistra formato cioè da democristiani, socialisti, socialdemocratici e repubblicani e presieduto da Aldo Moro.
Il 3 luglio, privo di alternativa, se non il ricorso alle elezioni che sarebbero state sfavorevoli alla DC, il capo dello stato, Antonio Segni, assegna un nuovo incarico allo stesso Moro: suo compito sarà quello di annacquare il più possibile le richieste innovative dei socialisti, la cui delegazione è guidata da Pietro Nenni.In un clima drammatico, le trattative, trasformatesi in una sorta di braccio di ferro, si protraggono.
Il 13 luglio uno stringatissimo comunicato annuncia che Segni ha ricevuto al Quirinale il gen. De Lorenzo. E’ questo il segnale di una minaccia?
Il 17 luglio nasce il secondo governo di centro-sinistra sulla base di un programma modesto e scarsamente innovativo. Forse quel rumore di sciabole si era fatto troppo assordante?

 

Finita la spinta propulsiva del governo con i socialisti vi fu la bufera del 1968 con la contestazione studentesca e l’autunno caldo del 1969 con le lotte operaie.

Aldo Moro fu uno dei pochi politici a capire la portata storica di quegli eventi che, forse, egli stesso aveva contribuito a provocare, avendo addormentato, dopo il 1964, il centro-sinistra convincendo i socialisti a rinviare le riforme strutturali del sistema, riforme che tanto stavano a cuore a Riccardo Lombardi ed ad Antonio Giolitti, “a data da destinarsi”.

In risposta a tale ondata impetuosa di richieste di innovazione del sistema e della vita italiana, il moderatissimo Aldo Moro formulò una nuova teoria politica: il progressivo incontro con il Partito Comunista allora guidato da Enrico Berlinguer.

Ciò doveva avvenire in tre differenti e successive fasi: astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale, quindi compresi anche i comunisti, su di un governo monocolore democristiano; successivo voto favorevole dei sopracitati partiti nei confronti del medesimo governo ed infine la partecipazione diretta di esponenti di tutti i partiti dell’arco costituzionale ad un nuovo ed innovativo governo.

 

COMPROMESSO STORICO bis

Le elezioni del 1976 avevano visto l’affermazione del PCI di Enrico Berlinguer che era giunto a sfiorare il sorpasso sullo storico avversario, la DC in quel momento guidata dal moroteo Benigno Zaccagnini: furono le elezioni dei due vincitori.

I comunisti si facevano portavoce di richieste di rinnovamento della politica nazionale e furono i primi ad affrontare la denuncia della “questione morale”, ossia della disinvoltura con cui molti politici agivano.

All’inizio degli anni ’70, a seguito del colpo di stato reazionario effettuato in Cile dal generale Pinochet, Berlinguer si era fatto promotore di un accordo di sistema tra le grandi culture politiche di massa: comunisti, cattolici e socialisti; il “compromesso storico”.

I principali interlocutori del leader comunista furono Moro ed il leader repubblicano Ugo La Malfa, entrambi sostenitori di un forte rinnovamento del sistema politico italiano.

Il “compromesso storico” doveva servire alla legittimazione del PCI potendo rendere possibile un’alternanza ed una alternativa anche nella vita politica italiana.

Si prospettava una soluzione di tipo tedesco: negli anni ’60 in Germania(RFT) vi era stata una “grande coalizione” tra democristiani e socialdemocratici la cui conclusione fu una serie di governi a guida socialdemocratica.

A tale esperimento si opposero numerose forze, sia palesi, sia occulte, tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale.

Questa idea politica affrontata e sviluppata da Moro e Berlinguer era assolutamente geniale e per questo osteggiata da molti, in un periodo politico fondamentalmente di stallo, il concetto di centro sinistra progressista, avrebbe non solo alleggerito le pressioni sociali di piazza che aumentavano sempre più ma avrebbe anche limitato l’ingerenza USA-URSS sul nostro paese avendo questo finalmente trovato una stabilità che si fondava sui principi più democratici delle due ideologie dominanti.

"Sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare... questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l'opera di un governo che fosse espressione di tale 51 per cento. Ecco perché noi parliamo non di una "alternativa di sinistra" ma di una "alternativa democratica", e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di un'intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico".

Enrico Berlinguer

 

Ma questa soluzione:

A)      Non piaceva agli USA, in quanto l’ingresso nel governo o nei ministeri di esponenti del PCI - ovvero di persone che comunque avevano contatti con il partito comunista sovietico - avrebbe portato questi a conoscenza di piani militari, procedure segrete nonché di localizzazione di basi militari oltre ad informazioni di varia natura che naturalmente dovevano rimanere assolutamente riservate, inoltre per gli USA sarebbe stata una sconfitta culturale agli occhi del mondo, in un paese del proprio alveo infatti avrebbe contribuito a governare proprio quel partito tanto osteggiato socialmente e moralmente, pertanto per loro opinione il compromesso Moro-Berlinguer era ASSOLUTAMENTE IMPERCORRIBILE.

B)      Non piaceva all’URSS, in quanto rappresentava la prova tangibile che il comunismo poteva diventare forza di governo, quindi arrivare al potere, senza ricorrere alla rivoluzione, concetto e principio fondamentale degli Stati comunisti, questo progetto, avrebbe quindi trasformato i Sovietici e gli Stati ad esso collegati da liberatori in oppressori, pertanto anche per loro opinione questo percorso era improponibile

C)      Non piaceva ad i settori dello Stato che per mantenere il potere in quegli anni erano scesi a compromessi con mafia, massoneria e servizi segreti gestiti di fatto dagli USA. I comunisti infatti desideravano, in nome della “questione morale” fare chiarezza su molte vicende e molte connivenze dello Stato italiano, soprattutto su quella indefinita “strategia della tensione” di cui si parlava tanto dopo gli attentati di Piazza Fontana a Milano e a Piazza della Loggia a Brescia.

E’ in questo contesto di “interesse” comune e disinteresse per lo Stato, che nacque e si fece sempre più avanti l’idea in molti settori di eliminare alla radice questa proposta eliminandone gli ideatori. Sicuramente eliminare Berlinguer era di fatto impossibile, la stima di cui il Leader comunista godeva in tutti i settori della sinistra da quella democratica a quella estrema era tale da provocare un contraccolpo sociale incontrollabile, pertanto dopo le elezioni del 1976 nasce e si sviluppa l’idea di eliminare Aldo Moro.

 

PROVE DI COMPLOTTO

Prima di arrivare a decisioni estreme, gli USA tentarono comunque di delegittimare Moro politicamente cercando di dimostrare un suo coinvolgimento nello scandalo Lockeed.

Questo è un caso tanto cruciale quanto del tutto trascurato.
Lo scandalo Lockheed fu un'operazione Mani Pulite ante-litteram, che passava attraverso il Dipartimento di Stato americano (controllato dalla mafia di Kissinger), con cui si cercò di accusare Moro di aver ricevuto bustarelle dalla impresa aerospaziale americana in cambio di acquisti di aerei da trasporto militare C-130 per le forze armate italiane. Naturalmente la storia era falsa, ma alcuni quotidiani e settimanali italiani pubblicarono la notizia che il famoso "Antelope Cobbler", nome in codice del destinatario italiano delle bustarelle, sarebbe stato Moro.
Era chiaro che, indicandolo come il destinatario delle bustarelle,

si voleva assassinare politicamente Moro e far naufragare il suo progetto, ma il disegno non riuscì. La corte Costituzionale archiviò la posizione di Moro il 3 marzo 1978, e cioè tredici giorni prima dell'agguato di Via Fani.
Moro era ben conscio della manovra. Il capo del suo ufficio stampa, Corrado Guerzoni, dirà al processo per l'omicidio di Moro che "nella borsa del presidente c'erano probabilmente i documenti più delicati, almeno quelli degli ultimi tempi, perché li portava sempre con sé... Per quel che ne so io c'erano i documenti dell'affare Lockheed per la parte in cui era stato coinvolto il presidente... Vi era l'impressione che ci potesse essere, come dire, un ritorno di fiamma... Dissi al presidente: diciamo come stanno le cose, è scritto lì che questa informazione esce dal gabinetto del segretario di Stato; diciamo che è un fatto politico". Quei documenti poi, saranno distrutti dalle Brigate Rosse, che inspiegabilmente non li usarono per smascherare l'esecrato "stato imperialista delle multinazionali".
Ma in precedenza Moro aveva reagito allo scandalo dichiarando in Parlamento che "La DC non si farà processare nelle piazze". Quel famoso intervento fece sì che il Parlamento, interpretando politicamente lo scandalo, rifiutò di concedere l'autorizzazione a procedere per Gui, ministro della Difesa all'epoca delle bustarelle.
L'episodio è emblematico per mostrare la differenza tra la DC guidata da Moro e quella che, quindici anni dopo, accetterà supinamente di scomparire sotto i colpi di Mani Pulite.
Moro sapeva benissimo che vi erano episodi di corruzione nel partito, che le correnti si finanziavano in modo più o meno legale. Ma capiva anche che la "lotta alla corruzione" era un pretesto per distruggere la DC, il sistema dei partiti e il Parlamento stesso, come poi è avvenuto esattamente con Mani Pulite.
Ma la grandezza di Aldo Moro è racchiusa nella sua decisione di andare avanti nella linea scelta nell'interesse della nazione, consapevole che così facendo metteva in gioco la sua stessa vita. Quanti politici odierni farebbero lo stesso, messi di fronte ad una chiara minaccia di morte? Temiamo nessuno.
È noto che Moro, in un viaggio negli USA nel 1976, fu affrontato da un alto personaggio americano che lo apostrofò duramente. Di fronte alla Commissione parlamentare d'inchiesta, Eleonora Moro rievocherà così l'episodio: "È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona... Adesso provo a ripeterla come la ricordo: ?Onorevole (detto in altra lingua, naturalmente), lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere»". Chi fu questo personaggio? Diverse fonti hanno giustamente puntato il dito su Henry Kissinger.

 

Probabilmente, fallita la carta della corruzione vennero messe al vaglio altre ipotesi, a questo proposito occorre ricordare che intorno la metà degli anni 70 lo Stato italiano è uno Stato ancora giovane e dalla difficile governabilità, sicuramente non ha la solidità di altre nazioni e non ha apparati al suo interno che possono contare fra le proprie forze - corpi deviati - per compiere azioni militari incursive di terrorismo istituzionale per così dire, ma quello italiano come dicevamo all’inizio, è un territorio dove agivano tante forze, vista la molteplicità di interessi che giravano in quel periodo. C’era la loggia massonica Propaganda 2 gestita da Licio Gelli, loggia che contava al suo interno personalità di grande rilievo e potere; c’era la mafia tornata in auge con lo sbarco degli americani durante la guerra; c’erano le forze eversive di destra e di sinistra; e trasversalmente, su tutte queste forze, agivano i servizi segreti. Coordinare tutte queste forze verso un unico obiettivo sarebbe stato impossibile per qualunque Richelieu, sicuramente era possibile dare un’imbeccata a ciascuno di questi poteri al fine di farli agire in un determinato modo. In ogni caso assassinare Moro a mezzo di un commando ad hoc, sul modello J.F.Kennedy, probabilmente non era un ipotesi percorribile, il clima in Italia era troppo caldo e si sarebbero aperte nuove stagioni di tensioni e scontri sociali, inoltre non era detto che pure dopo questo “intervento” il piano Moro-Berlinguer non si sarebbe realizzato, anzi i comunisti avrebbero potuto trarre impulso da questo evento rivendicando la maggiore stabilità che quell’ accordo istituzionale avrebbe garantito. Occorreva un capro espiatorio preciso e circostanziato, un nemico sociale da combattere. Bisognava insomma fare qualcosa e anche in fretta, siamo infatti nel 1977 ed è proprio in questi anni che avviene la prima riforma organica dei servizi segreti – ma anche fino ad oggi l’ultima.

Sempre più vicino all’area di governo, impegnato in una politica improntata al consociativismo, il PCI partecipa direttamente ed in prima persona, attraverso la figura del sen. Ugo Pecchioli, alla riforma. Per la prima volta viene introdotta una figura di responsabile dell’attività dei servizi segreti di fronte al Parlamento: è il Presidente del Consiglio che si avvale della collaborazione di un consiglio interministeriale, il CESIS che ha anche un compito di coordinamento. Inoltre i servizi devono rispondere di quello che fanno ad un Comitato parlamentare. Ma un importante novità introdotta dalla riforma dei servizi segreti riguarda lo sdoppiamento dei servizi stessi: al SISMI (Servizio d’Informazioni per la Sicurezza Militare) il compito di occuparsi della sicurezza nei confronti dell’esterno, al SISDE (Servizio d’Informazioni per la Sicurezza Democratica) quello di vigilare all’interno. Con in più un’altra differenza: se il SISMI resta completamente affidato a personale militare, il SISDE diventa una struttura civile, affidata alla polizia che è diventato un corpo smilitarizzato.

L’influenza della sinistra comincia a farsi sentire.

 

LE BRIGATE ROSSE

Fino ad ora abbiamo parlato dell’Italia e della sua situazione storico-politica alla fine degli anni 60 e all’inizio degli anni 70, della sua classe politica e delle tante forze di potere che ne gestiscono le sorti, le sorti di un paese che si trova alla base di quella cortina di ferro citata da Churchill nel 46. Non abbiamo ancora parlato di quel gruppo eversivo di sinistra considerato principale e fino a qualche tempo fa – unico – responsabile del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro: le brigate rosse. Come dicevamo all’inizio in Italia si riscontrava una forte ingerenza delle due superpotenze, ognuna delle quali in modo diverso cercava di intervenire indirettamente nella vita politica del paese, l’influenza dell’URSS si manifestava nel cavalcare il principio che le lotte partigiane e di resistenza erano state tradite dallo Stato borghese che si era costituito nel dopoguerra e che anche i principi ideali della Costituzione repubblicana non solo non si stavano realizzando ma non si sarebbero mai realizzati; questo principio unito ad un movimento, prevalentemente studentesco che desiderava una modernizzazione dello Stato, uno svecchiamento delle vecchie burocrazie, provocò - come fenomeno estremo - la nascita di tanti gruppi che iniziarono ad abbracciare la tesi della “lotta armata” intesa come unica via di vera liberazione sia dallo Stato considerato ancora fascista, che dagli americani visti come incarnazione del nuovo male del secolo: il capitalismo. Sono tanti i gruppi che nascono in quel periodo, ma i principali sono:

GAP : Gruppi di azione Partigiana
Il primo gruppo clandestino armato, fondato a Milano dall’editore Giangiacomo Feltrinelli con il progetto di creare una insurrezione sul modello della guerriglia castrista. Feltrinelli morì nel 1972 per l’esplosione di una carica di tritolo che tentava di piazzare su un traliccio dell’alta a Segrate.

NAP : Nuclei armati proletari
Sorgono a Napoli negli ambienti attivi sulla questione carceraria. Trasferitisi a Roma i militanti del Nap mettono a segno il 6 maggio 1975, il rapimento del magistrato Giuseppe Di Gennaro

PL : Prima linea
All’inizio, l’organizzazione di estrema sinistra punta sulla presenza territoriale. Tale atteggiamento fu abbandonato in seguito per seguire la scelta del terrorismo e la clandestinità. Tra i suoi militanti c’è Marco Donat Cattin, figlio di Carlo, esponente della sinistra democristiana e ministro in diversi governi. E’ il 1979, quando Prima Linea firma l’omicidio del sostituto procuratore Emilio Alessandrini. Il primo di una lunga serie, che fece quasi concorrenza al terrore delle BR. Prima linea venne sgominata grazie alle confessioni di Patrizio Peci, primo pentito nella storia del terrorismo.

Nonché le BR : Brigate Rosse

Nel 1970 in un piccolo paese in provincia di Reggio Emilia, Pecorile, si tenne la prima riunione di quello che può essere considerato il nucleo storico delle brigate rosse; studenti, operai, persone di luoghi e di estrazione diverse, ma con alle spalle un comune valido curriculum di agitatori di masse, si unirono e tracciarono le linee essenziali del loro programma. Le brigate rosse non elessero un capo ma in ogni caso affidarono ai due principali ispiratori del movimento: Alberto Franceschini e Renato Curcio, una sorta di coordinamento generale.

La direttrice principale della loro azione è semplice, combattere lo stato borghese attraverso azioni dimostrative e se il caso attraverso azioni di lotta armata; quindi almeno fino al 1974 le azioni delle BR, pur se terroristiche, possiamo non definirle come particolarmente atroci, fanno infatti saltare la macchina di qualche dirigente d’azienda, fanno esplodere bombe artigianali nelle fabbriche, arrivano anche a sequestrare il capo del personale della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini (foto), per poi rilasciarlo 2 ore dopo; siamo nel 1972 ed è questa loro prima azione di grande rilievo. Proprio dalla Sit-Siemens si affaccia al gruppo, proveniente dal movimento operaio, un giovane marchigiano residente però da qualche anno a Milano, un certo Mario Moretti, futuro protagonista del rapimento Moro ovvero il personaggio sicuramente più controverso di tutta la storia delle BR .

