AREA SALUTE:   patologie, prevenzione , cure

        Le indicazioni e le notizie riportate in queste pagine vengono fornite al solo scopo informativo e non possono sostituire la consulenza di un medico. Ricordate che l'autodiagnosi e l'autoterapia possono essere pericolose. Solo il vostro medico di fiducia potrà esservi di aiuto. 

Le vitamine   (A-E-C, effetti benefici e collaterali)

Diabete: le varie tipologie

La postura giusta

Malattie respiratorie: asma

Acne: vere e false convinzioni

Rimarginazione delle ferite

La congiuntivite

Le proprietà del progesterone

Xeroftalmia  (lacrimazione)

Studi sui materiali biocompatibili

Artrite reumatoide

La calcolosi

   Le stenosi dell'uretra

La colonna vertebrale e i dolori

  Tumore del rene

Il melanoma maligno

  Nuove linee per cura ipertensione

Il fuoco di Sant'Antonio (herpes zoster)

  Depressione e disturbi somatici

Varicocele

  Il disturbo borderline della personalità  
  Attacco di panico  
   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La vitamina  E

 Oppure  tocoferolo.  (Tocoferolo significa "utile alla gravidanza")

Tutti i  benefici   che può apportare alla nostra salute la  regolare assunzione di questa vitamina . Dosi consigliate per bambini e adulti con particolare attenzione alle controindicazioni riferite a possibili patologie presenti.

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La vitamina E, liposolubile, è composta da un gruppo di componenti chiamati tocoferoli. Esistono sette tipi di tocoferolo in natura: alfa, beta, delta, ipsilon, eta, gamma e zeta. Di queste   l’alfa-tocoferolo è la forma più potente di vitamina E ed ha un alto valore biologico e nutritivo.

E' solubile nei grassi e olii. E' la vitamina antiossidante per eccellenza, protegge i lipidi delle membrane cellulari l'LDL (lipoproteine a bassa densità), principale bersaglio dei radicali liberi.

Grazie alla carnosina (enzima) fa piazza pulita dei radicali liberi.

In particolare è  attiva contro i radicali liberi derivanti dall'ossigeno (quindi anche l'anione superossido). Utile nella prevenzione dell'arteriosclerosi, efficace nelle malattie cardiovascolari, fondamentale nella prevenzione del cancro, indispensabile per il corretto funzionamento dei muscoli, migliora il sistema immunitario, necessaria per una adeguata funzionalità dell'apparato riproduttivo.

Topicamente l'alfa-tocoferilacetato se ben veicolato è senz'altro assorbito dalla pelle, ha azione idratante, seboregolatrice, antinfiammatoria e lenitiva. Applicata sulla cute riduce la formazione di lipoperossidi e rallenta il fotoinvecchiamento. La vitamina E e la vitamina C combinate insieme, proteggono le componenti idrofile e lipofile della cute, riducendo i danni indotti da UVA, UVB.

Ottima fonte vegetale di vitamina E è l'olio di germe di grano.

E' termostabile, sensibile alla luce. Si deposita nel fegato, nel tessuto adiposo dell'ipofisi, ghiandole surrenali, utero e testicoli. Non sono dimostrati disturbi da eccessi di assunzione.

Si trova anche negli olii vegetali spremuti a freddo (soia, arachidi, mais, olive, etc.), nel tuorlo d'uovo, nei semi interi e noci, etc.

Il fabbisogno giornaliero per gli adulti è di 10 mg. Il fabbisogno è di gran lunga superiore quando desideriamo utilizzare le sue proprietà antiossidanti per rafforzare le difese, prevenire il cancro, le malattie cardiovascolari, etc.

Circa il 90 % si perde nel processo di macinazione del grano.

La vitamina E è un’antitrombina altamente efficace nella corrente sanguigna, poiché inibisce la coagulazione del sangue e così previene la formazione di trombi.

La vitamina E impedisce che avvenga l’ossidazione dell’ormone pituitario e surrenale e stimola un perfetto funzionamento dell’acido linoleico, un acido grasso insaturo. Poiché l’ossidazione provoca l’invecchiamento delle cellule, la vitamina E ne ritarda il processo.

 è in grado di migliorare la messa a fuoco della vista nelle persone di mezza età.

Stimola la secrezione urinaria, aiutando i pazienti cardiopatici i cui tessuti corporei contengono una quantità eccessiva di liquidi (edema). In qualità di diuretico la vitamina E è efficace per riequilibrare l’ipertensione.

Le forme di vitamina E migliori da cercare negli integratori sono d-alfa tocoferolo acetato, d-alfa tocoferilo succinato, dl-alfa tocoferilo acetato e dl-alfa tocoferilo succinato.

Eccessivi quantitativi di grassi polinsaturi o oli nella dieta aumentano il tasso di ossidazione della vitamina E; più grassi insaturi si consumano, più aumenta il fabbisogno di vitamina E.

La vitamina E viene distrutta da qualunque tipo di frittura, dai raggi ultravioletti, dall’ambiente alcalino (come il bicarbonato di sodio), dall’ossigeno e dai sali ferrosi. Gli alimenti che contengono grandi quantità di vitamina C possono favorire l’assorbimento della vitamina E (i broccoli e il cavolfiore per esempio, che contengono entrambi anche la vitamina E).

 Perché gli effetti benefici di questa vitamina si manifestino ci vuole tempo, qualche volta mesi. I dosaggi sino a 600 UI al giorno non sono considerati tossici. E’ stato scoperto che il selenio aumenta l’efficacia della vitamina E, è quindi consigliabile assumere le due sostanze insieme.

POSOLOGIA

Le dosi consigliate per i neonati sono di 4-5 UI al giorno e non devono in ogni caso superare le 50 UI; l’efficacia è maggiore assumendo sino a 50 microgrammi di selenio;

per i bambini sino a quattro anni sono consigliate 10 UI al giorno; per i bambini e gli adolescenti la dose consigliata è di 30 UI e non deve mai superare le 200 UI al giorno; per i bambini sotto i sette anni la dose di selenio non deve superare i 100 microgrammi;

per i maschi adulti (la quantità di selenio per tutti gli adulti va dai 50 ai 200 microgrammi al giorno) è di 15 UI;

 per le donne di 12 UI. Nelle donne durante il periodo di gravidanza e di allattamento il fabbisogno aumenta a 30 UI al giorno.

La vitamina E somministrata ad alti dosaggi tende a far aumentare la pressione sanguigna a pazienti il cui organismo non è abituato a massicce assunzioni di tale sostanza;

    L’assunzione di estrogeni, presenti nella pillola contraccettiva,      può neutralizzare l’effetto della vitamina.

La vitamina E non viene considerata tossica, eccetto che in due condizioni: per i pazienti ipertesi  e per pazienti in fase iniziale di reumatismo cardiaco cronico, poiché la somministrazione di alti dosaggi potrebbe causare loro un rapido peggioramento e portarli alla morte.

 I diabetici dovrebbero evitare l’assunzione di dosaggi elevati. Prima di iniziare una terapia consultate il vostro medico per il dosaggio ideale.

Un ritardo nella cicatrizzazione delle ferite è stato notato negli animali (la vitamina E inibisce la sintesi del collagene), ma non crea problemi in persone normalmente sane. I sintomi di intossicazione sono stanchezza, nausea, disturbi digestivi, problemi alla pelle, ferite e bruciature che non guariscono, o emorragie inspiegabili.

La vitamina E è un potente immuno-stimolante; le persone che hanno alti livelli di vitamina E nel sangue hanno ottimi livelli di funzionalità immunitaria. Dato che si conoscono le proprietà protettive della vitamina E nei confronti dei globuli rossi, si pensa che anche i globuli bianchi siano coperti. Le persone anziane hanno tratto grande beneficio dalle proprietà immunitarie della vitamina E. Dato che la concentrazione della vitamina E diminuisce con l’invecchiamento, l’integrazione può essere di aiuto nei casi di cambiamento dell’epitelio pigmentato della retina accompagnato da diminuzione della vista.

La vitamina E permette lo scioglimento dei trombi nelle arterie. L’angina pectoris, un dolore al torace che si manifesta in seguito ad un insufficiente apporto di sangue ai tessuti cardiaci, viene trattata con successo con l’alfa-tocoferolo.

 Le vitamine A ed E possono rivelarsi efficaci nel diminuire il tasso di colesterolo nel sangue, evitando depositi di grasso. Le vitamine, in generale, aiutano a rimuovere gli eccessivi accumuli di colesterolo depositati sulle pareti arteriose. Le ricerche eseguite in questo senso hanno dato risultati misti, ma è stato scoperto che 500 UI al giorno aumentano il colesterolo HDL (quello buono), mentre quantità superiori possono aumentare il colesterolo LDL (quello cattivo).

La vitamina E è in grado di apportare miglioramento nei casi di claudicazione intermittente, un dolore acuto dei muscoli del polpaccio, che si manifesta in seguito ad un apporto insufficiente di sangue provocato da spasmo arterioso, “gamba senza riposo”. Essa allevia il dolore alle estremità, accelera il flusso sanguigno e riduce la formazione di trombi.

In passato si riteneva che la vitamina E potesse rimarginare ustioni, ulcere della pelle ed abrasioni, ma non ci sono prove scientifiche di queste proprietà, né del fatto che elimini il tessuto cicatriziale sulla pelle o sulle pareti arteriose. Si riteneva anche che la vitamina E aumentasse la potenza sessuale e le dimensioni dell’organo sessuale maschile, ma anche in questo caso non esistono prove scientifiche. Negli studi sugli animali la somministrazione di vitamina E ha effetti sorprendenti sull’apparato riproduttivo: aumenta la fertilità maschile e femminile e aiuta recuperare la potenza sessuale maschile.

Le persone con alti livelli di vitamina E nel sangue hanno due volte e mezzo meno probabilità di ammalarsi di tumore al polmone. Un’assunzione adeguata di vitamina E, che si comporta da spazzino di radicali liberi, protegge dal tumore.

 In alcuni studi effettuati sugli animali, è stato scoperto che la vitamina E protegge dalle tossine dell’ozono e dal diossido di azoto (componenti dello smog), un effetto benefico per chi vive in città.

 L’assunzione di estrogeni tramite pillole antifecondative può neutralizzare gli effetti della vitamina E ed aumentare la raccolta di fibrina, proteina insolubile che stimola la coagulazione del sangue o l’eventuale formazione di trombi. L’elevata quantità di fibrina aumenta la possibilità di tromboembolia ed il blocco dei vasi sanguigni.

Gli effetti del fumo di sigaretta possono essere diminuiti da livelli adeguati di antiossidanti, dei quali fa parte la vitamina E; l’uso di integratori è essenziale per i fumatori. Il monossido di carbonio del fumo di sigaretta distrugge la capacità dell’emoglobina di trasportare l’ossigeno nel sangue.

 

   successivo    (no all'eccesso di vitamina E)

 

 

 

 

   

Bocciata la vitamina E

  Dagli Stati Uniti ecco una precisazione riguardo LE VITAMINE. Se non si hanno particolari problemi di salute, si possono tranquillamente dimenticare tutti gli antiossidanti a base di   VITAMINA E,   perché pare che sulle persone sane abbiano lo stesso effetto dell’acqua fresca.

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Incomincia a incrinarsi la solida convinzione che  la vitamina E e la vitamina C, erano la panacea di tutti i mali. A scagliare la prima pietra di un certo peso ci ha pensato Emma Meagher dell’Università della Pennsylvania di Filadelfia, negli Stati Uniti.

 "Anche se lo stress ossidativo può giocare un ruolo importante nello sviluppo e nella progressione di molte patologie, come l’Alzheimer, l’aterosclerosi e molti tumori" scrive la ricercatrice sulle pagine di JAMA "gli studi condotti sugli effetti degli antiossidanti e in particolare sulla vitamina E hanno fornito risultati per lo più discordanti".

Per trovare il bandolo della matassa, Meagher e i suoi collaboratori non si sono limitati a eseguire l’ennesimo studio prospettico o clinico per verificare gli effetti generali degli antiossidanti. "Il limite maggiore di questi studi" spiega infatti la ricercatrice "è la mancanza di ricerche che dimostrino l’effetto di questa vitamina sul metabolismo ossidoriduttivo".

Con uno studio randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo, Meagher ha dimostrato che la vitamina E, somministrata a dosi diversificate da 200 a 2.000 unità internazionali al giorno, non è in grado di variare in positivo il bilancio ossidoriduttivo dell’organismo.

Per giungere a questa conclusione, la ricercatrice ha somministrato vitamina E per otto settimane ai volontari, il tempo necessario per raggiungere lo stato di equilibrio della sua concentrazione nelle membrane cellulari.  "Dopo aver verificato che la concentrazione ematica di vitamina E era dose dipendente" spiega la ricercatrice d’oltreoceano "abbiamo misurato le concentrazioni di 4 idrossi nonenale e di due isoprostanoidi" prodotti del metabolismo lipidico che aumentano la loro concentrazione nelle urine in relazione alla presenza di radicali liberi nell’organismo. 

Questi marcatori sono già stati utilizzati in passato dal gruppo di ricerca coordinato da Meagher per dimostrare l’incremento di radicali liberi nei fumatori, negli alcolisti e durante gli eventi infiammatori.

Ma non solo. "In una ricerca recente abbiamo dimostrato che la vitamina E, sia da sola sia in associazione con la vitamina C, riduce la presenza di isoprostanoidi nei malati di cirrosi epatica di origine virale, nei casi di sindrome antifosfolipidi e nelle persone affette da broncopatia cronica ostruttiva.

Ma nelle persone sane è invece tutta un’altra faccenda, perché nonostante i livelli ematici di vitamina E avessero raggiunto un valore cinque volte superiore alle concentrazioni fisiologiche, non abbiamo riscontrato alcuna diminuzione dei livelli di questi indicatori nelle persone trattate in questo studio" puntualizza la Meagher.

Questa ricerca potrebbe rivoltare come un guanto i risultati di numerosi trial clinici, che sono stati condotti senza tenere conto dei parametri biochimici dello stato ossidativo. Non è infati dimostrabile alcun effetto addizionale legato alla vitamina E contenuta negli integratori. Anzi, nonostante il numero di persone coinvolte nello studio sia ristretto, i risultati sono in grado di mettere in discussione i benefici potenziali degli integratori vitaminici per gli individui sani".

Quindi la ricercatrice sottolinea la necessità di rivedere le abitudini, diffuse in tutto il mondo occidentale, di assumere integratori vitaminici come se fossero indispensabili per riequilibrare il proprio apporto nutrizionale. "Una dieta occidentale media" mette in guardia la Meagher "fornisce un apporto giornaliero di vitamina E sufficiente per le esigenze dell’organismo". 

     successivo  (la vitamina C)

 

   

  

 

 

 

Vitamina C

Una sorprendente potenziale funzione della vitamina C:

aiuta a far entrare i farmaci nel cervello
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Un gruppo di ricerca italiano ha annunciato una sorprendente potenziale funzione della vitamina C: potrebbe essere il mezzo per far arrivare al cervello importanti farmaci che oggi vengono respinti dalla barriera emato-encefalica.

 "I risultati sono estremamente preliminari -ha dichiarato il professor Stefano Manfredini dell'Università di Ferrara, coordinatore dello studio - possiamo dire di aver aperto una porta su una nuova strategia per veicolare farmaci al sistema nervoso centrale e di aver scoperto una nuova possibile applicazione della vitamina C".

I risultati sono frutto di una stretta collaborazione interdisciplinare che ha visto coinvolti il Medical College of Georgia, USA, i gruppi di ricerca di Fisiologia, Farmacologia e Tecnica Farmaceutica della Facoltà di Farmacia dell'Università di Ferrara. L'idea è partita dalla considerazione che trasportatori di nutrienti endogeni possono essere utilizzati per veicolare farmaci che non sono in grado di attraversare la barriera emato-encefalica ma che sono potenzialmente utili per il trattamento di patologie cerebrali

 

   successivo       (LA VITAMINA A)

 

 

 

 

 

Vitamina A (retinolo)

La vitamina A serve a............

La carenza  può comportare......

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Si può trovare  nel fegato, olio di merluzzo, uova, latticini; nella frutta e negli ortaggi giallo-arancioni (pomodoro, carota, peperone, zucca, albicocca), ma anche in alcuni ortaggi a foglia verde (prezzemolo, spinaci, cicoria, beta) è presente il beta-carotene che è una provitamina, cioè il nostro fegato è in grado d trasformarla in vitamina A.

La vitamina A serve a........

• buon funzionamento della vista e quindi ne previene molti disturbi;
• combatte parecchi tipi di infezione in particolare dell'apparato respiratorio
• aiuta a mantenere la pelle e le mucose sane
• aiuta a prevenire le malattie cardiocircolatorie
• collabora al buon funzionamento del sistema immunitario
• è importante durante le fasi della crescita perché aiuta ad avere denti sani e ossa forti

La carenza di vitamina A può comportare:

• problemi alla vista: dal peggioramento della visione notturna fino al rischio di ulcere alla cornea
• pelle secca e precocemente invecchiata e maggiore predisposizione alle malattie dermatologiche
• disturbi nella crescita
• bassa resistenza alle infezioni

Alcuni integratori di vitamina A sono:

• Olio di fegato di pesce: non è sicuramente un piacere berlo, ma è l'integratore per eccellenza di vitamina A. Da utilizzare nei casi di carenze più gravi.
• Perle di carota: sono dei riequilibranti eccezionali e non hanno il sapore terribile dell'olio di pesce.
•Betacarotene: se associato alla vitamina C aumenta l'assimilazione della vitamina A - quindi scegliete quelli combinati

 Per soddisfare il bisogno giornaliero bisogna assumere da 0,001 a 100 mg di vitamine al giorno.

 

  successivo  (patologie per mancanza delle vitamine)

 

 

 

 

 

Se mancano le vitamine......

Con la carenza di  vitamine si notano dei  sintomi.....e si rischiano patologie........

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 La vitamina A

Una sua carenza rende la pelle rugosa e predispone a malattie dermatologiche, facilita l'arrossamento degli occhi e aumenta la loro irritabilità e la sensibilità alla luce, abbassa la visione notturna. La carenza di vitamina A, insieme alla D, può determinare danni seri (disturbi al fegato, fenomeni depressivi, danni alle articolazioni, alle ossa nelle donne in menopausa e in gravidanza al feto). Riduce la resistenza alle infezioni. In caso di carenze più gravi l’olio di fegato di pesce è l'integratore di vitamina A più consigliato, anche se berlo non è per niente un piacere. In alternativa si può ricorrere alle perle di carota, eccellenti riequilibranti ma che non hanno il cattivo sapore dell'olio di pesce.

 
La vitamina C
La sua carenza è conseguenza di una dieta povera di frutta e verdura, specie in alcuni periodi che necessitano di un aumento della dose giornaliera di vitamina C. Quando la carenza è grave, anemia e indebolimento di denti, ossa, gengive e vasi sanguigni le conseguenze. Se la carenza è lieve, la persona colpita sviluppa una scarsa resistenza alle infezioni. Possono verificarsi emorragie, le gengive cominciamo a sanguinare. Irritabilità o al contrario depressione possono fare la loro comparsa.

 La vitamina B12
Anemia, anomalie nella crescita, depressione e sbalzi d'umore, perdita di memoria sono i sintomi della carenza di questa vitamina.

 
La vitamina D
La carenza di vitamina D si manifesta con
carie dentarie, rachitismo e problemi in generale allo sviluppo scheletrico e muscolare.

