«Sappiamo bene che c'era già una "Questione meridionale": ma sarebbe rimasta come una vaga "leggenda nera" dello Stato italiano, senza l'apporto degli scrittori meridionali

 (Leonardo Sciascia)

La definizione “Questione meridionale” venne usata per la prima volta nel 1873 in parlamento intendendo con questo tutte le problematiche attinenti la mancata omogenizzazione del nuovo stato, dove l'unità si era tradotta in termini pratici in una annessione da parte del Piemonte delle altre regioni italiane. La Lombardia e la Toscana, data l'affinità culturale e una certa identità socio economica, parteciparono presto alla gestione del nuovo governo, ciò non avvenne per la parte meridionale della penisola per una serie di circostanze, di cui la principale è senza dubbio l'impostazione politica originaria data allo stato da Cavour, per il quale l'Unità rappresentava la possibilità di un grande Piemonte e non certo l'organizzazione di una grande Italia. Il Regno delle Due Sicilie rappresentava nel 1860 lo Stato più popoloso, più industrialmente avanzato e sicuramente più ricco d'Italia, inoltre aveva già una sua propria identità statuaria ormai consolidata in più di 8 secoli d'unità, nell'ambito della politica cavourriana le possibilità erano due: o consentire che il baricentro economico e conseguentemente politico restasse dov'era sempre stato, cioè a Napoli, oppure smontare il sistema economico-politico duosicilano favorendo la nascita di un nuovo soggetto avente il proprio fulcro fra Milano, Torino e Genova. Non c'è bisogno di sottolineare che si optò per questa seconda soluzione. Il discorso è talmente articolato che è necessario una suddivisione in argomenti per poterne capire la portata ed i modi attraverso i quali si compì l'opera e si fece nascere quella che a tutt'oggi ancora viene definita "Questione Meridionale".