Dopo questi atti per così dire dimostrativi le BR decidono di alzare il tiro utilizzando sempre l’arma del sequestro, un’arma valida per i terroristi in quanto consente agli stessi di fare delle richieste (quasi sempre relative a scarcerazioni di loro compagni), porre delle condizioni e stabilire i termini di una trattativa; la scelta cade sul Magistrato della Procura di Genova, Mario SOSSI, è questo sicuramente l’episodio che rappresenta l’apice dell’attività terroristica delle BR sotto la guida di Curcio e Franceschini; il sequestro dura poche settimane e dopo gli interrogatori di rito ed una concessione dello Stato alla liberazione di alcuni prigionieri del gruppo “22 ottobre”, poi rimangiata, il giudice venne liberato; siamo nel 1974, è dopo questa vicenda che lo Stato inizia a interessarsi alle Brigate Rosse.

 

LE INFILTRAZIONI

Le brigate rosse pur muovendosi chiaramente in segreto, erano comunque un gruppo politico aperto, ovvero qualunque simpatizzante del movimento avrebbe potuto mettersi in contatto con membri (non di primo piano è chiaro) delle BR. Certi ambienti e certe frequentazioni erano rituali nella sinistra estrema di quel periodo, pertanto possiamo affermare che per questo motivo le BR rappresentano il movimento terroristico più infiltrato di sempre; quindi, proprio per questa natura “aperta” (ancora fino a poco tempo fa sulle riviste della sinistra extraparlamentare si potevano trovare i luoghi dei raduni dei comitati di base) è sempre stato possibile inserire nel movimento una pluralità di soggetti informatori, alcuni sostengono che lo stesso Moretti sia un infiltrato, sicuramente lo era Marco Pisetta (per esempio), infiltrato quasi da subito nelle BR; in ogni caso destata l’attenzione dello Stato e dei Media su questo gruppo eversivo, per ciascuna delle forze di potere in campo a quell’epoca, sarebbe stato possibile inserire un proprio elemento in questa organizzazione, addirittura oggi si parla di infiltrati che facevano capo al Mossad (il servizio segreto israeliano) nonché al KGB, CIA o al SISDE e alla P2. L’infiltrazione serviva a controllare il gruppo e non a sgominarlo, l’attività di gruppi eversivi e terroristici o anche di gruppi più semplicemente legati alla criminalità organizzata, poteva servire a settori deviati dello Stato, per gestire in modo occulto queste organizzazioni qualora ce ne fosse stata la necessità.

Questa modalità, tipica in situazioni di guerra, venne adattata in questo periodo atipico definito di guerra fredda, attraverso l’operazione “Stay behind”.

Con l'espressione inglese stay-behind (letteralmente "stare dietro, in retroscena") ci si riferisce ad un'operazione di spionaggio sotto copertura, il cui scopo sia, ad esempio, l'infiltrazione e/o il recupero di informazioni segrete da un gruppo sospetto. L'origine dell'espressione è probabilmente una metafora per l'attività di stare alle spalle di qualcuno per leggere i suoi segreti senza che la persona se ne accorga. È noto che le agenzie di spionaggio e altri servizi di intelligence utilizzano tra i loro metodi le operazioni di tipo stay-behind.
Può essere fatto un parallelo tra le operazioni stay-behind in tempo di pace e le operazioni belliche "dietro le linee nemiche" ("behind enemy lines" in inglese), che significa infiltrarsi in un paese nemico (od occupato dal nemico) senza far sapere della propria presenza.
Lo scopo di tali attività, a parte il recupero di informazioni per motivi di intelligence, può andare dal sabotaggio alla propaganda, alla preparazione di un attacco a sorpresa, al favoreggiamento di insurrezioni o colpi di stato, al rapimento o all'eliminazione di persone chiave.

Le operazioni di stay-behind possono avere come oggetto l'organizzazione di una rete (non necessariamente di tipo militare) destinata ad attivarsi in caso di specifici eventi ed operare in prima linea nel conflitto. Peculiarità di un'unità stay-behind è la segretezza dei suoi membri e l'operatività all'interno e dietro le linee nemiche, essenzialmente tra la popolazione civile.
Una delle più famose operazioni di "stay-behind" è stata l'Operazione Gladio, che è stata ammessa ufficialmente nel 1990 da Giulio Andreotti in Italia, paese nel quale l'espressione stay-behind è utilizzata come sinonimo di "Gladio". L'Operazione Gladio fu organizzata per conto della NATO e parzialmente finanziata dalla CIA durante la Guerra fredda e fu istituita in Italia come negli altri paesi dell'Europa Occidentale (anche sotto nomi diversi) con lo scopo di contrastare l'influenza politica e militare dei paesi comunisti.
Per quanto riguarda il funzionamento operativo lo Stay Behind si avvale di un certo numero di agenti che non figurano ufficialmente, essi non sono poliziotti o soldati ma essi agiscono anche in cooperazione e copertura di agenti delle forze dell'ordine e dei servizi; il loro pagamento viene effettuato attraverso canali in nero. A tal fine viene gestita la vendita di droghe (eroina e cocaina soprattutto), operazioni criminali in collaborazione con settori mafiosi, quali rapine e sequestri. Tale organizzazione nel suo essere clandestina e ignota ai vari parlamenti rappresenta senza dubbio una aperta e grave violazione della sovranità dei paesi europei dove essa operò, uno stato nello stato in collaborazione con loggie massoniche, servizi militari e civili, neofascisti e Vaticano (famoso il caso dell'istituto di credito IOR che serviva anche a smistare i fondi CIA per operazioni di golpe o di repressione delle guerriglie in centro e sudamerica).
L'organizzazione della Gladio entrò in azione massicciamente quando alla fine degli anni 60', nonostante la massiccia propaganda e i finanziamenti ingenti ai partiti di centro destra, la società spingeva verso cambiamenti in senso sociale e i Partiti socialisti e comunisti erano cresciuti notevolmente ma era già attiva sin dai primi anni 50'.
Essa si avvale dopo il 60' dell'esperienza maturata nella decade precedente dalle operazioni del piano Condor in America Latina. Il piano Condor viene attuato parallelamente al piano Gladio, cioè sin dall'immediato dopoguerra, ma data la lontananza dell'America Latina dall'opinione pubblica europea esso sin da subito si spinge al livello estremo di violenza programmata e pianificata a scopi politici, quali l'assassinio di dirigenti comunisti, intellettuali, sindacalisti, ecc. sino ad attentati dinamitardi contro civili tesi a diffamare la resistenza armata dei gruppi di sinistra.

 

A questo punto la nostra storia si aggroviglia, diventa infatti sempre più difficile raccontare gli eventi in modo lineare viste le tante sovrapposizioni di situazioni, fatti e circostanze tutte collegate ed incastrate tra di loro. Diciamo che questa vicenda si sviluppa su due piani paralleli, da un lato l’interesse istituzionale nei confronti delle BR teso a combattere questo fenomeno, dall’altro l’interesse di settori deviati dello Stato volto invece ad inserirsi in questo come in altri gruppi eversivi armati.

Dal punto di vista ufficiale, il Nucleo speciale dei Carabinieri coordinato dal Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa e diretto dal Procuratore Caselli, mise a segno una serie di colpi importanti contro le BR, mentre dall’altro versante si cominciavano ad infiltrare persone per uno scopo ben determinato, l’obiettivo era sempre più quello di riuscire in qualche modo a gestire il gruppo e per questo la prima cosa da fare era liberarsi dei capi storici, dei due ideologi di tutto il movimento Curcio e Franceschini, a questo proposito (ma non solo) venne infiltrato nelle BR un personaggio chiave: Silvano Girotto detto Frate Mitra.

Le credenziali di Girotto erano di tutto rispetto, combattente nella legione straniera, successivamente entrato nell'ordine dei francescani con il nome di padre Leone, militò nei guerriglieri boliviani in sud america all'inizio degli anni '70. Il fascino alla “Che” di Girotto conquista i Brigatisti che lo prendono con loro, ma ben presto, grazie alle informazioni che questi rilascia, vengono arrestati a Pinerolo i due leader storici delle brigate rosse.
Come racconta Franceschini “Frate mitra appena rientrato in Italia cercò subito di entrare in contatto con le BR [...] si fece precedere da alcune lettere dei dirigenti del Partito Comunista di Cuba in cui si attestava di essere addestrato alla guerriglia e vantò rapporti anche con i Tupamaros. La cosa non poteva non interessarci”. Dopo alcuni tentennamenti i brigatisti si fecero convincere ad incontrare Girotto e, durante il terzo incontro, a Pinerolo, la trappola dei Carabinieri scattò inesorabile.

Curcio e Franceschini vengono dunque arrestati mentre il loro “delfino” Mario Moretti che incredibilmente aveva bucato l’appuntamento, dicendo poi di avere avuto una soffiata, rimane l’unico vero leader all’interno del gruppo. Ma questa situazione non andava bene a Mara Cagol, compagna di Curcio e terza voce ufficiale delle BR, questa infatti organizza un commando che irrompe nel carcere di Casale Monferrato, dove era detenuto Curcio e riesce a liberarlo. Nel suo breve periodo di libertà Curcio vorrebbe organizzare un sequestro di alto livello, portare un attacco vero al cuore dello Stato, si parla di un rapimento nei confronti del leader democristiano Giulio Andreotti, già nel marzo del 1975 iniziano gli appostamenti e le procedure di rito, ma le cose non vanno come previsto, sempre grazie ad elementi infiltrati, in primavera durante il sequestro dell’imprenditore Gancia, ad Acqui Terme viene uccisa, negli scontri a fuoco con le forze dell’ordine, Mara Cagol, mentre a novembre viene definitivamente arrestato Renato Curcio, Moretti invece per la seconda volta si salva.

 

LA SECONDA FASE

A cavallo del 76-77 la situazione appare più chiara, mentre a Torino si prepara il primo grande processo alle BR per il sequestro SOSSI, i Brigatisti in azione a guida Moretti (foto) fanno scendere lo scontro sociale sul piano della vera e propria guerra civile, allo scopo principale di non far partire il temuto processo; il 28 aprile 1977 viene ucciso Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati, che doveva designare i difensori nel processo Curcio; il 2 giugno 1977. Viene "gambizzato", a Milano, Indro Montanelli direttore del Giornale Nuovo; il 16 novembre sempre del 1977 colpiscono Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa ed è la prima volta che i brigatisti sparano ad un giornalista con l’intenzione di ucciderlo. I brigatisti quindi attaccano anche i giornalisti, intendendo colpire "Gli uomini e gli strumenti, della guerra psicologica”.

Siamo ormai entrati in una seconda fase nella storia delle BR ma anche del nostro paese, tutto quello che di romantico si poteva, a fatica, trovare nel movimento rivoluzionario delle BR in questo periodo scompare sotto i colpi di innumerevoli attentati e omicidi, le operazioni - sempre più improntate ad uno stile di guerriglia militare - vengono gestite da veri e propri Commandi, ed i militanti e attivisti delle BR rivelano un attitudine all’uso delle armi e delle strategie militari che non appariva così profonda nella prima fase del loro operato. In generale tutto il movimento giovanile del ‘77 fu caratterizzato da una maggiore violenza, anche verbale e psicologica, rispetto a quello del ‘68 che pur con accessi violenti appariva maggiormente intellettuale.

Anche se il movimento del ‘77 fu per diversi aspetti più radicale, e tutto sommato, " meno colto e più plebeo " di quello del ‘68, rimase però un movimento prevalentemente intellettuale, composto al settantacinque percento di studenti e di dipendenti dell’educazione, più o meno precari. La massa studentesca rappresentò la " fonte " umana di questo movimento che scoppiò grazie alle esperienze passate e alle strutture preesistenti, ma però con una energia innovativa. I gruppi che lo composero, anche i più opposti e contradditori, ebbero in comune una rappresentazione e una composizione sociale imperniata su un soggetto centrale e costante, lo studente.
Senza aderire totalmente alle dottrine palingenetiche, il movimento studentesco del ‘77 si inserì nella lunga tradizione e nella scia della stagione dei movimenti iniziata nella metà degli anni sessanta, ma in un contesto caratterizzato da nuovi dati e nuovi assetti sociali, economici e politici. Questa inedita situazione cambiò del tutto la natura stessa e la fisionomia della contestazione, nei confronti dei precedenti periodi di lotte. Questo provocò un’improvvisa radicalizzazione verso vertici di violenza mai raggiunti prima, che ebbe per effetto di precipitare la fine del movimento del ‘77. In effetti, con la crisi economica che travolse l’Europa negli anni settanta, si assisté ad una vertiginosa escalation della disoccupazione, soprattutto giovanile. A questo fattore economico che provocò l’aggravarsi e l’amplificarsi del disagio sociale, si deve aggiungere l’imprenscindibile democratizzazione e la progressiva apertura degli studi universitari. L’università e i diplomi persero allora il loro valore simbolico di " ascensore sociale " e cessarono di incarnare il modello assoluto di garanzia, di successo e di sicurezza professionale. A partire del biennio 1975-1976, l’impostazione di nuove regole di concorrenza nel mercato del lavoro, accoppiata alla generalizzazione continua e regolare del deprezzamento del lavoro intellettuale (della forza-lavoro mentale) portarono alla nascita di una nuova figura sociale, quella dell’intellettuale massa, che diventò il nuovo soggetto teorico della " rivoluzione ". Questa tesi venne approfondita e sviluppata dalle diverse componenti del movimento del ‘77, soprattutto dall’autonomia bolognese. Nella ricostruzione degli eventi storici, si constata che, concretamente, fu la circolare del ministro della pubblica istruzione Malfatti del 3 dicembre 1976, che vietò agli studenti il diritto di dare più esami nella stessa materia e venne interpretata dagli studenti "…come la prima mossa in vista di altri e ben più gravi provvedimenti di controriforma…", ad unificare e saldare in un movimento di protesta strutturato (in questo caso, studentesco), l’entropia generale e il clima di forte tensione.
Per tutti questi motivi, il movimento del ‘77 può essere interpretato come la conclusione logica e prevedibile dell’aggravarsi e del peggioramento della situazione economica e sociale.

Intanto a Torino il processo al nucleo storico delle BR non riesce a partire a causa delle intimidazioni e degli attentati ad esso collegati ed in questa fase Moretti, che non si è mai definito capo, conduce il gruppo all’idea di compiere un sequestro di grande rilevanza, come desiderava Curcio, ma la vittima doveva essere un leader politico che fosse incarnazione del potere costituito, che inoltre con il suo tentativo di compromesso con la sinistra rendeva impraticabile la via della rivoluzione, vista come mezzo unico di conquista del potere che non scendeva a compromessi con il capitalismo borghese, bisogna organizzare un sequestro nei confronti del Presidente DC Aldo Moro, tutto il piano andrà studiato nei minimi particolari e il codice di questa missione sarà: ”operazione Fritz”. Non sembra una cosa facile, anche perchè le BR sono forti al Nord ma Roma è una piazza poco conosciuta, servono alleati, basi, armi, strutture, serve insomma un’organizzazione complessa da impiantare nella capitale, ma a tutti questi problemi Moretti conta di avere già pronte le soluzioni.

 

ORGANIZZARE LA COLONNA ROMANA

Entriamo in una fase delicatissima, il nervo scoperto di questo caso si trova prevalentemente in questo capitolo, infatti nell’organizzazione del nucleo romano delle BR tante cose risultano contraddittorie. Fino ad ora abbiamo tracciato il quadro della situazione, uno Stato quello italiano, solcato da forze occulte ed un gruppo di estremisti di sinistra che negli ultimi anni hanno alzato il tiro delle loro azioni, ma se vogliamo ricostruire quello che è accaduto nell’ottica di un organizzazione volta all’eliminazione del leader democristiano osserviamo che:

-          Il piano Moro-Berlinguer non trova consensi politici a livello internazionale

-          Falliscono i tentativi di delegittimare lo statista DC a mezzo del caso Lockeed

-          attraverso le infiltrazioni i capi storici delle BR sono stati eliminati

-          Il movimento si è militarizzato e si è convinto a sequestrare – e verosimilmente a giustiziare – Il Presidente DC Aldo Moro

-          Inoltre poco prima del rapimento erano stati sciolti apparati antiterrorismo come l’ispettorato antiterrorismo del questore Santillo ed il nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa, lasciando scoperta un’attività di intelligence assai importante.

Ed ora viene organizzata quasi dal niente una colonna romana, ma in che modo.