 La vitamina E

E’ una carenza che si verifica raramente grazie alla presenza dell'olio d'oliva nella nostra dieta di tutti i giorni, una leggera carenza può comportare: anemia, problemi cardiovascolari e distrofia muscolare, sterilità, impotenza e aborti spontanei

 La vitamina K
La carenza di vitamina K può condurre a
problemi di osteoporosi e difficoltà durante la ricalcificazione delle fratture ossee.
Emorragie nasali e alle gengive, mancata cicatrizzazione delle ferite gli altri sintomi.

 

 successivo   (importanza della giusta postura)

 

 

 

 

 

Attenti alla postura
Sergio Salteri

Il Sistema Nervoso Centrale utilizza le informazioni ricevute da OCCHIO, PIANTA DEI PIEDI, CUTE per poter impostare correttamente quanto voluto nei confronti nel mondo esterno e di se stesso. Se, nel tempo, sorgono problemi a qualsiasi livello, subito il ‘SISTEMA’ cercherà di compensarlo in qualche modo (spalla più alta, rotazioni del bacino,.......... ) fino a quando potrà.    Ad un certo punto però questa capacità di compensare trova il suo limite e compariranno le prime avvisaglie come fossero una sirene d’allarme:

CEFALEE, CERVICALGIE, NEVRALGIE, DIFETTI DI MASTICAZIONE E DELL’OCCLUSIONE DENTALE, DORSALGIE, LOMBALGIE...............

(consigli per la prevenione)


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 .........LOMBOSCIATALGIE, DOLORI ALLE SPALLE, ALLE BRACCIA, ALLE ANCHE, ALLE GINOCCHIA, ALLE CAVIGLIE) ma anche disturbi meno noti (difficoltà di guidare di notte o di concentrazione nella lettura, maldestrezza, clic mandibolari,…): tutte PATOLOGIE CHE COMPLICANO E CONDIZIONANO NOTEVOLMENTE LA VITA QUOTIDIANA e la nostra PSICHE, di conseguenza. E’ fondamentale a questo punto, agire ai vari livelli, IN COLLABORAZIONE COORDINATA CON ALTRI PROFESSIONISTI, per correggere e cercare di RIPROGRAMMARE IL ‘SISTEMA’.

La POSTUROLOGIA NON E’ UNA DISCIPLINA A SE STANTE: proprio per questo il medico che se ne occupa cerca di riunire in un unico ragionamento concetti di oculistica, di neurologia, di odontoiatria, di fisiatria , otorinolaringoiatria, in modo da stilare una DIAGNOSI E DELLE PRIORITA’ DI TRATTAMENTO. IL MEDICO quindi che studia la postura potrà chiedere ad un Paziente di ricorrere anche ad ALTRI PROFESSIONISTI quali L’OCULISTA, L’ORTOTTISTA, (L’EDUCATORE VISIVO), IL DENTISTA, IL LOGOPEDISTA, L’OTORINOLARINGOIATRA,…e/o di effettuare manipolazioni vertebro-articolari secondo precise tecniche il più possibile prive di rischi ed in ogni caso incruente e non dolorose.

LA POSTUROLOGIA CERCA, AFFRONTANDO IL PROBLEMA A LIVELLO DELLA CAUSA, DI DARE RISPOSTE AGLI EFFETTI E QUINDI ALLA SINTOMATOLOGIA.

              CONSIGLI UTILI PER LA PREVENZIONE

-      Non tenere mai il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni o della gonna: farebbero da ‘perno’ per il vostro bacino che potrebbe ‘bloccarsi’!

       -Praticate attività motoria e fate attenzione al sovrappeso eccessivo

       -In auto sistemate il sedile, che non deve avere problemi strutturali, in modo corretto, così da assumere una posizione comoda con arti semiflessi

        -Quando rimanete in piedi fermi alternare il carico su entrambe le gambe. Quando stirate procuratevi uno sgabello (ma è sufficiente anche una scatola da scarpe) di 10-15 cm sul quale appoggiare alternativamente il piede; in alternativa allargate i piedi

       -Quando trasportate pesi cercate di distribuirne il carico su entrambe le braccia

        -Quando sollevate pesi rimanete con la schiena dritta e sollevatevi piegando le gambe dopo aver avvicinato il peso stesso il più possibile ai piedi

        -Quando spostate grandi oggetti (es. armadio) fatelo spingendo con la schiena

        -In posizione seduta mantenere la schiena dritta senza rimanere con il collo piegato e non accavallate le gambe

         - L’altezza del piano di lavoro da seduti deve essere variata in base all’altezza secondo il seguente schema (tra parentesi l’altezza del piano del tavolo):

             1,65 (80); 1,70 (82); 1,75 (84) ; 1,80 (86) ; 1,85 (88) ; 1,90 (90)

         -L’altezza del piano di lavoro in piedi deve essere variata in base alla Vostra altezza secondo il seguente  schema:

          1,65 (103); 1,70 (105); 1,75 (107) ; 1,80 (110) ; 1,85 (13) ; 1,90 (115)

       - Meglio lavatrici con carica dall’alto.  In alternativa, quando la svuotate la lavatrice, mettetevi in ginocchio.

       - I piani della cucina, generalmente sono a 86cm di altezza, misura non ottimale per il mantenimento corretto della postura eretta: devono essere adeguati alle Vostre esigenze

       - I lavelli del bagno sono sempre stati posizionati a 84cm di altezza: ciò favorisce il tristemente famoso colpo della strega, quando al mattino ci si lava il viso, al momento del raddrizzamento: occorrono almeno 94cm di partenza; per i bambini verrà utilizzata una pedana di legno

       - I letti sono tutti bassi perché così ha voluto l’industria dell’arredamento: è consigliabile usare piumoni per evitare che nello svolgimento delle faccende domestiche si debba lavorare troppo in flessione. Meglio sarebbe alzare il letto sino ad 80cm per due motivi: ci si alza e ci si siede meglio e si rifà il letto a schiena protetta

      - Sono da evitare i letti troppo morbidi o troppo duri e le assi di truciolare perché non lasciano traspirare e non sono molto elastiche

      -Quando la sera si va a letto togliere tutti i metalli (anelli, collane, orologi,…) per evitare i c.d. microgalvanismi: vere e proprie correnti elettriche tra metalli che potrebbero provocare contratture muscolari e insonnia

      -scendere dal letto con cautela sedendosi prima e poi alzandosi con calma facendo perno sulle mani per evitare il c.d. ‘colpo della strega’

       -quando rifate il letto appoggiate il ginocchio della gamba più vicino al letto sul letto stesso in modo da far perno su questo e non sul tratto lombare della colonna

       - No€n guardare la televisione o leggere a letto rimanendo con il capo flesso per non sovraccaricare le vertebre cervicali

       - le calzature indossate devono sempre avere le suole integre e simmetriche, soprattutto la suola interna, in senso trasversale, deve essere completamente piatta (importantissimo soprattutto per i bambini, che DEVONO avere piede piatto fino ai quattro-cinque anni!): se è presente un rialzo  solitamente interno, tagliarlo con un taglierino o togliere proprio la soletta interna.

      - Quando acquistate le scarpe non limitatevi alla ‘solita taglia’ (adattereste il piede alla scarpa e non viceversa) ma trovate la scarpa giusta per Voi appoggiando il piede sopra di essa.

      - Per gli sportivi è estremamente importante togliere qualsiasi soletta ‘a stampo’ o ‘anatomica’ in quanto creerà una ‘cecità’ sensoriale alla pianta del piede che comprometterà lo schema corporeo pregiudicando il rendimento muscolare e quindi la prestazione.

       - Il forno dovrà essere sempre staccato dal blocco dei fornelli e posizionato a 1m di altezza

       - La parte inferiore dei mobili deve avere uno spazio sufficiente per permettere alla parte anteriore del piede di avanzare, evitando posizioni erette inclinate in avanti

       - Il manico della scopa e dello spazzolone per pavimenti deve essere allungato a 1,80m circa.

        - attenzione all’aria condizionata in auto e negli ambienti: non sia mai indirizzata contro il vostro corpo e non esagerate …con il freddo

       - Non rimanere mai con i denti serrati, non mangiarsi le unghie, succhiare penne, mordicchiare il labbro: tutto ciò crea contratture inutili e dannose

      - Ricordatevi che la natura vi dà tutti i denti e per 24 ore al giorno: fatevi rimettere tutti i denti mancanti e non togliete mai la dentiera di notte. La mancanza di denti ed una alterata deglutizione sono causa di aggravamento della Vostra Sindrome Posturale

      - Fate ribasare la dentiera ogni 2 anni e rinnovatela ogni 5: la riduzione dell’altezza della dentiera spinge il capo in avanti sovraccaricando le cervicali.

              Per i Vostri figli:

       -evitate l’uso del succhiotto: eventualmente sceglierne uno anatomico e non a goccia per non ‘allenare’ la lingua in modo errato. La lingua normalmente deve puntare sul palato dietro gli incisivi superiori: in questo modo faciliterà la fonazione, la deglutizione, la respirazione, la normale conformazione del palato e delle arcate dentarie, l’atteggiamento del capo

      -mai forare la tettarella nell’intenzione di ‘nutrire meglio o più velocemente il bambino’, per evitare che il piccolo si difenda dal rischio di ‘annegamento nel latte’ spingendo la lingua in modo sbagliato per otturare il foro troppo grosso.

      -acquistate scarpine con interno privo di qualsiasi rialzo: i piedini fino a 4-5anni devono essere piatti quindi non preoccupatevi: sarà negli anni successivi (fino agli 8-9 anni), con la maturazione del sistema nervoso, che il piede assumerà autonomamente la propria forma

      -prima e dopo qualsiasi cura ortodontica richiedere sempre un controllo della logopedista e del medico che si occupa di posturologia

      -evitare il girello, che fa saltare l’importantissima fase del gattonamento ed allena in modo sbagliato il bambino nella fase del passo

      -evitare il box, che costringe il bambino, incurioso dal mondo esterno, a sollevarsi sulla punta dei piedi in atteggiamento scorretto

      -favorire il gattonamento e lasciare i piccoli a piedi scalzi il più possibile

      -rivolgersi al medico che si occupa di posturologia se fosse presente scoliosi, problema dell’appoggio dei piedi, difficoltà nell’apprendimento e/o nella lettura, cefalea serale.

 

 successivo (patologia della calcolosi)

 

    

 

   

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Le indicazioni e le notizie riportate in queste pagine vengono fornite al solo scopo informativo e non possono sostituire la consulenza di un medico. Ricordate che l'autodiagnosi e l'autoterapia possono essere pericolose. Solo il vostro medico di fiducia potrà esservi di aiuto. 

La calcolosi

         La calcolosi renale (o nefrolitiasi) è una patologia caratterizzata dalla formazione di aggregati cristallini (calcoli) nelle vie urinarie, responsabili della sintomatologia tipica, la colica renale, di ematuria (emissione di sangue con le urine), e di complicanze quali l'ostruzione delle vie urinarie. Inoltre, è una patologia che tende a recidivare, esponendo chi ne soffre a nuovi e ripetuti episodi nel tempo.

Le varie   calcolosi,   la prevenzione, ...quale e quanta acqua bere

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 E' una patologia ben nota sin dall'antichità, tanto è vero che sono stati ritrovati calcoli nelle vie urinarie di mummie, e già Ippocrate raccomandava di far trattare la malattia agli specialisti del tempo; benché se ne conoscessero le manifestazioni, fino a pochi anni fa le cause restavano un mistero e la terapia stessa veniva affidata a metodi empirici ed approssimativi.

Come si formano i calcoli:

I calcoli renali possono essere di diversa natura; mentre un tempo i più frequenti erano quelli legati alle infezioni urinarie (struvite), ora la prevalenza è di quelli composti da ossalato di calcio, seguiti a distanza da calcoli organici che derivano da errori metabolici (acido urico, cistina e xantina); tutto questo suggerisce come con il tempo siano modificati i fattori predisponenti o scatenanti che ne stanno alla base, quali le abitudini alimentari, le condizioni igienico-sanitarie, l'esposizione al caldo ed il consumo di acqua.

Vi sono soggetti che producono calcoli in seguito a malattia (malformazione renale o delle vie urinarie, malattie sistemiche come l'iperparatiroidismo, le iperossalurie primitive, la sarcoidosi), mentre in altri non è possibile trovare una malattia che ne giustifichi la formazione: in questo caso si parla di calcolosi "idiopatica". Qualunque ne sia la natura, il meccanismo finale della formazione del calcolo è caratterizzato dalla sovrasaturazione urinaria per il soluto (cioè il costituente urinario disciolto); in pratica il soluto è diluito nelle urine e in condizioni normali non forma calcoli, aiutato anche dalla presenza di sostanze "inibenti la cristallizzazione". Quando il soluto aumenta oltre una certa concentrazione, specifica per ogni soluto, questi tende ad aggregarsi spontaneamente e formare calcoli; e non è necessario che le urine siano sovrasaturate di continuo, ma bastano periodi intermittenti di sovrasaturazione, come accade ad esempio dopo un pasto, oppure nei periodi caldi, per l'eccesso di sudorazione, affinché il processo di aggregazione si avvii. Vi è inoltre un livello di concentrazione, detta "metastabile", in cui i calcoli non si formano spontaneamente, ma lo fanno solo se vi è la presenza di altri cristalli, anche di natura diversi; in questo caso questi tendono ad aggregarsi tra loro e a formare i calcoli. E' questa la fase in cui si formano i calcoli "misti", cioè composti da sali diversi.
Bisogna sottolineare che i soggetti normali possiedono gli "inibitori della cristallizzazione", che intervengono opponendosi alla formazione dei cristalli, e la carenza di tali sostanze può avere un ruolo nella predisposizione di alcune persone alla formazione litiasica. Il grado di acidità delle urine può influenzare la formazione dell'uno o dell'altro tipo di calcoli. Premesso questo, è necessario, per il successo terapeutico, che il paziente con calcolosi renale assuma delle semplici misure comportamentali, con l'obiettivo di ridurre l'escrezione urinaria dei sali responsabili della formazione di calcoli, di aumentare il grado di diluizione di tali sali e di ridurre fattori che predispongano la precipitazione dei sali.

     Bere tanto:

Comune a tutte le forme di calcolosi è l'apporto idrico; assicurando una diuresi di almeno 2 litri al giorno (secondo alcuni almeno 3 litri), le urine si presentano più diluite e quindi si riduce il rischio di sovrasaturazione. Per mantenere tale diuresi è però necessario anche calcolare la perdita extrarenale di acqua come la sudorazione , per cui è necessaria una introduzione maggiore di acqua, comprendendo quella che si assume con i cibi. Tale assunzione deve essere distribuita durante tutta la giornata, in particolare nei periodi più critici della giornata. E allora bere al mattino due bicchieri di acqua, bere a metà mattina e metà pomeriggio, bere prima di pranzo e cena e bere prima di andare a letto; se possibile, anche una volta durante la notte; e se ci si espone a sudorazione, diarrea o vomito, esercizi fisici, bere di più. Per verificare l'efficacia della idratazione, basta verificare la densità delle urine con un semplice esame delle urine (il peso specifico deve essere al di sotto di 1015) e almeno una volta la settimana quantificare le urine emesse nelle 24 ore.

Cosa bere:

Diverse sono le opinioni su cosa bere sia perché i liquidi contengono sali, sia perché la diluizione delle urine comporta anche la diluizione degli "inibitori della cristallizzazione"; ma su quest'ultimo aspetto, i vantaggi della diluizione del soluto superano di gran lunga quelli dovuti alla diluizione degli "inibitori urinari", e comunque non se ne compromette la attività, ed in quanto al primo punto, al di là degli estremismi di chi suggeriva di assumere acqua distillata, i vantaggi dell'apporto di liquidi superano di gran lunga i potenziali rischi dovuti alla presenza di sali o di ossalato (come nei succhi di frutta o nel the), per cui, al di là di restrizioni specifiche, va benissimo anche la comune acqua del rubinetto, e comunque, sono da preferire acque con un contenuto di calcio inferiore a 50-60 mg/litro. Per quanto riguarda le altre bevande, limitare il latte per il contenuto di calcio, limitare il caffè o i succhi di frutta per il contenuto di ossalati e se si vuole evitare di acidificare le urine, evitare anche le bevande gassate. Il vino non presenta controindicazioni generali.

Calcolosi calcica:

E' la più frequente delle calcolosi, ed è caratterizzata da un aumento della escrezione di calcio con le urine (ipercalciuria). Affinché si abbia un successo terapeutico, è fondamentale riconoscere la causa dell'ipercalciuria, cioè se dovuta ad eccessivo assorbimento di calcio da parte dell'intestino, se per un difetto a livello renale, o se da eccessivo riassorbimento di calcio a livello osseo. La giusta diagnosi guida sia il trattamento farmacologico sia quello dietetico, che altrimenti potrebbe risultare deludente ed inutile. In questo tipo di calcolosi in passato si prescrivevano diete a basso contenuto di calcio, ma dati clinici hanno dimostrato al contrario che può essere controproducente soprattutto per le donne in menopausa. La dieta deve quindi prevedere:

Una dieta a contenuto calcico di 800-1000 mg al giorno (quota che deve comprendere anche quella delle acque minerali; c'è da ricordare che il calcio di origine vegetale è meno assorbibile rispetto quello di origine animale). Può essere utile una maggiore restrizione soltanto nelle ipercalciurie dovute ad eccessivo assorbimento intestinale (400-600 mg al giorno).

Un apporto di proteine che non superi 1 gr/Kg/die, perché l'eccesso di proteine facilita l'escrezione di calcio.

Correzione dell'apporto calorico riducendo l'eventuale eccesso ponderale.

Un apporto di sodio ridotto (6 gr al giorno di sale) .

Una abbondante assunzione di fibre che riduce l'assorbimento di calcio.

Nella donna in menopausa:

Nelle donne in menopausa bisogna assicurare che il bilancio del calcio  non sia negativo, per evitare la mobilizzazione del calcio dalle ossa e quindi facilitare l'osteoporosi. Per tale motivo nelle donne con calciuria l'introito di calcio é delegato al trattamento farmacologico.  Una dieta normoproteica, un peso ideale, la riduzione dell'assunzione di sodio, un buon uso di fibre, rientra in uno stile alimentare idoneo per il mantenimento di un buono stato di salute.

Calcolosi ossalica:

L'iperossaluria si distingue in:

-una forma primaria (forma congenita molto grave),

-una forma secondaria che si riscontra nelle malattie da malassorbimento intestinale, ed

-una forma idiopatica, in correlazione con l'apporto dietetico di ossalato. La sua escrezione con le urine è più determinante nell'indurre la formazione di calcoli rispetto il calcio o il fosfato.

Bisogna dire che l'ossalato urinario che origina dagli alimenti costituisce solo il 10-20 % dell'ossalato escreto, provenendo la restante quota dal metabolismo dell'organismo stesso, pertanto l'orientamento dietetico è quello di ridurre moderatamente l'assunzione di ossalato limitandosi ad evitare gli alimenti più ricchi (cacao e derivati, cioccolata compresa, spinaci, barbabietole, rabarbaro, prezzemolo, cavoletti di bruxelles, bietole, verdure a foglia verde scuro, melanzane, frutta secca, the, caffè solubile all'istante; la tazzina di caffè è consentita). In caso di dieta ipocalcica (che incrementa l'assorbimento e la escrezione di ossalato) o nel caso di insuccesso terapeutico o nella forma primitiva, la restrizione deve essere più severa.
E' importante non assumere supplementi di Vitamina C (è un precursore dell'acido ossalico).