STORIA NEGATA

Gli splendori economici e culturali della Magna Grecia di cui il meridione d’Italia è stato fulcro, sono stati trattati con ampiezza da moltissimi autori. La grandezza di Siracusa, di Sybari, di Taranto e la favolosa cultura che in esse si sviluppò è oggetto di studio da sempre. La civiltà Ellenistica, che ha dato origine a quella Romana e poi a quella Europea, ebbe i suoi due poli principali in Siracusa e Alessandria d’Egitto e si sviluppò pienamente nelle lande calabresi, siciliane e pugliesi. Basti pensare che intorno al 450 a.C. Filolao da Taranto ipotizza in un trattato un sistema solare di tipo eliocentrico, anticipando di 2000 anni Galileo, per comprendere di che spessore fosse il sapere che vi si produceva e che sempre nell’arco di territorio tra la Sicilia e S. Maria di Leuca vivono e operano personaggi del calibro di Archimede o di Pitagora, fondatori delle scienze fisiche e matematiche di cui Copernico o Newton sono stati solo epigoni. Le arti e le scienze in tutti i settori conoscono uno dei momenti magici della storia, la pittura la scultura, la poesia e il teatro, la musica e la retorica, la filosofia e il pensiero politico raggiungono vette altissime. La Magna Grecia muore per mano romana. Le splendide città del Sud vengono asservite alla barbarie latina, cento anni di guerre sanguinosissime sanciscono la fine di una grande civiltà che fino a quel momento aveva rappresentato il faro del sapere del mondo e che vide le proprie città distrutte e le proprie genti schiavizzate. Comincia qui la prima colonizzazione meridionale, i romani creano i “latifundia”, risucchiando le risorse dal ricco sud per romanizzare la valle padana. Nascono Milano, Piacenza, Verona, Mantova quali città di una cortina difensiva destinata a contenere le aggressioni barbariche d’oltralpe. La dominazione romana durerà a lungo tenendo innaturalmente insieme i due tronconi d’Italia già così diversi tra loro per circa quattro secoli. Ferum victorem Graecia capta cepit recitano i classici latini, i commentatori moderni pongono l’accento sul fatto che la sapienza greca (cioè meridionale) si impose a Roma nonostante la sconfitta militare, molto meno sulla parte iniziale della frase, ferum victorem significa vincitore feroce il che la dice lunga sui i modi e i termini della conquista romana. Dopo i secoli bui delle invasioni barbariche (IV – X sec A.C.) alle quali solo i bizantini del meridione fecero argine, la colonizzazione araba della Sicilia riportò sui territori italiani regrediti per effetto di tali invasioni ormai all’età del ferro, gli elementi tecnologici, culturali e i principi dello scambio mercantile elaborati nell’età classica. A partire dal Sud, l’Italia e poi l’intero continente riacquistò quelle competenze perdute nei secoli dopo la caduta dell’Impero Romano e ricominciò il suo faticoso ma brillante rinascimento. L’Europa feudale è ancora immobilizzata da quei popoli di origine germanica responsabili della regressione culturale dell’occidente di millenni. La Chiesa Romana, al fine di conservare la propria indipendenza e potere temporale, impone, in questo periodo, la divisione della Penisola in due aree politiche: un’area frantumata in signorie regionali e municipi al nord di Roma e un regno unitario invece al Sud, destinato a impedire l’emergere di una potenza nazionale italiana. Siamo intorno al 1000, il contadino europeo a stento riesce a produrre il minimo necessario per sopravvivere. Il rapporto percentuale tra il numero dei contadini impegnati nella produzione agricola e la classe di persone in grado di sopravvivere senza lavorare è abbondantemente al di sotto dell’un per cento. L’antropologia ci insegna che la cultura e la tecnologia nascono e progrediscono solo dove si producono dei surplus alimentari sufficienti a liberare una parte della popolazione dalle incombenze produttive. In questo periodo solo in Sicilia e in alcuni altri luoghi del Sud ciò avviene. Palermo diventa, forse con l’esclusione di Pechino, la città più grande e progredita del mondo e mantiene questo standard per centinaia di anni. All’ombra della grande capitale siciliana molte città meridionali conoscono momenti di notevole sviluppo: la splendida e potente Amalfi, Napoli, Bari che rappresenta la porta d’Oriente, Mola e Rossano in Calabria. La centralità del Sud nell'esportazione di manufatti che venivano richiesti da re, imperatori, baroni e vescovi barbarici, è largamente attestata, basta leggere qualche pagina del fiorentino Giovanni Boccaccio o fare un giro turistico per il Baresano e il Salento, per fortuna risparmiati dai terremoti che, altrove, hanno distrutto quasi tutto per rendersene conto. Nei periodi successivi, stabilizzatasi l’immigrazione barbarica, i paesi occidentali procedettero faticosamente sulla strada dello sviluppo transitando dalla servitù della gleba (fattispecie mai esistita peraltro al sud), e dal tributo signorile allo scambio monetario, alla libertà di vendere le eccedenze agricole e il proprio lavoro, alla proprietà piena ed esclusiva dei beni mobili, compreso il danaro, e dei beni immobili. Il Sud italiano è la fonte della conoscenza attraverso la quale detto sviluppo ha luogo. Le produzioni intellettuali provenienti dal mondo ellenistico e romano qui non sono mai scomparse, si sono anzi arricchite di nuovi elementi importati dagli arabi, che a loro volta le avevano mutuate dalla cultura cinese e indiana. Un compendio di tali culture viene concretizzato sotto Federico II, il “Puer Apuliae stupor mundi”, il ragazzo di Puglia stupore del mondo, Re del Meridione che attraverso diritti dinastici acquista anche il titolo di Imperatore e che con le sue “Constitutiones” getta le basi del diritto positivo moderno e imprime un’ulteriore accelerazione allo Stato meridionale in termini di cultura e sviluppo. I secoli successivi registrano uno stallo a causa delle controversie secolari che contrapporranno Papato e Impero. Morto Manfredi, figlio di Federico, sul campo di battaglia, il Regno delle Due Sicilie diviene merce di scambio pregiata nelle contese dinastiche che avveleneranno l’Europa per secoli. Ciò non impedirà alle grandi città del regno come Napoli, Palermo, Messina, Catania, Reggio, Bari e Lecce di vivere splendide stagioni artistiche e culturali. Il barocco leccese ad esempio, mirabile esempio di arte autoctona, nasce e si sviluppa fra il XVI e il XVII sec., lasciando vestigia che incantano ancora oggi. I re e viceré che si avvicenderanno dal XIII al XVII secolo assorbiranno la cultura locale e si meridionalizzeranno fino all’identità. Non c’è dubbio che la fortissima pressione fiscale operata da angioini ed aragonesi prima e dagli spagnoli poi impoveriranno non poco la nazione. L’anno del signore 1734 rappresenta la data del riscatto del Sud. Una nuova dinastia rivendica l’indipendenza del regno da qualsiasi influenza straniera e dal Papato. Carlo III di Borbone Farnese, figlio di Filippo V di Spagna e della principessa Elisabetta Farnese, vera artefice del nuovo assetto politico italiano, dichiara libero lo Stato duosiciliano e con la Prammatica Sanzione del 1759 ne stabilisce la definitiva separazione dalla Spagna, rintuzza le pretese austriache battendoli sul campo di battaglia due volte, prima a Bitonto e poi a Velletri e costruisce le basi di uno stato moderno di stampo illuminista. Il suo primo ministro, il toscano Bernardo Tanucci ne progetta le fondamenta giuridiche ed economiche, l’impulso allo sviluppo della società civile, ai commerci e alle arti è possente. Il Regno delle Due Sicilie diventa in pochi decenni protagonista sulla piazza europea. Negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione francese esso è già ridiventato, e di gran lunga, lo Stato più moderno, più organizzato, più ricco e popoloso d’Italia. Nel primo quindicennio del XIX sec. l’Europa è spazzata dai venti napoleonici, e il Regno non fa eccezione. Un solo evento è veramente degno di nota, esso differenzia i meridionali da qualsiasi altro popolo europeo e lo accomuna alla Vandea francese: l’Epopea Sanfedista. Un movimento popolare, cattolico e legittimista che riesce a scacciare la prima ondata di invasori francesi dal suolo nazionale. Il popolo del Sud è libero e indipendente e tale vuole restare. Essi francesi saranno poi portatori di repressione militare e di pesantissime tasse e tributi molto più che di Fraternitè, Libertè ed Egalitè come stupidamente qualche autore neo-giacobino afferma. I due decenni successivi al congresso di Vienna registreranno un momento di transizione che si risolverà con l’avvento al regno di Ferdinando II di Borbone. L’impulso che dà allo sviluppo della nazione è impressionante: la marina mercantile duociliana diventa in meno di vent’anni la terza d’Europa per quantità e qualità, gli impianti agricoli intensivi si moltiplicano favoriti da un apposito centro studi statale creato all’uopo, nascono al Sud le prime industrie italiane, sono industrie tessili, setifici, cartiere, concerie, industrie metalmeccaniche e siderurgiche che producono locomotive e macchine a vapore e semilavorati del ferro, tabacchifici e cantieri navali fra i migliori del mondo. Napoli è una metropoli, terza per abitanti in Europa dopo Londra e Parigi, sede del teatro più famoso del mondo, il San Carlo , la sua strada principale -via Toledo- è descritta dai visitatori del tempo come la strada più bella del mondo, le residenze reali sono stupende, la reggia di Caserta è seconda forse solo a Versailles per magnificenza. Il re Borbone gode di un prestigio notevolissimo sulle piazze internazionali, la finanza pubblica è solidissima. Spesso nell'immaginario dell'italiano si immagina la ottocentesca Milano piena di fabbriche, Genova ingolfata di navi e una Torino che sfornava vagoni e locomotive a migliaia sotto le direttive del grande Cavour. Il tutto è assolutamente falso. Soltanto Milano mostrava una modesta ripresa economica dopo il disastroso periodo napoleonico e solo per merito della produzione della seta e non per altro, mentre Genova scontava un profondo declino. Peggio stava la gloriosa e serenissima Venezia, il cui porto sopravviveva solo grazie al fatto di essere la base della flotta austriaca. Firenze aveva da tempo dimenticato gli splendori rinascimentali e Torino era rimasta la città torpida e provinciale che era sempre stata, con un piede al di là delle Alpi e la testa rivolta a Parigi. In ogni caso nessuna delle altre città italiane aveva niente di paragonabile alla grandezza e agli splendori culturali e commerciali di una capitale mondiale come Napoli. Quando a scuola ci si riferisce ad alcune invenzioni che creano nella mente dello studente l’idea della modernità come le prime navi a vapore o le locomotive, nelle classi scolastiche italiane si omette di dire che, per fare un esempio, quando il Piemonte prese la decisione di dotarsi di ferrovie, fu l’industria napoletana a fornirgliele, segno evidente dell’enorme differenza di condizione di sviluppo industriale fra i due regni. Il Regno delle Due Sicilie aveva decisamente intrapreso la strada dell’industrializzazione, sebbene secondo un proprio ed originale modello, ed era nel decennio 1850-60 lo stato più sviluppato d’Italia e avrebbe potuto probabilmente competere con la Francia e l’Inghilterra nel medio periodo. In ogni caso se qualcosa di moderno e innovativo in questo periodo in Italia c’era, sia in campo economico sia tecnologico e culturale, questo qualcosa stava sicuramente di casa a Napoli non certo a Torino né a Milano. Il problema grosso per il regno meridionale era dato dall’intolleranza di Francia e soprattutto Inghilterra all’esistenza di uno Stato forte e autonomo al centro del Mediterraneo che rifiutava perentoriamente ogni forma di invadenza e perseguiva pervicacemente una forma di sviluppo autonomo e assolutamente diverso da quella che i dettami liberal-massonici imponevano. Dal punto di vista strategico bisogna poi tener conto che sono gli anni dell’apertura del canale di Suez, le navi provenienti dalle colonie inglesi orientali sarebbero tornate a solcare il Mediterraneo e a fare scalo nei porti meridionali, e un Re con la personalità di Ferdinando II, preparato, intelligente, orgoglioso e poco propenso a concessioni a titolo gratuito, era troppo ingombrante per l’arroganza inglese abituata a rapinare e non a trattare e per le smanie di grandezza di Napoleone III. I Borbone di Napoli cercarono di portare il paese alla modernità commerciale e industriale e di difenderlo dall'InghiIterra e dalla Francia, che sventolando bandiere liberali e ugualitarie sgraffignavano sottobanco tutto quello che arriva loro a portata di mano. D’altronde toglierli di mezzo non era affatto semplice. Ferdinando II di Borbone apparteneva ad una delle casate più prestigiose d’Europa, imparentato con i Borbone di Spagna, e con l’imperatore d’Austria, godeva dell’amicizia e dell’ammirazione dello Zar Alessandro di Russia. Educato in un collegio militare si intendeva di strategia e tattica e quasi trent’anni di regno passati indenne (unico sovrano in Europa) attraverso i moti del ’30 e del ’48 ne testimoniano l’abilità, l’intelligenza e lo spessore politico. Era uno che badava al sodo, poco attratto dalla classe borghese -pennaruli e pagliette li chiamava-, aveva puntato sullo sviluppo del regno attraverso la creazione di una potente marineria commerciale, il che non senza una logica: un paese circondato per tre lati dal mare e con una dorsale montuosa che divideva nettamente litorale adriatico e tirrenico rendendo difficili e costosissime le costruzioni ferroviarie rendeva preferibile un più intenso sviluppo delle comunicazioni e del commercio via mare piuttosto che per via terrestre. Infatti le ferrovie che saranno costruite poi sotto i Savoia, a parte le incredibili e vergognose speculazioni di cui furono oggetto e l’assurdità della direttrice unica nord-sud, funzionale solo all’invio di truppe, avranno un bilancio disastroso per più di 40 anni. Ferdinando che pure aveva costruito la Napoli-Portici, il primo troncone ferroviario d’Italia e aveva progettato una rete ferroviaria adeguata al regno e che aveva in casa le fabbriche per costruire locomotive e binari (Pietrarsa e Mongiana), preferì saggiamente rimandare il completamento della rete ferroviaria piuttosto che forzare la mano con una imposizione fiscale pesante. La dinastia Borbone aveva nella classe contadina il proprio target sociale di sostegno, il filo diretto che lega il popolo e i regnanti di Napoli è testimoniato da numerosissime circostanze, dai contadini di Santa Fede fino al Brigantaggio legittimista post-unitario. Mai il Re Borbone avrebbe appesantito il bilancio statale con un investimento enorme ritenuto prematuro e che sarebbe ricaduto, fiscalmente, sulle spalle della povera gente. D’altronde l’enorme sviluppo del commercio via mare, molto più economico di quello via terra, era più che sufficiente ai bisogni dello Stato. Ben diversamente agiranno i Savoia che si indebiteranno fino al collo (o meglio indebiteranno gli italiani del tempo e le generazioni future) con i Rothschild e con le case d’affari parigine pur di portare a termine una pessima rete che al periodo era un puro costo. Ferdinando era un abile amministratore, parco nei costumi e risparmiatore fino all’avarizia. Riteneva, pur nel suo essere Re, di avere due giudici supremi: Dio e il popolo, per il quale sentiva una responsabilità quasi paterna, basta leggere quello che ha lasciato di scritto e quello che riportano i suoi biografi per rendersene conto. Gli storici risorgimentali hanno definito questo modo di governare “paternalismo borbonico”, caricando il termine di un significato negativo inspiegabile. Vittorio Emanuele II, presunto padre della patria e macellaio sabaudo, di paterno non aveva niente: farà fucilare, impiccherà, deporterà e farà fuggire all’estero tanti di quei meridionali nei primi dieci anni di unità, da far diminuire la popolazione dell’ex regno delle Due Sicilie di circa 700.000 persone. I suoi successori ne faranno emigrare altri 5 milioni, circa metà della popolazione. Il grande errore strategico di Ferdinando fu probabilmente il voler restare neutrale ad ogni costo rifiutando persino il tradizionale legame con l’Austria. La politica ferdinandea si rivelò efficace all’interno dei propri confini ma isolò il Regno sul piano internazionale. Il non voler nemici in Europa si tradusse nella pratica con il non aver amici e quando il suo regno fu attaccato dal Piemonte, nessuno mosse un dito per aiutare suo figlio che si affidò alla divina provvidenza che nel periodo, purtroppo, era latitante. Il Piemonte invece aveva una struttura economica vetusta, lo sviluppo industriale era di là da venire, ma Cavour intratteneva solidissime amicizie europee conquistate sulla pelle dei propri sudditi mandati a morire in Crimea senza nessuna ragione. Ferdinando, invece, negò persino l’approdo nei porti meridionali alle navi da guerra francesi ed inglesi dirette verso la Crimea, proclamando la neutralità delle Due Sicilie e ritenendo di non dover inviare truppe in un conflitto (effettivamente turco-russo, Francia e Inghilterra intervenirono in aiuto della soccombente Turchia per impedire alla Russia di avere uno sbocco sul Mediterraneo) dove ambedue i contendenti erano considerati amici e partners commerciali. L’intervento piemontese, assolutamente fuori da ogni logica politica, fu concesso solo su insistenza (e imposizione) della diplomazia francese e inglese che ripagarono poi abbondantemente il regno savoiardo in occasione della spedizione dei mille. In ogni caso ciò che era economicamente il Meridione d’Italia all’atto dell’unità è facilmente desumibile non da analisi partigiane ma propriamente dai dati che ci riporta l’annuario statistico dei milanesi Correnti e Maestri, stilato un paio d’anni prima del 1860 e successivamente riveduto e corretto e adottato dallo stato unitario negli anni seguenti come ufficiale.