Mario Moretti, aveva l'abitudine o la sorte, di trovare covi o abitazioni con vicini di casa imbarazzanti o pericolosi. Questa strana caratteristica di Moretti, definito per anni la "Primula Rossa" delle BR, emerge dal nuovo libro di Sergio Flamigni (ex senatore del Pci, che per anni ha fatto parte delle commissioni P2, Moro e Antimafia). Quando Moretti arriva a Milano dalle Marche - fa notare Flamigni - la sua fidanzata è Amelia, donna che poi sposerà e dalla quale divorzierà.
Una volta sposati i due vanno a vivere in un appartamentino in via delle Ande 16, una zona in cui ci sono dei vicini da cui un terrorista dovrebbe stare alla larga. Al numero 15 infatti, solo a pochi metri dai Moretti, abita Antonino Allegra, capo dell' Ufficio politico della Questura milanese e poco più in là, al numero 5, abita un altro importante collaboratore di Edgardo Sogno, Roberto Dotti, anche lui ex comunista pentito.

Dotti, tra l'altro, è al centro di un altro imbarazzante mistero: Corrado Simioni, il capo del Superclan (organizzazione nata dalla stessa costola delle BR e poi fondatore della scuola di lingue Hyperion, a Parigi) avrebbe detto a Mara Cagol (moglie di Renato Curcio) di consegnare proprio a Dotti le schede dei nuovi aderenti.

E la storia non finisce qui, a Roma Moretti trova casa nel quartiere della Magliana, più precisamente in via Gradoli n. 96 e li elegge, oltre che il suo domicilio, anche la base operativa delle BR romane; in quella palazzina però ben 24 appartamenti risultano di proprietà di società immobiliari nei cui organismi societari vi sono alcuni funzionari del servizio segreto civile e lo stesso Vincenzo Parisi, capo del Sisde, acquisterà poi alcuni appartamenti in via Gradoli. In un appartamento vicino al covo abitava una donna egiziana, informatrice della polizia, che infatti segnalerà qualcosa di strano nell'appartamento di Moretti e Barbara Balzerani. Inoltre, al numero 89, proprio di fronte al covo, abitava un sottufficiale dei carabinieri, in forza al Sismi, anche lui, come Moretti, originario di Porto San Giorgio. In Via Gradoli i servizi segreti italiani disponevano però anche di un ufficio; la cosa venne riferita alle BR da un'ex militante di Potere Operaio, ma nonostante questo, i brigatisti decisero di mantenere ugualmente il loro covo in quella strada, in barba a qualsiasi legge della logica e della sicurezza (tanto più che nella stessa via Gradoli c'era anche un covo frequentato da estremisti di destra).

Come se non bastasse proprio nel covo di via Gradoli (covo di Stato qualcuno lo ha chiamato) fu trovato il numero di telefono dell'Immobiliare Savelli, proprietaria di Palazzo Orsini. Tale Palazzo, ora come allora, è sede diplomatica di banche ed agenzie di varia natura, Di questo complesso immobiliare viene trovata in casa di Moretti anche una piantina topografica comprensiva di tutte le entrate e le uscite, il palazzo inoltre era dotato di cantina e garage sotterranei e sempre sulla piantina trovata nel covo/casa di via Gradoli, compaiono dettagliate indicazioni sulla consistenza delle mura esterne e sulle parti sotterranee, questo perché gli scavi del vicino teatro Marcello arrivavano fin sotto la nobile residenza. Particolare ancora più importante è che palazzo Orsini si trova al centro storico di Roma in quella zona chiamata “Ghetto ebraico” alle spalle di via Caetani, luogo dove venne poi ritrovato il cadavere di Moro. È incredibile come, a questo punto volutamente, non si sia collegato il tutto a Moretti com’è logico che fosse e che sia stata autorizzata una completa ristrutturazione del palazzo prima di un’esauriente indagine. In un appunto scritto da Mario Moretti compariva il nome della titolare dell’agenzia Savelli, che curava la gestione dell’immobile di proprietà della marchesa Rossi di Montelera. Nessuno non ha mai indagato più di tanto su questo strano collegamento tra la Savelli e Mario Moretti, e adesso nessuno potrà farlo più, in quanto tra le altre cose la contessa è deceduta qualche tempo fa. Accanto al numero di telefono tra l’altro, c’era anche una misteriosa nota circa 15 gocce d’atropina, noto anestetico.

Nell’appunto di Moretti la frase un po' criptica recitava così: “Marchesi Liva mercoledì 22 ore 21 e 15 - atropina.”

Esiste poi un’altra persona, un brigatista pentito del nord-Italia, Efisio Mortati, che si ricorda di un covo nel Ghetto, Efisio Mortati  ricordava di essere stato ospitato in un covo BR che si trovava nei pressi di piazza Argentina, ma non conoscendo l’indirizzo e non essendo romano non riusciva a ritrovare la strada.

Se il covo e la prigione si trovavano nella stessa zona questo pezzo della storia delle BR dovrebbe essere riscritto per capire la verità. Quando parlavamo di Moretti come protagonista controverso di questa storia ci riferivamo a tutti questi episodi, non in ultimo il fatto che nonostante Moretti operi come leader nelle BR già dal 1974 le procure italiane ancora non avevano nessuna informazione su questo elemento, e per di più  nessun mandato, neanche di comparizione, era stato spiccato nei suoi confronti, una cosa che appare incredibile, constatate tutte le infiltrazioni e le informazioni che gli inquirenti avevano intorno le BR. Moretti quindi libero ed indisturbato si muove per Roma tutto compreso nell’organizzare quest’operazione; prende un altro appartamento, in zona Portuense, via Montalcini al N. 8 dove stanziano Germano Maccari alias Ing. Altobelli e la sua pseudo moglie Anna Laura Braghetti (proprietaria dell’appartamento). La colonna ormai è organizzata, l’obiettivo è individuato bisogna solo passare all’azione, manca ancora qualche dettaglio ma come al solito Moretti ha la soluzione.

 

IL COMMANDO

L’organizzazione del rapimento in quei giorni è maniacale, anche se poi gli stessi brigatisti sosterranno il contrario, Moro viaggia con 5 uomini di scorta: due carabinieri Domenico Ricci e Oreste Leopardi e tre uomini in una macchina separata Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, tutti uomini esperti e di grande professionalità, inoltre a giorni a questa scorta che segue il Presidente Moro verrà assegnata un auto blindata. Per affrontare in scontro aperto questa unità occorre non lasciare niente al caso, eppure le BR, nonostante alcune esercitazioni nell’arte di sparare, avevano gravi problemi con le armi e non erano assolutamente in grado di sparare con precisione in un conflitto a fuoco che si prometteva assolutamente rischioso e a rischio perdite.

Tanto più che, come ha rivelato il brigatista Bonisoli a Sergio Zavoli che lo intervistò in Televisione "Noi avevamo una preparazione militare approssimativa. C'eravamo allenati ogni tanto a sparare alle bottiglie, in periferia, il mio mitra si inceppò e io non sapevo cosa fare”.

Probabilmente, fatti i conti, Moretti non poteva schierare più di nove uomini sulla scena incluso se stesso e se pure la preparazione alla guerriglia delle BR del dopo Curcio era migliorata, non era il caso di affrontare lo scontro in nove contro cinque.

Per questo motivo che Moretti comunica a i suoi che per l’ora X non ci saranno solo loro ma il team verrà opportunamente rinforzato,  e come?  Immaginiamo avranno chiesto i compagni, persone del posto, gente pagata, esperti di conflitti a fuoco, avrà risposto Moretti, - e come ci riconosciamo tra di noi?

-          Indosseremo tutti la divisa da stewart dell’Alitalia.

A chi si riferiva Moretti più precisamente?, scopriremo poi, nell’ottobre 1993 che elementi  della ‘ndrangheta calabrese eranono stati coinvolti nell’operazione per la parte relativa all’agguato; in particolare Antonio Nirta e Agostino De Vuono, calabresi, esperti tiratori ed entrambi spie al soldo dei carabinieri, erano presenti quella mattina in via Fani, questo almeno secondo le dichiarazioni di Severino Morabito, pentito della ‘ndrangheta del Nord. In ogni caso le teorie e le supposizioni sul nome dei Killer lasciano il tempo che trovano di fronte ai fatti: quella mattina del 16 Marzo 1978 le Brigate rosse vennero aiutate e da più parti, a compiere un'azione forse troppo più grande delle loro capacità.

 

Ma che c’entra la ‘Ndrangheta con un sequestro politico.

 

Arriviamo quindi ad un punto chiave della nostra storia, Moretti infatti appare sempre più come un elemento di collegamento tra l’operatività delle BR ed altri settori deviati dello Stato, un collettore di interessi verso un obiettivo comune, non sappiamo se sia stato un vero e proprio infiltrato o se si sia costruito questo ruolo con l’evolversi delle vicende, fatto sta che oggi dal suo stato di semilibertà continua a dire che sul caso Moro tutto è stato detto e che i dietrologi sono solo a caccia di streghe, se fosse un infiltrato non sarebbe stato arrestato, gli stessi settori deviati dello stato avrebbero protetto la sua incolumità ed il suo silenzio, oppure se fosse stato considerato così destabilizzante, avrebbero trovato il modo di eliminarlo, ma è pur vero che Moretti ha scontato pochi anni di galera che è stato messo in uno stato di privilegio che non sarebbe toccato ad un terrorista per lo più leader, se poi è stato arrestato è perché comunque il suo nome era diffuso all’interno dell’organizzazione e lasciarlo libero avrebbe destato troppi sospetti all’interno stesso delle BR. Moretti quasi come Oswald quindi, con la differenza che il primo non ha subito gridato di essere un capro espiatorio ma si è sempre assunto in pieno tutte le responsabilità, ha sempre testimoniato come gli altri compagni che le cose sono andate in un unico e solo modo: Io ho organizzato, io ho rapito, io ho ucciso”.

…I compagni incaricati di eliminare la scorta sono 4, due per ogni auto del convoglio. E sono ovviamente tutti piazzati dallo stesso lato della strada: le ricostruzioni dicono cose sbagliate,e soprattutto stupide:se una si mette sulla linea di fuoco del compagno, si finisce con l’ammazzarsi uno con l’altro. E’ evidente a chiunque abbia un minimo di buon senso, non occorre essere un perito balistico, basta non guastarsi il cervello nel tentativo di dimostrare che in via Fani non c’erano soltanto le  bierre ma chissà chi altri.

La verità è che abbiamo scelto Via Fani proprio perché è il punto dove lo scontro a fuoco si può meglio controllare. Moro a messa in Santa Chiara va sempre e , non voglio banalizzare la capacità della sua scorta, ma fa sempre la stessa strada.

Dal punto di vista operativo l’ideale sarebbe stata la stessa chiesa di Santa Chiara. Moro vi si tratteneva 20-30 minuti, il tempo della messa, si mette in uno dei primi banchi, mentre due agenti della scorta controllano gli ingressi in fondo. Gli altri restano fuori sul sagrato o vicino alle auto. Sarebbe relativamente facile neutralizzare la scorta e portare via Moro dal retro della chiesa.

Tale ipotesi comunque fu scartata, l’operazione comportava gravi rischi, Piazza Giochi Delfini alle 8-30-9.00 brulica di gente, bambini che vanno a scuola, numerosi vigili urbani pattuglie della polizia, insomma, una strada impercorribile per un’azione di fuoco.

Dovevano considerare che la ns azione comportava “solo” ed esclusivamente l’eliminazione della scorta, senza causare “danni collaterali”. (Mario Moretti).

 

Non vogliamo parlare di Misteri, di casi irrisolti, Moretti la verità la conosce ed un giorno quando sarà vecchio probabilmente la racconterà, abbiamo detto che qualche conclusione l’avremmo provata a dare, per questo Moretti ci appare non come un infiltrato ufficiale per così dire, ma come un elemento comunque – altro – dal corpo ortodosso delle BR, incaricato di trattare con lo Stato o parti di esso, non tanto il rilascio dello statista quanto quello delle sue lettere, che si è poi salvato la vita probabilmente conservandosi alcuni degli scritti più brucianti dello statista, la sua attività durante il sequestro è febbrile vola indisturbato da una parte all’altra dell’Italia incontrando moltissime persone, il suo è un ruolo assolutamente di coordinamento, anche quando la gestione del sequestro sta per sfuggirgli di mano.

 

Via Mario FANI - 16 Marzo 1978

Ormai tutto è pronto, tutto è deciso, siamo arrivati in primavera dell’anno 1978 e nel paese si respira un’aria strana, come se il tempo fosse sospeso in attesa di qualcosa di atroce che pare stia per accadere, alla radio suonano “Fantasy” degli Earth Wind & Fire al cinema danno: “I quattro dell'Oca Selvaggia” di Andrew V. McLaglen, il movimento del ’77 è già un ricordo lontano, andiamo incontro ad una nuova stagione, una stagione che forse ha proprio in questa data il suo inizio. L’organizzazione di questo sequestro è stata così particolareggiata e diffusa che forse qualcosa è sfuggito, il giornalista Mino Pecorelli di OP per esempio, scrive che qualcosa di grave sta per accadere sulla scena politica, addirittura alle ore otto di mattina la notizia che stava per essere compiuta un'azione terroristica ai danni di Moro venne diffusa da un'emittente radiofonica, Radio Città Futura, da parte del suo animatore Renzo Rossellini e lo stesso Moro confida a Giovanni Galloni che teme per la sua incolumità ma la cosa che più lo preoccupa è che sapendo per certo che le BR sono infiltrate dai servizi segreti, come mai ancora non c’erano novità sulle loro basi operative; Moro da par suo nel frattempo aveva scoperto della avanzata imperiosa della Loggia Massonica P2 che stava influenzando sempre più tanti settori dello Stato, forse voleva capirne qualcosa in più o forse aveva già capito tutto, fatto sta che quella mattina portava con se l’elenco di tutti gli iscritti allora conosciuto.

 

-          Ore 6.00

L'uomo si alzò all'alba, come ogni giorno. Di mestiere faceva il venditore ambulante di fiori, e stazionava giornalmente all'angolo tra via Fani e via Stresa. Ma quella mattina del 16 marzo 1978 perse il suo appuntamento con la storia. Perché qualcuno, la sera prima, tagliò i quattro copertoni del furgoncino con il quale si recava al lavoro. E così, sacramentando, dovette restare a casa. Forse, se avesse potuto recarsi con un altro mezzo al lavoro, avrebbe avuto l'occasione di vedere da vicino la scena di uno dei crimini più gravi della storia dell'Italia repubblicana, quella che è conosciuta come l'eccidio di via Fani.

Ma erano tante le case della capitale dove alcuni uomini avevano un appuntamento con il destino.
Uno di questi era il maresciallo Oreste Leonardi. 52 anni, torinese, istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo di Viterbo, da quindici anni guardia del corpo dell'onorevole Aldo Moro. Come ogni giorno si alzò presto, prese il caffé e lo portò alla moglie.
Andò nell'armadio e prese alcune pallottole, dopodichè si recò all'appuntamento con l'uomo che doveva scortare, come ogni giorno. Quell'uomo era Aldo Moro, di cui era un amico personale.

 

-          Ore 7.00

Un altro uomo si preparò per recarsi in via Fani. Era uno dei dirigenti, uno di quelli che aveva meticolosamente preparato, assieme alla direzione strategica, il piano dell'agguato. Il suo nome Franco Bonisoli, l'uomo che aveva scoperto, fuori dalla chiesa di santa Chiara, nella quale Moro si recava quotidianamente ad ascoltare Messa, che la Fiat 130 nella quale viaggiava non era blindata.
Non era un esperto d'armi, e controllò per l'ennesima volta che la pistola con cui avrebbe sparato quel giorno fosse carica.

Si era esercitato in campagna, in alcune grotte, per mesi. Ma nonostante ciò non si sentiva materialmente pronto.

Altre 11 persone nel frattempo si sono messe in moto, ognuna ha un compito ben definito, non c'è spazio per l'improvvisazione. Anche se le incognite che pesano sull'obiettivo sono tante.

 

 

 

-          Ore 8.00

All'angolo con via Stresa, di fronte al bar Olivetti, alla fermata del bus, ci sono due figure: portano divise dell'Alitalia; contemporaneamente, dietro la siepe, quattro persone sono nascoste con le armi in pugno e aspettano nervosamente il momento per entrare in azione.

Su un lato della strada è parcheggiata una 128 bianca, a bordo c'è Mario Moretti, massimo dirigente e responsabile delle Br.

L'attesa del gruppo è spasmodica:qualcuno, prima di entrare in azione "ha dovuto bersi un cognacchino", come diranno i brigatisti in uno dei processi sul caso Moro.