Calcolosi uratica:

L'acido urico è una sostanza poco solubile che deriva in parte dalle purine (componenti degli acidi nucleici) introdotte con la alimentazione, in parte è prodotto dallo stesso organismo. Poiché l'organismo umano non sa trasformarlo in prodotti più solubili, nelle urine lo troveremo per l'80% come acido urico insolubile e per il 20% sotto forma di sale più solubile.
Al contrario di quanto si pensa comunemente, non sempre la calcolosi da acido urico è correlata ad un aumento della concentrazione di acido urico nel sangue (uricemia) ed alle sue manifestazioni (gotta), ma per il 70-80 % dei casi si forma in soggetti che hanno livelli di uricemia nella norma. Alla base della formazione dei calcoli di acido urico è la sua sovrasaturazione. Tra l'altro, per questa sostanza manca un vero e proprio "inibitore della cristallizzazione". La sovrasaturazione può avvenire per:

Aumentata escrezione urinaria (iperuricuria); questo può avvenire per eccessiva introduzione come negli eccessi alimentari, per eccessiva produzione come in alcune malattie del sangue, o per eccesso di escrezione dovute a malfunzionamento renale;

Riduzione della quantità di urine emesse, come per gli altri tipi di calcoli; è chiaro che è più predisposto chi vive o lavora in ambienti caldi, chi soffre di patologie come le diarree croniche che possono comportare disidratazione, oppure chi beve poca acqua;

Urine frequentemente acide; infatti la acidità urinaria facilita la cristallizzazione e la precipitazione dell'acido urico.

Come alimentarsi:

A prescindere dal fatto che la terapia medica dà ottimi risultati nella prevenzione delle recidive e nel trattamento dei calcoli già formati, la dieta ha un ruolo importante potendo intervenire su tutti i momenti patogenetici:

Contenere l'introito calorico (spesso all'eccessivo introito calorico è associato un eccessiva introduzione di proteine soprattutto animali, ricche di purine), contenendo le proteine al di sotto di 1 g/Kg/die, e ridurre tutti gli alimenti ricchi di purine; bisogna eliminare gli estratti di carne, le frattaglie, il lievito, la cacciagione, i frutti di mare.

Bere almeno 2 litri di acqua, aumentando la quantità di liquidi nei periodi caldi o nei casi di eccessiva sudorazione o diarrea. Sono consigliate le acque oligominerali alcaline tipo Fiuggi, mentre vanno evitate per la loro azione acidificante le bevande gassate o zuccherate e gli alcolici. Non ci sono invece problemi con il the, il cacao o il caffè, in quanto non contengono sostanze che vengono metabolizzate ad acido urico.

Moderare i cibi che hanno effetti acidificanti come riso e pasta e quelli ricchi di fruttosio come pesche, albicocche, arance, banane, uva. Attenzione anche ai dolcificanti contenenti fruttosio. Al contrario, non ci sono "prove" della colpa di pomodori o legumi di promuovere la litiasi uratica.

Per le  altre forme di calcolosi:

valgono le indicazioni generali valide per tutte le forme di calcolosi, cioè una assunzione di acqua adeguata per evitare la sovrasaturazione, contenere il peso corporeo, contenere l'introito proteico e quello di sodio nei limiti suggeriti dai LARN

 

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Le indicazioni e le notizie riportate in queste pagine vengono fornite al solo scopo informativo e non possono sostituire la consulenza di un medico. Ricordate che l'autodiagnosi e l'autoterapia possono essere pericolose. Solo il vostro medico di fiducia potrà esservi di aiuto. 

Lo scheletro e la colonna vertebrale
-Tratto da: «Dimmi dove ti fa male e ti dirò perché»  

La colonna vertebrale è composta di vertebre, con ciascuno un ruolo ben preciso Se in una vertebra è presente una situazione anomala, si produrrà un malessere  con dolore di intensità variabile in zone ben precise del nostro corpo.........

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La colonna vertebrale è composta di vertebre, con ciascuno un ruolo ben preciso. Si suddividono in 5 vertebre sacrali (3+2), 5 lombari, 12 dorsali e 7 cervicali. Possiamo cominciare a constatare sin d’ora la logica della costruzione del corpo umano.  Ebbene, le vertebre sacrali e lombari che costituiscono le 2 basi della nostra colonna (una fissa, la «sorgente», e l’altra mobile, la «base») sono 5.
Le cervicali formano il collo e sono 7. Infine, le dorsali che sostengono il busto sono 12, ossia la somma delle due precedenti (5+7=12)

Ciascuna vertebra possiede un ruolo particolare e serve da «gradino di distribuzione» dei dati provenienti dal cervello. . Questo trasmette dunque le sue «disposizioni» alla più piccola delle nostre cellule, in particolare attraverso l’intermediario di tutto il sistema nervoso cerebrospinale e il sistema nervoso autonomo o neurovegetativo (sistema simpatico + parasimpatico). Se in una vertebra è presente una situazione anomala, si produrrà un malessere  con dolore di intensità variabile in zone ben precise del nostro corpo.
«Slittamento vertebrale», contrattura muscolare intorno alla suddetta vertebra ecc., comporteranno, in un primo tempo, una sensazione dolorosa più o meno forte, poi se lo squilibrio persiste o se lo facciamo tacere, il fenomeno molto spesso si aggrava e si trasforma in artrosi, in ernia del disco o in disfunzione organica.
E’ interessante constatare, o meglio scoprire un bel mattino, che il fenomeno si produce al risveglio, ossia subito dopo la notte.

Vertebre cervicali 
1 Testa, viso, sistema simpatico;
2 Occhi, udito, seni nasali, lingua; 
3 Viso, orecchie, denti; 
4 Naso, labbra, bocca; 
5 Collo e gola; 
6 Muscoli del collo, spalle, parte superiore delle braccia; 
7 Spalle, gomiti, dito mignolo e anulare.

Vertebre dorsali 
1 Avambracci, mani, polso, pollice, indice, medio; 
2 Sistema cardiaco, plesso cardiaco;
3 Sistema polmonare, seno; 
4 Cistifellea; 
5 Sistema epatico, plesso solare;
6 Sistema digestivo, stomaco, plesso solare; 
7 Milza-Pancreas;
8 Diaframma;
9 Ghiandole surrenali;
10 Reni;
11 Reni;
12 Intestino tenue, sistema linfatico.

Vertebre lombari 
1 Intestino crasso;
2 Addome, cosce;
3 Organi sessuali, ginocchia;
4 Nervo sciatico, muscoli lombari;
5 Nervo sciatico, parte inferiore delle gambe;
Osso sacro e Coccige Bacino, glutei, colonna vertebrale

 

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Il melanoma maligno

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... è un tumore che colpisce la pelle, derivante dalle cellule deputate alla produzione di colore e che, per la sua elevata tendenza invasiva, è responsabile della maggior parte dei decessi dovuti a tumori cutanei. Prevenzione,consigli..... come riconoscerlo

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Il melanoma desta nel dermatologo due sentimenti: preoccupazione e meraviglia.

Il primo viene fuori dall'esame degli studi statistici sulla popolazione che dimostrano un costante aumento dell'incidenza del tumore negli individui di pelle bianca con tassi superiori a 10 casi ogni 100.000 abitanti, in Italia.Negli Stati Uniti il problema è ancora più sentito in quanto il melanoma, con un incidenza di 13 casi ogni 100.000 persone, occupa attualmente l'ottavo posto fra le neoplasie maligne più diffuse.Per fare un esempio concreto, nel 1935 gli Americani avevano una probabilità su 1500 di presentare lo sviluppo di un melanoma nel corso della loro vita. Tali probabilità oggi sono diventate una su 105 e si prevede che nell'anno 2000 diventeranno una su 75.

La meraviglia è giustificata dal fatto che, nonostante le numerose campagne di sensibilizzazione, che sollecitano una più attenta osservazione della propria pelle al fine di cogliere il primo segnale d'allarme, accade troppo spesso che il dermatologo si trovi a dover osservare casi di melanoma in stadio avanzato.Quindi nei confronti del melanoma, come verso tutti i tumori maligni, l'unico vero approccio terapeutico consiste nella prevenzione e nella diagnosi precoce. Infatti, il melanoma si può considerare l'esempio più chiaro di neoplasia maligna nella quale un precoce trattamento costituisce la chiave per la sopravvivenza. Se diagnosticato quando le cellule maligne sono localizzate soltanto all'epidermide, il melanoma cutaneo può essere asportato e definitivamente guarito in quasi il 100% dei casi; quando la neoplasia si è estesa ai linfonodi regionali, le possibilità di sopravvivenza a cinque anni si riducono invece al 50%.

FATTORI DI RISCHIO E MELANOMA

Negli anni recenti, studi epidemiologici hanno identificato i cosiddetti fattori di rischio che possono essere ricondotti a due elementi: abitudini di vita e fattori genetici.

I fattori di rischio, legati al comportamento personale, comprendono l'eccessiva esposizione solare e l'uso di lampade abbronzanti, ma soprattutto le gravi scottature da raggi solari prima dei 15 anni. In effetti, tre eventi di questo genere, verificatesi nei primi anni di vita, sono sufficienti a produrre un aumentato rischio di sviluppo di un melanoma.

Anche l'attività lavorativa ha la sua importanza: coloro che lavorano all'aperto appaiono esposti ad un rischio minore, forse per l'effetto protettivo dell'abbronzatura prodotta dalla cronica esposizione alla luce del sole; gli individui che lavorano al coperto e che si sottopongono a brevi ed intense esposizioni solari sembrano presentare un aumentata incidenza di melanomi. Sembra quindi che il danno dipenda dalle forti esposizioni alla luce solare con relative "scottature" riportate soprattutto nei primi anni di vita, aggravate poi dal ben noto "buco" dell'ozono dell'atmosfera, con aumento della quantità della radiazione ultravioletta B (UVB) che raggiunge la superficie terrestre.

I fattori genetici considerano i cosiddetti "fototipi".Con ciò si intende precisare il tipo di risposta della cute quando viene esposta ai raggi del sole. E’ noto, infatti, che il melanoma colpisce più di frequente individui di origine caucasica, di pelle chiara, con capelli chiari, spesso rossi, con tendenza all’eritema solare per una bassa capacità ad abbronzare e con un numero elevato di nevi. Vengono normalmente riconosciuti sei fototipi secondo la classificazione di Fitzpatrik:

Fototipo

Comportamento in occasione delle esposizioni solari

 

       I                     

  si scotta sempre con facilità, non si abbronza mai  

 

II  

                                                si scotta sempre con facilità, si abbronza poco

 

III    

 si scotta moderatamente, si abbronza gradualmente

 

IV    

   si scotta minimamente, si abbronza sempre e con rapidità

 

V   

  raramente si scotta, si abbronza intensamente e con rapidità

 

VI

 Non si scotta mai, sempre intensamente pigmentato

 

Quindi ai due estremi di questa graduatoria ci sono gli albini e i negri:

i primi incapaci di sintetizzare pigmento e pertanto sprovvisti di ogni protezione all'infuori dello spessore dello strato corneo dell'epidermide, i secondi in possesso di una protezione integrale fornita dall'abbondante quantità di melanina che blocca le radiazioni solari. Una recente classificazione più completa, aggiunge altri due parametri: il colore dei capelli e il colore degli occhi. Quindi un soggetto di carnagione chiara con capigliatura bionda o rossa ed occhi azzurri o verdi, con una pelle difficilmente abbronzabile e lentigginosa può vedere aumentato il rischio di sviluppare un melanoma del doppio o del triplo rispetto alla popolazione con un fototipo più alto.

Sono proprio le esposizioni intense e intermittenti alla luce del sole, su cute non abituata, che aumentano il rischio di tumore, mentre un’esposizione costante e moderata non è altrettanto rischiosa.

Alla luce delle considerazioni precedenti per sfruttare le proprietà benefiche dei raggi del sole senza che questi risultino potenzialmente dannosi, bisogna tener presenti delle norme.

Senza entrare troppo nello specialistico, è intuitivamente ovvio che quanto più la cute si dimostra in partenza sensibile ai raggi del sole, tanto più lo schermo utilizzato dovrà offrire un adeguato indice di protezione. Gli schermi solari si caratterizzano per la capacità di filtrare o di riflettere la radiazione luminosa. Al di là delle caratteristiche degli schermi è necessario, per poter contare su un’efficace protezione, rinnovare continuamente la loro applicazione. Infatti, la sudorazione, i bagni, la sabbia favoriscono la scomparsa del filtro.

Una volta considerato il fototipo, ed aver scelto correttamente lo schermo solare, occorre in ogni caso esporsi al sole tenendo in considerazione alcuni fattori climatici ed ambientali:

            •    la neve fresca riflette più dell’80% dei raggi UV;

            •    la maggiore quantità di raggi UV che arrivano sulla terra è tra le ore 11 e le ore 16;

            •    più del 90% dei raggi UV può attraversare le nubi;

            •    all'ombra si riceve il 50% dei raggi UV;

  Bisogna quindi scegliere il momento migliore della giornata per iniziare l'esposizione. In ogni caso è sconsigliabile esporsi tra le 11 e le 16 senza adeguata protezione. I criteri per una corretta esposizione solare non dovrebbero cambiare sostanzialmente anche in condizioni di tempo nuvoloso. Infatti, anche mancando l'effetto termico legato agli infrarossi, ci si può scottare con tempo nuvoloso. Poi è necessario sottolineare il ruolo svolto dalla sabbia nella riflessione della radiazione in arrivo: più del 25% della radiazione viene riflesso dalla sabbia, quindi ripararsi sotto gli ombrelloni non offre sicuro riparo

L’esame della propria pelle                                    

Mettetevi davanti ad uno specchio ed esaminate la vostra cute,prima di frontee poi di schiena, con l’aiuto di uno  specchietto.

Eseguite un autoesame completo almeno una volta al mese.

COME SI RICONOSCE UN MELANOMA          

1. A - asimmetria: tracciando una linea immaginaria che sezioni al centro la lesione, si ottengono due metà non sovrapponibili; 

2.  B - bordi: appaiono irregolari e frastagliati;

3.  C - colore: variegato, con sfumature tendenti al marrone-nero o al rosso-blu

4.  D - dimensioni: maggiori di 6 mm 

5.  E - evoluzione: il neo si è modificato nel tempo 

I soggetti portatori di lesioni pigmentate che presentano una o più di queste caratteristiche devono essere sottoposte ad un attento controllo clinico. 

COME SI PUO' VINCERE LA SFIDA CONTRO IL MELANOMA

 1) impara a conoscere i tuoi nei con l' aiuto di un familiare o di uno specchio;

 2) se hai molti nei o comunque uno o più nei superiori ai 6 mm di diametro, falli valutare dal tuo medico curante e/o dallo specialista dermatologo;

 3) se ti verrà consigliato di fare l'asportazione chirurgica di qualche neo, non ti opporre perché l'esperienza clinica ha dimostrato che non esiste nessun pericolo;

 4) si può procedere anche all' asportazione di nei solo per motivi estetici, purché si esegua sempre una verifica istologica;

 5) se hai superato i 30 anni controllati da solo almeno ogni 3-6 mesi. Se noti che un neo ha cambiato  colore, forma, dimensioni, oppure se noti la comparsa di un nuovo neo, recati dal medico per risolvere il dubbio;

 6) non aspettare di sentire dolori o altri disturbi, perché molte volte i tumori cutanei, anche quando sono molto sviluppati, non danno alcun fastidio;

 7) sappi che il dermatologo ha oggi un arma in più per una diagnosi precoce di melanoma: la dermoscopia. E' una procedura indolore che utilizzando una particolare lente appoggiata sulle lesioni da esaminare, dopo aver reso trasparente lo strato corneo mediante l'applicazione di olio sulla superficie cutanea, permette una differenziazione tra le varie lesioni pigmentate allo scopo di riconoscere il tumore nelle fasi più precoci.

 8) ricordati infine di queste semplici regole per una corretta esposizione solare:

      proteggi la cute dei bambini da scottature ed evita le esposizioni eccessive al sole, soprattutto se hai la cute pallida che abbronza con difficoltà e si scotta facilmente e/o hai un gran numero di nei sulla pelle;

      evita le esposizioni al sole nelle ore centrali della giornata e proteggiti con indumenti (cappello, vestiti ); le creme solari protettive possono essere utili, ma non è certa la loro reale efficacia.

Per concludere, ne consegue sul piano pratico che non esiste una proibizione assoluta alla fotoesposizione ma il consiglio a prendere il sole, fin dall'età infantile in maniera moderata, evitando gli eccessi e le ustioni ad essa conseguenti, è da tener in alta considerazione per arginare questa grave malattia che è “il melanoma

(tratto dal testo proposto per il messaggio al pubblico dalla Forza Operativa Nazionale per il Melanoma Cutaneo)

 

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Definizione  e tipo di diabete

E' una malattia autoimmunitaria.Il nostro corpo distrugge le cellule ß Beta del pancreas che sono le preposte alla secrezione dell'insulina, un ormone ipoglicemizzante. Quando avviene questa mancanza di cellule Beta si ha un aumento della glicemia che è un accumulo eccessivo di glucosio nel sangue, con conseguente mancato smaltimento di zuccheri.
Senza l'insulina, il nostro organismo non assorbe lo zucchero.........

i tipi di diabete, sintomatologia,  diagnosi, le complicazioni,  cura,  prevenzione........

Le indicazioni e le notizie riportate in queste pagine vengono fornite al solo scopo informativo e non possono sostituire la consulenza di un medico. Ricordate che l'autodiagnosi e l'autoterapia possono essere pericolose. Solo il vostro medico di fiducia potrà esservi di aiuto. 

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  Il diabete è una malattia che si divide in due tipi:


a) Tipo 1, mellito o insulino dipendente.
b) Tipo 2, o insulino indipendente.

Diabete Tipo 1, mellito o insulino-dipendente

E' una malattia autoimmunitaria, un virus attiverebbe una risposta autoimmune, responsabile della distruzione delle cellule Il nostro corpo distrugge le cellule ß Beta del pancreas che sono le preposte alla secrezione dell'insulina, un ormone ipoglicemizzante. Quando avviene questa mancanza di cellule Beta si ha un aumento della glicemia che è un accumulo eccessivo di glucosio nel sangue, con conseguente mancato smaltimento di zuccheri.

Senza l'insulina, il nostro organismo non assorbe lo zucchero che ingeriamo, necessario per realizzare il lavoro quotidiano (per esempio: le cellule cerebrali si alimentano in sostanza solo di glucosio), quindi ci sentiamo deboli, i muscoli non ricevono l'energia necessaria, sentiamo una sete tremenda. La soluzione è la somministrazione d'insulina. Per questo motivo noi diabetici di tipo 1 dobbiamo iniettarci l'insulina.

La terapia consiste in varie iniezioni nel giorno (le terapie sono differenti per ciascun paziente, ogni organismo risponde in maniera differente a stessi stimoli), con insulina ad azione rapida e ad azione lenta.

Attualmente la scienza è riuscita a sviluppare un microcomputer (Microinfusore da insulina) capace di somministrare piccolissime dosi d'insulina durante le 24 ore (si programma secondo il paziente), e prima dei pasti si programmano i "boli" (dosi d'insulina secondo la glicemia).
Questo ci permette di avere una vita più normale, le iniezioni si riducono ad una ogni tre giorni, per inserire il set nel sottocute.

Diabete di tipo 2, o insulino-indipendente

In questo tipo di diabete l'insulina non manca del tutto e molte volte si trova in eccesso, però
c'è un malfunzionamento: alcuni organi come il fegato, i muscoli, che rispondono all'insulina, non sono in grado di utilizzare lo zucchero che circola nel sangue, risponde poco allo stimolo dell'ormone.