Quando il Sud era il Nord, l’Italia nel 1860 e Giuseppe Garibaldi

Il 1815 fu un anno cruciale per l’Europa e per l’Italia, poiché allora venne deciso a Vienna l’ assetto degli stati europei che era stato sconvolto dal terremoto napoleonico. L’Italia subì le decisioni del Congresso e della Restaurazione e venne divisa in tanti stati indipendenti, ma influenzati dall’ Austria attraverso una rete di parentele ben disposta. Le reali condizioni di questi stati erano differenti, ma in contrasto con la storia ufficiale studiata a scuola. Molti documenti autentici, tenuti nascosti più o meno volutamente negli archivi sono venuti alla luce di recente, presentano situazioni del tutto diverse rispetto a quanto hanno sempre raccontato gli storiografi ufficiali. Così ad esempio risulta che alla vigilia del 1860 il regno dei Savoia, cioè il Regno di Sardegna, era lo stato più arretrato e più povero della Penisola: si moriva di pellagra, una malattia tipica delle regioni settentrionali causata da carenze alimentari: la gente si nutriva prevalentemente di polenta, il cibo più comune. perché meno costoso. Il Regno delle Due Sicilie era, al contrario, il più ricco e avanzato: nel 1859 al Banco di Sicilia si dovette rinforzare il pavimento su cui era collocata la cassaforte, era tanta la quantità di lingotti d’oro in essa contenuta che per il gran peso, c’era il rischio che il pavimento stesso potesse cedere! Naturalmente i soliti storiografi hanno raccontato a ruoli invertiti, la solita favoletta di un Sud povero e arretrato ad intere generazioni. E così è stato fatto loro credere ciecamente alle “gesta leggendarie” di Garibaldi, uno dei responsabili della rovina delle regioni meridionali. Garibaldi confidò al suo amico medico siciliano, Enrico Albanese: ”Quando i posteri esamineranno gli atti del governo e del Parlamento italiano durante il risorgimento italiano, vi troveranno cose da cloaca”. Una frase da condividere parzialmente, perché quello che avvenne in seguito fu ancora peggiore per le popolazioni meridionali. Garibaldi era un avventuriero e molte delle sue azioni apparse eroiche furono amplificate o del tutto inventate. Il ritratto del suo aspetto fisico fu alterato, dissero che era un gigante alto otto piedi (più di due metri), non arrivava a un metro e settanta, era tarchiato, con le gambe leggermente arcuate e corte, spesso avvolto con strati di sciarpe, perché soffriva di artrite cervicale e di reumatismi. Un giornalista francese, Maxime du Camp, che lo seguì nell’invasione del regno borbonico, lo definì “un babbeo”; per Denis Mack Smith, storico inglese alquanto di parte, era “rozzo e incolto”; Mazzini disse che “quanto a coerenza è una canna al vento”, cioè volubile e credulone; per Montanelli era un “onesto pasticcione”.