 

-          Ore 8.30

Il Presidente Moro esce dal suo appartamento come tutte le mattine, sale sulla sua auto ministeriale, un saluto ai ragazzi e poi dritto in Parlamento, chissà cosa stava pensando in quei momenti, solite cose, soliti problemi ormai è avvezzo anche a queste tensioni a questi momenti istituzionali così difficili, eppure quella mattina c’è qualcosa di diverso, l’aria primaverile è più acre del solito, si respira un’atmosfera pesante, forse Moro ha già capito è gia consapevole, pensa al suo destino a quello del suo paese, della sua famiglia, nel frattempo le auto scendendo da Via Trionfale, alla guida c'è l'appuntato Domenico Ricci, al suo fianco Oreste Leonardi, con la sua pistola d'ordinanza chiusa in un borsello di plastica. Il Presidente ha con se le inseparabili borse: quelle dalle quali è difficile che si stacchi, che avrebbero in seguito alimentato polemiche a non finire con la loro misteriosa scomparsa.

 

-          Ore 9.00

Ricci guarda nello specchietto: lo fa per abitudine, segue sempre con lo sguardo l'Alfetta guidata dalla guardia di PS. Giulio Rivera, coadiuvato dal brigadiere di PS Francesco Zizzi e dalla guardia di PS Raffaele Iozzino. Segue come un'ombra la 130, lungo la discesa di Via Fani. Quello che segue avviene in un attimo, ed è stato ricostruito con un lavoro paziente, nonostante il quale ancora oggi si nutrono forti perplessità: da via Stresa una 128 bianca fa retromarcia, mentre dal lato di Via Fani la 130 con a bordo Aldo Moro frena di colpo. E' solo un attimo, ma Ricci non fa in tempo a frenare di scatto. La sorpresa è stata totale, i tempi dell'agguato sono scanditi in maniera a dir poco eccezionale. La 130 è bloccata, per qualche istante sembra che il tempo si fermi: da dietro le siepi del bar Olivetti sbucano quattro persone armate, una parte del commando è già in azione per bloccare il traffico in ogni direzione; disperatamente Ricci cerca di uscire dal budello in cui è bloccato. troppo tardi: una tempesta di piombo si abbatte sulle auto. Nella 128, Moretti innesta la retromarcia, rendendo impossibile qualsiasi spazio di manovra. Quasi simultaneamente cadono sotto la tempesta di piombo Leopardi e Ricci.

Iozzino no: tenta una disperata reazione, esce pistola in pugno, ma è abbattuto a tradimento: qualcuno lo colpisce alle spalle. Zizzi non è morto, ma è fuori combattimento.

Moro se ne sta rannicchiato sul sedile posteriore della sua auto i suoi pensieri non contano più adesso è schiavo di quello che sta per succedere, dell’inevitabile che lo aspetta.

Pochi minuti, e tutto è compiuto. Il tempo si è fermato, la furia di colpi è terminata e resta un istante lunghissimo di silenzio, l’aria è pesante, annebbiata dagli scarichi polverosi delle pistole e dei mitra, tutto intorno è silenzio, si percepisce un rumore di passi veloce ma freddo, netto, deciso. Aldo Moro viene scaraventato giù dall'auto, mentre due brigatisti lo sorreggono; non è ferito, ma questo lo si saprà solo in seguito. Qualcuno afferra anche le preziose borse di Moro. La scena della strage non è però occupata solo dai brigatisti: poco più giù, sta arrivando con il suo motorino, l'ingegner Marini, che ha il tempo di guardare la scena:ma solo per pochi secondi. Una Honda, su cui viaggiano due persone, esplode una raffica di mitra verso di lui, colpendo il parabrezza del motorino. E' così profondo lo choc, che Marini non riuscirà a dare un quadro personale della dinamica dei fatti. Qualcuno, intorno, si è reso conto che qualcosa di grave è avvenuto: sono da poco passate le 9,00. Un giornalaio, che ha la sua edicola a pochi metri dal luogo dell'agguato, racconterà che suo figlio, attirato dal rumore degli spari, è accorso sul posto dell'eccidio, giusto in tempo per vedersi puntare in faccia una pistola. Giuseppe Marrazzo, inviato del Tg2, intervistò una signora, che aveva seguito le fasi finali dell'agguato: la donna dichiarò che Moro camminava al fianco di un giovane, ma tranquillamente, non in modo concitato; che aveva ascoltato nitidamente la voce di una donna; che aveva ascoltato una voce gridare " lasciatemi ";

che Moro era stato caricato in una 128 blu scuro, che scomparve verso via Trionfale.

 

In via Fani alle ore 9.10 circa la scena che si presenta è agghiacciante.

Riverso al suolo giace Raffaele Iozzino, con la pistola a due passi.

Ha il volto esanime, guarda verso il cielo, con le braccia spalancate.

Ha solo 25 anni, era nato in provincia di Napoli nel 1953.

Domenico Ricci è riverso, quasi adagiato sul corpo di Leonardi. Aveva 42 anni, da 20 anni era l'autista di fiducia di Moro. Era nato a San Paolo di Jesi, nel 1934. Lascia la moglie e due bambini.

Al suo fianco giace Oreste Leonardi, il volto coperto di sangue. Era nato nel 1926 a Torino. Lascia la moglie e due figli. Gli altri due uomini della scorta hanno destini diversi : Francesco Zizzi, nato a Fasano nel 1948, capo equipaggio, muore durante il trasporto all'ospedale Gemelli di Roma.

Giulio Rivera, 24 anni, nato nel 1954 a Guglionesi, in provincia di Campobasso, muore all'istante, crivellato da otto pallottole.

Cinque vite annientate in pochi secondi, da quella che i giornali chiameranno "geometrica potenza di fuoco".
Che ha prodotto almeno 93 colpi, i cui bossoli furono materialmente trovati sul luogo della strage. Ma che potevano essere di sicuro di più.

All'agguato hanno partecipato almeno 11 persone, più i due sulla Honda. Le cui posizioni non saranno mai chiarite completamente, ma che saranno considerate a tutti gli effetti partecipanti all'agguato. Ci sono Mario Moretti, Franco Bonisoli, Valerio Morucci, Barbara Balzerani, Raimondo Etro, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Alvaro Lojacono, Alessio Casimirri, Rita Algranati. Quest'ultima all'epoca dei fatti era la moglie di Casimirri, l'unico scampato all'arresto.
I due sulla moto Honda non sono mai stati individuati,anche perché per anni la loro posizione non è mai stata molto chiara. Oggi sappiamo che i loro nomi di battaglia erano Peppe e Peppa.

La battaglia è terminata. Come già detto prima, restano cinque corpi senza vita, dell'onorevole Moro si perdono le tracce e un mucchio di bossoli sparati da molte armi, una delle quali spara 49 colpi, con un contributo evidentemente determinante, uno specialista tutto questo a fronte della presunta incapacità militare delle BR.  L'azione, definita degli esperti come "un gioiello di perfezione, attuabile solo da due categorie di persone: militari addestrati in modo perfetto oppure da civili che si siano sottoposti ad un lungo e meticoloso addestramento in basi militari specializzate in azioni di commando”.

 

Oscure presenze in via Fani

Chi era veramente presente quella mattina in via Fani? Le Commissioni parlamentari hanno ormai confermato, tanto per riportare alcuni nomi alquanto "particolari", che quella mattina alle nove, in via Stresa, a duecento metri da via Fani, c'era un colonnello del SISMI, il colonnello Guglielmi, il quale faceva parte della VII divisione (cioè di quella divisione del Sismi che controllava Gladio…). Guglielmi, che dipendeva direttamente dal generale Musumeci - esponente della P2 implicato in vari i depistaggi e condannato nel processo sulla strage di Bologna - ha confermato che quella mattina era in via Stresa, a duecento metri dall'incrocio con via Fani, perché, com'egli stesso ha detto: "dovevo andare a pranzo da un amico". Dunque, benché si possa definire quantomeno singolare presentarsi a casa di un amico alle nove di mattina per pranzare, sembra addirittura incredibile che nonostante a duecento metri di distanza dal colonnello ci fosse un finimondo di proiettili degno di un film western, egli non sentì nulla di ciò che era avvenuto ne tanto meno poté intervenire magari solo per guardare cosa stesse accadendo . A dire il vero l'incredibile presenza a pochi metri dal luogo della strage di Guglielmi è stata rivelata solo molti anni dopo l'accaduto, nel 1991, da un ex agente del SISMI – Pierluigi Ravasio – all'On. Cipriani, al quale lo stesso confidò anche che il servizio di sicurezza disponeva in quel periodo di un infiltrato nelle BR: uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era "Franco" ed il quale avvertì con mezz'ora di anticipo che Moro sarebbe stato rapito. Ad ogni modo resta il dato di fatto, perché ormai appurato, che la mattina del rapimento di Aldo Moro un colonnello dei Servizi segreti italiani si trovava nei pressi di via Fani mentre veniva uccisa la scorta e rapito il presidente della DC e in più lo stesso ha taciuto questo importante fatto per più di dieci anni.

Intanto al numero 109 di Via Fani, un altro fortuito spettatore – Gherardo Nucci - scatta dal balcone di casa una dozzina di foto della scena della strage a pochi secondi dalla fuga del commando; dopo i primi scatti il Nucci sente il rumore delle sirene e vede arrivare sul posto un auto della polizia seguita poi da altre . Di quelle foto, consegnate quasi subito alla magistratura inquirente dalla moglie, una giornalista dell’agenzia ASCA, non si saprà più nulla; qualche "manina" le ha fatte sparire. A tale proposito c’è da sottolineare come quelle foto, che evidentemente avevano immortalato qualcosa (o meglio qualcuno) di importante, furono al centro di strani interessamenti da parte di un certo tipo di malavita, la 'ndrangheta calabrese.

 

IL RAPIMENTO FASE 1

Moro è rapito, la missione prevista o almeno la prima parte quella più eclatante si è compiuta. A questo punto, tutti gli analisti del caso Moro vi diranno che Moro venne trasportato nella “prigione del popolo” situata in via Montalcini 8, proprio dove risedevano il fantomatico Ing. Altobelli - alias Germano Maccari (che in realtà è un idraulico tuttofare) e Signora - ma noi invece proviamo a sostenere un’altra tesi, il commando infatti ultimata l’operazione si sparpaglia, lasciandosi l’inferno alle spalle, i telefono di tutte le abitazioni sono “inspiegabilmente” silenziosi, la linea telefonica su tutta la zona è interrotta.

 

Verso le ore nove e qualche minuto del mattino del giorno seguente in via Fani è black-out dei telefoni. Una squadra della SIP viene immediatamente mandata sul luogo, i tecnici confermano, ma l’azienda assurdamente smentisce il fatto. È inutile precisare che l’interruzione delle linee telefoniche era di vitale importanza per l’esito del rapimento, nessuno anche tra gli abitanti della strada avrebbe così potuto telefonare alla polizia e avvertire dell’accaduto raccontando circostanze e particolari. A partire da questo episodio si susseguono, durante i 55 giorni di prigionia dell’on. Moro, strane quanto improbabili coincidenze legate all’azienda dei telefoni: il 14 aprile, alla redazione del Messaggero, è attesa una telefonata dei rapitori, vengono così raccordate in un locale della polizia, per poter stabilire la derivazione, le sei linee della redazione del giornale, ma al momento della chiamata la DIGOS accerta l’interruzione di tutte e sei le linee di derivazione e non può risalire al telefonista. L’allora capo della DIGOS parla, nelle sue dichiarazioni agli inquirenti, di totale non collaborazione della SIP. Nessuna volta fu individuata l’origine delle chiamate dei rapitori, eppure furono fatte due segnalazioni. Quest’assoluta non collaborazione, quando non si è trattato di vero e proprio sabotaggio, se si pensa alla straordinaria efficienza dimostrata dall’azienda in altre circostanze, ha compromesso in modo definitivo l’esito delle indagini. La Sip doveva essere denunciata. L’allora direttore generale della SIP era un iscritto alla P2, Michele Principe, si capisce come il non funzionamento della stessa fu reso con tanta efficienza. La SIP può essere annoverata insieme ad altri apparati che hanno di proposito dimostrato inefficienza anche se in grado di operare efficacemente. A condurre l’operazione al centralino della SIP fu il commissario Antonio Esposito, iscritto alla P2 dunque presunto incaricato di Gelli, il suo numero di telefono venne trovato nell’abitazione del capo della colonna romana, Valerio Morucci durante il suo arresto.

 

Ma nonostante questo black out, i soccorsi non tardano ad arrivare, per questo il commando che ha con se Moro, dopo averlo trasbordato da una 132 ad un furgone bianco, avrebbe dovuto raggiungere via Montalcini ovvero arrivare alla Magliana, dal centro di Roma, nell’ora di punta, in un inferno di sirene di ambulanze e macchine della polizia, percorrere circa 12 Km di tratto cittadino per una percorrenza calcolata di circa 25 min. Il tutto per poi arrivare in quartiere popolare densamente abitato, in un appartamento posto in un contesto condominiale, con tutti i rischi che questo comportava per un’operazione così delicata. Non era forse più comodo girare l’isolato percorrere meno di sette Km. Ed entrare in palazzo Orsini, quel famoso palazzo in cui si trovarono cartine e descrizioni logistiche in casa di Moretti, in un contesto isolato e sicuro, senza condomini, senza vicini, in una struttura dotata già di sotterranei e accessi nascosti; in poche parole l’ideale per una prigione occulta. Sono ipotesi, forse illazioni e tanto rimangono, ma analizzati gli eventi con logica freddezza a distanza di tanti anni, questa ci appare una soluzione sensata. Forse, anzi sicuramente, nell’appartamento di via Montalcini davvero Maccari aveva predisposto un buggigattolo per alloggiare Moro, ma in un’operazione così delicata non è esclusa l’esistenza di strutture esca per deviare l’attenzione degli inquirenti o per evitare sabotaggi e soffiate all’interno dell’organizzazione stessa, sono ormai in troppi a sapere.

Come disse qualcuno (pare proprio Licio Gelli) il più è fatto, e tutto sembra procedere secondo i piani, bisogna gestire per un po’ la pantomima del sequestro, dell’interrogatorio all’imputato, del processo popolare, dare insomma un contentino al livello operativo della struttura che aveva al momento, la responsabilità esclusiva dell’operazione. Ma qualcosa si inceppa, mentre tutto doveva compiersi in pochi giorni verso una chiara esecuzione del leader democristiano, si verificano eventi destabilizzatori nella strategia principale.

Non dimentichiamoci che Moro è un genio della politica, abituato a destreggiarsi fra squali e volpi di ogni risma, in un periodo storico complicatissimo riuscì a far volgere l’attenzione del mondo intero sul suo progetto politico, con la sola arma del dialogo e del confronto. E’ lui che pure impressionato da una situazione di evidente pericolo in ogni caso riesce a mantenere freddezza e lucidità. Moro ha capito tutto, grazie a quella intelligenza rapida e fulminea tipica degli uomini politici, ha chiara la situazione, è consapevole di avere solo una possibilità per restare in vita e se la gioca subito.

- Comunicato BR N. 3 del 29/03/1978

l'interrogatorio di Aldo Moro "…prosegue con la completa collaborazione del prigioniero. Le

risposte che fornisce chiariscono sempre più le linee controrivoluzionarie che le centrali

imperialiste stanno attuando [...] proprio sul ruolo - prosegue il comunicato - che le centrali

imperialiste hanno assegnato alla DC, sulle strutture e gli uomini che gestiscono il progetto

controrivoluzionario, sulla loro interdipendenza e subordinazione agli interessi imperialisti

internazionali, sui finanziamenti occulti, sui piani economici-politici-militari da attuare in Italia

[...] il prigioniero politico Aldo Moro ha cominciato a fornire le sue illuminanti risposte. Le

informazioni che abbiamo così modo di reperire, una volta verificate, verranno rese note al

movimento rivoluzionario che saprà farne buon uso nel prosieguo del processo al regime che

con l'iniziativa delle forze combattenti si è aperto in tutto il paese".

 

Il che vuol dire che Moro vuota il sacco, racconta tutto quello che sa e che conosce riguardo l’Italia dal dopoguerra agli anni ’70. C’è ne per tutti, da gladio alla strategia della tensione, dalla P2 alla mafia, racconta cose che colpiscono anche Moretti che sicuramente era più di tutti a conoscenza di livelli occulti di potere a cui forse obbediva, in ogni caso anche lui rimane impressionato da questi racconti o quanto meno fa il gioco del bravo brigatista, tanto da emettere volantini e comunicati che destano nell’establishment più di una preoccupazione.