I Esistono fattori che predispongono a questo tipo di diabete come: l'età (oltre i 40 anni), l'obesità, la contemporanea disfunzione d'altre ghiandole ed un tipo di vita sedentario.

Questo è il tipo di diabete più frequente e n'è affetto il 3% della popolazione.

La terapia è in una dieta adeguata, costante esercizio fisico, quando ciò non è sufficiente, si devono somministrare farmaci ipoglicemizzanti, che permettono di avere una maggior quantità di recettori per l'insulina.

I sintomi del diabete mellito

Una volta che oltre il 90% delle beta cellule del pancreas sono state distrutte, l'organismo non è più in grado di regolare i livelli di zucchero nel sangue e il paziente sviluppa alcuni dei sintomi classici del diabete:

·         Sete eccessiva

·         Eccessiva minzione (orinazione)

·         Eccessiva fame

·         Perdita di peso

·         Affaticamento, stanchezza

·         Visione sfuocata, offuscata

·         Glicemia alta

·         Zucchero e chetoni nelle urine

·        Infezione da funghi vaginali

Mentre i sintomi appaiono improvvisamente, lo sviluppo della malattia richiede tempi molto lunghi.

A COSA SONO DOVUTE QUESTE MANIFESTAZIONI?

Il glucosio non è normalmente presente nelle urine, perché il rene funge da "filtro" contro il passaggio dello zucchero dal sangue all'urina.
Tuttavia, quando il contenuto di glucosio del sangue è troppo elevato, lo zucchero comincia a "sfuggire" al filtro renale e compare nelle urine, dove può essere dosato con un normale test di laboratorio.
Il glucosio non può essere concentrato nelle urine, e viene così eliminato disciolto in una grande quantità di acqua. Per tale motivo le urine sono aumentate di volume, e contengono glucosio (fenomeno che prende il nome di glicosuria).
Questo giustifica l'aumento dell'attività urinaria del paziente diabetico.
La perdita di grandi quantitativi di acqua spiega anche come mai il soggetto diabetico presenti spesso anche

un'intensa sete e segni di disidratazione (pelle secca).

LE COMPLICAZIONI

Il diabete di tipo II è caratterizzato da un  incremento della glicemia, ovvero del tasso di glucosio nel sangue. Un aumento del glucosio nel sangue ritrovato ad un valore sufficientemente elevato (1,4 gr/l) e a più riprese basta a diagnosticare il diabete. 
Siccome il tasso di glucosio nel sangue varia a seconda dei pasti (aumenta dopo i pasti, diminuisce col digiuno) si prende come riferimento la glicemia a digiuno, ovvero quella determinata al mattino prima che si assuma del cibo. Il tasso di glucosio nel sangue viene misurato con diverse tecniche, che danno dei risultati abbastanza differenti, ma una piccola variazione (di qualche punto per cento) in fondo non è così significativa. Il valore normale (a digiuno) è al di sotto di un grammo per litro, ovvero (facendo le proporzioni) un milligrammo per millilitro, o “1mg/ml”. 

Vi è una forma particolare di diabete, che esordisce nelle donne gravide, e anche per questo rimando a trattati specialistici. Si può dire che il diabete come tale non dà dei grossi sintomi, e che i problemi che da siano legati a delle “complicazioni” che colpiscono gli organi più disparati.

Da qui l'importanza della prevenzione e della massima diffusione da dare alle informazioni relative a questa malattia. Spesso quando si manifestano alcune “complicazioni” è troppo tardi per una cura radicale, e si va incontro a conseguenze gravissime. E' importante evidenziare uno degli aspetti più incomprensibili del diabete; un problema che da solo dimostra come dobbiamo conoscere ancora la vera natura del diabete. Si tratta d questo: le complicazioni più temibili del diabete (quelle oculari e quelle renali) non paiono correlate in assoluto con il tasso di glucosio del sangue. 

Ne consegue che certe gravissime conseguenze possono nascere in persone che hanno un diabete più mite di altre, che invece hanno un diabete forte ma che non hanno conseguenze serie. Si dubita anche che le persone che abbassano la glicemia più di altre si mettano al riparo per questo dalle conseguenze peggiori. Ma comunque si tende a ridurre quanto più possibile la glicemia, fino al target di riportarlo entro i valori della norma. 

Più sopra parlo di complicazioni del diabete mettendo la parola “complicazioni” tra virgolette, perché secondo molti esse non sarebbero delle complicazioni vere e proprie, ma farebbero parte della sindrome diabetica in sé. Questione accademica che poco importa in questa sede. vediamo dunque quali sono le conseguenze o le complicazioni del diabete mellito.

I - complicazioni oculari

Sono tra le peggiori e tra le più comuni. Vi sono diverse conseguenze, quali la colorazione grigiastra dei vasi della retina, predisposizione ad emorragie e infezioni, eccetera. Ma i problemi maggiori sono due: 1-cataratta. La vera cataratta diabetica è rara, ma si assiste molto frequentemente ad una cataratta simile a quella delle persone anziane, ma che si manifesta nei diabetici in età più bassa. Ricordiamo che la cataratta è caratterizzata dall'opacizzazione del cristallino. 2-retinopatia diabetica. Vi è un tessuto fibroso che prolifica a livello della retina, e che può portare ad un'alterazione di questa anche importante. Si può assistere ad una forte diminuzione della vista.

II - complicazioni renali

Il rene è un bersaglio di elezione per il diabete. I problemi principali sono di due tipi: 1-predisposizione alle infezioni urinarie. Sono infezioni molto comuni, e può trasformarsi in una degenerazione del rene e insufficienza renale. 2-una malattia renale chiamata “glomerulo-sclerosi intercapillare” caratterizzata da segni rilevabili con esami di laboratorio e con segni di tipo generale. I primi sono: a-perdita di sangue con le urine. In genere la quantità di sangue persa è molto ridotta, e non si ha né anemia né è possibile apprezzarlo ad occhio. Si riscontra il sangue solo con l'esame delle urine. b-passaggio di albumina nelle urine. Anche l'albumina viene rivelata con esami di laboratorio sulle urine o con l'uso di uno stick. c-cilindruria. I cilindri si riscontrano con l'esame microscopico delle urine. Vi sono poi i segni generali, di per sè generici ma che possono far sospettare la malattia. Essi sono: a-l'ipertensione, purtroppo è un sintomo aspecifico e comune a molte altre malattie; b-edemi, anche in questo caso non sono poche le malattie che generano questo ingrossamento di certe parti del corpo dovuto al fatto che vi si trattiene acqua.

III - complicazioni cardiovascolari

Anche qui come nel caso della cataratta, si tratta di alterazioni che sono tipiche delle persone anziane, ma che nel diabetico appaiono prima e in età più precoce. Sono segni che compaiono comunque dopo una lunga evoluzione del diabete, e non appena questi sorge. 1-I problemi sono costituiti da crisi cardiache dolorose dovute a scarsa irrorazione del sangue (crisi anginose), infarto, ipertensione, ecc. ovvero le classiche malattie del cuore e dei grandi vasi. 2-Assieme a queste vi è un segno piuttosto caratteristico, che è poi causa di gravi conseguenze. Si tratta della cosiddetta “angiopatia diabetica”. Si ha un'arteriosclerosi dei grandi vasi della gamba, che irrorano male la gamba e il piede. Ci si accorge all'inizio solo perchè un piede assume una temperatura ridotta rispetto all'altro. In un secondo stadio appare una lesione ad un dito del piede, che si trasforma in gangrena che si estende più o meno velocemente al piede e all'arto inferiore. A tutt'oggi il diabete è una delle maggiori causa delle amputazioni. Le lesioni ai piedi si infettano molto facilmente.

IV - complicazioni ed infezioni cutanee o delle mucose

E' stato già detto che il diabetico va incontro molto facilmente ad infezioni delle vie urinarie. Sono infezioni subdole, di difficile cura e magari che scorrono inosservate. La stessa cosa può dirsi anche di altre infezioni cutanee. a-infezioni. A volte il sintomo è solo quello di alcuni foruncoli, oppure si ha una infezione di Candida Albicans, che può dare prurito o restare a lungo con scarsi sintomi. La candida si localizza sopratutto sulle mucose genitali. Nell'uomo il suo riscontro è un indizio che da solo deve far sospettare il diabete. b-prurito. Si registra spesso. c-xantomi. Vi possono essere delle formazioni alle palpebre, delle macchie alle piante dei piedi o alle palme delle mani. Sono segni associati ad un aumento del colesterolo. In effetti spesso il diabete di tipo II accompagna l'iperglicemia con l'aumento dei trigliceridi e/o del colesterolo nel sangue. d-necrobiosi lipoide. E' un segno molto caratteristico del diabete. A volte la sua presenza porta alla diagnosi del diabete stesso. E' costituita da macchie che appaiono sulle gambe (sulla faccia anteriore, tra il ginocchio e la caviglia, spesso su ambedue gli arti). Queste macchie possono essere rosate o azzurrognole, e spesso si allargano ulcerandosi al centro. A volte sono indolori, spesso danno invece un certo qual fastidio. Sono difficilissime da curare, qualcuno le tratta con aspirina, con antinfiammatori (sopratutto con creme al cortisone) altri sconsigliano il trattamento. Per fortuna la presenza di queste piaghe non significa che il paziente va necessariamente verso una delle complicazioni peggiori del diabete In ogni caso la necrobiosi può dare dei problemi. Innanzitutto di ordine estetico, poi possono essere dolorose o anche solo fastidiose Infine, vi è la possibilità che le piaghe si infettino. La necrobiosi sembra correlata con la glicosuria.

V-complicazioni neurologiche

Vi sono varie complicazioni del diabete che incidono sul sistema nervoso centrale o periferico. I problemi principali sono:

1-parestesie.
Possono esservi disturbi della sensibilità o della possibilità di muovere certi muscoli.

2-diarrea o al contrario stipsi.

3-tachicardia.
Si può vedere aumentare il ritmo dei battiti cardiaci.

4-ipotensione ortostatica.
la pressione può diminuire anche in modo molto marcato quando si sta in posizione eretta. In particolare quando ci si siede o ci si stende, e poi ci si alza, vi possono essere capogiri e disturbi.

5-il problema neurologico più famoso e temuto è forse 'impotenza

La diagnosi

La persona con il diabete, è una persona come tutte le altre, con l'unico problema di non essere in grado di assorbire lo zucchero (glucosio) necessario alle sue funzioni vitali. Tale fatto è dovuto all'incapacità, totale o parziale, del suo organismo di produrre l'ormone insulina.
Ci si accorge che "qualcosa non funziona" quando si comincia a bere e urinare troppo, magari svegliandosi durante la notte. Unitamente si perde peso nonostante l'alimentazione normale o addirittura aumentata.

Molti altri sono i sintomi del diabete e per una completa trattazione si rimanda alla pagina dei sintomi.

Quando si sospetta di avere il diabete, la prima cosa da fare è quella di rivolgersi al proprio medico curante che vi consiglierà alcune prime elementari indagini. Se tali esami risultassero positivi (glicemie fuori norma, glicosuria, ecc.), vi verrà chiesto di recarvi immediatamente in un centro di diabetologia specializzato dove vi sapranno dare le prime indicazioni fondamentali per un primo corretto approccio alla malattia.

Se si tratta di esordio di diabete tipo 1, al centro vi consiglieranno l'immediato ricovero, in modo da permettere il recupero dell'acqua e dei sali perduti durante il periodo immediatamente precedente (di solito si è in stato di chetoacidosi), per fornire la quantità di insulina necessaria, per disintossicare l'organismo dai corpi chetonici accumulati (tossici in quanto sostanze di rifiuto), per permettere ai genitori (se si tratta di un minore) e al paziente di imparare le prime nozioni fondamentali sul trattamento della malattia.

Se invece si tratta di esordio di diabete tipo 2, normalmente non è necessario il ricovero, ma vengono eseguite una serie di analisi e di controlli, prescritta una dieta ed eventuali medicinali antidiabetici orali.

Il diabete attualmente non è una malattia curabile in modo definitivo, anche se la ricerca nel campo sta facendo passi da gigante. Si può però arrivare a condurre una vita assolutamente "normale", evitando le complicazioni che a lungo andare potrebbe portare (circolazione, occhi, reni, ecc.) agendo fondamentalmente su quattro fronti:

·        L'insulina iniettandola dall'esterno (per i tipo 1) o antidiabetici orali, se necessari (per il tipo 2);

·        L'attività fisica e lo sport;

·        L'alimentazione;

·        L'educazione all'igiene e al controllo.

Per concludere, solo "accettando" fino in fondo la propria condizione, usando quei piccoli accorgimenti quotidiani che richiedono sacrificio, ma ci permettono poi una vita assolutamente uguale a quella delle altre famiglie, possiamo garantire a noi e/o al nostro bambino e alle persone a noi vicine, una vita serena e in armonia con gli "altri". Il bambino potrà crescere e svilupparsi normalmente, giocare, andare a scuola; l'adulto potrà lavorare, sposarsi e avere figli come ogni altra persona

I controlli

Il controllo quotidiano del livello degli zuccheri nel sangue, permette al malato di diabete di conoscere se la quantità di insulina somministrata è stata sufficiente o se invece va aumentata o diminuita.
Questo è lo scopo primario dei controlli. Le unità di insulina, infatti, vengono di volta in volta stabilite in base all'andamento dei precedenti controlli effettuati.
Permette poi di farsi un'idea sull'andamento generale, mantenendo un diario aggiornato con tutti i controlli effettuati.

Fino agli anni '70, i controlli si limitavano praticamente solo alla glicosuria; verificato poi che la soglia oltre la quale si verifica glicosuria, era troppo alta (provocando situazioni di iperglicemia persistente e quindi andando incontro alle complicanze a occhi e reni in particolare), tale metodo venne presto scartato.

In accompagnamento ai controlli della glicosuria, grazie alla diffusione sul mercato di apparecchi per il controllo della glicemia sempre più sofisticati, semplici da usare, poco invasivi ed economici, oggi si tende ad effettuare sempre più frequenti controlli dello zucchero presente nel sangue.

La quantità ideale di controlli giornalieri, per realizzare una regolazione perfetta sulla somministrazione dell'insulina, dovrebbe essere in linea teorica infinita, cioè dovrebbero essere monitorato in modo continuo il livello del glucosio nel sangue.

Visto che questo non è possibile, anche se si stanno studiando tecnologie che si avvicinano a questo risultato, bisogna eseguire il maggior numero di controlli possibile: ogni volta che si urina per la gicosuria ed almeno 3-4 volte al giorno per la glicemia. Gli orari più indicativi per tali controlli sono:

·        Prima dei pasti: la glicemia ci dice se la dose somministrata prima del pasto precedente era corretta, se ci conviene iniziare subito a pranzare (ipoglicemia) o se ci conviene aspettare più del solito (iperglicemia); la glicosuria ci da' un'idea dell'andamento medio (bisogna considerare che spesso tale media è riferita non solo alle ore immediatamente precedenti, ma anche a quelle un po' più lontane: a pranzo per il mattino e parte della notte);

·        Due ore dopo i pasti: ci dice se la dose somministrata prima del pasto precedente era corretta, e se abbiamo bisogno di una piccola integrazione o merenda (ipoglicemia); per quanto riguarda la glicosuria vale quanto detto sopra;

·        A sera inoltrata, prima dell'iniezione della notte: ancor più che dirci se la dose di prima di cena andava bene, ci può aiutare ad andare a letto tranquilli, sapendo di poter evitare eventuali ipoglicemie notturne. Infatti, se la glicemia risultasse troppo bassa (sotto i 120-140 mg/dl) potremmo mangiare qualcosa prima di coricarci, qualcosa che venga assorbito con una sufficiente lentezza da garantirci gli zuccheri necessari a notte inoltrata; un altro sistema è di ridurre la dose di insulina di 2 unità se la glicemia è compresa tra 100 e 140, o di 4 unità se la glicemia è compresa tra 70 e 100; al di sotto è comunque consigliato mangiare qualcosa.

·        Prima di attività agonistiche sportive di un certo impegno: ci serve per controllare se c'è bisogno di un'integrazione di zuccheri prima dell'inizio dello sforzo o se, al contrario, bisogna integrare l'insulina (nei casi di iperglicemia).

È bene anche effettuare controlli periodici più a lunga scadenza, come l'emoglobina glicosilata HbA1c ogni 2-3 mesi, assetto lipidico, azotemia, creatinemia, clearance della creatinina endogena, tiroide, anticorpi antimucosa gastrica, urine, fundus e cristallino dell'occhio, esame neurologico generale, visita dentistica, età ossea ogni 12 mesi

per dettagli sulla somministrazione dell'insulina   clicca qui

 

successivo  (malattie respiratorie)

 

 

 

 

 

malattie respiratorie: asma

Le indicazioni e le notizie riportate in queste pagine vengono fornite al solo scopo informativo e non possono sostituire la consulenza di un medico. Ricordate che l'autodiagnosi e l'autoterapia possono essere pericolose. Solo il vostro medico di fiducia potrà esservi di aiuto. 

L’asma è una malattia cronica che interessa le vie aeree.
L’infiammazione rende le vie aeree molto sensibili con aumentata reattività agli stimoli allergici o irritanti.
Dopo contatto con allergeni e irritanti, le vie aeree si restringono ed i polmoni ricevono meno aria.

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Questo causa sintomi quali dispnea sibilante, tosse, oppressione toracica, respiro difficoltoso, specialmente durante la notte e nel primo mattino.
L’asma non è attualmente curabile.
La maggior parte delle persone può controllare l’asma in modo da ridurre la frequenza dei sintomi.

Gli attacchi d’asma differiscono in gravità e gli episodi asmatici gravi possono anche causare la morte del paziente.

Cause

Non è chiaro il meccanismo che sta alla bse dell’infiammazione delle viee aeree nei pazienti con asma..
E’ noto che esiste un’ereditarietà dell’asma.

Sostanze contenute nell’ambiente, come allergeni ed irritanti, possono scatenare attacchi d’asma Anche l’esercizio fisico e le infezioni virali sono riconosciute essere fattori scatenanti.

Allergeni

- Desquamazioni di animali

- Acari

- Scarafaggi

- Polline

- Muffa

Irritanti

- Fumo di sigaretta

- Inquinamento atmosferico

- Aria fredda o cambiamenti metereologici

- Odori di forte intensità

- Profumi

- Forti emozioni e stress

Altri

- Farmaci ( es. Aspirina, beta.bloccanti )

- Solfiti presenti nel cibo ( vino, frutta secca )

- Malattia del reflusso gastroesofageo

- Infezioni


Classificazione

Sulla base dei sintomi, l’asma può essere classificata in 4 livelli:

- asma lieve-moderata, caratterizzata da sintomi asmatici 2 volte a settimana o meno, da sintomi notturni 2 volte al mese o meno, da assenza di sintomi tra gli episodi e da una normale funzione polmonare;

- asma lieve-persistente, caratterizzata da sintomi asmatici più di 2 volte a settimana, ma non più di una volta in un singolo giorno, da sintomi notturni più di 2 volte al mese; i sintomi asmatici possono influenzare l’attività fisica del paziente;

- asma moderato-persistente, caratterizzata da sintomi asmatici quotidiani, da sintomi notturni più di una volta a settimana; gli attacchi d’asma possono influenzare l’attività fisica del paziente.

- asma grave-persistente, caratterizzata da sintomi nel corso del giorno e per più giorni, da alta frequenza dei sintomi notturni; l’asma in forma grave può limitare l’attività fisica del paziente.