Nel 1834 aveva partecipato al moto insurrezionale di Genova contro i Savoia, scoperto, fu condannato e fuggì nell’America del Sud, dove già emigrarono i suoi conterranei per sfuggire così alla disoccupazione e alla miseria diffusa nel regno sabaudo (nel Regno delle Due Sicilie il fenomeno dell’emigrazione era sconosciuto, cominciò ad emigrare per le pessime condizioni di vita nelle quali fu costretta dall’unificazione forzata. L’invasione garibaldina e piemontese trasformò il Sud da paese tranquillo, sereno ed autosufficiente in un gigantesco cumulo di macerie!). In Sud America Garibaldi rubò anche dei cavalli e per questo subì un taglio all’orecchio destro: fu costretto così a coprire con i capelli lunghi questa macchia infamante. Stanco della sua vita temeraria, tornò in Italia, avute le garanzie che le cose sarebbero andate bene, decise di partire per la conquista del Regno delle Due Sicilie. Le garanzie avute erano formidabili e consistevano essenzialmente nei punti seguenti:

1) l’Inghilterra era ormai impaziente per l’eliminazione dei Borbone, divenuti scomodi per gli interessi inglesi nel Mediterraneo;

2) c’era la disponibilità di un’enorme montagna di soldi, in grandissima parte pure inglesi, per comprare le battaglie e tutto ciò che occorreva;

3) era stato assicurato l’aiuto della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli, organizzazioni la cui esistenza venne così legittimata.

Il denaro fu l’alleato più efficace per un capillare piano di corruzione degli alti comandi della Marina Borbonica, gli alti comandi dell’Esercito Borbonico, dopo si passò a tanti altri come alcuni combattenti della guerra civile, che con disprezzo venne chiamata “lotta al brigantaggio”: essa imperversò nelle regioni del Sud per dieci anni, con migliaia e migliaia di morti, incendi e distruzioni di ogni genere, dal 1860 al 1870. Il viaggio dei garibaldini nel Tirreno e l’avanzata in Sicilia, Calabria e Campania fu caratterizzato da strani errori, ritardi, malintesi, ritirate di chi doveva fronteggiare un nemico invasore, insomma ci furono tanti tradimenti pagati a peso d’oro.

Tradirono gli alti comandi, non i soldati, tanto che in un giornale satirico francese una vignetta raffigurava i soldati con la testa di leone, gli ufficiali con la testa d’asino e i generali senza testa e con le tasche piene di soldi. Si riportano di seguito e in modo molto sintetico tre episodi emblematici di tutta la vicenda.

Lo sbarco a Marsala fu agevolato da informatori in mare aperto e dalla presenza di quattro navi inglesi ancorate nel porto, la marina borbonica non poté intervenire per non colpire le navi inglesi: l’Inghilterra non lo avrebbe tollerato, essendo in quel momento difficili i rapporti con il Regno di Francesco II. I volontari poterono così sbarcare.

La “battaglia” di Calatafimi poteva facilmente essere vinta dai soldati borbonici, perché meglio armati e in buona posizione strategica rispetto ai volontari e ai picciotti. Ma quando le cose stavano andando per il meglio, il generale borbonico ordinò la ritirata dei suoi soldati, permettendo così a Garibaldi di avanzare e di dichiararsi vincitore.

Marcia in Calabria. Non si combatté neppure. Il generale Fileno Briganti non affrontò i garibaldini, si ritirò semplicemente: ma nei pressi di Mileto (Catanzaro) fu intercettato dai soldati, che, per l’evidente tradimento, lo fucilarono. I volontari poterono così avanzare.

SVIMEZ

Cento anni di vita nazionale attraverso la statistica delle regioni, Roma 1961, pag. 18 2. Istat, Annuario Statistico Italiano 1938, pag. 438