Intanto la polizia irrompe in più di duecento appartamenti di Roma abitati da giovani di estrema sinistra, 129 persone finiscono nei cellulari e poi alla Digos, 41 vengono arrestate. Tra i fermati ci sono decine di persone del tutto estranee all’area dei fiancheggiatori e simpatizzanti delle BR. Si trascura invece di approfondire un rapporto del capo della Digos che indica Valerio Morucci e Adriana Faranda, i “postini” del sequestro Moro, come appartenenti alla colonna romana delle BR.
“Il mancato seguito d’indagine sorprende per diversi motivi” scriverà la commissione d’inchiesta. Evidentemente gli inquirenti preferiscono pescare nel mucchio, alimentando tensioni e confusioni, piuttosto che seguire le piste più concrete. Anche perchè nonostante le molte soffiate che arrivano, evidentemente alcuni ambienti della sinistra avevano mangiato la foglia ed erano interessati a far scoprire il covo, l’operazione appare completamente blindata, nei due centri strategici BR romani nessuno entra e nessuno indaga.

Moro inoltre scrive, lettere a colleghi di partito amici e parenti, intesse una fitta rete di relazione chiaramente filtrata dai suoi carcerieri ma anche da altre persone.

A Benigno Zaccagnini1

(recapitata il 4 aprile)

Caro Zaccagnini,

scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga

ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un

tempo individuali e collettive. Parlo innanzitutto della D.C. alla quale si rivolgono accuse che

riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare.

Certo nelle decisioni sono in gioco altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda

innanzitutto la D.C., la quale deve muoversi, qualunque cosa dicano, o dicano nell'immediato, gli altri.

Parlo innanzitutto del Partito Comunista, il quale, pur nella opportunità di affermare esigenze di

fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla

Camera per la consacrazione del Governo che m'ero tanto adoperato a costituire.

E' peraltro doveroso che, nel delineare la disgraziata situazione, io ricordi la mia estrema, reiterata e

motivata riluttanza ad assumere la carica di Presidente che tu mi offrivi e che ora mi strappa alla

famiglia, mentre essa ha il più grande bisogno di me. Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove

materialmente sono io. Ed infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta

non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al disotto delle esigenze della situazione, io forse

non sarei qui.

Questo è tutto il passato. Il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale

sono prevedibili sviluppi e conseguenze. Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di

chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione

insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n'è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe

essere troppo tardi.

Si discute qui, non in astratto diritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano

dell'opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l'unica

soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando la

tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato, ma

una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo

modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la D.C. che,

nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non

sarà, l'avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle

persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco.

Tengo a precisare di dire queste cose in piena lucidità senza avere subìto alcuna coercizione della

persona; tanta lucidità almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale,

che non può avere nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo aspetti. Ed in verità mi sento anche un po'

abbandonato da voi.

Del resto queste idee già espressi a Taviani per il caso Sossi ed a Gui a proposito di una contestata legge

contro i rapimenti.

Fatto il mio dovere d'informare e richiamare, mi raccolgo con Iddio, i miei cari e me stesso. Se non

avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po' diverso. Ma così ci vuole davvero coraggio per

pagare per tutta la D.C. avendo dato sempre con generosità. Che Iddio v'illumini e lo faccia presto,

com'è necessario.

Affettuosi saluti

Aldo Moro

 

Per di più altre tegole si stavano abbattendo sul gruppo Brigatista ormai agli onori della cronaca, il sollevamento popolare che molti ipotizzavano dopo il rapimento non avvenne, le piazze non insorsero contro lo stato borghese anzi apparivano sempre più strette intorno alle proprie istituzioni, il pomeriggio dello stesso giorno che Moro venne rapito, il sindacalista Luciano Lama ripreso in diretta dalla TV, tiene un comizio durissimo contro le Brigate Rosse, contro ogni frangia estrema di estremisti che impediscono il confronto democratico nel paese, la piazza immensa, plaude, forse qualcuno delle BR pensa e dice che qualcosa si è sbagliato, nei modi o nella scelta della vittima, una persona per quanto potente sia, tolto dalle sue leve e isolato dal contesto rimane nient’altro che una persona sola, forse bisogna restituire Moro, così come avvenuto per Sossi anni prima.

Forse Moretti fa il gioco dei suoi compagni o forse pensa di avere in mano qualcosa di davvero grande ed importante, in questi famosi scritti che Moro va elaborando giorno dopo giorno, ci sarebbero prove e circostanze precise riguardo informazioni Top-Secret che probabilmente avrebbero fatto saltare governi e capi di Stato, oltre a rovinare i piani operativi di queste organizzazioni segrete dai poteri occulti. Siamo in pieno mistero, non vogliamo far sembrare questo racconto come un romanzo thrilling alla John Grisham, ma il problema è che tutti i narratori di questo evento a questo punto hanno un problema. …(e ce lo abbiamo anche noi)

Dal momento in cui moro sparì in quella 132 blu lungo via Fani, del rapimento e della sua gestione, tutto quello che conosciamo è la verità processuale detta e sostenuta dai brigatisti catturati e processati, non ci sono altre versioni, non ci sono testimonianze c’è solo quello che è stato dichiarato, ma se accettiamo la tesi del processo popolare, dell’attacco al cuore dello Stato, lo Stato Imperialista delle Multinazionali dovremmo anche accettare come coincidenze inquietanti tutto ciò fin qui ricostruito, dal piano Stay Behind fino agli appartamenti del Sisde, nell’analizzare la gestione del rapimento dobbiamo usare la logica, le ragioni e gli scopi delle parti in causa, gli avvenimenti politici e gli scritti di Moro pur se filtrati.

Tutto questo ci porta a constatare un cambio repentino nella gestione del rapimento.

 

IL RAPIMENTO FASE 2 – GRADOLI –

Nella primissima fase del rapimento le BR, di fronte ad un Moro che gli raccontava situazioni cui probabilmente non osavano nemmeno sperare, cantano vittoria. Poi però - incredibilmente - si assistette ad un repentino cambio di rotta. Un'allucinante retromarcia delle BR si nota - è bene dirlo - già nel comunicato n°6 del 15 aprile 1978. Mario Moretti ed i suoi compagni informarono infatti che:

"l'interrogatorio di Aldo Moro è terminato. Rivedere trenta anni di regime democristiano,

ripercorrere passo passo le vicende che hanno scandito lo svolgersi della controrivoluzione

imperialista nel nostro paese, riesaminare i momenti delle trame di potere, da quelle pacifiche a

quelle più sanguinarie, con cui la borghesia ha tessuto la sua offensiva contro il movimento

proletario, individuare attraverso le risposte di Moro le responsabilità della DC, di ciascuno dei

suoi boss, nell'attuazione dei piani voluti dalla borghesia imperialista e dei cui interessi la DC è

sempre stata massima interprete, non ha fatto altro che confermare delle verità e delle certezze

che non da oggi sono nella coscienza di tutti i proletari...".

 

La deduzione che viene da fare è che evidentemente a Moretti, attraverso chissà quali canali, erano già giunte pressioni di una certa entità, interferenze tali da far tremare la dirigenza delle BR. I brigatisti fecero dunque intendere in modo esplicito che Aldo Moro aveva parlato di tutto e di tutti, però conclusero in una forma oscura:

 

"Non ci sono segreti che riguardano la DC, il suo ruolo di cane da guardia della borghesia, il

suo compito di pilastro dello Stato delle multinazionali, che siano sconosciuti al proletariato...".

 

Ma il messaggio per la DC, lo Stato ed i suoi apparati istituzionali era lampante: Mario Moretti ed i brigatisti rossi che hanno gestito il sequestro Moro informavano che non avrebbero rivelato niente di quanto appreso.

"Non ci sono segreti che riguardano la DC" scrissero, quindi "cosa mai si potrà dire al proletariato che già non sappia?".

Ma nonostante queste dichiarazioni rassicuranti, i veri poteri che gestivano tutta la situazione desiderarono inviare alcuni messaggi ben precisi a Moretti e ai suoi.

 

Il falso comunicato numero sette (alias comunicato del Lago della Duchessa) e il provocato scoppio di un tubo dell’acqua il 18 aprile in via Gradoli dimostra che da parte dei mandanti c’era un certo nervosismo e una certa fretta, perciò si volle creare un depistaggio e/o magari inviare un messaggio che anticipasse la morte dello statista.

Il rifugio di Mario Moretti e Barbara Balzerani infatti era «saltato» grazie a una fuga d'acqua che secondo i vigili del fuoco sembrava fosse stata provocata: uno scopettone infatti era stato appoggiato sulla vasca e sopra lo scopettone qualcuno aveva posato il telefono della doccia (aperta) in modo che l'acqua si dirigesse verso una fessura nel muro. Sull'ipotesi di Moro vittima della trattativa, Franceschini dice tra l'altro:

"Era difficile mantenere nascosto Moro per così tanti giorni in una città come Roma, perché se ci fosse stato anche un solo servizio, ad esempio il Kgb, che non era d'accordo, sarebbero stati scoperti. Questo significa che esisteva un accordo tra tutti quelli che contavano e che avevano deciso che Moro doveva morire. Quel tipo di strategia politica doveva finire. Il sequestro Moro aveva chiuso quel tipo di strategia politica."

Su quel 18 aprile (Via Gradoli - Lago della Duchessa) che è forse la giornata cruciale del rapimento, sempre Franceschini dice:

"L'operazione Lago della Duchessa - via Gradoli (vanno sempre tenuti insieme) è un messaggio preciso a chi detiene Moro. Da lì c'è una svolta precisa. Gli dicono: «Noi vi abbiamo in mano, possiamo prendervi in qualsiasi momento, che non vi venga in mente di far concludere il sequestro in un modo differente da quello indicato dal falso comunicato perché potreste pagarlo caro…".

Inizia quindi, secondo me, una trattativa sotterranea tra chi detiene Moro e una parte dello Stato. Mi immagino questa trattativa come un braccio di ferro che alla fine produce certi risultati. Un risultato è: la morte di Moro, la salvezza dei brigatisti che lo avevano in mano. Probabilmente, all'interno dello schieramento che faceva la trattativa c'era anche chi pensava che Moro potesse essere liberato...". Ribadiamo che nel covo/casa di Moretti entrarono i pompieri e non la polizia, l’operazione come abbiamo ricordato era assolutamente blindata e nonostante le numerose soffiate che giungono da tutta Italia, alcune veicolate anche in virtù di improbabili sedute spiritiche, nessun elemento delle forze dell’ordine osa entrare in quell’appartamento in via Gradoli, magari si arriva fino ad un paesino in provincia di Viterbo, Gradoli appunto ma quell’appartamento non si tocca, per questo è necessario un espediente come quello dell’infiltrazione che porta i Pompieri per forza di cose a sfondare la porta.

 

Nel 1995, la relazione sulle stragi e il terrorismo presentata dal presidente della commissione

parlamentare Giovanni Pellegrino sostenne che l'indicazione di Gradoli era filtrato negli ambienti

dell'autonomia bolognese e il riferimento alla seduta spiritica non era altro che un trasparente

espediente di copertura della fonte informativa. A parziale conferma di ciò sta anche la

testimonianza di Giulio Andreotti che, davanti alla Commissione, ha detto: "non credo alla

storia di Gradoli a cui si arrivò con la seduta spiritica. Quell'indicazione venne dall'autonomia

operaia di Bologna. Non lo si disse per non dover inguaiare qualcuno".

Pochi giorni dopo, Bettino Craxi intervenne sul caso Moro sostenendo che "nessuno può credere

alla tesi della seduta spiritica dal momento che le notizie su via Gradoli si seppero da ambienti

legati strettamente all'organizzazione terroristica. Gli stessi che ci diedero notizie anche di via

Montalcini".

"Gradoli - ha confermato in quei giorni l'avv. Giancarlo Ghidoni, difensore di molti esponenti

dell'autonomia bolognese - era una parola che nell'ambiente di aut. op si sussurrava.

L'organizzazione all'epoca del sequestro Moro premeva perché lo statista non fosse ucciso e

fosse liberato. L'autonomia era molto preoccupata, voleva che cessassero certe attività, convinta

che il fucile stesse sopravanzando la testa, e che certe cose andassero a danno della sinistra

rivoluzionaria […] Una persona, di cui non posso ovviamente rivelare il nome, mi disse:

"Hanno detto che Moro è a Gradoli. Intendeva proprio il paesino del viterbese dove andarono a

cercare Moro, non la via romana con lo stesso nome. Evidentemente le informazioni che aveva

erano parziali".

 

Per quello che riguarda invece il falso comunicato, anche questo venne recapitato il 18 aprile, sarebbe dovuto essere il comunicato N. 7 detto appunto il “Lago della Ducchessa”, Aldo Moro è Morto e il suo corpo si trova sepolto sul fondo del Lago della Duchessa, recitava il volantino, ma era un falso. L’autore di questo falso, si scopre successivamente, essere Toni Chicchiarelli, un criminale della “Banda della Magliana” la quale veniva chiamata in causa, in certe occasioni, dai servizi segreti, per eseguire qualsiasi “lavoro sporco”. È chiaro che si trattò di un depistaggio. Chicchiarelli non può più rispondere, verrà ucciso qualche anno dopo e le indagini finiscono nella sabbia della “Giustizia”.

C’è però anche l’ipotesi che quel covo, sia stato "bruciato" da qualcuno [servizi segreti? un infiltrato? oppure qualche brigatista contrario all'uccisione di Moro?] grazie al trucchetto della doccia rivolta verso il muro e che provoca infiltrazione d’acqua nell’appartamento sottostante, per permettere a chi di dovere di recuperare le carte di Moro riguardanti P2, Gladio e tutto ciò che era probabilmente contenuto nelle sue borse scomparse, nonché le confessioni fatte dal Presidente alle BR. Il tutto venne fatto in modo assai rumoroso per permettere a Moretti e alla Balzerani di essere informati per tempo dalla TV e poter così continuare a gestire il rapimento. Serviva però un diversivo, qualcosa che distogliesse l'attenzione generale dal covo; ecco che lo stesso giorno "qualcuno" fece ritrovare il falso comunicato N°7. Dunque mentre il comunicato arrivava al Viminale, i vigili del fuoco arrivavano in via Gradoli:

le due messinscene che procedettero in perfetta sincronia, due "sollecitazioni" fatte affinché il sequestro si concludesse rapidamente e nella maniera più idonea. Nello stesso comunicato – oltre a suggerire ai brigatisti quale fosse l'epilogo più opportuno del rapimento – si trovano infatti dei precisi "segnali" che dovevano indirizzare le BR in tale direzione, come l'accenno alla morte di Moro mediante suicidio, proprio come era accaduto ai capi della RAF in Germania nel carcere di Stammheim. Tra l'altro non è affatto credibile che l'appartamento di Via Gradoli 96 sia stato lasciato da Moretti e Barbara Balzerani nelle condizioni in cui è stato descritto nei verbali della polizia: bombe a mano sparse sul pavimento, un cassetto messo in bella mostra sul letto e contenente una pistola mitragliatrice, documenti e volantini disseminati ovunque [proprio come se qualcuno avesse messo sottosopra il covo per cercare qualcosa…] . Ed è perfino incredibile che le forze dell'ordine si siano comportate in un modo così "rumoroso" (volanti giunsero a sirene spiegate e immediatamente si formò una piccola folla di curiosi e giornalisti) subito dopo la scoperta del covo. Con il duplice messaggio del 18 Aprile, rivolto chiaramente al vertice BR, la gestione del sequestro entrò in una nuova fase; le brigate rosse non avevano più la possibilità di proseguire la "campagna di primavera" da loro progettata ma dovevano piegarsi a delle volontà indiscutibilmente superiori: apparati "deviati" dello stato ed il loro occasionale "braccio destro", la "banda della Magliana" cui apparteneva Chichiarelli.