Trattamento

Il trattamento dell’asma si basa fondamentalmente su 2 tipi di farmaci:

- Farmaci per il controllo immediato dei sntomi: i farmaci di prima scelta per il trattamento d’urgenza dell’asma sono rappresentati dai beta-agonisti a breve durata d’azione , somministrati per via inalatoria ( broncodilatatori ); questi farmaci agiscono rapidamente, rilassando la muscolatura delle vie aeree in modo da permettere un maggior flusso di aria ai polmoni [ Prodotti: Salbutanolo ( Ventolin ) ]

- Farmaci per il controllo dei sintomi nel lungo periodo: i farmaci più efficaci per il controllo dei sintomi dell’asma nel lungo periodo sono i corticosteroidi per via inalatoria; questi farmaci riducono il gonfiore delle vie aeree, un elemento scatenante degli attacchi d’asma [ Prodotti: Budesonide ( Pulmaxan), Beclometasone ( Clenil ), Fluticasone ( Flixotide ) ].

Nel controllo dell’asma nel lungo periodo possono essere impiegati anche altri farmaci, oltre ai corticosteroidi:

- beta-agonisti a lunga durata d’azione per via inalatoria: questi farmaci esercitano un’azione broncodilatatrice e sono impiegati nel controllo dell’asma moderato-grave e nella prevenzione dei sintomi notturni. I beta-agonisti a lunga durata d’azione sono generalmente assunti assieme ai corticosteroidi per via inalatoria [ Prodotti: Formoterolo ( Foradil, Oxis Turbohaler ), Salmeterolo ( Serevent ), Formoterolo + Budesonide ( Symbicort ), Salmeterolo + Fluticasone ( Seretide );

- modificatori dei leucotrieni: questi farmaci sono impiegati da soli nel trattamento dell’asma lieve-persistente, assieme ai corticosteroidi per via inalatoria nel trattamento della forma moderata o grave dell’asma [ Prodotti: Montelukast ( Singulair ), Zafirlukast ( Accoleit ), Zileuton ( Zyflo ) ] ;

- cromoni: il Nedocromil ( Tilade ) e il Cromoglicato ( Lomudal ) trovano impiego nell’asma lieve-persistente, soprattutto di origine allergica. I cromoni presentano il limite di non conferire una risposta terapeutica prevedibile;

- teofillinici: la Teofillina è impiegata da sola nel trattamento dell’asma lieve-persistente o associata ai corticosteroidi nell’asma moderato-persistente. [ Prodotti a base di Teofillina: Aminomal Elisir, Diffumal-24, Euphyllina, Tefamin Elisir, Theo-Dur, Theolair; Prodotti a base di Aminofillina: Aminomal, Tefamin ];


Xagena2006

Fonte:

1) National Heart, Lung and Blood institute ( NHLBI ), 2006

2) Ministero della Salute, 2006

Farma2006 Pneumo2006

successivo (rimarginazione delle ferite)

 

 

 

 

 

Rimarginazione delle ferite

di Donata Allegri

La maggior parte di scienziati credeva che le ferite prima di rimarginarsi dovessero innescare un potente processo infiammatorio. Il biologo David Becker dell'Università College di Londra ha indagato per capire quale ruolo svolgano nelle giunzioni alcune cellule che contengono proteine chiamate connessine, in particolare David Beker ed i suoi colleghi dell’università di Auckland, si sono concentrati sulla connessina 43 perché hanno visto che in poco tempo raduna i punti lesionati forse perché ha la funzione di un vasodilatatore ed in questo modo consente ai globuli bianchi di raggiungere il la ferita.

In effetti le ferite guariscono molto più in fretta quando gli scienziati bloccano una specifica proteina nella pelle. Per poter verificare queste osservazioni, ossia se la connessina 43 svolgesse un ruolo importante nella riparazione delle ferite, hanno fatto esperimenti spalmando su ferite della pelle di alcuni topi un gel con frammenti di RNA "antisenso", l'immagine genetica speculare del gene della connessina 43 che ne riduce l’attività.

Si è visto che gli animali trattati guarivano più in fretta (del 50 per cento) rispetto ai topi usati come controllo, ovvero possedere meno connessina 43 è una buona cosa. Il gel ha diminuito del 20 per cento il numero dei globuli bianchi che hanno raggiunto le ferite e quindi non è vero che l’infiammazione renda più veloce la guarigione. La squadra del Becker applica adesso il gel anche in caso di bruciature e ad altri tessuti del corpo, lesioni interne e abrasioni corneali. Questa ricerca è stata pubblicata dalla rivista “Current Biology”.

Istituzioni scientifiche citate nell'articolo:

University College London

University of Auckland

successivo (proprietà del progesterone)

 

 

 

 

 

Le proprietà del progesterone

di Donata Allegri

Le indicazioni e le notizie riportate in queste pagine vengono fornite al solo scopo informativo e non possono sostituire la consulenza di un medico. Ricordate che l'autodiagnosi e l'autoterapia possono essere pericolose. Solo il vostro medico di fiducia potrà esservi di aiuto. 

Michael W. Varner, ostetrico e ginecologo dell'Università dello Utah ha riportato una serie di risultati che dimostrerebbero come l’iniezione di ormoni tipo progesterone sembrerebbero potenzialmente in grado di ridurre di più di un terzo i parti prematuri. Il ricercatore ha sperimentato gli effetti dell’ormone 17P che avrebbe ridotto il rischio delle nascite prima della 37° settimana di una percentuale superiore al 34%. Lo studio è stato effettuato su un campione di oltre 450 donne. Lo studio è iniziato nel 1999 ed è durato due anni e mezzo, durante questa ricerca alcune donne sono state trattate con placebo mentre altre con l'ormone 17P, fra queste ultime Solo il 36,3 % hanno partorito prima di 37 settimane, contro il 54,9 % delle donne che assumevano il placebo.

È ancora sconosciuto come 17P prolunghi la gestazione, anche se si sa che il progesterone fa distendere la parete liscia del muscolo dell'utero, impedendo l'azione dell'ossitocina, un ormone che fa avvenire la contrazione dell'utero. Per quanto riguarda i bambini nati dalle madri che hanno ricevuto 17P, risulta che le loro condizioni sono migliorate , essendo migliorata la loro respirazione e diminuite le infezioni intestinali. Negli Stati Uniti i parti prematuri sono in aumento e sono considerati la causa principale del alto tasso di mortalità infantile. La frequenza di parti prematuri è associata a feti multipli, infezioni; la frequenza di questi eventi è più bassa nell'Europa del Nord perché le donne non lavorano oltre la ventesima settimana di gravidanza ed hanno il congedo pagato.

La ricerca, finanziata dai National Institutes of Health (NIH) degli Stati Uniti, è stata pubblicata dalla rivista “New England Journal of Medicine”.

Istituzioni scientifiche citate nell'articolo:

The University of Utah

National Institutes of Health

The new England Journal of medicine

successivo (materiali biocompatibli)

 

 

 

 

 

 

Materiali biocompatibili e ricerca

L'idrossiapatite corallina ha una struttura porosa intercomunicante simile a quella del tessuto osseo umano, rappresenta quindi un buon substrato per la coltura condrocitaria.

Il tessuto cartilagineo è un tessuto con scarsa capacità riparativa sia a causa della sua avascolarità, sia a causa della intrinseca ridotta capacità replicativa dei condrociti. Un approfondimento della struttura della cartilagine e dei meccanismi di innesco delle lesioni cartilaginee ha evidenziato l'incapacità' dei condrociti di migrare nella zona lesa e ripararla con la produzione di nuova matrice, motivo per cui la cartilagine articolare non e' in grado di produrre un tessuto riparativo con adeguate proprietà biomeccaniche.

Le modeste capacità di riparare se stessa danno luogo alla formazione di un tessuto fibrocartilagineo che offre inferiori prestazioni. Il miglioramento delle conoscenze strutturali e dei limiti rigenerativi della cartilagine articolare ha contribuito allo sviluppo di diversi modelli di ricerca sperimentale, al fine di favorire un'adeguata riparazione tessutale in grado di ripristinare la funzione articolare.Si può capire, quindi, che i fattori in grado di danneggiare la cartilagine articolare, come processi traumatici e le turbe nutritizie o vascolari, portano in maniera irreversibile verso il processo artrosico.

La ricerca sperimentale ha conseguito, ad oggi, importanti risultati per quanto riguarda le tecniche di coltura e di trapianto di condrociti che sebbene non siano efficaci nel restituire una superficie articolare resistente al carico hanno buone possibilità di riparare i difetti osteocondrali.

Il problema più importante di questa metodica è però quello di individuare un veicolo per poter trapiantare una sospensione cellulare ( così si presentano le colture di condrociti) in un difetto cartilagineo. Questo studio vuole individuare una metodica per coltivare i condrociti all'interno dell'idrossiapatite di corallo. L'associazione condrocite-idrossiapatite di corallo potrebbe rappresentare, in un prossimo futuro, un nuovo approccio alla terapia chirurgica dei difetti della cartilagine articolare.


SCOPO DELLA RICERCA

Lo scopo della ricerca è quello di mettere a punto una metodica in grado di consentire ai condrociti prelevati in diverse speci animali (e successivamente umani), opportunamente coltivati, di popolare un substrato di idrossiapatite di corallo al fine di ottenere possibili soluzioni terapeutiche a preesistenti difetti cartilaginei..
Si provvedrerà a selezionare diversi animali di laboratorio, preferibilmente neonati da cui si preleveranno i condrociti che verranno, successivamente, coltivati utilizzando come substrato l'idrossiapatite corallina.
La scelta di animali sacrificati nei primissimi giorni dopo la nascita è dettata dall' abbondante cartilagine prelevabile.
1. Il numero delle specie animali utilizzabili è variabile anche se preferiamo far ricorso ad animali di piccola taglia.
2. Gli animali di grossa taglia saranno preferiti in caso di innesti sperimentali.
Le tappe principali del progetto consistono nel prelievo in toto del ginocchio dei piccoli roditori e la loro successiva digestione enzimatica attraverso l'impiego della collagenasi.
I condrociti verranno poi coltivati in specifici media di coltura unitamente a frammenti di idrossiapatite di corallo.
La valutazione del grado di ripopolazione della matrice corallina avverrà con diverse metodiche quali:
· Microscopia ottica
· Microscopia a scansione elettronica
· Analisi del DNA prodotto dai nuovi condrociti
·
GAG analysis
· tipo di collagene prodotto

successivo   (acne: vere e false convinzioni)

 

 

Acne: vere e false convinzioni

Sull'acne si sono formate nel tempo molte convinzioni sbagliate, che derivano probabilmente dalla scarsa conoscenza del problema.
• Non è vero che l'alimentazione, in particolare se ricca di grassi, cioccolato e salumi, possa favorire l'insorgenza o il peggioramento dell'acne. Tale convincimento non è sostenuto da alcuna prova scientifica e va perciò ridimensionato: non serve quindi cambiare dieta, anche se ridurre l'apporto alimentare di grassi e zuccheri può giovare alla salute sotto tanti altri aspetti.
• Non è vero che stare al sole "asciuga" i brufoli e fa guarire l'acne. La luce solare viene oggi ritenuta meno importante di un tempo: può avere una certa utilità nel migliorare l'aspetto estetico dell'acne ed è comunque più attiva di quanto non lo siano i raggi ultravioletti artificiali (lampade e lettini UVA) purché l'esposizione non venga protratta per periodi troppo lunghi e intensi. In questo caso si rischia di aggravare la situazione per l'ispessimento e il conseguente indurimento della pelle, indotti dalle radiazioni solari, che provocano un'ulteriore ostruzione del follicolo pilifero. L'esposizione rischia inoltre di rivelarsi pericolosa (reazioni tossico-allergiche) se fatta in concomitanza di terapie con certi antibiotici (tetracicline) o isotretinoina (es. Roaccutan) o di aggravare ulteriormente la situazione quando si stanno impiegando sulla pelle particolari prodotti per l'acne (es. benzoilperossido).
• Non è vero che i capelli unti che si appoggiano sulla faccia possono causare l'acne o peggiorarla. Anche i capelli risentono della condizione di eccessiva produzione di grasso da parte delle ghiandole sebacee, che si manifesta soprattutto durante l'adolescenza.
• Non è vero che l'acne migliora se si hanno rapporti sessuali, né peggiora in loro mancanza.
• Non è vero che l'acne viene a chi ha una scarsa igiene personale, anzi proprio le persone che ne sono affette spesso hanno una attenzione persino eccessiva per la pulizia.
E' vero invece che:
• nelle donne l'acne può peggiorare in prossimità delle mestruazioni, mentre in gravidanza può avere un andamento imprevedibile;
• l'acne può essere influenzata da fattori climatici ed ambientali quali variazioni di temperatura e di umidità: l'acne può così migliorare nei periodi estivi o nei climi secchi e peggiorare in un clima caldo umido dove si suda molto.
E' probabile infine che lo stress possa contribuire al peggioramento delle condizioni della pelle in soggetti costituzionalmente predisposti all'acne, ma il suo ruolo esatto non è ancora ben definito.

Nelle persone che soffrono di acne l'adozione di alcuni semplici provvedimenti consente un rapido miglioramento dell'aspetto della pelle. Innanzitutto è fondamentale il rispetto di rigorose norme igieniche:
• il viso va lavato delicatamente con saponi acidi liquidi, asciugandolo con un panno morbido senza frizionare. L'uso dei comuni saponi si rivela infatti controproducente dal momento che, essendo eccessivamente sgrassanti, stimolano in un secondo tempo una maggiore produzione di sebo;
• non si devono schiacciare i comedoni, rompere le pustole o togliere le croste. Se non effettuate da personale esperto, tali manovre non solo risultano scarsamente affidabili, ma rischiano addirittura di rivelarsi dannose perché possono causare infezioni e provocare la comparsa di cicatrici;
• per il trucco è preferibile indirizzarsi verso prodotti non comedonici, creme magre o idrosolubili: esistono in commercio prodotti appositamente formulati che non aggravano l'ostruzione dei pori. Lo stesso dicasi per i prodotti da utilizzare per la detersione del trucco che deve essere regolarmente asportato.
Il mercato offre al consumatore moltissimi prodotti cosmetici indicati per "pelli impure o a tendenza acneica". Alcuni sono semplicemente dei detergenti non aggressivi, contenenti varie sostanze, che possono essere utilizzati per il lavaggio quotidiano, anche se non offrono vantaggi sostanziali rispetto ad un comune sapone acido; altri contengono disinfettanti ma, dato il breve tempo di contatto, è improbabile che si rivelino di qualche utilità. I pulitori abrasivi (scrub) rimuovono le cellule morte dalla superficie della pelle: possono essere utili quando la condizione da trattare è così lieve da non richiedere ancora alcun intervento farmacologico. Sono da evitare invece quando l'acne richiede un trattamento specifico dal momento che, irritando la pelle, di fatto rendono impraticabile l'applicazione contemporanea di alcuni farmaci efficaci. Vanno comunque utilizzati con moderazione (non più di 2-3-volte alla settimana) per non risultare troppo aggressivi per la pelle. Le lozioni alcoliche, essendo eccessivamente sgrassanti, possono avere un effetto controproducente se usate a lungo. Sulle lesioni acneiche non vanno applicate preparazioni topiche a base di cortisonici.

Infine va tenuto presente che esistono vari tipi di acne; alcune forme particolari non richiedono lo stesso tipo di trattamento dell'acne volgare, bensì la sospensione o l'allontanamento degli agenti responsabili:
• Acne cosmetica. Talora sottovalutata, colpisce le donne tra i 20 e i 30 anni di età che fanno uso di cosmetici. Ne causano l'insorgenza alcuni componenti grassi delle creme di bellezza o dei prodotti per il trucco; sono ad es. altamente comedogeni (cioè in grado di favorire l'acne) l'olio di cocco, il burro di cacao e la cera d'api; assai meno la lanolina.
• Acne da farmaci. Può presentarsi dopo l'assunzione di alcuni tipi di farmaci. Una causa frequente è rappresentata ad es. dalla vitamina B12 (che fa parte di quasi tutti i "ricostituenti"), da terapie con cortisonici, dall'uso di certe pillole anticoncezionali, da preparati a base di iodio e barbiturici. Anche gli androgeni anabolizzanti utilizzati a scopo di doping da atleti e praticanti di body-building possono causare la comparsa di acne.
• Acne meccanica. Compare nelle zone sottoposte con maggior frequenza ad attrito e frizione locale (vedi colletti, fasce tergisudore, indumenti aderenti).

Fortunatamente nella maggior parte dei casi il problema è lieve e scompare spontaneamente ed è normalmente sufficiente una adeguata igiene giornaliera. Se l'acne si presenta in forma più importante, allora va curata, indirizzando le proprie scelte verso prodotti efficaci (benzoilperossido e acido azelaico) o, a seconda della gravità, rivolgendosi al medico che prescriverà il farmaco più adatto.

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 La congiuntivite

La congiuntivite è la forma più comune di infiammazione dell'occhio. Per la precisione l'infiammazione riguarda la congiuntiva, cioè la membrana trasparente che tappezza l'interno delle palpebre e la parte visibile dell'occhio ad eccezione della cornea (zona sopra all'iride, che è invece la parte colorata dell'occhio).

La congiuntivite può essere provocata da batteri o virus (in questi casi si definisce infettiva), può essere di origine allergica o derivare da particolari condizioni ambientali. La manifestazione più visibile è l'arrossamento della parte bianca dell'occhio (sclera), arrossamento che si intensifica nella parte interna delle palpebre (sacco congiuntivale). I sintomi più frequenti sono lacrimazione intensa, sensazione di sabbia nell'occhio, intolleranza alla luce (fotofobia) e gonfiore delle palpebre. Questi sintomi sono comuni a tutti i tipi di congiuntivite e può perciò risultare difficile distinguere l'una dall'altra. Alcune caratteristiche tuttavia sono peculiari e possono aiutare ad orientarsi.
Le congiuntiviti da infezioni batteriche o virali sono le più frequenti.

L'infezione batterica si riconosce per la presenza di una secrezione abbondante, densa e giallastra (per la presenza di pus) che si raccoglie nel sacco congiuntivale e in parte deborda incollando le ciglia; è più evidente al risveglio (le cosiddette "palpebre appiccicate" del risveglio mattutino), tanto che spesso gli occhi si aprono solo dopo ripetuti lavaggi (a volte può essere utile ammorbidire le secrezioni essiccate sul bordo palpebrale con un batufolo di cotone imbevuto di acqua). Il prurito e la lacrimazione sono scarsi. Il trattamento prevede l'impiego di antibiotici in collirio o pomata. Quest'ultima ha il vantaggio di consentire al principio attivo di rimanere a contatto con l'occhio più a lungo ma provoca un offuscamento della vista per alcuni minuti; una soluzione potrebbe essere quella di utilizzare lo stesso principio attivo in collirio durante il giorno e in pomata prima di coricarsi per mantenere l'effetto terapeutico durante il sonno. La cura deve sempre essere prescritta dal medico e va protratta in genere per una settimana e, comunque, almeno sino a due giorni dopo la scomparsa dei sintomi.

La congiuntivite virale si manifesta con sintomi meno appariscenti: la secrezione congiuntivale è scarsa mentre prevalgono lacrimazione e intolleranza alla luce. L'origine virale è quasi certa in presenza di concomitanti sintomi influenzali o di raffreddamento (come mal di gola e malessere generale). Negli stadi precoci l'infezione può venire scambiata per un semplice arrossamento oculare: è importante non intraprendere mai di propria iniziativa un trattamento con colliri contenenti "cortisone" che, in caso di infezione virale, possono causare danni seri all'occhio. La terapia per questo tipo di congiuntivite è difficile e va prescritta esclusivamente dallo specialista.