Una breve scorsa è sufficiente a dedurre che essendo la popolazione meridionale poco più di un terzo del totale italiano, produce più del 50% del grano, l’80% dell’orzo e dell’avena, il 53% delle patate, il 41% dei legumi, prodotti che rappresentano la base dell’alimentazione popolare. Un discorso a parte è necessario poi per l’olio, che il meridione produce nella percentuale del 60% e per gli agrumi la cui produzione è da attribuirsi interamente al Sud. Essi rappresentavano all’epoca ed insieme ai semilavorati di seta (prodotta al sud) e alla seta greggia (prodotta in Lombardia), le voci più importanti nelle esportazioni italiane. La domanda estera di olio lampante necessario ad alimentare le lampade di tutta Europa e altrettanto necessario come lubrificante ai cotonifici inglesi è altissima, l’olio meridionale viene quotato in borsa a Londra. Esso insieme allo zolfo che la Sicilia estrae dal proprio sottosuolo nella misura del 90% dell’intera produzione mondiale ed elemento essenziale per la produzione dell’acciaio, rappresentava il vero oro del Sud prima e dell’Italia unita poi. Per circa un secolo essi saranno gli unici beni che l’Italia sarà in grado di esportare all’estero e pagheranno insieme alle rimesse in valuta pregiata degli emigrati (sempre meridionali) le 3 o 4 fasi di industrializzazione della Padania. Continuando nell’analisi delle tabelle è evidente che fatto salvo l’allevamento di bovini, il quale è leggermente sottodimensionato rispetto alla popolazione e che per ragioni climatiche e la relativa assenza del prato al sud è possibile solo nelle zone pedemontane, tutti i tipi bestiame sono presenti in quantità superiore rispetto al nord, sia in valore assoluto che in percentuale rispetto alla popolazione. In campo industriale e manifatturiero, come già anticipato, è proprio al Sud che in Italia ha inizio un processo di ammodernamento. Lo Stato Borbone possiede le risorse economiche, provenienti dai surplus agricoli esportabili, per avviare l’industrializzazione e lo fa con un modello di tipo statalizzato e protezionistico. Una serie di accorti provvedimenti legislativi attirano nel sud italiano un buon numero di investitori stranieri, prevalentemente svizzeri e tedeschi, che sorretti e protetti dallo Stato danno vita a un tessuto industriale notevole. Ferdinando adotta il modello economico grazie a cui era nata l’industria francese, il cosiddetto “dirigismo colbertiano”. Nasce Pietrarsa, primo e più grande stabilimento metalmeccanico italiano, nascono Mongiana e poi Ferdinandea, centri siderurgici imponenti. Nascono soprattutto una miriade di industrie di medio e piccolo cabotaggio che producono di tutto, dalla carta ai guanti, dai semilavorati di cotone alle sellerie. Imponente è la cantieristica navale, non a caso erano meridionali i primi ed unici bastimenti italiani che approdavano nel periodo nei porti nordamericani e australiani, come meridionale fu il primo piroscafo italiano e la prima nave costruita interamente in ferro. Il Casertano, non a caso chiamato all’epoca “Terra di Lavoro”, diventa una delle zone più densamente industrializzate d’Europa. Certo questa industria non è in grado di competere con quella inglese o francese, la produzione copre fra si e no il fabbisogno interno, ma le commesse estere, limitate alle carrozze ferroviarie, alla cantieristica navale e ai guanti, produzioni nelle quali Napoli vanta primati nel mondo, prendono la via del Sud e non certo del Nord d’Italia. Ferdinando II protegge con uno schermo doganale feroce la neonata industria duosiciliana, sa bene che la concorrenza europea annienterebbe in poco tempo le manifatture interne in un regime di mercato liberistico e attende la maturità e la competitività del sistema interno prima di aprire le porte a merci estere. Un altro paese del mondo, più o meno nello stesso periodo, intraprese la stessa strada e adottò l’identico modello politico ed economico: il Giappone. Ragioni geografiche hanno voluto che il Regno di Napoli e quello del Sol Levante avessero sorti diverse. In Europa l’industria inglese, alla perenne ricerca di nuove risorse e sbocchi commerciali e sostenuta da un potente apparato politico e militare mai avrebbe consentito l’affermarsi di un modello economico diverso da quello liberal-massonico, tanto meno l’affermarsi di uno Stato autorevole posizionato strategicamente al centro del Mediterraneo. Il Giappone fu salvato dal suo isolamento e dalle tendenze ultranazionalistiche della sua classe dirigente e rappresenta oggi uno dei colossi dell’economia mondiale. La classe dirigente meridionale, rimbambita dai canti delle sirene di Cavour e soci, perdette se stessa e il popolo dando in pasto il Sud ai famelici inglesi e francesi e ai loro compari tosco-padani ricevendone in cambio qualche elemosina. Una tacita congiura tra pseudo-patrioti meridionali, scaltri politicanti e incalliti diplomatici, stronca l'intelligente opera di modernizzazione dei Borbone e il Sud precipita nelle grinfie della politica europea, impostata sulla crescita attraverso la colonizzazione diventando un territorio di pascolo aperto alle usure toscopadane. In ogni caso sotto la gestione ferdinandea neanche all’onnipotente Inghilterra riuscì di penetrare con successo nel Regno di Napoli, e ciò nonostante una decennale e intensa campagna di denigrazione guidata dall’inglese e massone Gladstone e un certosino lavoro di corruzione e logorio all’interno dello stesso Stato Borbone. I vari tentativi di fare il colpo grosso furono tutti repressi con vigore. L’occasione buona si presentò con la morte di Ferdinando II, ad appena 49 anni, a causa di una malattia inspiegabile. Gli succedette il figlio Francesco (23 anni), sposato con Maria Sofia (19 anni), intelligente e di buon carattere, ma giovanissimo e assolutamente impreparato a raccogliere l’onerosa eredità del padre e soprattutto a controbattere le bramosie straniere. Un attacco diretto al Regno è impossibile, con quale scusa aggredire uno Stato pacifico che si proclama neutrale e gode di buone amicizie internazionali? La strada da seguire doveva essere un’altra. Da tempo il Piemonte aveva intrapreso scelleratamente una politica espansionistica, che l’aveva portato al dissesto finanziario. La politica cavourriana, peraltro, improntata ad un liberismo zoppo (sarà definito in seguito, contraddittoriamente, “protezionismo dall’interno”) si era già rivelata fallimentare nel Regno Savoia ancora prima di essere applicata pedissequamente anche al regno duosiciliano, ad unità conseguita, con il risultato di strangolarne il fragile tessuto industriale. L’unica possibilità che rimaneva a Cavour era di mettere in conto ad altri gli enormi debiti contratti. L’Inghilterra e la Francia (con motivazioni diverse ma con gli stessi identici appetiti) puntarono sul piccolo regno subalpino affamato di conquiste per mettere le mani sull’Italia del sud e liquidare la dinastia Borbone. Si scelse un guerrigliero professionista qual’era Giuseppe Garibaldi che aveva le caratteristiche necessarie (personaggio controverso ma dotato di un certo fascino, forse non adatto ad una guerra in campo aperto, ma esperto di combattimenti in piccola scala avendo praticato la guerra corsara in Brasile, facilmente sacrificabile in caso di fallimento, legato a filo doppio alle logge massoniche inglesi), e un manipolo di disperati, gli si preparò il terreno attraverso una capillare opera di corruzione, gli si diede una possente forza di supporto (10-20 mila soldati piemontesi tutti dichiarati congedati o disertori che sbarcarono subito dopo i mille), si scelse la Sicilia per lo sbarco perché da sempre animata da sentimenti indipendentisti e antiborbonici e si tentò il colpo. L’operazione fu coronata da un successo al di là di ogni più rosea aspettativa. Rivendicazioni borghesi, la promessa ai contadini che gli usi civici si sarebbero trasformati in proprietà piena (promessa mai, ovviamente, mantenuta), classi dirigenti siciliane insofferenti al dirigismo borbone, l’appoggio poderoso della flotta inglese del mediterraneo, la corruzione di buona parte delle gerarchie militari dell’esercito e della marina duosiciliana furono i decisivi elementi che contribuirono al successo dei garibaldini. Un’analisi storica accurata evidenzia l’inconsistenza della forza militare di Garibaldi, che venne ripetutamente e sonoramente battuto in varie occasioni dalle truppe borboniche, che però venivano immediatamente richiamate dai comandanti di grado superiore. Clamorosa fu la conquista di Palermo ottenuta da qualche migliaio di garibaldini con 16.000 soldati duosiciliani chiusi nelle fortezze con l’ordine di non intervenire, mentre il generale Landi, comandante in capo delle forze borboniche in Sicilia, firmava su una nave – guarda caso inglese- e sotto gli auspici della diplomazia britannica un incredibile e inspiegabile armistizio, abbandonando poi la Sicilia con un esercito intatto e forte di 24.000 uomini ben armati e ben addestrati, senza aver combattuto nemmeno una sola vera battaglia e condannando a morte il Regno. Effettivamente molti dei sostenitori meridionali dei Savoia si accorgeranno presto del colossale errore, ma il danno era già fatto e non si poté porvi più rimedio. Le posizioni acquisite dai garibaldini furono rilevate direttamente dai luogotenenti piemontesi, che si affrettarono a scendere al sud con un corpo d’armata imponente. A poco valse il parziale successo delle truppe borboniche nella battaglia del Volturno, e la strenua resistenza delle piazzeforti di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto. Le ultime speranze meridionali si spensero sulle mura di una Gaeta assediata e martoriata dai bombardamenti piemontesi. Il popolo del sud ancora una volta, come nel 1799 e nel 1815, insorse a difesa della dinastia e di se stesso e pagò con qualche decina di migliaia di morti il tentativo di rimanere libero e indipendente. La ribellione fu repressa nel sangue da 120.000 soldati piemontesi che rimasero al sud per i dieci anni che rappresenteranno una delle pagine più buie della storia del Sud, imponendo un regime di terrore e la condizione di colonia, che permane ancora oggi. Le pretese francesi di imporre un proprio candidato sul trono di Napoli si spensero presto, in compenso le case d’affari parigine fecero affari d’oro con i titoli di stato italiani. Gli inglesi si tennero ben strette le preziose concessioni sulle miniere di zolfo siciliane, ottennero i vantaggi strategici sperati impiantandosi a tutto campo nel mediterraneo e rimanendoci fino a dopo la seconda guerra mondiale. Il problema maggiore per il Sud, al di là di come siano andate le cose, non fu la conquista, furono gli anni successivi a creare i problemi che ancora oggi il meridione paga. Una koinè veramente italiana si sarebbe forse potuta creare, l’Italia, benché nata nel sangue e nell’inganno avrebbe forse potuto diventare un vero Stato Nazionale e lentamente prendere sulla scena europea il ruolo, che le spettava e che era già stato del Regno delle Due Sicilie. Non si volle fare. Il progetto cavourriano era un altro, il ministro pensava ad un grande Piemonte non ad una grande Italia, e i suoi successori perseguirono pervicacemente il piano del Grande Tessitore portando l’Italia alla rovina. I primi quarant’anni d’unità saranno, infatti, disastrosi sotto ogni punto di vista per il novello popolo italiano, sia del nord che del sud, chi si avvantaggerà dello stato nazionale saranno solamente quello che la storiografia ci nomina come la “consorteria” tosco padana, che tradotto vuol dire alcune elìte di intrallazzatori e speculatori legati alla Banca Nazionale degli Stati Sardi.