 

Cercare di comprendere che cosa sia stata la Banda della Magliana e cosa abbia rappresentato per la storia italiana degli ultimi anni significa addentrarsi in un buco nero che risucchia in sé oltre un decennio di storia italiana e centinaia di personaggi, collegati fra loro da fili sottili e quasi invisibili. Cominciò tutto quando – sul finire degli anni Sessanta - un gruppo di giovani malavitosi romani ebbe l’idea di unire le forze dei vari gruppi della criminalità che agivano, speratamente, in molti quartieri della capitale e in zone limitrofe, come Acilia. Proprio come stava tentando Raffaele Cutolo a Napoli con la Nuova Camorra Organizzata (NCO), deliquenti di rango come Franco Giuseppucci, Nicolino Selis, Maurizio Abbatino, Enrico De Pedis decidono di eliminare le infiltrazioni esterne alla città e assumere il controllo diretto di tutti gli affari illeciti della capitale.
Nata, quindi, come organizzazione criminale dedita al traffico della droga e ai sequestri di persona, la Banda – che da subito verrà identificata come la Banda della Magliana, dal nome del quartiere in cui viveva gran parte dei suoi capi – diventa nel giro di pochi anni una vera holding politico-criminale, in stretti rapporti con mafia, camorra, ‘ndrangheta, ma anche con esponenti del mondo della politica, nonché dell’estrema destra eversiva, pronta al salto verso il terrorismo.
Traffici illeciti (nel periodo di maggiore attività non un grammo di cocaina veniva da fonti estranee alla Banda), ma anche grandi lotte di potere intestine: l’eliminazione di Franco Nicolini, detto "er criminale", boss dell’ippodromo di Tor di Valle, ma anche la faida con la famiglia Proietti, legata a quest’ultimo, in cui perderà la vita Giuseppucci, il principale collegamento con gli esponenti dello spontaneismo armato di destra.
Tutto questo sotto gli occhi di una Roma e di un’Italia attravversate da fenomeni duri: gli anni di piombo che insanguinano il paese sul finire degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo.
Una Banda – la Banda della Magliana – senza un vero capo, ma sulla quale prende il sopravvento, di volta in volta, la figura criminale del momento e che, fatalmente, finisce al centro dei tanti intrighi di potere che si sviluppano in quegli anni: il caso Moro su tutti e poi l’omicidio Pecorelli, i depistaggi nell’inchiesta sulla strage alla stazione di Bologna, l’attentato a Roberto Rosone, vice presidente del Banco Ambrosiano, inevitabilmente legato al caso Calvi, i rapporti con il gran maestro della Loggia P2, Licio Gelli, l’arsenale custodito nei sotterranei del Ministero della Sanità, i legami di una delle sue figure di spicco, Enrico De Pedis, con la scomparsa di Emanuela Orlandi, appendice misteriosa dell’attentato al Papa.
Chi indaga sui misfatti della storia d’Italia degli anni anni Settanta e Ottanta, prima o poi si trova ad afferrare un filo che, se riavvolto, porta a quel quartiere nella zona sud della capitale e a quel gruppo criminale (ma non solo) che aveva deciso di impadronirsi della città.

 

 

 

 

L’OMICIDIO

La situazione dunque precipita, Moro con il suo lavoro di statista pur da prigioniero politico è riuscito a prolungare in punta di penna fino a 55 giorni la sua permanenza nel covo delle Brigate Rosse, 55 giorni sono un’enormità, quasi due mesi in mano ai rapitori senza che le istituzioni alzassero un dito per liberarlo, le sue lettere sono sempre più crude e feroci nei confronti dei suoi compagni di partito, sente che si avvicina il momento cruciale e neanche una disperata lettera inviata a Papa Paolo VI riesce a smuovere la situazione, Moretti forse in questo momento è costretto ad agire nel modo in cui gli è stato ordinato, ma forse analizza anche soluzioni alternative, lasciare l’ostaggio e fuggire insieme a qualche pagina dei memoriali del Presidente per coprirsi la fuga, chiedere allo Stato la liberazione di qualche compagno in cella come contropartita, ma sa che evidentemente la crepa che nello Stato si è aperta travolge anche i settori istituzionali che non avrebbero ceduto al ricatto, il piano dei cospiratori ha funzionato anche se con qualche piccolo inceppo, le istituzioni, anche quelle religiose, non cedono, il PCI nel suo desiderio di riconoscimento istituzionale non vuole scendere a patti con dei criminali e la DC è già pronta a piangere il suo martire, la linea della fermezza condanna di fatto Moro, chissà se lo Stato avesse accettato di rilasciare un brigatista già gravemente malato, come chiedevano in un ultima richiesta le BR, come sarebbero andate le cose. A salvare la vita di Moro sarebbe bastato, come afferma la Faranda, il riconoscimento delle BR come interlocutori politici. Un altro brigatista, Franceschini ricorda che loro, in altre parole le BR della prima ora, avrebbero offerto allo stato “mille soluzioni” come la liberazione di un prigionero in Uruguay, la liberazione di un prigioniero ammalato, ecc. Ma il sistema politico italiano non voleva trovare e far trovare una soluzione. Tuttavia è molto improbabile che lo Stato potesse avere gli estremi per trattare, che la classe dirigente potesse compromettersi agli occhi dell’opinione pubblica e intavolare le trattative coi brigatisti. Apparentemente più fondata appare la posizione di coloro che sostennero la linea della trattativa, i così detti trattativisti, che sarebbero state sufficienti poche concessioni, anche di facciata, a salvare la vita dello statista. Ma un successo delle BR, anche simbolico, avrebbe prolungato la vita del fenomeno terroristico e avrebbe bloccato la valanga di pentimenti che di lì a poco si sarebbe scatenata.

Niente può più salvare Moro, così parte il piano per il suo omicidio, controverso come tutta la vicenda. Noi riteniamo che Moro sia stato prigioniero in Palazzo Orsini e lì giustiziato da un commando ad hoc e non dalle BR che da quel luogo si sarebbero defilate prima; un gruppo esterno alle BR sarebbe venuto da fuori e - nel silenzio dei sotterranei di un palazzo nobiliare e non nel garage di un condominio - abbia sparato allo statista messo nella Renault4 e poi trasportato nella sottostante via Caetani, evitando così di girare per mezza Roma con un cadavere nel bagagliaio di una R4 che per giunta non ha una separazione netta tra sedili posteriori e bagagliaio stesso, in quest’ottica possiamo – estensivamente certo – leggere o meglio interpretare, il famoso falso comunicato N. 7 “Il corpo di Aldo Moro giace sul fondo del lago della Duchessa” potrebbe significare che Moro il quale si trova nel Palazzo della Marchesa (Duchessa) - deve essere ucciso.

In ogni caso la sentenza viene eseguita, ma in che modo.

Degli 11 colpi i primi due [sono stati sparati] col silenziatore, gli altri quando era già morto. Perché questo rituale? Dopo i primi due colpi Moro ha agonizzato per 15 minuti. Solo i primi due colpi hanno lasciato tracce sulla Renault forse Moro è stato ucciso in macchina e portato altrove?

Laddove la comune versione dei brigatisti lasciava trasparire una falla che nasconde verosimilmente una menzogna è proprio nella narrazione delle modalità con cui l'ostaggio sarebbe stato ucciso.

Nella sentenza del cosiddetto Moro quinquies gli stessi magistrati giudicanti non possono esimersi dall'evidenziare il loro scetticismo sulla versione fornita dai brigatisti rossi, sottolineando, ad esempio, l'impossibilità da parte dei carcerieri di "ritenere in anticipo che l'on. Moro, chiuso in una cesta da dove poteva avere una discreta percezione della situazione ambientale, non essendo né narcotizzato né imbavagliato, avrebbe continuato a tacere senza chiedere aiuto nemmeno lungo il tragitto per le scale fino al box, pur percependo voci come quella della Braghetti. Non si comprende - scrivono ancora i magistrati - come i brigatisti abbiano accettato un simile e gratuito rischio quando avrebbero potuto facilmente evitarlo ad esempio uccidendo l'On. Moro nella sua stessa prigione e trasportandolo poi da morto; ed incredibile sembra il fatto che si sia programmata l'esplosione di una serie di colpi, quanti risultano dalle perizie, in un box che si apriva nel garage comune degli abitanti dello stabile, essendo noto che anche i colpi delle armi silenziate producono rumori apprezzabili che potevano essere facilmente percepiti da persone che si trovassero a passare, così come furono distintamente percepiti dalla Braghetti”.

fotografia del ritrovamento di Aldo Moro dentro la Renault R4Alle condivisibili considerazioni dei giudici del quinto processo Moro, dobbiamo aggiungere il rilievo che i colpi sparati con il silenziatore furono soltanto due. E gli altri 9, esplosi senza il silenziatore, non li ha avvertiti nessuno? Ne erano così certi i brigatisti Mario Moretti e Germano Maccari? E, infine, perché lasciare Aldo Moro agonizzante per altri 15 lunghissimi minuti, come conferma la perizia medico-legale, senza che un rantolo, un gemito, un grido disperato sia veramente uscito dalla bocca di un uomo morente e ferito? In conclusione, anche su questo punto, la versione delle Brigate rosse non sta in piedi, o almeno zoppica fortemente, un uomo che, senza essere narcotizzato, senza essere legato ed imbavagliato, si fa infilare in una cesta, deporre nel portabagagli di un'auto, ricevere nel corpo due pallottole che lo lasciano in vita per altri 15 minuti; e in tutto questo tempo non tenta la disperata reazione di chi non ha più nulla da perdere, effettivamente non è credibile".

La passività di Aldo Moro, se mai ci fu, può trovare una logica spiegazione in due fattori: il luogo dove si trovava, solitario, dove il suo urlo disperato si sarebbe perso nel silenzio; il numero dei suoi uccisori, tale da scoraggiarne a priori ogni tentativo di fuga o reazione violenta. Un testimone vide una Renault rossa presso la spiaggia di Fregene col posteriore aperto. La perizia sulla sabbia dei pantaloni di Moro confermò che il litorale corrisponde a quello inoltre sabbia e bitume venne trovata in molte parti dei vestiti, calze, scarpe e sul corpo di Moro, nonché sulle ruote della Renault, sul battistrada fu trovato un frammento microscopico di alga analogo ad un altro rinvenuto sul corpo.

E gli accertamenti ulteriori confermano pienamente questa realtà:

Le risultanze tecniche - riguardano innanzitutto la sabbia e i frammenti di flora mediterranea trovati nelle scarpe, negli abiti e sul corpo di Moro, come pure sulle gomme e sui parafanghi dell'auto di Moretti rinvenuta in via Caetani. Le tracce sugli abiti e sulle scarpe lascerebbero pensare ad una permanenza o ad un passaggio presso il litorale romano (la perizia giudica quel tipo di sabbia proveniente da una zona compresa tra Focene e Palidoro).

Mario Moretti e compagni, quindi, affermano il falso?

"Savasta e Morucci mentono [o forse non sono a conoscenza della verità. NDR] dicendo che la

sabbia era un depistaggio...".

lascia fortemente perplessi la machiavellica spiegazione di Morucci (confermata da Moretti e ribadita anche dalla Braghetti nel corso del processo Moro-quater) secondo la quale ai primi di maggio 1978 alcuni militanti [la Faranda e la Balzerani] furono incaricati di andare a reperire sulle spiagge del litorale laziale acqua marina, sabbia, catrame, parti di piante da mettere sui vestiti e sotto le scarpe di Moro per depistare le indagini successive al ritrovamento del cadavere. Quali vantaggi si proponessero di ricavare i brigatisti facendo credere agli inquirenti ed all'opinione pubblica di aver custodito Aldo Moro sul litorale laziale piuttosto che in un appartamento al centro di Roma?.

C'è poi la testimonianza di Pierluigi Ravasio, ex carabiniere-paracadutista, ex addetto all'ufficio

sicurezza interna della VII sezione del Sismi a Roma.

L'ex agente del Sismi e componente delle Stay-behind affermò che

"il suo gruppo indagò sul caso Moro e venne a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini vennero fermate, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, mentre i rapporti che quotidianamente venivano compilati furono bruciati...".

"Come ricompensa per il rapimento e la gestione del caso Moro - ha raccontato Ravasio – il Sismi consentì alla banda di compiere alcune rapine impunemente. Una avvenne nel 1981 all'aeroporto di Ciampino, quando i malavitosi travestiti da personale dell'aeroporto sottrassero da un aereo una valigetta contenente diamanti provenienti dal Sudafrica. Una seconda avvenne nei pressi di Montecitorio dove furono aperte molte cassette di sicurezza e da alcune, appartenenti a parlamentari, furono sottratti documenti che interessavano il Sismi".

Fatti che ci riportano alla rapina alla Brink's Securmark ed a quella strana rivendicazione che ebbe con tutta probabilità il valore di un avvertimento allo Stato perché non perseguisse i suoi autori.

dalla relazione del Presidente della Commissione Stragi, l'Onorevole Giovanni Pellegrino

[…] Ora nuove emersioni, ancora una volta provenienti da indagini giudiziarie affatto diverse da quelle che hanno avuto ad oggetto la strage di via Fani e l'omicidio Moro, consentono una ben più chiara - ed ancora più inquietante - lettura dell'episodio. Può infatti ritenersi certo che autore del falso comunicato della Duchessa sia stato Antonio Chichiarelli, un falsario romano di arte moderna, vicino agli ambienti della Banda della Magliana. Il Chichiarelli è con altrettanta certezza individuato come organizzatore ed autore della rapina del marzo 1984 alla Brink's Securmark, un deposito di sicurezza, che fruttò un bottino di circa 30 miliardi di lire e numerosi gioielli. Pochi mesi dopo tale rapina il Chichiarelli fu ucciso da ignoti in maniera estremamente violenta (anche la sua convivente venne gravemente ferita e una bambina piccolissima che stava con loro riuscì a salvarsi per caso). In tale concatenazione di eventi due ulteriori episodi si inseriscono a rendere l'intreccio complessivo più fosco e insieme più leggibile. A Chichiarelli possono ormai con certezza attribuirsi due "messaggi", che nella immediatezza apparvero del tutto oscuri. Il ritrovamente apparentemente casuale nell'aprile del 1979 di un borsello contenente oggetti che alludevano, connettendo insieme gli episodi, all'omicidio Pecorelli, al sequestro Moro e al depistaggio del Lago della Duchessa. Ancor più inquietante è che il Chichiarelli sostanzialmente "firmò" la rapina alla Brink's Securmark rivendicandola, due giorni dopo il suo compimento, con un "pacchetto", il cui contenuto chiaramente alludeva a quello del borsello fatto ritrovare cinque anni prima. L'unica lettura possibile che attribuisca un senso logico al concatenarsi di tali eventi non sembra alla Commissione potersi discostare da questa: il falso comunicato del Lago della Duchessa fu commissionato a Chichiarelli da ambienti istituzionali o almeno da ambienti a questi vicini (strettissimo amico di Chichiarelli era Luciano Dal Bello confidente dei Carabinieri); Chichiarelli riteneva di aver acquisito un credito di impunità per la collaborazione resa, in tale prospettiva lancia dapprima messaggi ai propri committenti e quindi firma la rapina alla Brink's! La gravità dell'episodio appare alla Commissione innegabile, anche perché un'approfondita riflessione convince che la conseguenza del falso comunicato fu sull'opinione pubblica l'annuncio dell'assassino del leader democristiano, messaggio che anticipando il lutto rispetto al reale svolgimento degli accadimenti, rendeva l'intera società pronta ad accogliere con minor resistenza e minor sofferenza una morte che dipendeva ancora da una molteplicità di circostanze, e sollecitava di fatto i brigatisti a percorrere la via cruenta e risolutiva. Lo stesso Moro nel Memoriale sembra interpretare in questo senso l'episodio, allorché scrive dell'unilateralità del comportamento della stampa italiana a proposito della "macabra grande edizione sulla mia esecuzione".

 

Dunque c'è un tassello che non ha ancora trovato la sua collocazione ufficiale, è il tassello determinante, quello che da solo sarebbe in grado di spiegare ciò che è rimasto di totalmente oscuro - ma non di insolubile - nel sequestro di Aldo Moro: i brigatisti rossi guidati da Mario Moretti, furono obbligati a cedere il loro ostaggio con tutta la documentazione da lui prodotta nei giorni della prigionia, agli "amici" della banda della Magliana.?

 

IL DOPO MORO

Moro muore, l’Italia perde forse il suo più grande statista che associava ad una grande abilità politica una onestà intellettuale che aveva a fondamento sani e concreti principi democratici, incarnazione di una religiosità vera e sentita e non di facciata; muore dopo 55 giorni di agonia tenendosi in vita in punta di penna, senza che nessun elemento dello Stato pulito, onesto e democratico sia riuscito a salvarlo. Muore in un trionfo di segreti, macchinazioni, complotti e intrighi che hanno ingenerato elucubrazioni di ogni genere e modo, da quel giorno certo il nostro paese cambiò, si aprii una ferita profonda che sentiamo ancora oggi, forse si comprese che il nostro Stato la nostra vita era vittima a sua volta di forze più grandi, di poteri che nessuno riusciva ad isolare o quantomeno a comprendere, certo la risposta del paese ci fu, ma questa partì e si sviluppò maggiormente nell’animo della gente delle persone piuttosto che dalle istituzioni di Palazzo. Gli eventi che seguirono furono molto importanti

Nel 19 maggio 1978: a Roma, in via Foà venne scoperta una tipografia, di Enrico Triaca, usata dalle Br durante il sequestro. Alcune apparecchiature erano appartenute ai servizi segreti.
L’ 1 ottobre 1978: avvenne l’irruzione dei carabinieri di Dalla Chiesa nel covo di via Monte Nevoso, a Milano. Vennero arrestati 9 terroristi, tra cui Azzolini e Bonisoli nonché trovato il famoso memoriale Moro. E qui che probabilmente Dalla Chiesa trattenne alcune pagine del memoriale che di proposito non consegnò al Senatore Andreotti, forse il generale ancora non aveva digerito la smobilitazione del suo corpo operativo avvenuta anni prima o forse riteneva più opportuno tenere con se alcune di quelle scottanti rivelazioni, questo atteggiamento molto probabilmente costò la vita al Carabiniere ucciso da un commando mafioso a Palermo nel 1982.