Le congiuntiviti infettive sono molto contagiose: se qualcuno in famiglia o in certe comunità (es. asilo, scuola) è affetto da una congiuntivite infettiva è indispensabile che rispetti rigorose norme igieniche (lavaggio delle mani) evitando l'uso in comune di possibili veicoli di trasmissione quali asciugamani, fazzoletti, cuscini, flaconcini di collirio.

La congiuntivite allergica si caratterizza per la mancanza di secrezione purulenta e si riconosce per il forte prurito e gonfiore della congiuntiva che insorgono improvvisamente per esposizione a sostanze irritanti, definite "allergeni". L'arrossamento oculare, spesso stagionale (in chi è affetto da febbre da fieno, pollinosi), interessa quasi sempre entrambi gli occhi, è accompagnato da prurito e lacrimazione intensi e può essere associato a gonfiore delle palpebre. Si manifesta con maggiore frequenza nei giovani con predisposizione allergica o con un quadro di allergia generale già accertata dal dermatologo o dall'allergologo. Nelle donne spesso la causa è da ricercarsi in un'intolleranza nei confronti sia dei cosmetici utilizzati per truccarsi e struccarsi gli occhi che dei prodotti di bellezza in generale, compresi quelli definiti ipoallergenici. In questo caso la semplice sospensione dell'applicazione del cosmetico irritante consente di ottenere il miglioramento dei sintomi.
Più in generale, il primo "trattamento" consiste nell'evitare o nel ridurre al minimo il contatto con l'allergene, laddove possibile, sospendendo nel frattempo l'eventuale uso di lenti a contatto. La terapia, di competenza medica, si avvale di colliri antiallergici a base di antiistaminici (cromoglicato di sodio, nedocromile, levocabastina). Nei casi più lievi si può ricorrere per alcuni giorni ai numerosi prodotti di libera vendita che associano antiistaminici e vasocostrittori (es. Imidazyl A, Tetramil). Quando i sintomi oculari si accompagnano a rinite si può associare per alcuni giorni un antiistaminico orale (es. Zirtec) ad un collirio a base di vasocostrittori.

La comparsa di una congiuntivite infine può essere dovuta a cause fisiche come esposizione a luce troppo intensa per periodi prolungati (es. riverbero della neve in una giornata di sole senza indossare gli occhiali, saldature), vento, freddo. Nella maggior parte dei casi, il semplice ricorso ad un collirio a base di vasocostrittori (es. Collirio Alfa, Stilla) risolve il problema in breve tempo.
Nel caso la congiuntivite sia dovuta a cause chimiche come fumi, vapori irritanti di sostanze tossiche (acido muriatico, candeggina, ammoniaca, disincrostanti) l'intervento più importante ed urgente consiste nell'abbondante e prolungato lavaggio con sola acqua corrente e nel rivolgersi al più vicino Pronto Soccorso.


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Xeroftalmia

La xeroftalmia è una condizione caratterizzata da alterata secrezione delle lacrime. Spesso si accompagna a xerostomia, un'alterata secrezione della saliva. Anche se sembrano disturbi poco rilevanti, possono in realtà compromettere la qualità di vita delle persone che ne sono affette poiché lacrime e saliva sono importanti per preservare l'integrità strutturale e funzionale degli occhi e della bocca.

Le lacrime costituiscono un fluido essenziale per mantenere l'occhio in buona salute. Sono costituite per il 90% da acqua, in cui sono disciolti elettroliti ed enzimi, che viene secreta dalle ghiandole lacrimali, trasportata sulla superficie dell'occhio da 10-12 dotti escretori e distribuita dalle palpebre con l'ammiccamento. Il rimanente 10% è formato da lipidi, prodotti dalle ghiandole del Meibonio, e mucina secreta dalla congiuntiva, entrambi componenti importanti per mantenere la stabilità del film lacrimale. La funzione principale delle lacrime è quella di lubrificare la superficie oculare ma servono anche per allontanare dall'occhio eventuali corpi estranei e per proteggerlo grazie a intrinseche proprietà antibatteriche.

Le lacrime vengono costantemente prodotte e rimosse attraverso il dotto nasolacrimale. In presenza di scarsa o alterata secrezione lacrimale, la congiuntiva si secca e l'occhio si arrossa e brucia; il paziente può riferire anche prurito o sensazione di corpo estraneo; se il problema si protrae nel tempo può portare alla formazione di lesioni della cornea. Fotofobia e blefarospasmo sono sintomi che spesso accompagnano la secchezza oculare.
Cause
L'alterazione del liquido lacrimale ha cause diverse che interessano i suoi singoli componenti. Infatti può essere dovuta ad insufficiente secrezione di acqua (come nel caso della keratocongiuntivite secca o nella sindrome di Sjögren), a carente secrezione lipidica ad opera delle ghiandole di Meibonio (come nella blefarite) o a una ridotta produzione di mucina (come accade nella sindrome di Stevens-Johnson). La secchezza oculare può essere anche una manifestazione della rosacea e dell'artrite reumatoide. In alcune donne in menopausa è una conseguenza della carenza di estrogeni. Anche difficoltà nell'ammiccamento o anomalie anatomiche possono comportare alterazioni del film lacrimale. In questi ultimi anni si è assistito ad un notevole incremento dei casi di xeroftalmia derivante da particolari condizioni ambientali o professionali che andranno sempre verificate. Infine, come nel caso della xerostomia, alcune classi di farmaci (diuretici, antidepressivi e beta-bloccanti) possono annoverare la secchezza oculare fra i loro effetti indesiderati. La xeroftalmia da deficit di vitamina A è un problema che interessa soprattutto i Paesi in via di sviluppo.
Trattamento
In molti casi il disturbo scompare risolvendo il problema di base. La presenza di sintomi concomitanti come secchezza alla bocca, dolori articolari, disfagia, dispareunia, manifestazioni dermatologiche può orientare gli eventuali approfondimenti diagnostici. Il trattamento, sia temporaneo in attesa di una diagnosi, che cronico, si limita alla somministrazione di lubrificanti artificiali, comunemente chiamati sostituti lacrimali [(es. Lacrimalfa, Lacribase), disponibili anche in gel (es. Lacrinorm gel, Siccafluid gel, quest'ultimo erogabile a carico del SSN) più adatti per la somministrazione serale prima di coricarsi perché possono offuscare la vista]. E' indispensabile ricordare al paziente che la somministrazione va effettuata ad intervalli regolari (normalmente 4 volte al giorno nei casi più lievi fino a una volta ogni 15-30 minuti nei casi più gravi) e non solo quando si comincia ad avvertire la sensazione di fastidio. In caso di somministrazione frequente va data la preferenza a prodotti monodose che sono privi di conservanti (es. Dacriosol). Gli inserti oculari (Lacrisert) che consentivano di avviare all'inconveniente di una somministrazione frequente, non sono più in commercio. Nei casi più gravi può essere necessario ricorrere alla chiusura (temporanea o permanente) del condotto di drenaggio. Evitare di esporsi al vento o di stare in ambienti troppo caldi e secchi può contribuire ad alleviare il fastidio.

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Il fuoco di Sant'Antonio (herpes zoster)

Il termine "herpes zoster" ci riconduce all'antichità. "Herpes" deriva da "hérpo" che nel greco antico significa strisciare; il sostantivo "herpetón" indica il serpente. "Zostér", significa cintura. Nella tradizione, Sant'Antonio l'Eremita ingaggiava battaglie contro il demonio che frequentemente appariva sotto forma di serpente. Herpes zoster, "fuoco di Sant'Antonio", mai nome è stato più appropriato per descrivere una malattia dolorosa che ha tutte le caratteristiche di un serpente di fuoco che si annida all'interno del corpo e che a volte ha strascichi lunghi e invalidanti. La malattia è in costante aumento per l'allungarsi della vita media: la frequenza infatti aumenta con l'età: tra i 20 e i 50 anni si ammala 1 persona su 1000 ogni anno mentre oltre gli 80 anni una su 100.
In genere, il fuoco di S. Antonio si manifesta una sola volta nella vita.

La causa
La varicella e l'herpes zoster sono due diverse malattie causate da un unico virus, il virus della varicella-zoster (della famiglia degli herpes virus). Una volta contratta l'infezione, che la prima volta si manifesta come varicella, il virus per lungo tempo può risiedere nell'organismo senza replicarsi (fase latente). Il virus si annida infatti in particolari strutture del sistema nervoso (gangli nervosi, in genere sensitivi), ma non è stata definitivamente chiarita la modalità con cui vi si trasferisce. A distanza di tempo dall'infezione primaria, il virus può riattivarsi e replicarsi, raggiungendo la regione cutanea innervata dal ganglio nervoso dove si era annidato, dando così luogo ai sintomi dell'herpes zoster.

Come si manifesta
Solitamente il primo sintomo dell'herpes zoster è rappresentato dal dolore e dalla comparsa di formicolii in una determinata zona del corpo. Il dolore può avere differenti caratteristiche, può essere profondo e sordo o lancinante e bruciante e precede di alcuni giorni la comparsa delle classiche vescichette sulla pelle che compaiono solo da un lato del corpo e non attraversano, se non eccezionalmente, la linea mediana; le lesioni vescicolose, quindi, si riuniscono a grappolo e nel giro di alcuni giorni divengono pustolose. La risoluzione avviene in 7-10 giorni con formazione di croste che persistono per alcune settimane. Spesso si ingrossano anche i linfonodi presenti nella zona colpita; raramente compare febbre e malessere generale. Nella maggior parte dei casi la malattia guarisce spontaneamente senza strascichi, ma in alcune persone persiste una complicanza chiamata nevralgia post-erpetica. Questa è caratterizzata dalla persistenza, a livello dell'area cutanea interessata dalle lesioni, di dolore, spontaneo o provocato da movimenti banali, e da alterazioni della sensibilità, che rimangono anche per molto tempo dopo la guarigione delle lesioni cutanee (oltre i 30 giorni dall'inizio delle manifestazioni cliniche). Sembra che la probabilità di nevralgia posterpetica sia tanto più elevata quanto più anziana è la persona colpita e quanto più è intenso il dolore iniziale. Una volta manifestatasi, risulta difficile controllarla tanto che spesso si deve ricorrere a molteplici tentativi di trattamento per alleviare il dolore.
Se l'herper zoster colpisce gli occhi possono formarsi ulcere corneali ma è una eventualità molto rara.
Le donne in gravidanza che non hanno mai avuto la varicella devono evitare il contatto con i pazienti affetti da herpes zoster nelle fasi iniziali perché potrebbero acquisire il virus attraverso le vescicole. Contrarre la varicella durante la gravidanza può comportare gravi conseguenze al nascituro, soprattutto a carico del sistema nervoso centrale.

Come si tratta
Quando la malattia si manifesta in una persona giovane (sotto i 50 anni di età) e senza altre malattie, poiché il decorso clinico è benigno e raramente complicato dall'insorgenza di nevralgia post-erpetica, i farmaci antivirali non sono consigliati tranne alcune eccezioni (interessamento del nervo ottico e facciale). Nei pazienti più anziani la terapia antivirale è in grado di migliorare alcuni aspetti (permanenza delle lesioni, durata del dolore acuto) e, se iniziata precocemente (entro 72 ore dall'insorgenza delle manifestazioni cutanee), vi è qualche probabilità che prevenga la nevralgia post-erpetica. L'effetto degli antivirali sembra comunque modesto.
La zona interessata dalle lesioni può essere lavata delicatamente con acqua e sapone, ma è sconsigliata l'applicazione di creme.
Il trattamento della nevralgia post-erpetica coincide col trattamento del dolore cronico e richiede spesso molti tentativi con farmaci diversi.

SUCCESSIVO (ARTRITE REUMATOIDE)

 


 

Artrite reumatoide


E' una malattia infiammatoria cronica che colpisce prevalentemente le articolazioni, ma che può coinvolgere anche il sistema nervoso, l'apparato respiratorio, l'apparato cardiocircolatorio e il sangue.Nonostante sia possibile la sua comparsa nell'età infantile (artrite giovanile), essa si manifesta soprattutto tra i 35 e i 50 anni di età, con frequenza quattro volte superiore nelle donne.
CAUSE:
La causa di tale malattia è tuttora non completamente conosciuta: alcuni ritengono che tale malattia possa essere causata da un virus che colpisce un soggetto predisposto geneticamente a sviluppare questo tipo di patologia. E' sicuramente conosciuto il procedimento che porta alla comparsa delle lesioni tipiche della patologia. Si tratta di una specie di auto-aggressione che il sistema immunitario del malato esercita verso sé stesso (malattia autoimmune). Per ragioni sconosciute i meccanismi immunitari del paziente incominciano a produrre sostanze e cellule che solitamente hanno una funzione di difesa nei confronti degli agenti nocivi esterni, ma che nello specifico attaccano alcuni componenti dell'articolazione, causando quelle modificazioni che sono responsabili dei sintomi e della progressiva deformazione delle articolazioni stesse.
SINTOMI:
La presenza nel sangue di immunocomplessi (complessi antigene-anticorpo) e del fattore reumatoide (anticorpo che lega una porzioni di altri anticorpi) fanno si che questi si accumulino soprattutto a livello delle articolazioni dove scatenano il processo infiammatorio responsabile del dolore e della rigidità della articolazione interessata.
Tali sintomi si manifestano ciclicamente soprattutto al mattino e tendono a diminuire con il movimento. Si possono verificare fasi di acutizzazione intervallate a periodi di remissione dei sintomi.
Le articolazioni più colpite sono quelle del polso, della mano, delle ginocchia, delle spalle, dei gomiti , dei tendini.
Le articolazioni si presentano gonfie e doloranti e se la malattia non viene trattata, gradualmente compaiono le deformità, eventualmente seguite da completa assenza dei movimenti (anchilosi).
Una sua peculiarità è la simmetria delle lesioni, per esempio i due gomiti, i due polsi, le due mani e così via. Tra i diversi sintomi vi può essere anche una leggera febbre, anemia e senso di debolezza.

DIAGNOSI:

Gli esami di laboratorio mostrano l'aumento di tutti gli indici che rivelano infiammazione; spesso risultano positivi la ricerca del fattore reumatoide (Latex test, reazione di Waaler Rose) e degli anticorpi anti-nucleo. Può isultare utile un esame radiografico utile quando le alterazioni sono avanzate al punto da produrre vere e proprie erosioni articolari.

TERAPIA:
La terapia si basa essenzialmente sulla somministrazione di farmaci antinfiammatori (salicilati, fenibutazone) e su norme di comportamento atte a risparmiare danni alle articolazioni. E' consigliabile dunque la ginnastica, la fisioterapia, l'uso di supporti che tengano in posizioni corrette le articolazioni durante la notte ecc.
La scelta del farmaco adatto è del medico specialista e tiene conto dell'età del paziente, della gravità della malattia, del tipo di andamento e del tipo di lesioni che essa determina. In alcuni centri viene praticata la terapia infiltrativa, che consiste nell'iniezione di farmaci all'interno dell'articolazione colpita.
Nelle forme molto gravi e sotto stretto controllo medico possono essere somministrati sali d'oro, la D-pennicillamina e gli antimalarici di sintesi.
La chirurgia interviene nelle fasi più avanzate. Infatti, l'intervento chirurgico consiste nella sinovialectomia, cioè l'asportazione della membrana sinoviale che riveste le articolazioni o i tendini colpiti oppure nella sostituzione delle articolazioni gravemente deformate (artroprotesi) e negli interventi di ricostruzione tendinea.

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IL VARICOCELE: COS'E' E COME SI CURA


Il Varicocele è la dilatazione varicosa delle vene nello scroto. I testicoli ricevono il sangue dall'arteria testicolare che è situata all'interno dell'addome; il sangue viene quindi trasportato via attraverso una serie di piccole vene localizzate nello scroto (plesso pampiniforme). Da qui il sangue refluisce nella vena spermatica interna (vena testicolare) che a sua volta trasporta il sangue indietro sino al cuore. In alcuni uomini le vene attorno al testicolo possono allargarsi o dilatarsi; le vene dilatate sono definite come varicocele


 

E’ molto diffuso tra i giovani.       



Insorge solitamente tra i 15 e 25 anni, eccezionalmente prima, assai di rado nella vecchiaia. Presenta una incidenza elevata (circa il 15% dei giovani visitati alla leva o durante visite medico-sportive); nell’85% dei casi è localizzato a SN, nell’11% è bilaterale e solo nel 4% a DX.
 

                        


CONSEGUENZE
Le vene dilatate determinano un innalzamento di pochi gradi della temperatura del testicolo che se si mantiene per lungo tempo può causare infertilità. Infertilità significa difficoltà alla riproduzione. Nei maschi è quasi sempre dovuta alla produzione di spermatozoi. Gli spermatozoi sono prodotti nei testicoli e la produzione degli stessi è molto sensibile anche a piccole variazioni di temperatura. Perciò se la produzione di spermatozoi è disturbata la funzionalità, il numero e la densità degli spermatozoi può subire notevoli alterazioni. Se lo sperma non è normale la gravidanza può essere impossibile. Dopo la cura del varicocele (che sia chirurgica o radiologica) la funzionalità e il numero degli spermatozoi mostra un netto miglioramento con una crescita significativa della probabilità di gravidanza. Il Varicocele può anche causare una atrofia del testicolo.
SINTOMI
Molte persone ammalate di varicocele non accusano nessun sintomo (molto spesso si accorgono di averlo perché non riescono ad avere figli!); questo dipende spesso dalle sue dimensioni. Quando le dimensioni siano sufficienti a causare sintomi questi sono sostanzialmente due:
• dolore
• problemi di infertilità
Il dolore associato al varicocele è dovuto all'eccessiva pressione del sangue all'interno delle vene dilatate. Tale aumento pressorio così come il dolore aumentano quando si sta in piedi per lunghi periodi di tempo, nell'attività sportiva o sollevando pesi!!!
DIAGNOSI
La diagnosi di Varicocele non è difficile.
Dovrete rivolgervi dal medico specialista che si chiama Urologo che facilmente diagnostica il Varicocele semplicemente con la visita. E' comunque indispensabile una corretta e approfondita valutazione delle cause e dell'entità per le quali non è sufficiente la sola visita clinica.
Un esame del Liquido Seminale (spermiogramma)e un Eco-Doppler sono necessari. L'Eco-Doppler è un esame non-invasivo che impiega gli ultrasuoni molto simile all'Ecografia. L'Eco-Doppler viene solitamente eseguito con il paziente in piedi in modo tale che le vene ripiene di sangue sono più agevolmente visibili. L'intero esame non richiede più di 20 minuti, non è doloroso e non usa raggi.
In tutto il mondo gli studi scientifici affermano che la terapia Mininvasiva con ScleroEmbolizzazione è quella che offre i migliori risultati (90% risolutiva) e le minori complicanze mentre la terapia Chirurgica è da riservarsi solo in quei casi, rari, ove fallisca la terapia di ScleroEmbolizzazione. Per cui quando vi venga proposto un intervento chirurgico per il varicocele chiedete perché non sia possibile la terapia con ScleroEmbolizzazione e pretendete che nel Consenso Informato sia presente l’opzione di scelta per tale terapia come avviene ormai da molti anni negli Stati Uniti.