REPRESSIONE MILITARE

Quando i Mille sbarcarono in Sicilia nel 1860 la classe contadina si ribellò massicciamente contro la Chiesa, l’aristocrazia, e in alcuni casi anche all’esercito borbone, sperando di ottenere la proprietà delle terre che coltivavano, come promesso da Garibaldi stesso. I volontari del nord tradirono le aspettative che avevano seminato tra la popolazione, e repressero nel sangue ogni rivolta, mostrando nel ristabilire l’ordine un favoritismo per borghesia locale a spese delle prerogative della nobiltà, che prese in gran parte la via dell’esilio. I Mille, sostituiti ben presto dall’esercito regolare italiano, trattarono il sud come bottino di guerra, espropriando le proprietà statali, bruciando villaggi, violentando donne (incluse molte suore) senza curarsi delle conseguenze del loro comportamento. Famosa fu la strage perpetuata da Nino Bixio a Bronte. Il nuovo potere si preoccupò di reprimere i dissidenti, praticò politiche di rappresaglia sulle popolazioni civili, utilizzò largamente la tortura, le taglie, ed impose un servizio militare obbligatorio di cinque anni e senza paga a tutti i giovani maschi, cosa che invalidò l’agricoltura di sussistenza. Vennero inoltre emanate leggi speciali che davano libertà d’azione ai comandanti militari, furono messe sotto embargo alimentare intere regioni, e si vietò la diffusione di quotidiani e periodici, peraltro già censurati, del nord. L’occupante si distinse anche per atti di terrorismo. Sono attestati almeno tre i casi in cui la stessa magistratura nordista attribuì la responsabilità di diversi fatti di sangue, perpetrati indiscriminatamente sulla popolazione, a personalità piemontesi che cercavano di aumentare la tensione fra le parti in conflitto e giustificare così la repressione. Le rovine della guerra e del saccheggio spinsero gran parte della popolazione rurale alla lotta armata, e la resistenza di irregolari meridionali, nata come naturale reazione all’invasione e come risposta all’incapacità delle armate borboniche, ricevette presto rinforzi massicci da chiunque patisse la fame, fosse perseguito dall’esercito regolare, o cercasse di sottrarsi al servizio di leva. Nel 1860-61 i soldati piemontesi presenti nel sud erano 22.000, ma l’inasprirsi della guerra richiese l’invio di rinforzi, e le truppe raggiunsero quota 55.000 a fine 1861, diventarono 105.000 nel 1862, ed arrivarono a 120.000 (circa metà dell’intero esercito) negli anni successivi.

REPRESSIONE ECONOMICA

Il nuovo governo eliminò le antiche barriere doganali, cosa che provocò l’immediato fallimento di ogni industria del sud. La manifattura del nord conquistò automaticamente i mercati meridionali, arrivando in certi casi fino a riutilizzare i macchinari delle fabbriche dissolte. Il Mezzogiorno si ritrovò a riequilibrare la bilancia commerciale esportando derrate alimentari, a prezzi molto ridotti. L’esportazione di prodotti agricoli indispensabili alla popolazione, vietata sotto i Borbone, portò la fame fra il popolo, e servì solo a finanziare l’acquisto di beni di consumo della borghesia locale. Le terre appartenute alla nobiltà, al clero e allo stato borbone furono espropriate senza indennizzo, messe all’asta, e acquistate da capitali settentrionali. Il denaro liquido (monete d’oro), risultato di secoli di risparmio, fu ritirato dalla circolazione e sostituito da banconote, ma l’inflazione che seguì ne erose gravemente il valore. Contravvenendo alle sue stesse leggi, il governo centrale vietò che fosse la banca che aveva emesso le monete borboniche, il Banco delle Due Sicilie, ad incamerare l’oro ritirato dalla circolazione, equivalente a due miliardi e mezzo di lire di allora, e confiscò direttamente il ricavato. Si stima peraltro che la corruzione fu responsabile della perdita del 60 % di tale somma, ed il resto venne usato per onorare parte dei crediti che banche e risparmiatori europei reclamavano al governo sardo. Ancora oggi le banche italiane agiscono seguendo lo stesso schema, raccogliendo capitali dai piccoli risparmiatori nel meridione per investirli nelle aziende del settentrione. Tutti i provvedimenti che il governo prese fino al novecento favorirono il nord a spese del sud, come la tassa sul macinato, che gravava sull’unico prodotto meridionale, indispensabile oltretutto alla sopravvivenza della popolazione; come l’innalzamento delle imposte indirette, che colpì le fasce più povere della popolazione; o come gli accordi doganali con gli altri stati, che favorirono l’esportazione degli articoli manifatturieri del settentrione ma invasero il sud di prodotti stranieri.

L'INIZIO DELLA RIVOLTA 1860-1861

Già nell'ultima fase della spedizione dei mille i Borbone, asserragliati a nord del Volturno intorno a Gaeta, avevano deciso di fare ricorso a formazioni armate irregolari a supporto delle truppe regolari ancora attive tra il Sannio e l'Abruzzo, al fine di coprire il fianco rispetto all'avanzata verso sud dell'esercito sardo, guidato dal generale Enrico Cialdini. All'estremo sud continua a resistere, e lo farà sino alla primavera del 1861, la cittadella di Messina (che, già nel luglio 1860 aveva smesso di combattere, pattuendo di liberare la città e di non ostacolare Garibaldi nel passare lo stretto) e solo il 20 marzo 1861, tre giorni dopo la proclamazione dell'Unità d'Italia, si arrese la guarnigione della cittadella di Civitella del Tronto, al confine tra Abruzzo e Marche. A seguito della partenza dei Borbone di Napoli, dopo la sfortunata conclusione della battaglia del Volturno e dell'Assedio di Gaeta, il partito legittimista prese ad organizzarsi per tentare di cacciare l'invasore (supportati dai Borbone di Napoli, esuli a Roma, un poco dai Borbone di Spagna, dalla nobiltà legittimista e da parte del clero). Nelle formazioni irregolari, che la popolazione locale denominava masse, affluirono migliaia di uomini: ex soldati dell'esercito sconfitto e disciolto, coscritti che rifiutavano di servire sotto la bandiera italiana, popolazione rurale, banditi di professione e briganti stagionali, che si dedicavano già alle grassazioni nei periodi nei quali non potevano trovare impiego in agricoltura. Si registravano sollevazioni diffuse, seguite dal rovesciamento dei comitati insurrezionali, sostituiti con municipalità legittimiste. A Napoli, l'ex-capitale travagliata da una grave crisi economica, agiva la propaganda del comitato borbonico della città, che riuscì, perfino, a organizzare una manifestazione pubblica a favore della deposta dinastia. Nel mese di aprile venne sventata una cospirazione anti-unitaria e arrestate oltre seicento persone, fra cui 466 ufficiali e soldati del disciolto esercito borbonico. Nella primavera del 1861 la rivolta divampava ormai in tutto il Mezzogiorno continentale, assumendo spesso le forme di estese jacquerie contadine, per questo votate alla sconfitta nel loro impari confrontarsi con un moderno esercito calato in forze a combatterle. Si materializzava, tuttavia, il rischio concreto di un collegamento di tutte le formazioni della rivolta, dalla Calabria alle province contigue allo Stato Pontificio, dove risiedeva il re deposto, Francesco II, con un'azione centrata fra Irpinia e Lucania, ciò che condusse ad un incremento notevole sia delle forze impegnate, sia della ferocia con la quale la repressione delle insorgenze fu attuata.