Nel 20 marzo 1979: venne ucciso a Roma Mino Pecorelli. Su Op aveva fatto diversi "scoop" e rivelazioni sul caso Moro e ne aveva promessi altri. Pecorelli era un giornalista, iscritto alla P2 e titolare d un agenzia di stampa, da più parti il suo ruolo veniva visto come un collegamento informativo tra la P2 e il mondo politico, ma proprio nel periodo del sequestro Moro decise di trasformare la sua agenzia in un vero e proprio periodico e forse fu proprio Dalla Chiesa a dargli qualche informazione corposa sul caso Moro tanto che fu lui il primo ad associare la Marchesa di Palazzo Savelli alla Duchessa del volantino, il suo stile allusivo veniva però colto da chi quelle vicende le conosceva bene e quindi anche lui pagò con la vita le sue rivelazioni.

Solo il 29 maggio 1999: trapela la notizia che il pianista russo Igor Markevitch sarebbe "l'anfitrione" fiorentino delle BR.

Markevitch, negli anni 50, viveva in una dependance di villa Tatti, in casa del critico d'arte Bernard Berenson, sulle colline tra Fiesole e Settignano, oggi sede di un'università Usa. Poi soggiornò a Fiesole, nella villa dei misteri. Esiste solo un Anfitrione o c’è anche la mente strategica del sequestro? Certo non quella del “dinamitardo”, che poco si concilia con il suo stile di vita e con il segreto che ha tenacemente avvolto per vent’anni la sua identità di partigiano, ed è in questa parte  della sua vita che va cercato il movente segreto del ruolo che oggi viene attribuito ad Igor Markevitch. Alberto Franceschini raccontò che i brigatisti consideravano gli ex partigiani un punto di riferimento, e il colonnello Niccolò Bozzo, stretto collaboratore di Dalla Chiesa, ha raccontato alla commissione Stragi che il generale poco tempo prima della morte inseguiva un’ossessione:

 “Era convinto che a tirare le fila fosse una rete messa in piedi, durante la Resistenza, dagli Usa, uomini infiltrati nelle organizzazioni di sinistra come ex partigiani rossi, ma in realtà di opposta ideologia”.

I brigatisti storici appaiono imbarazzati da queste rivelazioni. Maccari, presunto quarto uomo, liquida la vicenda: “Sciocchezze, sono un testimone oculare, Moro fu assassinato in via Montalcini”. Morucci, che per primo ha messo sulla pista dell’Anfitrione, ora minimizza. Certo e´che molte pagine andranno riscritte. Il Ghetto pullulava di covi Br, a quanto si scopre oggi. Efisio Mortati, il primo pentito, raccontò di essere stato ospite di tal “Anna e Franco” in via dei Bresciani, vicino ai Banchi Vecchi.

E nel rapporto Sismi dell’80 si fanno i nomi di questi due brigatisti, come coloro che interrogarono Moro. Però la descrizione che ne fece Mortati non coincide con nessuno dei brigatisti noti.

 

Il ruolo di Igor Markevitch fa riscrivere un capitolo?

 

Il 30 maggio 1999 quotidiani italiani, come Il Messaggero, hanno parlano del misterioso uomo di Firenze.

Il nome di Markevitch, morto nell’83, compariva già nell’80, quand’era all’apice della notorietà, in un rapporto del Sismi. Secondo il servizio segreto militare a condurre l’interrogatorio di Moro, nel carcere delle Br, era tal Igor Caetani, più tardi identificato come Markevitch, marito della principessa Topazia Caetani, proprietaria di un Palazzo nell´ omonima strada, sposata nel ‘48 in seconde nozze, principessa dell’omonima casata e proprietaria del palazzo nobiliare che si trova all’angolo tra via Caetani e via dei Funari, a venti metri da dove la mattina del 9 maggio ‘78 fu ritrovato, all’interno della Renault rossa, il cadavere di Aldo Moro. Un palazzo con il passo carraio e due leoni in pietra nel cortile, che corrispondono alle indicazioni fornite da Pecorelli, il giornalista poi assassinato.

Ora ci si chiede se la realtà non abbia superato l'immaginazione. Pellegrino, presidente della commissione Stragi, così si esprime:

“Alla luce di queste rivelazioni, molti messaggi del passato acquistano un nuovo significato”

Il volantino numero 7, ad esempio, messo a punto da Tony Chichiarelli, collaboratore del Sismi, ucciso dopo la miliardaria rapina alla Brinks, era stato finora considerato un depistaggio. Ma ci si chiede se invece non era una segnalazione, ahimè ignorata, proveniente da una frangia dei servizi segreti che indicava dove andare a cercare Moro, nel Lago (Palazzo?) della Duchessa, anticipandone la condanna a morte. La Duchessa è un personaggio ricorrente nelle allegoriche rivelazioni di Pecorelli che, due settimane dopo l’uccisione di Moro, sembrava conoscere l’ultima prigione: scrisse infatti che in via Caetani, dietro il muro dov’è stato trovata la Renault, la Duchessa vede “i ruderi del Teatro Balbo, il terzo anfiteatro dove un tempo antichi guerrieri scendevano nell’arena. Chissà cosa c’era nel destino di Moro, perchè la sua morte fosse scoperta contro quel muro”. Un’allusione alla Gladio di “Stay behind”, allora segretissima?

 

 

CONCLUSIONI (STATE DIETRO)

Abbiamo concluso il nostro lavoro, anche noi abbiamo scritto del caso Moro e forse non abbiamo detto niente di nuovo, ma cosa esce da tutte queste ricostruzioni, testimonianze e constatazioni; qual è il principio alto che dobbiamo trarre da questa esperienza, molto semplicemente possiamo affermare che in Italia è avvenuta una chiara ed inequivocabile limitazione della propria sovranità, dopo aver perso una guerra mondiale, di cui nessuno vorrebbe o potrebbe mutarne gli esiti, l’Italia ha pagato un prezzo altissimo ai vincitori, limitando la sua sovranità infatti, il nostro paese non ha potuto scegliere autonomamente la propria forma democratica di Stato seppur frutto di aspri confronti tra le parti sociali, nonostante le sue altissime figure politiche elaborassero forme di governo alternative ed innovative, adatte ad un certo tipo di società in piena evoluzione, essa si vista limitare se non tarpare le proprie scelte, ma allora ci domandiamo: è meglio una dittatura vera o una finta democrazia, cosa si preferisce tra un male vero ed un bene finto. Gli Stati Uniti sono sempre stati considerati i nostri benefattori, ci hanno liberato e consegnato la libertà, e sicuramente questa SuperPotenza ha dato molto al nostro paese ma è pur vero che dal nostro paese molto ha anche preso, se la sua ingerenza aveva una pur minima giustificazione negli anni 70 in un periodo in cui di fatto esisteva una situazione di altissima tensione fra due schieramenti armati fino ai denti e pronti a darsi battaglia, questa è assolutamente ingiustificabile oggi, in tempi più vicini a noi. Ancora adesso nel 2006 l’Italia non può processare e condannare i responsabili della strage di Ustica; nel 1998 i carabinieri dello Stato italiano, sul proprio territorio, non hanno potuto interrogare un pilota dell’aeronautica militare Statunitense che giocando tra le valli di Cavalese in valle d’Aosta ha tranciato i cavi di una funivia provocando la morte di venti persone, ed è di pochissimo tempo fa la vicenda dell’ Imam egiziano Abu Omar. Questo vuol dire che nulla è cambiato e che l’esperienza di Moro nulla ci ha insegnato, a distanza di anni dobbiamo ancora STARE DIETRO, per questo il silenzio delle persone che conoscono i fatti e che potrebbero provarli e circostanziarli è incosciente, forse temono per la propria vita, come dargli torto, ma solo con le loro testimonianze può partire un vero movimento culturale che contribuisca dopo 50 anni a restituire all’Italia la sua piena e consapevole sovranità.

 

 

MAURIZIO CERAUDO

BLOG: http://blog.libero.it/maurix69

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FONTI

 

Gli interrogativi del caso Moro di Roberto Bartali

Il presidente della Commissione stragi, Pellegrino in: Il Messaggero, Sabato 29 Maggio 1999 “L’inchiesta mai chiusa/ A parlarne fu il giornalista Mino Pecorelli su Op pochi giorni prima di essere assassinato“.

http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm

Bolognesi, Paolo, Vice presidente Associazione familiari vittime strage Bologna del 2 Agosto 1980 Bologna in: http://www.comune.bologna.it/iperbole/2agost80/pellegr.htm, 14 febbraio 1996.

Mario Coglitore, autore del libro “La notte dei gladiatori, omissioni e silenzi della Repubblica”, (Calusca edizioni, Padova 1992) scrive: “Diamo un rapido sguardo alla situazione delle forze di Polizia negli anni '50: su 64 prefetti di primo grado, 64 prefetti non di primo grado e 241 prefetti, soltanto due non erano di provenienza fascista; di 135 questori e 139 vicequestori, soltanto 5 avevano avuto rapporti con la Resistenza; e, infine, su 603 commissari, commissari aggiunti e vicecommissari, solo 34 erano stati in contatto con i partigiani.” Cfr. http://www.abanet.it/papini/circolo/coglitore2.htm

 “Aveva già acquisito l'esperienza sufficiente per destreggiarsi nelle situazioni più difficili, i suoi rapporti con l'intelligence americana erano solidi e le sue finanze, frutto di numerose rapine di guerra, robuste. La sua ascesa ai vertici del potere politico occulto fu inarrestabile.” aggiunge Coglitore. Cfr. http://www.abanet.it/papini/circolo/coglitore2.htm

Cfr. http://www.clarence.com/memoria/stragi/5.htm

Nel febbraio 1972 ad Aurisina, vicino a Trieste, i carabinieri della stazione locale scoprono per caso un deposito sotterrato di armi, esplosivo in grossa quantità, ecc. I carabinieri avevano involontariamente riportato alla luce uno dei 139 depositi di Gladio, distribuiti ed nascosti in punti strategici del territorio italiano.

Cfr. Coglitore, Operazione Gladio http://www.intermarx.com/ossto/operazione.html

Cfr. Coglitore, Operazione Gladio http://www.intermarx.com/ossto/operazione.html

La Repubblica - 14.03.98, Intervista al figlio dello statista, Giovanni Moro. Che accusa il "partito della fermezza" di aver ucciso suo padre, "Ma la verità vera ancora non c'è" A cura di Mazzocchi,

Silvana. http://www.ecn.org/rete.sprigionare/moro/R140398b.html

Cfr. Lunedi, 16 marzo 1998, Il Messaggero, Sabbatucci

http://www.ilmessaggero.it/hermes/19980316/01_NAZIONALE/1/SAB.htm

Martinazzoli: “Se volevate un riconoscimento, la lettera di papa Montini "agli uomini delle Br", sia pure con la precisazione "rilasciatelo senza condizioni", non era un gesto sufficiente a soddisfarvi?..” e Morucci risponde con: “L'effetto della lettera fu pessimo. Già, come comunisti, del papa ci importava poco, ma la sua posizione non era neanche aperturista. Ripeto, le Br volevano da parte della Dc un riconoscimento come quello espresso nell'appello del segretario dell'Onu Kurt Waldheim..” Cfr. L’Espresso, 07.05.1998, Troppo deboli per salvare Moro,  http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=20515&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=&chiave2=&chiave3=

Cfr. Giorgio Bocca in: La Repubblica: “Delitto Moro - Nessun mistero”, 11 maggio 98.

Cfr. L. Cipriani, L’Affare Moro, http://www.ilblack.html/. Moro, /ilblack.html.

Cfr. Il caso Moro, Commissione stragi, /17.htm

Cfr. Drake, p. 249 e  Panorama, Dossier Andreotti, 1993, p.43.

Flamigni, Sergio: Trame atlantiche. Storia della Loggia massonica segreta, Milano, 1996, p. 244.

E ricordarsi che l’esperto americano della intelligence Pieczenik ha di recente nel 1999 dichiarato che in Italia Moro non lo si volle liberare. Il sito di Steve Pieczenik, l’esperto mandato dagli Usa come consigliere, ora affermato scrittore: http://www.stevepieczenik.com/

L‘anonimo disse: ”Controllate l’identità delle seguenti cinque persone!”

http://www.umt.edu/kaimin/oldkaimins/04-17-96/O.gcolumn.html

Flamigni riferì le parole di Cornacchi: “Perchè non era possibile”.

Cfr. http://www.clarence.com/memoria/p2/iscritti.htm

Cfr. pure il capitolo “Le radici di Gladio – Un esempio di trasformismo”.

http://www.cronologia.it/storia/a1978t.htm

Cfr. Moretti, Mario (1994) [Interview di Rossanda, Rossana; Mosca, Carla], p. 145.

Stay Behind è il nome americano per la sua sezione italiana, GLADIO. E’ anche attiva in molti altri paesi europei, risulta, come ha osservato lo stesso giudice Casson nella sua indagine, da accordi intercorsi tra servizi segreti, nel nostro caso CIA e SIFAR, scavalcando qualsiasi decisione del parlamento, l'unico organismo in grado di ratificare trattati internazionali di questa natura, qualora essi fossero ritenuti legittimi. Cfr. Coglitore su http://www.abanet.it/papini/circolo/coglitore2.htm

Cfr. Relazione della Commissione Gualtieri in : http://www.apolis.com/moro/commissioni/gualtieri/1.htm

 “Lui lo chiamavano "Peppe", lei "Peppa". Militavano in autonomia, nel circolo Mario Salvi attivo a Roma nord nei tardi anni '70. Raimondo Etro, brigatista arrestato di recente, ricorda di averli visti una sera dalle parti del ristorante "La sora Assunta". Proprio dove, il giorno dopo l'avvistamento, fu ucciso Mario Amato mentre cenava a fianco dell'amico Domenico Velluto, l'agente che aveva ucciso Mario Salvi, il vero bersaglio della sparatoria dalla quale invece uscì indenne.

[...] Al contrario, partendo da tanta base il giudice Antonio Marini, un professionista dell'antiterrorismo nel senso che al termine dava Leonardo Sciascia, ... [...] Rita Algranati, allora moglie di Alessio Casimirri, presente in via Fani nella veste di vedetta, avrebbe detto allo stesso Etro: "Poi sono passati in moto due cretini". (Ma forse la formula precisa era "i due cretini", Etro non ricorda). L'articoletto fa la differenza. Senza, i motociclisti diventano due passanti qualsiasi. In caso contrario eccoli trasformati in due brigatisti piombati in via Fani senza essere stati convocati dall'organizzazione, secondo la bizzarra ipotesi che va per la maggiore fra gli inquirenti.[...] Passi la moto fantasma, passino i curiosetti che piombano in mezzo a una sparatoria per diletto [...]. Incontrollate e incontrollabili, come quella messa in giro dal solito Etro sull'omicidio Calabresi, poi smentita da quel Casimirri indicato da Etro come fonte (peraltro a sua volta indiretta).[...] “

Cfr. Il Manifesto del 23.04.98 http://www.ecn.org/rete.sprigionare/moro/M230498c.html

Maccari confessa «Ero io il carceriere Così fu ucciso Moro» Cfr. http://www.mclink.it/unita/960620/uni06.htm

Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm

Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm

Un interrogativo sollevato da Marini riguarda la mancata richiesta di estradizione di Alessio Casimirri, militante brigatista latitante in Nicaragua e presente in via Fani. Il nome di Casimirri come partecipante alla strage di via Fani è stato fatto per la prima volta da Morucci, nel suo più che noto "memoriale". Sospetti a suo carico erano però già esistenti da tempo. Ciononostante Casimirri per sedici anni ha potuto vivere del tutto tranquillamente in Nicaragua, dove aveva anche aperto un ristorante nella capitale del paese, senza che la magistratura italiana abbia fatto nulla per perseguirlo. Cfr. http://www.apolis.com/moro/commissioni/gualtieri/1.htm

16 luglio 96. Germano Maccari viene condanato ad ergastolo per la partecipazione al rapimento e l'uccisione di Moro.

Benito Cazora muore il 21 febbraio 1999 a Roma e non può più rispondere alle domande della Commissione.