A cura di:
Dott. Giuseppe Benedetto, Medico- Chirurgo, Specialista in Urologia


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(stenosi uretra)

 

 

LE STENOSI DELL’URETRA:

 COME SI ORIGINANO, COME DIAGNOSTICARLE, COME TRATTARLE


La valutazione di un paziente con stenosi uretrale deve puntare ad una collezione diligente dei dati del paziente: storia ed esame fisico, fino all'identificazione dell'eziologia della stenosi. L'evento che ha causato la stenosi determina la relative entità ed estensione ed è influente nel decidere sul tipo di riparazione più adatto.
Le stenosi possono essere divise in congenito, in infiammatorio, in ischemico, in iatrogenico e traumatico. La stenosi del uretra posteriore è quasi sempre traumatica ed il relativo trattamento differisce sostanzialmente da quello indicato per le stenosi del uretra anteriore. L’uretra anteriore è una struttura estremamente fragile a un solo strato, epiteliale che pone su un tessuto spugnoso
Ciò implica che persino per piccole lesioni traumatiche della mucosa della uretra favorisce l'infiltrazione di urina nel tessuto spugnoso e che induce un processo, denominata spongiofibrosis, che riduce progressivamente il calibro e l'elasticità della parete uretrale. Lo spongiofibrosis si estende prossimalmente e distale riguardo alla stenosi per almeno 1 centimetro ed il tratto uretrale implicato è stato definito da Turner Warwick come "urethra grigio". Altre presentazioni cliniche di stenosi uretrale includono l'infezione urinaria, la prostatite, epididimite, e, nei casi più severi, il flemmone periuretrale e la fistola urinaria.
Le stenosi congenite sono estremamente rare ed i loro numeri possono essere sopravvalutate per la tendenza di definire come congenite piuttosto che idiopatiche quelle stenosi per cui non c’ è una causa identificabile.
Il sospetto di stenosi congenita è legittimo in presenza degli oggetti giovani senza storia dei trattamenti, di trauma o di uretrite, che hanno sofferto di enuresi o di altre forme di incontinenza. In questi casi è importante valutare l'apparato urinario superiore ecograficamente e, se necessario, con un IVP ed effettuare un’ uretrocistoscopia.
La stenosi infiammatoria: sia per gli stati socio-economici e culturali migliorati della popolazione europea come pure la disponibilità degli antibiotici efficaci ha ridotto considerevolmente l'incidenza della gonorrea. Gli agenti eziologici dell'uretrite (non gonococcica) non specifica sono urealyticum di ureaplasma e di chlamydia.
In alcuni oggetti l'esame fisico può mostrare la presenza di una piastra biancastra che coinvolge il prepuzio, il pene ed il meato esterno. Questo corrisponde frequentemente alla diagnosi di balanite erotica obliterante, un processo degenerante che inizialmente coinvolge la pelle del pene e dei glande che possono essere il risultato di un'infezione cronica come il burgorferi di Borrelia, uno spirochete. La stenosi comincia nel meato uretrale e può estendere ai tratti più prossimali del uretra anteriore. Il sospetto diagnostico di BXO richiede una biopsia preliminare delle zone o della circoncisione ritenute sospetto prima di continuare a trattare la stenosi. L’ eziologia ischemica di stenosi sembra essere il fattore di determinazione nella stenosi uretrale che è presente nel 22% dei soggetti che hanno subito un intervento cardiochirurgico che richiede la circolazione extracorporea. È stato segnalato che un drenaggio cistostomico suprapubico o un piccolo catetere di Foley riduce l'incidenza di questa complicazione. La stenosi iatrogenica dovrebbe essere ritenuta sospetta nei soggetti che hanno subito la strumentazione uretrale cieca. La penetrazione dei cateteri e della sonda può causare lo stravaso urinario che può provocare spongiofibrosis. La stenosi dell’uretra bulbare si presenta più in di 10% dei pazienti che subiscono la resezione endoscopica della prostata
La valutazione preliminare dei soggetti deve includere il controllo del meato così come la calibratura dell’ uretra naviculare.
Una stenosi uretrale ritenuta sospetta dovrebbe essere studiata con uretrocistografia con fase minzionale che permette di avere i dettagli completi circa la posizione, il calibro e la lunghezza della stenosi. Questi studi dovrebbero essere svolti con un mezzo diluito di contrasto, adatto ad infusione endovenosa, per evitare le complicazioni secondarie causate da stravaso del mezzo nello spongiosa.
Lo studio deve essere dinamico e dovrebbe essere effettuato a pressione bassa, con il paziente nella posizione a metà laterale. Se la stenosi non è completamente visibile più proiezioni possono essere utili. La valutazione con ultrasuoni dell’ uretra dopo l'iniezione della gelatina di lubrificazione o salino nel lume è stata proposta come metodo efficace per studiare la stenosi uretrale. Anche se l'uso sistematico di queste tecniche non è stato codificato, possono essere considerati un strumento importante dello staging per l'urologo la risonanza magnetica (MRI): essa è utile per la definizione dell'anatomia pelvica che è associata frequentemente con stenosi uretrali posteriori traumatiche e, nei casi selezionati, per determinare la profondità e la densità del tessuto della cicatrice .
Inoltre, MRI è essenziale nello staging della stenosi uretrale dell'origine neoplastico. La valutazione endoscopica è effettuata solitamente sotto l'anestesia locale con uno strumento flessibile o pediatrico. Lo scopo dello studio è di verificare le informazioni ottenute durante l’uretrografia e, specialmente, la quantità di elasticità dei segmenti uretrali vari ed analizzare il trofismo della mucosa vicino alla stenosi.


Trattamento

L’ uretrotomia interna è indicata in presenza di singola stenosi più presto di 1 - 1,5 centimetri .Il trattamento è realizzato sotto l'anestesia epidurale, spinale e richiede la somministrazione della terapia antibiotica finchè il catetere rimane in sede.
L'incisione è fatta solitamente alle ore 12 in punto dove evitare i danneggiamenti della devascolarizzazione. Le complicazioni più frequenti connesse con uretrotomia visiva sono stravaso del liquido di irrigazione nel tessuto spugnoso che può essere seguito dal urosepsi nel caso delle stenosi infettate. La disfunzione erettile può derivare da curvatura acquistata del penis o da un meccanismo veno-occlusivo alterato come complicazione ritardata di un'incisione eccessivamente profonda . Il laser di Nd:YAG che è stato utilizzato nel passato presenta lo svantaggio di emissione della radiazione che profondamente penetra il tessuto con una dispersione irregolare. Il KTP 532 sembra essere meno offensivo e più efficace. Il laser di holmium (HO:yag) di cui la radiazione è altamente assorbibile in acqua e meno penetrante in tessuti, permette di controllare la profondità dell'incisione e genera un'azione emostatica dovuto la bolla del vapore che viene con la formazione di plasma
Questo tipo di trattamento è miniinvasivo prevede ricoveri di 2 massimo 3 giorni e viene effettuato con successo solo in Centri di riferimento con esperienza in tale campo come ospedale di Vicenza.


A cura di:
DR. GIUSEPPE BENEDETTO
U.O. UROLOGIA – OSPEDALE S BORTOLO – VICENZA

successivo  (tumore renale)

 


 

IL TUMORE DEL RENE

Quali sono i sintomi che possono far pensare a un tumore del rene?
Il tumore del rene è uno dei tumori più imprevedibili. Talvolta può impiegare decenni prima di manifestarsi, mentre in altri casi la sua crescita è rapida e aggressiva. Prima che l’ecografia diventasse un esame di routine, la diagnosi risultava spesso tardiva a causa della natura silente di questo tumore. Infatti spesso la massa tumorale è inaccessibile alla palpazione del medico, il rene funziona come prima nella gran parte dei casi, e l’unica spia di allarme può essere qualche goccia di sangue nelle urine.

È molto diffuso il tumore del rene?
Non troppo. Rappresenta circa il 3 per cento dei tumori maligni dell’adulto ed è il terzo tipo più frequente di tumore urologico, dopo quelli della prostata e della vescica. La sua frequenza è stabile, con circa 155 nuovi casi all’anno per ogni milione di abitanti. Il suo picco d’incidenza è intorno alla sesta-settima decade di vita.

Esistono diversi tipi di tumore anche sotto l’aspetto genetico?
È stata di recente introdotta una classificazione dei tumori renali sotto il profilo genetico-molecolare: in questo senso due sono i tipi fondamentali, caratterizzati da un’alterazione del gene VHL o del gene MET. La prima alterazione si associa al carcinoma renale a cellule chiare sporadico,del carcinoma a cellule chiare ereditario (HCRC) e della sindrome di Von Hippel-Lindau. L’alterazione del gene MET è invece alla base del carcinoma papillare ereditario e del carcinoma papillare sporadico. Le mutazioni di entrambi questi geni potrebbero essere usate come spie precoci di presenza e di ripresa del tumore.

Quali sono i fattori di rischio?
Sotto questo aspetto se ne sa ancora poco. Correlazioni deboli e generiche sono apparse solo tra tumore del rene e fumo, tra tumore del rene e diete molto ricche di proteine e di grassi di origine animale.

Oltre all’ecografia, quali sono gli altri esami utili alla diagnosi?
È utile che l’ecografia, anche quando viene eseguita per altri motivi (come, per esempio, per esaminare il pancreas o la cistifellea), sia estesa all’intera regione addominale, e quindi anche ai reni. Il che costituisce un mezzo di diagnosi precoce dei tumori del rene. A sua volta, la TAC rappresenta a tutt’oggi l’esame principale. Trova una valida alternativa nella RMN, soprattutto nei casi di neoplasia estesa alla vena cava inferiore. Il futuro prossimo è nell’associazione PET-TAC.

L’asportazione chirurgica resta la terapia di elezione?
Senza dubbio. La sopravvivenza di un paziente operato con successo di un tumore colto agli esordi è sovrapponibile a quella di chi non si è mai ammalato: il rischio di recidive della malattia, è basso e con ogni probabilità il paziente potrà mantenere le sue abitudini di vita.

La chirurgia è l’intervento principe anche in caso di tumore avanzato?
Sì. La gestione dei tumori renali avanzati è alquanto problematica. Infatti, né la chemioterapia né la radioterapia si sono rivelate efficaci contro la malattia. Questa resistenza riflette la generale insensibilità delle cellule tumorali alla maggior parte degli agenti chemioterapici disponibili. La chirurgia costituisce a tutt’oggi la terapia di riferimento nei confronti del tumore renale anche nelle forme avanzate, in cui siano stati invasi organi adiacenti o con trombi neoplastici nella vena cava inferiore anche la radioterapia ha un ruolo marginale dato che il tumore del rene non è radiosensibile.
Un ruolo sembra assumere negli ultimi anni l’immunoterapia nella quale si vanno a stimolare le difese immunitarie dell’organismo contro il tumore in un meccanismo simile ad un vaccino.

Che cos’è la terapia “conservativa”?
Medici e ricercatori stanno moltiplicando gli sforzi per arrivare a terapie sempre meno invasive, il più possibile rispettose della funzionalità del rene e della qualità di vita del paziente. Una delle strade maestre è proprio quella della terapia “conservativa”: si tratta, cioè, di conservare il rene colpito dal tumore, eliminando la parte cancerosa insieme a una minima parte del tessuto sano circostante, senza ricorrere all’asportazione totale dell’organo.
Attualmente con le tecniche laparoscopiche è possibile seguire l’intervento chirurgico evitando un taglio chirurgico tradizionale, ma solo con delle piccole incisioni corrispondenti alle porte di accesso degli strumenti chirurgici.Queste metodiche presso l’ospedale di Vicenza sono eseguite da tempo con grandi risultati

Cosa succede al paziente una volta eseguita la rimozione chirurgica del tumore?
Deve sottoporsi a controlli periodici per evidenziare con prontezza un’eventuale ripresa del tumore, a livello locale o in altre regioni dell’organismo. In genere viene suggerita una radiografia del torace, TAC addome completo e una visita medica ogni 6 mesi. Un po’ più intensi sono i controlli per i pazienti a maggior rischio di recidiva come, per esempio, coloro che hanno subito un intervento per neoplasie in stadio più avanzato o di tipo più aggressivo. Per questa categoria di pazienti i controlli vanno intensificati tra il secondo e il quarto anno dopo l’intervento chirurgico.
Dott. Giuseppe Benedetto
Divisione di Urologia
Ospedale s.Bortolo –Vicenza

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Le nuove linee guida sull’ipertensione approvate dall’US National Heart , Lung and Blood Institute

Le nuove linee guida per la pressione, ed il trattamento dell’ipertensione sono state preparate da uno speciale Comitato del NHBPEP ( National High Blood Pressure Education Program ) e pubblicate sul "The Journal of the American Medical Association" (JAMA 2003;289:2560-2571).

Le ultime linee guida risalivano al novembre 1997.

La principale novità delle nuove linee guida è rappresentata dall’aver incluso un primo livello, definito di "pre-ipertensione".

Studi clinici hanno infatti dimostrato che il danno a livello delle arterie inizia a presentarsi già a livelli sufficientemente bassi di pressione sanguigna.
Il rischio di mortalità da malattia cardiaca ed ictus inizia ad aumentare già a livelli pressori di 115 mmHg ( sistolica ) e di 75 mmHg ( diastolica ), e raddoppia per ogni incremento di 20/10 mmHg.

Le principali novità delle nuove linee guida comprendono:

- introduzione del livello di "pre-ipertensione". La pressione sanguigna è definita normale quando è inferiore a 120/80 mmHg ( sistolica/diastolica ); pre-ipertensione 120-139 / 80-89 mmHg; ipertensione di stadio 1: 140-159 / 90-99 mmHg; ipertensione stadio 2: superiore a 160 mmHg (sistolica) o a 100 mmHg (diastolica)


- accorpamento degli stadi 2 e 3 di ipertensione, perché l’approccio terapeutico è lo stesso.

I soggetti definiti "pre-ipertesi" non necessitano di trattamento farmacologico, con l’esclusione dei pazienti con diabete o malattia renale cronica.
La "pre-ipertensione" richiede cambiamenti nello stile di vita ( perdita del peso eccessivo, svolgere attività fisica, limitare l’assunzione di alcolici, seguire una dieta a basso contenuto di sodio ).
Viene raccomandato di seguire la dieta DASH ( Dietary Approaches to Stop Hypertension ) ricca di verdura , frutta e priva di grassi.

I pazienti con ipertensione di stadio 1 potrebbero avvantaggiarsi del trattamento farmacologico. Il farmaco di prima scelta dovrebbe essere un diuretico tiazidico, eventualmente associato ad un farmaco di altra classe.
I diuretici hanno dimostrato di essere efficaci nel prevenire le complicanze cardiovascolari dell’ipertensione.

La motivazione dei pazienti è elemento fondamentale per il successo della strategia terapeutica adottata.

I cambiamenti dello stile di vita riducono la pressione sanguigna e favoriscono l’efficacia della terapia antipertensiva.

A) Riduzione del peso corporeo
L’obiettivo è il mantenimento di un indice di massa corporea ( BMI ) compreso tra 18,5 e 24,9 kg/m(2) . Per ogni 10 kg persi si ha una riduzione della pressione variante tra 5 e 20 mmHg.

B) Adozione della dieta DASH
Consumare una dieta ricca di frutta, verdura e a basso contenuto di grassi ( grassi saturi e grasso totale ) permette di ridurre la pressione di 8-14 mmHg.

C) Riduzione del sodio nella dieta
Ridurre l’apporto di sodio nella dieta a non più di 100 mmol/die (= 6 g di cloruro di sodio) permette di ridurre la pressione di 2-8 mmHg.

D) Attività fisica
Una regolare attività fisica aerobica, come il camminare sostenuto per almeno 30 minuti al giorno, per più giorni alla settimana, permette di ridurre la pressione di 4-9 mmHg.

E) Moderazione nell’assunzione di alcool
La limitazione al consumo di non più di 2 bicchieri di bevande alcoliche ( birra , vino ) al giorno per gli uomini ed 1 bicchiere al giorno per le donne e per i soggetti a basso peso corporeo, permette di ridurre la pressione di 2-4 mmHg.

( Xagena 2003 )

Fonte: NHLBI / NIH

Trattamento dell’ipertensione nei pazienti con comorbidità

Secondo le nuove linee guida Usa sull’ipertensione, il farmaco di prima scelta nei pazienti ipertesi è il diuretico tiazidico eventualmente associato ad un farmaco di differente classe.

La raccomandazione nasce dalle conclusioni dello Studio ALLHAT ( Antihypertensive and Lipid Lowering Treatment to Prevent Heart Attack Trial ).

I pazienti con ipertensione ed altre morbidità richiedono una particolare attenzione.

Ipertensione + Cardiopatia ischemica

Nei pazienti con ipertensione ed angina pectoris stabile, il farmaco di prima scelta è un beta bloccante.
In alternativa può essere impiegato un calcio-antagonista a lunga durata d’azione.

Nei pazienti con sindrome coronarica acuta ( angina instabile o infarto miocardico ) , l’ipertensione dovrebbe essere trattata inizialmente con beta-bloccanti ed Ace inibitori, con l’aggiunta di altri farmaci se necessari a controllare la pressione sanguigna.

Nei pazienti post-infartuati, gli Ace inibitori, i beta-bloccanti egli antagonisti dell’aldosterone hanno dimostrato di essere maggiormente benefici.

Sono anche indicati i farmaci per il trattamento delle dislipidemie e l’Aspirina.

Ipertensione + Insufficienza cardiaca

Nei pazienti ad alto rischio di insufficienza cardiaca, il trattamento della pressione sanguigna e dell’ipercolesterolemia rappresentano misure preventive importanti.

Nei soggetti asintomatici con dimostrata disfunzione ventricolare sono raccomandati gli Ace inibitori ed i beta-bloccanti, mentre nei pazienti con disfunzione ventricolare sintomatica o malattia cardiaca ad ultimo stadio, trovano indicazione gli Ace inibitori, i beta-bloccanti gli antagonisti del recettore dell’angiotensina ( sartani ) , gli inibitori dell’aldosterone , assieme ai diuretici dell’ansa.

Ipertensione diabetica

E’ generalmente necessario associare 2 o più farmaci per raggiungere valori pressori inferiori a 130/80 mmHg.
I diuretici tiazidici, i beta-bloccanti, gli Ace-inibitori, i sartani ed i calcio-antagonisti hanno effetti favorevoli sulla riduzione dell’incidenza di malattia coronarica e di ictus nei pazienti con diabete.
I trattamenti basati su Ace-inibitori o sartani rallentano la progressione della nefropatia diabetica e riducono l’albuminuria.
E’ stato dimostrato che i sartani sono in grado di ridurre la progressione verso la macroalbuminuria.

Ipertensione + malattia renale cronica

L’obiettivo terapeutico nei pazienti con malattia cronica renale è quello di rallentare il deterioramento della funzione renale e prevenire la malattia cerebrovascolare.
La malattia renale cronica è definita da:
1) ridotta funzione escretoria con GFR ( frazione di filtrazione glomerulare ) al di sotto di 60 ml/min per 1,73 m(2) ( che corrispondono approssimativamente a livelli di creatinina superiori a 1,5 mg/dL negli uomini , o superiori a 1,3 mg/dL nelle donne );

2) presenza di albuminuria ( superiore a 300 mg/die o 200 mg albumina / g creatinina ).