LA REPRESSIONE DI CIALDINI1861-1864

Nell'agosto 1861 venne inviato a Napoli il generale Enrico Cialdini, con poteri eccezionali per affrontare l'emergenza del brigantaggio. Egli seppe rafforzare il partito sabaudo, arruolando militi del disciolto esercito meridionale di Garibaldi e perseguendo il clero e i nobili legittimisti. In una seconda fase, comandò una dura repressione messa in atto attraverso un sistematico ricorso ad arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, vaste azioni contro interi centri abitati: fucilazioni sommarie ed incendi di villaggi in cui si rifugiavano i briganti erano all'ordine del giorno, restano tristemente famosi il cannoneggiamento di Mola del 17 febbraio 1861, e gli eccidi di Casalduni e Pontelandolfo, nell'agosto 1861. L'obiettivo strategico consisteva nel ristabilire le vie di comunicazioni e conservare il controllo dei centri abitati. Le forze a sue disposizione consistevano in circa ventiduemila uomini, presto passate a cinquantamila unità nel dicembre del 1861. Gli strumenti a disposizione della repressione venivano, nel frattempo, incrementati, con la moltiplicazione delle taglie e l'istituto delle deportazioni (questa era la forma reale del domicilio coatto). Nell'agosto 1863 venne emanata la "famigerata" legge Pica. Tale legge, contraria a molte disposizioni costituzionali, colpiva non solo i presunti briganti, ma affidava ai tribunali militari anche i loro parenti e congiunti o semplici sospetti.

Tra il 1862 e 1863 le truppe dedicate alla repressione vennero aumentate sino a centocinquemila uomini (circa i due quinti delle forze armate italiane del tempo) ed il generale Cialdini poté riassumere l'iniziativa, giungendo ad eliminare le grandi bande a cavallo ed i loro migliori comandanti e, soprattutto, ad estinguere il cosiddetto "focolaio lucano".

LA CONTINUAZIONE SPORADICA DELLA RIVOLTA 1865-1870

Con le sue azioni, il Cialdini aveva raggiunto l'obiettivo strategico principale contro il brigantaggio, cancellando le premesse per una possibile sollevazione generale delle provincie meridionali: la rivolta non era ancora terminata, ma era venuto meno qualsiasi carattere di azione collettiva, si affievoliva l'appoggio popolare. Solo nel 1867 Francesco II delle Due Sicilie sciolse il governo borbonico in esilio. Continuava l'azione di poche ed isolate bande di irriducibili ma, vista l'impossibilità di ottenere risultati politici e per non logorarsi in un'eterna guerra civile, la spinta insurrezionale volgeva gradualmente al termine. Nel gennaio 1870 il governo italiano soppresse le zone militari nelle province meridionali, sancendo così la fine ufficiale del brigantaggio. ancora oggi.

IL DOPOGUERRA

Le devastazioni della guerra contro il brigantaggio furono talmente gravi che ancora oggi sono visibili. In tal senso si potrebbe affermare che il dopoguerra perdura ancora oggi, a un secolo e mezzo di distanza. Ad ogni modo nei decenni successivi alla repressione sabauda il meridione si ritrovò in una situazione di povertà estrema. Le direttive economiche della classe dirigente peggiorarono la situazione, tanto che a fine secolo i tassi di mortalità infantile o per certe malattie infettive aumentarono sensibilmente, come pure l’analfabetismo. L’emigrazione raggiunse ritmi frenetici, e la regione rimase esclusa da ogni commercio, sviluppo industriale o evento culturale. Per quasi un secolo scoppiarono epidemie e carestie, che regolarmente sfociavano in ribellioni più o meno gravi, sempre soffocate nel sangue. Il sud visse in un permanente stato di fermento ed insicurezza, fino a considerare le continue rivolte e repressioni come fatti ordinari. Al contrario, le regioni padane conobbero un moderato sviluppo industriale, una volta superate le crisi postbelliche ed il crack finanziario che ne seguì. Tale crescita non fece che accrescere il divario economico fra nord e sud.

IL NUOVO ORDINAMENTO

In seguito alla pacificazione della regione si sviluppò un dibattito politico in seno alla classe dirigente vincitrice in merito all’ordinamento che il Regno Italiano avrebbe dovuto assumere. Si creò una contesa fra federalisti, che volevano concedere una certa autonomia agli enti locali, e centralisti, che invece rivendicavano per il parlamento nazionale e la corona tutto il potere. Nel marzo 1861 il ministro dell'Interno, Marco Minghetti presentò un progetto di legge che prevedeva un notevole decentramento amministrativo. Il progetto Minghetti non superò l'esame delle commissioni parlamentari e in maggio venne ritirato "temporaneamente" dal Consiglio dei ministri. In realtà, le istanze dei federalisti vennero definitivamente abbandonate e l'applicazione delle leggi del Regno di Sardegna venne estesa al resto d'Italia. In giugno Cavour morì, ed in ottobre il nuovo presidente del consiglio Bettino Ricasoli estese a tutto il paese l'ordinamento locale piemontese, già stabilito con il decreto legge Rattazzi nel 1859. Lo Statuto Albertino, che datava del 1848 ed era stato pensato per il solo Piemonte, divenne così la costituzione di tutta l'Italia. I motivi per cui la monarchia e le classi al potere si decisero una gestione centralizzata furono molti:

· Un potere decentrato avrebbe potuto facilitare o addirittura scatenare nuove rivolte.

· Una leva centrale delle imposte avrebbe consentito un più ampio gettito fiscale per il governo, ed avrebbe consentito un maggiore dirottamento illecito dei fondi pubblici.

· Una gestione globale delle risorse avrebbe creato un margine di manovra più grande per dirigere l’economia secondo le linee guida decise dal governo.

· Un assetto federalista in uno stato monarchico avrebbe suggerito la presenza di nobili locali al posto di anonimi funzionari borghesi ai posti di comando nelle diverse regioni, e numerose dinastie, alcune spodestate da poco, erano pronte a reclamare feudi e diritti. La casata di Savoia, preoccupata di legittimare e consolidare il suo potere, fu molto sensibile a quest’argomento, e il Regno d’Italia si distinse dalle altre monarchie europee durante tutta la sua durata per l’esiguo numero di nobili, cosa che creò un vuoto istituzionale.

· Soprattutto, la classe dirigente era cosciente delle diversità linguistiche, storiche, sociali ed economiche che dividevano il paese, e sperava che un governo centralizzato avrebbe fuso le diverse identità locali in un’unica coscienza nazionale. Concretamente, però, ben poco fu intrapreso in tale direzione.

TENTATIVO DI ASSIMILAZIONE

Le varie leggi che cercarono di istituire una, seppur minima, istruzione gratuita ed obbligatoria, vennero semplicemente ignorate, particolarmente al sud, dove solo nel novecento si arrivò ad una sporadica creazione di scuole. Bisognerà aspettare il fascismo per assistere ad un’istruzione di base, il secondo dopoguerra per un’istruzione di massa, e la televisione per assistere all’utilizzo dell’italiano in sostituzione dei vari dialetti. Sul versante storiografico si cercò sistematicamente di falsificare i fatti: come sempre accade i vincitori furono descritti come eroi, i vinti come criminali. Ma a facilitare il compito contribuì soprattutto l’esilio e la soppressione della già esigua élite del Regno delle Due Sicilie. Solo a partire dall’epoca giolittiana il governo centrale fece un primo tentennante interessamento (positivo) verso il meridione. Benché non abbia ridotto la povertà o l’emigrazione, nei primi anni del novecento si dotò il sud di amministrazioni pubbliche analoghe a quelle del nord, cosa che portò all’assunzione di un certo numero di impiegati statali. La cosa si accompagnò alla corruzione e al nepotismo che ancora oggi contraddistinguono l’Italia, ma si trattò pur sempre di una modesta somma di denaro che la fiscalità nazionale rimetteva in circolo al sud. Fu sempre merito del governo centrale se nel 1911, quando lo stato prese in carico l’istruzione elementare, fino ad allora prerogativa dei comuni, il Mezzogiorno vide le prime, seppur rare, scuole elementari, e l’analfabetismo incominciò a diminuire anziché aumentare come avvenuto dall’Unità fino ad allora.