Saverio Morabito, un pentito, presentò in una dichiarazione queste informazioni.

http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/69.htm

http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=30019&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=terrorismo&chiave2=brigate

http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=27968&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=terrorismo&chiave2=franceschini&chiave3=

Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&ft_cid=27968&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31

La tesi di Franceschini è che i capi storici delle Brigate Rosse, Renato Curcio e lui, sarebbero stati "bruciati" e arrestati per aver rifiutato le offerte di armi, soldi e informazioni venute dal Mossad, tramite intermediari milanesi, nel maggio-giugno del 1974, subito dopo il sequestro del giudice Mario Sossi. http://www.senato.it/notes/ODG_COM5/28d3a.htm ; L‘Intervista di Ettore Bernabei con Giorgio Dell’Arti: "Lei non ha mai creduto alla tesi secondo la quale i brigatisti agirono da soli" chiede Dell’Arti e Bernabei risponde:" No, come abbiamo già avuto modo di dire, io penso che alle loro spalle agissero molti grandi vecchi. Ho sempre creduto ad un concerto internazionale che aveva come obiettivo di contrastare l’unità europea, di destabilizzare l’Italia, anche perchè in Italia ha sede il vertice di una Chiesa universale ed autonoma"Bernabei, Ettore: L’uomo di fiducia [intervista con Giorgio Dell’Arti], Milano, Mondadori, 1999..

Il Corriere della Sera, 16.03.98: Moro: cinque misteri, il caso resta aperto. Dal covo di via Gradoli alle carte segrete dell'ostaggio. I buchi neri dell'inchiesta; Il magistrato che indaga sulla strage: «I brigatisti continuano a proteggere qualcuno». Articolo a cura di Giuliano Gallo, Paolo Menghini.

L’Espresso" del 9 aprile 1999 resoconto dell’audizione di Alberto Franceschini in commissione stragi (17 marzo 1999).

Cfr. Pure L’Espresso del 15.04.1999 “ Brigate losche” http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&ft_cid=27968&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31

E forse era invece una segnalazione ignorata, proveniente da una frangia dei servizi segreti che indicava dove andare a cercare Moro, nel Lago (casa?) della Duchessa, anticipandone la condanna a morte.
Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm

Il Corriere della Sera, 16.03.98

Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990114/01_NAZIONALE/10/B.htm

Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/22-01-99/22-01-99_est01_a01.3.html

Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/22-01-99/22-01-99_est01_a01.3.html

Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/22-01-99/22-01-99_est01_a01.3.html

Il Messaggero, giovedì, 14 gennaio 1999

http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990114/01_NAZIONALE/10/B.htm

Morucci: ”Pertanto, non riesco a capire perché mai il materiale non dovesse essere convogliato tutto in quella base, non c'era alcun motivo. Peraltro, appunto, per le Brigate rosse si trattava di materiale poco interessante.” Cfr. Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 22ª seduta mercoledì, 18 giugno 1997, http://www.parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/steno22.htm

http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990729/01_NAZIONALE/9/E.htm

Dossier: Delitto Pecorelli/la richiesta integrale di autorizzazione a procedere, Il Messaggero, 11 giugno 1993, p.5.

Dossier Messaggero, p.5

Il Messaggero/Dossier, „Il caso Andreotti“, p.52.

Antonio Cipriani, L'Unità 28 maggio 1999 "Br come la Raf, isolate e superclandestine"

(intervistato dall’ex parlamentare Sergio Flamigni su

http://www.democraticidisinistra.it/interviste/intervista_flamigni2805.htm

Flamigni, sergio: Covergenze parallele

Cfr. La Repubblica, 09.05.98.

Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 22ª seduta, mercoledì 18 giugno 1997 http://www.parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/steno22.htm eppure Panorama, 04 giugno 1999. “ 'Ha operato una struttura esterna alle Brigate rosse i cui contorni non sono ancora stati delineati' sostiene il giudice di Venezia Carlo Mastelloni, lo scopritore della scuola di lingue francese Hyperion, sospettata di vicinanza con i servizi segreti e di aver diretto da Parigi le azioni più eclatanti delle Br.” http://www.mondadori.com/panorama/art4doss/2457_1.html

Andrea Tornielli, http://www.abramo.it/service/rassegna/ARTICOLI.HTM/GIORNALE/98031702.HTM

Cfr. L’Espresso, 10.06.1999: “Br e prima Repubblica / Una testimonianza Grande Vecchio, I Presume

http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&ft_cid=29398&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31

 

Cfr. Il Messaggero, Sabato 29 Maggio 1999 “L’inchiesta mai chiusa/ A parlarne fu il giornalista Mino Pecorelli su Op pochi giorni prima di essere assassinato“.

http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm

Ne cito alcuni brani importanti. Il portiere dice: „ «Qui è tutto come prima. Oggi come nel 1978. Ci sono io a controllare e ci sono gli stessi inquilini di quei tempi di piombo». ..... «Sto qui dal 1977, da un anno prima del sequestro di Moro. Ventidue anni davanti a questo cancello, dalle set te e mezza di mattina alle sette e mezza di sera. E questa è l’unica entrata per salire a Palazzo Orsini: lo scriva che non ci sono sotterranei o ingressi secondari, quelle sono tutte frescacce. Chi entra deve passare qui davanti. E io non ho mai fatto entrare nessun brigatista». ... Ma poi, mentre si sale la rampa che porta alla parte alta della Residenza, viene da pensare che sotto i vecchi sampietrini del cortile, proprio lì sotto, ci sono gli scavi del teatro Marcello, cunicoli, segrete, sentieri che secondo le mappe di Roma antica passano pure sotto il Tevere, verso l’isola Tiberina, fino a Trastevere. Scusi signor Aldo, dove sono i garage in cui, forse, hanno tenuto Moro? «Ancora con questa storia? Non c’è nessun garage. Anzi ce n’è uno, ma la proprietaria ci tiene la macchina».

Ma alla fine viene fuori che un cambiamento, uno solo, c’è stato ... All’appello manca la contessa Rossi di Montelera, che è deceduta qualche tempo fa; oggi il suo appartamento al terzo piano del primo stabile di Palazzo Orsini è passato di mano. È lo stesso appartamento che ventuno anni fa era intestato all’Immobiliare Savellia” -  e prosegue - «Che c’è di strano? - dice il portiere - la contessa non si era voluta intestare la casa e l’aveva lasciata a nome di quella società. Lo fanno in tanti.». Di strano c’è che durante i tempi di piombo (come li chiama questo portiere-mastino che in buona fede difende tutti) il numero telefonico dell’Immobiliare Savellia, lo 06-659127, lo trovarono nel covo brigatista di via Gradoli, sulla Cassia. Era in un appunto scritto da Mario Moretti in persona, quello che secondo molti investigatori conosce i «dietro le quinte» del caso Moro che non conosciamo noi.  “

Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990601/01_NAZIONALE/11/AA.htm

Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm

Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm.

Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990601/01_NAZIONALE/11/AA.htm

Cfr.  Commissione stragi - Il caso Moro, /17.htm

L’Espresso, 10.06.1999: “ BR E PRIMA REPUBBLICA / UNA TESTIMONIANZA Grande vecchio, I presume Già prima che spuntasse il signor Igor, iparlamentari chiedevano notizie del vero regista del caso Moro all'ex ministro signorile. E lui. ”

Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=29398&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=brigateablename=E&column=&ft_cid=29398&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=brigate

Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=29398&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=brigate

Cfr. L’Affare Moro, http://www.unlibro.html/

Sei parlamentari dell’allianza del centro-destra comunicarono nel 1997, che l’edificio faceva parte di una società prestanome del SISDE; Cfr. Pure la Repubblica, 9 novembre 1997.

Cfr. http://www.haganah.org/homepage_it/aldo_moro/moro_9.htm

La Repubblica, 13 febbraio 1998

Cfr. Paolo Mondani, COMinform, n.115 del 5 - 12 maggio 1998 Moro, caso aperto,

http://www.comunisti.org/115/mondani115.html  eppure Cfr. http://www.ecn.org/rete.sprigionare/moro/R090598b.htm

E quella integrale, piena di accuse contro la DC e Andreotti, si scoprirà forse non casualmente, soltanto nel 1990.

http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/3.htm

Cfr. Paragrafo 16°,  “Le "Carte di Moro" E il delitto Pecorelli, Le dichiarazioni di Antonio Mancini” http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html

Drake, (1995), p. 256.

Drake (1995), p. 237-239.

Cfr. http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html

Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 22ª SEDUTA MERCOLEDÌ 18 GIUGNO 1997

 Cfr. http://www.parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/steno22b.htm

Il 3 agosto, ben conscio del fatto che l'indagine del giudice veneziano Casson (che si occupava in quel momento della strage di Peteano e che aveva avuto accesso agli archivi dell'ex SIFAR di Forte Braschi) sta comunque approdando a qualche significativo risultato, Giulio Andreotti dichiara davanti alla Commissioni Stragi che è esistita fino al 1972 una struttura segreta all'interno degli stessi servizi i cui scopi e la cui organizzazione sarebbero stati successivamente definiti in un apposito documento.

Questo fascicolo di dodici pagine viene in effetti inviato alla Commissione il 18 ottobre dallo stesso Andreotti e sparisce il giorno dopo con ogni probabilità per quella tipica caratteristica dei dossier riservati, che tutti conoscete e che consiste nel loro essere dei veri e propri giochi di prestigio. Il rapporto ricompare quattro giorni più tardi debitamente ripulito dallo scrupoloso Presidente del Consiglio, che afferma di aver riconsegnato le carte a Casson su sua esplicita richiesta, circostanza smentita dallo stesso giudice. Come si può facilmente capire dalla comparazione tra i due documenti proposta dal settimanale Avvenimenti che possiede anche la versione originale, il lavoro di ritocco, con cancellazione di interi periodi, rimodella il complesso delle dichiarazioni e ne fornisce una versione largamente edulcorata. Gli omissis sono parecchi: nell'originale si parla del controllo esplicito da parte dei servizi segreti sull'intero gruppo Gladio, nel secondo rapporto non si fa accenno ad alcun controllo; nella prima versione si sostiene che la pianificazione geografica ed operativa era concordata con il servizio informazioni americano, nella seconda versione la riga salta interamente. Lo stravolgimento completo tocca il suo punto più alto quando nel documento rivisto scompare ogni accenno agli stanziamenti previsti per l'organizzazione che costituiscono un apposito capitolo di bilancio. Assenza totale, infine, delle notizie precedentemente fornite su modalità operative del gruppo, addestramento presso la scuola dei servizi americani, materiali in dotazione e, particolare interessante, neanche una parola sui depositi di armi ed esplosivo che nella versione del giorno 18 si dicevano smantellati e ricostituiti altrove. Cfr. Operazione Gladio, di Mario Coglitore http://www.intermarx.com/ossto/operazione.html

Perugia, aprile 1999, processo Pecorelli. Cfr.

http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990430/01_NAZIONALE/10/C.htm

Dossier Messaggero, p.5.

Cfr. http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html

E si continua “Per il delitto si sarebbero serviti dei loro legami con Nino ed Ignazio Salvo. I cugini di Salemi avrebbero poi attivato Badalamenti e Stefano Bontate. Questi avrebbe fatto da tramite con Pippo Calò, personaggio di raccordo tra mafia e banda della Magliana. In cambio del suo impegno nel delitto la banda della Magliana avrebbe ricevuto favori giudiziari per il tramite di Vitalone.” Per questo sembra che diventi fondamentale stabilire se i cugini siciliani e il senatore si conoscessero.

Cfr. Paragrafo 16°, Le "Carte Di Moro" e il Delitto Pecorelli/ Le dichiarazioni di Antonio Mancini http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html

Mancini, il pentito più importante della Banda della Magliana, dice: "Disse (Renato De Pedis, altro esponente della Magliana n.d.r.) che l'eliminazione di Pecorelli era stata fatta nell'interesse della mafia siciliana e di gruppi di potere massonico, ed era stata ordinata da Vitalone, il magistrato...Ovviamente non intendeva dire che il Vitalone avesse direttamente a lui commissionato l'omicidio, ma che lo aveva fatto attraverso altre persone ... Abbruciati mi disse qualcosa circa i motivi del delitto per quelli che lui sapeva e cioè che Pecorelli era venuto in possesso o a conoscenza di documenti o fatti riguardanti il sequestro dell'on. Moro che avrebbero arrecato danno al magistrato Vitalone e al gruppo politico e finanziario di cui egli faceva riferimento". Maurizio Abbatino (altro uomo della banda della Magliana), interrogatorio del 27 maggio 94: "Giuseppucci mi disse che Massimo Carminati era quello che aveva ucciso Pecorelli e conversando spiego' ulteriormente quello che mi aveva detto prima in carcere: l'omicidio del giornalista Pecorelli era stato richiesto dai "siciliani" (esponenti di cosa nostra)... Aggiunse Giuseppucci che il Pecorelli era un giornalista e che era stato eliminato perchè aveva fatto troppe indagini e stava ricattando un personaggio politico". Cfr. Avvenimenti, 15 marzo 1995,

http://www.citinv.it/pubblicazioni/AVVENIMENTI/AVVE39/S003001.HTM

Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990710/01_NAZIONALE/8/E.htm

A Firenze vennero prese le decisioni sul destino di Aldo Moro, qui furono battuti a macchina i nove comunicati Br.

Pellegrino: «Fu Flaminio Piccoli per primo a fornire l’identikit di Markevitch, parlando di un uomo di grande cultura»

Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm

Cfr. Al-Ahram Weekly Did Mossad murder Moro? “ http://www.ahram.org.eg/weekly/1999/420/in1.htm

 “Comunica infine che il signor Steve Pieczenik, che si era dichiarato disponibile ad essere audito dalla Commissione con sua lettera del 9 aprile 1999, ha successivamente rinunziato all'audizione stessa, senza specificarne i motivi, con sua lettera del 14 aprile 1999.” Commissione Parlamentare stragi, Martedì, 20 Aprile 1999.

http://www.ecn.org/zip/moro.htm ed intero fumetto è scaricabile sotto

http://www.ecn.org/zip/16marzo.zip

16marzo.pdf , p. 13/20 , http://www.ecn.org/zip/moro.htm E’ scaricabile il file zippato 16marzo.zip. Una volta decompresso il file del tipo “pdf” diventa leggibile con l’Acrobat Reader di Adobe, preferibilmente con la versione 4.0.

Il procuratore capo bresciano Giancarlo Tarquini si è trincerato dietro un «non posso dire nulla». Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/30-05-99/30-05-99_est01_a00.html

Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=29398&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=brigate

Gumbel, Andrew in: The Independent: “The riddle of Aldo Moro: was Italy's establishment happy to see him die? Many say the police did not do all they could to save the ex-PM kidnapped 20 years ago.” , 05/12/1998.

Lettera di Aldo Moro a Zaccagnini, Segretario della DC, pubblicata il 12 Aprile 1978: E‘ un‘ora drammatica–. Io lo dico chiaro: per parte mia non assolverò e giustificherò nessuno. Attendo tutto il partito ad una prova di profonda serietà e umanità– Mi rivolgo individualmente a ciascuno degli amici che sono al vertice del partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell‘interesse della DC– Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia‚ Italia. Il mio sangue ricadrebbe su voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani ma al dopodomani. Pensaci soprattutto tu Zaccagnini, massimo responsabile. Aldo Moro: Lettera a Benigno, Segretario della DC, pubblicata il 12 Aprile 1978: in : http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/26.htm .

Recapitata tramite Don Mennini il 20 aprile 1978 http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/27.htm

Aldo Moro “A Benigno Zaccagnini” http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/52.htm

« I piani “Victor e Mike”» “Una vicenda che con molta enfasi è stata portata all'attenzione dell'opinione pubblica nel corso del mese di novembre del 1993 ha avuto origine dalla notizia dell'esistenza di piani predisposti da autorità italiane in previsione di un'eventuale liberazione dell'onorevole Moro, ovvero della sua uccisione da parte delle Brigate rosse. Più precisamente, il 29 novembre 1993 fu diffuso in Italia il contenuto di un'intervista che il senatore a vita, Francesco Cossiga, ministro dell'interno all'epoca del sequestro Moro, aveva rilasciato mesi addietro a due giornalisti, Michael Busse e Maria Rosa Bobbi, che si erano presentati a nome di un'emittente tedesca, la Westdeutscher Rundfunk. Nell'intervista il senatore Cossiga, tra gli altri argomenti, ricordava come in previsione della conclusione del sequestro fossero stati elaborati due differenti scenari: il primo nell'eventualità che Moro fosse stato rilasciato vivo (piano Victor), il secondo qualora lo statista fosse invece stato ritrovato morto (piano Mike).
Il piano Mike, dal contenuto alquanto scontato, prevedeva che dopo il ritrovamento del corpo di Moro scattasse immediatamente una serie di misure repressive, contro simpatizzanti e fiancheggiatori delle Brigate rosse. Se, di fatto, il 9 maggio 1978 l'operazione di rastrellamento ad ampio raggio, non ci fu, ciò avvenne - come ha dichiarato, a questo.”  Cfr. Relazione della Commissione Gualtieri, p. 41in: http://www.apolis.com/moro/commissioni/gualtieri/1.htm

Drake, op. cit., p. 265.

Drake, p. 306.

http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990814/01_NAZIONALE/8/A.htm