LA PRIMA GUERRA MONDIALE

La Prima Guerra Mondiale vide l’Italia combattere contro l’Austria-Ungheria. Sebbene il conflitto avesse prosciugato le risorse di tutto il paese, il meridione ne risentì il peso più delle aree maggiormente sviluppate. Le commesse belliche, infatti, si concentrarono nelle poche provincie industrializzate, ciò che ne favorì un significativo incremento della produzione industriale. Mentre le vaste regioni a prevalenza agricola (fra le quali il mezzogiorno) ebbero solo a soffrire del richiamo alle armi dei giovani, senza significative ricadute produttive. A guerra finita, poi, com'era giusto e normale, i fondi derivanti dalle riparazioni di guerra furono largamente utilizzati per la ricostruzione delle provincie venete, giuliane e trentine distrutte da cinque anni di combattimenti.

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

La Seconda Guerra Mondiale, esattamente come la Prima, sfavorì più il sud che il nord. Ma questa volta le disparità che ne risultarono, più che economiche, furono di carattere politico. Nel 1943 gli alleati stavano preparando lo sbarco in Sicilia per invadere l’Italia, e, tramite i clan operanti negli Stati Uniti, trovarono un’alleata nella mafia, che si offrì di fornire informazioni strategiche e legittimazione morale agli invasori in cambio del controllo civile del sud Italia. Il comando alleato accettò, e così le zone via via conquistate da questi passarono sotto il controllo dei vari clan mafiosi, che approfittarono della fase per consolidare, anche militarmente, il loro potere. Quando poi, a guerra finita, i Savoia cercarono di riprendere il controllo del paese, il sud si ribellò nuovamente, e le montagne tornarono a riempirsi di bande di partigiani che combattevano il potere centrale. La resistenza si dimostrò particolarmente dura in Sicilia, dove i ribelli chiedevano l’indipendenza dell’isola o l’annessione come 49° stato agli Stati Uniti.

Questa volta, però, l’approccio dello stato fu radicalmente diverso, e non si ripeterono le stragi precedenti. Il governo provvisorio decise di non reprimere il movimento, che peraltro non aveva contenuti o rivendicazioni sociali, ma di corromperlo. Grosse quote del piano Marshall furono dirottate verso le zone in fermento, e la protesta venne privata dell’interessamento attivo della popolazione. I capi banda vennero pagati per deporre le armi, e, attraverso manovre politiche complesse, si convinsero alcune delle bande rimaste, pagandole, a compiere attentati contro la popolazione civile, che finì per isolare i gruppi armati. Parallelamente si scatenò una campagna stampa denigratoria nei confronti degli insorti. Per finire la nuova costituzione repubblicana concesse, almeno in teoria, una certa autonomia alla Sicilia, cosa che privò gli ultimi ribelli di ogni legittimazione politica. Le poche bande rimaste vennero individuate ed eliminate nell’indifferenza della popolazione. Come ottant’anni prima, però, la mafia aveva già preso le distanze dai gruppi armati, ritornando in clandestinità e confondendosi fra la popolazione. Parte integrante di questa strategia è la collaborazione della gente ordinaria, particolarmente attraverso l’omertà, ovvero il fatto di ostacolare la forza pubblica nascondendo o tacendo informazioni sensibili.

STORIOGRAFIA DEL PROBLEMA

L’interpretazione della Questione meridionale ha vissuto profonde evoluzioni nel tempo. Originalmente il dibattito era fortemente influenzato dalla censura e propaganda della corona sabauda, preoccupata di legittimare la conquista, l’annessione e lo sfruttamento del sud. Tale censura ha impedito che ci pervengano fino ad oggi documenti attendibili su molti aspetti, come il numero di vittime della repressione. Anche dopo la fine del regno i dati storiografici disponibili impedirono una corretta lettura degli eventi. È solo recentemente che nuovi studi hanno messo in causa la visione classica della vicenda, e certi fatti, come lo stato economico del Regno delle Due Sicilie o il brigantaggio hanno preso un’altra dimensione. Oggigiorno tesi come l’inferiorità genetica delle popolazioni del sud Italia, una volta abbastanza consensuali, non sono più accettate accademicamente.

Si possono comunque distinguere due approcci principali, che ricalcano in grosse linee dibattiti ideologici e politici più ampi.

· La storiografia classica, così chiamata perché nata prima, tende a vedere l’arretratezza del Mezzogiorno come segno di un’evoluzione atipica o ritardata, dove altre condizioni avrebbero permesso alla regione di inserirsi con successo in una dinamica di crescita e di integrazione.

· La storiografia moderna, così chiamata perché proposta a partire da Gramsci e Salvemini, vede il persistere della miseria come una componente essenziale del capitalismo, che è basato sulle dualità sfruttatore - sfruttato, sviluppo - sottosviluppo, anche su base geografica.

RAZZISMO

Prima ancora dell’Unità le élite del nord Italia guardavano con superiorità e a volte disprezzo il sud e i suoi abitanti. I diversi stati settentrionali godevano di alleanze più strette con le potenze dell’Europa occidentale, sperimentavano un certo sviluppo industriale e rivendicavano una posizione più indipendente rispetto alla religione ed al clero, e questi fattori li spingevano a considerarsi più simili fra di loro di quanto non lo fossero con il Regno delle Due Sicilie o lo Stato della Chiesa. Soprattutto, questa polarità veniva interpretata come segno dell’inferiorità del sud rispetto al nord. Durante eventi che misero affianco gente proveniente da tutto il paese, come le due guerre mondiali, le differenze di mentalità, livello di istruzione e posizione sociale sottolinearono la polarità economica nord - sud, ma fu negli anni 1960 e 1970 che la tensione raggiunse il suo apice. L’emigrazione massiccia di contadini o sottoproletari dal sud al nord si accompagnò di difficoltà materiali estreme per i nuovi arrivati e mise in luce comportamenti di manifesta discriminazione e xenofobia nei loro confronti. Si diffuse il termine dispregiativo “terroni” per designarli, e fu creato il partito politico Lega Nord - Lega Lombarda allo scopo di combatterli ed espellerli.

Negli anni 1990 e 2000 questa attitudine si attenuò lievemente a causa dell’afflusso in Italia d’immigranti provenienti dal Terzo Mondo, che occuparono gli ultimi scalini della società e diventarono il bersaglio principale degli attacchi razzisti. Tuttavia, sebbene questa idea di superiorità del nord sul sud abbia subìto costanti evoluzioni nel tempo, ed abbia fatto appello successivamente a spiegazioni genetiche, poi culturali, poi storiche ed economiche, ancora oggi perdura.

SITUAZIONE ATTUALE

In termini assoluti la situazione economica del meridione è indubbiamente migliorata negli ultimi sessant’anni; in termini relativi, però, il divario con il nord è drasticamente aumentato. Anche inglobato nell’Unione Europea, difficilmente il Mezzogiorno potrà conoscere uno sviluppo economico in tempi brevi. Non già per la mole di lavoro che ciò comporterebbe, quanto perché mancano le premesse e la volontà. Ancora oggi vari problemi strutturali ipotecano le sue possibilità di progresso economico: il basso livello d’istruzione, la mancanza d’infrastrutture, la scarsità di risorse naturali, la mediocre fertilità delle terre. Ma a bloccare l’idea stessa di sviluppo capitalistico sono soprattutto meccanismi sociali: l’influenza della criminalità organizzata, la mancanza di uno spirito imprenditoriale, la negazione di un’identità culturale incarnata da una borghesia locale.

Di sicuro la Questione meridionale sarà un tema di attualità per decenni e decenni a venire.

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