L’ipertensione è comune in questi pazienti che dovrebbero essere sottoposti ad un deciso trattamento, spesso con 3 o più farmaci in modo da raggiungere valori pressori inferiori a 130/80 mmHg.
Gli Ace inibitori ed i sartani hanno dimostrato di esercitare effetti favorevoli sulla progressione della malattia renale sia diabetica che non diabetica.Un aumento della creatinina sierica del 35% sopra i livelli basali con gli Ace-inibitori o i sartani è accettabile e non dovrebbe indurre a rimandare il trattamento a meno che non si sviluppi iperpotassiemia.
Nella forma avanzata della malattia renale ( GFR < 30 ml/min 1,73 m(2) corrispondente a livelli plasmatici di creatinina di 2,5-3 mg/dL ) è opportuno aumentare il dosaggio del diuretico dell’ansa.

Ipertensione + malattia cerebrovascolare

I rischi ed i benefici della riduzione della pressione sanguigna nel corso di un ictus in fase acuta non sono ancora ben chiariti.
Il controllo della pressione a livelli intermedi ( approssimativamente 160/100 mmHg ) può risultare appropriato finché la situazione si sia stabilizzata o abbia dato segni di miglioramento.
L’incidenza di ictus recidivante è ridotta dalla somministrazione di un diuretico e da un Ace inibitore.


Fonte: NHLBI ( National Heart, Lung, and Blood Institute ) / NIH ( U.S National Institutes of Health )
The Seventh Report of the Joint National Committee on
Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure ( JNC 7 )

 

successivo (disturbi somatici nella depressione)

 




da......

 

Disturbi somatici funzionali nella depressione:

quale trattamento?

 del  Dott. Vincenzo Manna, Medico, Psicoterapeuta, Specialista in Neurologia, Specialista in Psichiatria

 I dati illustrati, non vogliono arrogarsi il carattere d’evidenza scientifica, considerato il disegno dello studio (aperto ed osservazionale), nonché il limitato numero di pazienti reclutati nei diversi trattamenti. Esso rappresenta solo il tentativo di illustrare, in estrema sintesi, l’esperienza clinica pluriennale, maturata sul campo, in quest’ambito d’attività.

 

L’incidenza della depressione, a livello internazionale, risulta essere in rapido aumento. Nel 2020, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, questo disturbo potrebbe rappresentare la seconda causa di malattia e d’invalidità temporanea.  Molti Medici di Medicina Generale sottostimano l’incidenza della malattia depressiva, tra i loro pazienti, e spesso tendono a sottostimare oppure a non diagnosticare correttamente l’esordio sintomatologico del disturbo. Così, la malattia spesso progredisce per anni, prima che venga riconosciuta e trattata. I pazienti che richiedono il trattamento di sintomi fisici funzionali, al Medico di Medicina Generale (MMG), presentano molto frequentemente una depressione sub-clinica. Il dolore fisico , in fase d’esordio ,spesso complica la diagnosi

di depressione:il dolore cronico ed il persistere di sintomi fisici, nonostante un’opportuna ed adeguata terapia sintomatica, dovrebbe allarmare i medici. La depressione, infatti, sembra essere fortemente correlata al dolore diffuso e cronico, soprattutto in relazione all’invalidità soggettiva che il paziente riferisce alla sintomatologia algica.  Così, la sottostima diagnostica della depressione nei pazienti con sintomi esclusivamente fisici diventa, contemporaneamente, fonte di insoddisfazione per il paziente, che richiede continuamente interventi diagnostici e terapeutici spesso pressanti.  Molti pazienti, inoltre, sottovalutano o non riferiscono  problemi psico-sociali mentre enfatizzano la sintomatologia fisica, spesso dolorosa, come il loro unico problema. In questo contesto clinico è indispensabile che il medico riconosca il significato dei sintomi fisici funzionali e continui, soprattutto del dolore cronico . Una diagnosi precoce ed un opportuno e tempestivo trattamento della depressione mascherata può avere, infatti, enorme importanza clinica sull’evoluzione del quadro patologico e della prevedibile invalidità ad essa correlata.

I sintomi fisici sono componenti nucleari della diagnosi di disturbo depressivo maggiore, secondo i criteri diagnostici del DSM IV TR. Questo manuale diagnostico, come molti altri sistemi nosografici, descrive i sintomi della depressione includendovi: disturbi gastro-intestinali, disturbi sessuali, disturbi dell’appetito, cefalea, fatica, disturbi del sonno, dolori somatici diffusi e continui.

Kroenke  ha evidenziato che più aumenta il numero dei sintomi somatici lamentati e la loro durata nel tempo, maggiore è la probabilità che derivino da una sintomatologia depressiva.

 

. E’ stato valutato che circa il 30 % dei pazienti con depressione sperimenta sintomi fisici, per più di cinque anni, prima di ricevere una corretta diagnosi.  I Medici di Medicina Generale si confrontano, cioè, con pazienti depressi che riferiscono solo sintomi fisici e non disturbi emotivi, affettivi o psico-sociali. In uno studio, il 69% dei pazienti, all’esordio della depressione, riconosce nei sintomi fisici la sola ragione per chiedere una visita al medico, e circa l’11% di essi arriva a negare disturbi dell’umore anche dopo esplicita richiesta, in tal senso.  Si potrebbe sostenere che i sintomi fisici  tendono ad essere il principale aspetto sintomatologico della depressione al suo esordio.

Aspetti neurobiologici correlati al dolore nella depressione

Un numero crescente di studi in Letteratura suggeriscono che la noradrenalina (NA) e la serotonina (5HT) possano svolgere un ruolo rilevante nella patogenesi sia dei sintomi fisici sia dei sintomi affettivi ed emotivi della depressione.  In particolare, il dolore cronico e la depressione dell’umore presentano comuni substrati neurobiologici. La noradrenalina e la serotonina sono coinvolte, infatti, nella fisiopatologia tanto del tono dell’umore quanto nel sistema centrale di modulazione del dolore. I pazienti con disturbo depressivo maggiore, caratterizzato da sintomi emotivi e fisici, può avere nella disregolazione neurotransmittitoriale NA e 5HT un fattore che contribuisce al disturbo dell’umore ma anche all’abbassamento della soglia al dolore, per effetti sulle vie discendenti inibitorie specifiche. Alcuni investigatori, così, hanno ipotizzato che gli antidepressivi che agiscono sul reuptake di entrambi i neurotrasmettitori coinvolti, cioè NA e 5HT, potrebbero essere più efficaci degli antidepressivi selettivi sul reuptake di serotonina (SSRI) nel trattamento dei pazienti con dolore, sintomi fisici funzionali e depressione sub-clinica.  Gli studi clinici indicano che i farmaci con effetti contemporanei su serotonina e noradrenalina sembrano indurre i più evidenti benefici nel trattamento del dolore cronico, anche in assenza di depressione.  La conoscenza dei correlati neurobiologici del dolore e della depressione può rappresentare per medici e psichiatri, ma anche per pazienti e famiglie, un passo fondamentale verso la diagnosi precoce ed un intervento terapeutico efficace e tempestivo, premesse indispensabili per garantire una migliore aderenza ai trattamenti, la remissione clinica dei sintomi somatici e psichici, con conseguente miglioramento della qualità della vita.

In uno studio osservazionale naturalistico, su un campione di ottantatre pazienti depressi, afferenti al Centro di Salute Mentale di Genzano di Roma, che presentavano elevata incidenza di sintomi è stata ricercata anamnesticamente la presenza di sintomi fisici prima o in concomitanza con l’esordio della patologia psichica, nonché la presenza attuale di tali sintomi, la loro rilevanza clinica e la loro rispondenza al trattamento antidepressivo effettuato

Risultati

L’accurata raccolta anamnestica ha permesso di riconoscere, a posteriori, un esordio della sintomatologia fisica funzionale, precedente l’esordio della sintomatologia psichica, nello 87% del campione esaminato, con intervallo di latenza, nel passaggio dalla sintomatologia fisica a quella psichica, di circa quattro anni .

 I dati confermano una sostanziale efficacia del trattamento  quando è stata associata alla psicoterapia individuale di sostegno, un’adeguata psico-farmacoterapia con antidepressivi. In particolare, la venlafaxina, un farmaco antidepressivo con effetti su serotonina e noradrenalina, sembra dare i migliori risultati nella gestione del paziente depresso con sintomi fisici, non solo in confronto al trattamento solo psicoterapeutico, ma anche rispetto agli altri farmaci antidepressivi ad azione selettiva ed esclusiva sul tono serotoninergico .

 

IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ
a cura del Dr. Catello Orazzo
 

Che cos’è il disturbo borderline di personalità?

per DBP si intende una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore, associate ad una marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti. Per porre la diagnosi di DBP occorre che tra nove criteri elencati ne vengano soddisfatti almeno cinque. Di seguito vengono riportati i nove criteri diagnostici con una breve descrizione per ognuno di essi.

1. Sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono
I soggetti borderline si percepiscono intrinsecamente deboli e vulnerabili, e sono convinti di avere bisogno dell’aiuto e del sostegno degli altri.
L’idea di interrompere un legame significativo li getta in uno stato di angoscia profonda. Spesso mettono in atto tentativi disperati tendenti ad evitare l’abbandono; a tale scopo possono implorare o supplicare il/la partner, mettendo in atto delle condotte finalizzate ad ottenere rassicurazione. Purtroppo, spesso, questi comportamenti finiscono col danneggiare ulteriormente la relazione.
Talvolta è sufficiente solo immaginare che una relazione possa essere interrotta per gettare la persona in uno stato di angoscia che spesso esita in vissuti dissociativi.


2. Un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione
Le persone con DBP tendono a coinvolgersi intensamente nelle relazioni affettive e ad idealizzare eccessivamente il/la partner, ma nello stesso tempo sono estremamente attente ad ogni segnale discordante con l’immagine idealizzata, potendo repentinamente passare ad una valutazione opposta di estrema svalutazione. Si oscilla così tra i due estremi di un continuum, per cui le persone vengono valutate secondo un criterio “tutto o nulla”, ad esempio, o completamente buone o completamente cattive. Ne deriva, pertanto, un comportamento che valutato nel tempo risulta estremamente contraddittorio, la stessa persona viene descritta in un primo momento con determinate caratteristiche, in un secondo momento con caratteristiche opposte. Ad es. una paziente in una fase della terapia parlava del padre come di una persona estremamente disponibile, protettiva e affettuosa; in una fase successiva lo descriveva come insopportabile in quanto incapace di mostrare affetto e di essere un buon genitore. Quando ho fatto notare la contraddizione mi ha risposto che non trovava nulla di strano in questo, semplicemente in un momento pensava una cosa e in un momento successivo ne pensava un’altra. Le due visioni non risultavano assolutamente integrate tra di loro, e l’interlocutore ne ricavava la netta impressione che stesse parlando di due persone diverse.


3. Alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili
La messa in atto di comportamenti contraddittori, descritti nel punto precedente, si associa alla presenza di immagini di sé altrettanto contraddittorie e rapidamente oscillanti. In questo modo viene a mancare una visione unitaria e stabile di sé, dando luogo a quella che Kernberg chiama “diffusione dell’identità” e che rappresenta un criterio cardine per l’individuazione dell’organizzazione borderline.
La mancanza di un senso di identità rappresenta una delle caratteristiche principali di questo disturbo. Per compensare tale deficit alcuni soggetti possono affiliarsi a gruppi con caratteristiche fortemente connotate: tossicodipendenti, cultori di sport estremi, gruppi politici estremisti, ecc.; altri, invece, proprio per la mancanza di un senso di identità definito, mostrano una persistente difficoltà nell’effettuare una scelta lavorativa, nello stabilire il proprio orientamento politico o sessuale, o nello stabilire il tipo di amicizie a cui accompagnarsi. Talvolta anche la condotta anoressica, di possibile riscontro tra i soggetti borderline, non appare finalizzata ad ottenere un controllo del peso corporeo, quanto all’assunzione di un’identità, quella dell’anoressica.


4. Impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto, quali spendere, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate
La perdita di controllo può riscontrarsi in svariati ambiti. Questi soggetti svolgono una vita caotica, spesso comportandosi in modo pericoloso. Ad esempio, è frequente il riscontro di abuso di sostanze stupefacenti o di alcolici, talvolta conducono una vita sessuale sregolata e promiscua; la condotta alimentare può essere caratterizzata da abbuffate.
Talvolta le condotte disregolate non rappresentano la conseguenza di un discontrollo degli impulsi, quanto un tentativo di acquisire una identità stabile (vedi punto precedente).


5. Ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante
Sono frequenti i gesti suicidari e di autolesionismo impulsivo, ma mentre i primi si riscontrano con notevole frequenza anche in altre patologie psichiatriche i secondi sono tipici del DBP. Le modalità più caratteristiche consistono nel provocarsi tagli superficiali cutanei, o ustioni. Ovviamente l’assenza di questo sintomo non esclude la diagnosi, infatti molti soggetti borderline non mettono in atto questa condotta.


6. Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore
Chi è affetto da DBP è combattuto tra due bisogni ugualmente intensi: il bisogno di dipendere dagli altri e di ricevere aiuto e rassicurazione, e la necessità di difendersi in un mondo percepito come ostile e minaccioso. Il continuo oscillare tra queste due posizioni, senza mai riuscire a fare una scelta, comporta un’estrema instabilità affettiva, con inevitabili ripercussioni sulle relazioni interpersonali. Si tenga presente, inoltre, che la valutazione dicotomica (“tutto-nulla”) dell’altro, con le frequenti oscillazioni tra due poli estremi, comporta inevitabilmente un’intensa oscillazione dell’umore e della tonalità affettiva.
Si verifica più frequentemente che nelle altre persone, una coesistenza di sentimenti ed emozioni tra loro opposti (ad esempio, odio e amore).
L’affettività del borderline è estremamente instabile, in quanto dipendente dalle variazioni dell’ambiente esterno, e sensibile alle dinamiche relazionali. Si dice che il soggetto borderline è stato-dipendente: al variare delle condizioni ambientali segue un rapido adattamento dell’umore.
L’instabilità affettiva è presente in tutti i soggetti con DBP, tanto che la sua assenza consente di escludere la diagnosi di DBP, però essa è presente anche in altri disturbi psichiatrici come il disturbo bipolare o il disturbo istrionico di personalità.


7. Sentimenti cronici di vuoto
Questo sintomo è molto tipico del disturbo anche se viene spesso taciuto in quanto non è facile trovare le parole per esprimerlo. Per certi aspetti è assimilabile alla noia, anche se si presenta in forma maggiormente angosciante. Non si tratta di semplice disinteresse per attività poco stimolanti, ma è un’angosciosa sensazione derivante dalla mancanza di una strutturazione dell’identità. Talvolta con questo termine piuttosto vago le persone intendono esprimere un vissuto dissociativo di depersonalizzazione o di derealizzazione.
La sensazione di un incolmabile vuoto interno può spingere alcuni soggetti ad abbuffarsi, a tagliarsi o a ricercare emozioni intense, ad es. con la pratica di sport estremi.
La sensazione di vuoto viene talvolta descritta anche dai soggetti depressi, ma questi, a differenza dei pazienti con DBP, non ne hanno una percezione cronica, in essi il senso di vuoto è semplicemente la conseguenza di una perdita di interesse e di stimoli precedentemente sperimentati.


8. Rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (per es., frequenti accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici)
Come per tutte le emozioni, anche la rabbia è intensa e disregolata, però più delle altre emozioni può risultare estremamente evidente e disturbante per le relazioni interpersonali. Rappresenta la molla che spesso è alla base del passaggio all’azione con condotte aggressive disregolate. La rabbia si può manifestare anche come aggressività verbale, sotto forma di critiche sprezzanti o pungenti, sarcasmo, rancore e ostilità.
Le persone che si relazionano con i borderline imparano rapidamente che, così come è possibile destare una brusca reazione rabbiosa alla minima percezione di ingiustizia subita, è anche possibile determinarne una rapida interruzione, al variare delle condizioni esterne: talvolta basta cambiare discorso o rassicurare verbalmente il soggetto.


9. Ideazione paranoide, o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress
La tendenza a valutare gli altri secondo il criterio “tutto-nulla”, o completamente buoni o completamente cattivi, associata all’instabilità affettiva, comporta, in situazioni particolarmente difficili e stressanti, la possibilità di attribuire agli altri intenzioni malevole e persecutorie nei propri confronti.

A differenza dei disturbi psicotici l’ideazione paranoide risulta qui transitoria, cioè della durata di poche ore e strettamente legata agli eventi stressanti. Inoltre, questi soggetti contrariamente agli psicotici, vivono questi episodi in modo disturbante e manifestano l’intenzione di liberarsene.
Tra i sintomi dissociativi più frequenti vi è la depersonalizzazione e la derealizzazione. La prima si riferisce a vissuti di mancata percezione del proprio corpo o di parte di esso, oppure alla sensazione che la propria mente non controlli più il corpo, o ancora alla sensazione di osservare il corpo dall’esterno; la seconda consiste nella sensazione che la realtà esterna sia in qualche modo trasformata o distanziata; alcuni riferiscono la sensazione che tra la propria persona e la realtà esterna ci sia un velo o un foglio trasparente.

Secondo il DSM IV per porre diagnosi di DBP non è necessario che tutti i criteri riportati vengano soddisfatti: ne bastano solo cinque. Da ciò consegue che due soggetti con la stessa diagnosi di DBP possono avere in comune solo un criterio diagnostico e quindi differire notevolmente nel quadro clinico.

Secondo la teoria cognitivista classica questi soggetti presentano alcuni schemi mentali che condizionano il proprio mondo emotivo e le relazioni interpersonali. La loro visione del mondo è dominata dall’incertezza, in quanto si sentono estremamente insicuri rispetto ai sentimenti che gli altri nutrono nei loro confronti, al grado di fiducia che possono riporre nel mondo esterno, e alla sua stabilità.
Beck sintetizza gli schemi mentali del DBP in tre punti principali:
- il mondo è pericoloso e cattivo;
- io sono impotente e vulnerabile;
- io sono intrinsecamente inaccettabile.
Questa triade cognitiva svolgerebbe un ruolo centrale nell’influenzare la percezione della realtà e sarebbe alla base del quadro clinico del disturbo.

Secondo Linehan alla base del disturbo c’è una disfunzione della regolazione emotiva, probabilmente condizionata da una predisposizione biologica, e aggravata dall’interazione con un ambiente familiare invalidante. I soggetti borderline reagiscono agli stimoli con emozioni molto più intense e durature rispetto alle altre persone. Questa modalità di risposta non riguarda solo le emozioni “negative” come la rabbia, la paura e la tristezza, ma anche le emozioni più piacevoli come la gioia, la sorpresa, ecc.
Chi interagisce che una persona borderline ricava spesso l’impressione di una persona con una forte coloritura emotiva, di una vita “a tinte forti”. Ne deriva spesso un forte coinvolgimento emotivo con possibilità di innesco di circoli interpersonali che possono essere positivi, suscitando una sensazione di rivitalizzazione emotiva e di piacevole coinvolgimento; o negativi come ad es. nel circolo relazionale indotto dalle reazioni rabbiose del soggetto borderline, in cui l’interlocutore si lascia trascinare in una relazione rabbiosa che finisce col confermare gli assunti di base del borderline. “Io sono intrinsecamente inaccettabile” e “il mondo è cattivo e pericoloso”.


È più frequente nelle donne, e solitamente compare nell’adolescenza o nella prima età adulta.
La sua incidenza nel corso degli ultimi decenni è apparsa in sensibile aumento. Si calcola che circa il 3% della popolazione è affetta dalla forma clinica completa e una percentuale molto maggiore presenta forme cliniche parziali.
Le persone affette da questo disturbo presentano una sensibilità estremamente spiccata e un’emotività molto vivida. Queste caratteristiche possono essere causa di enormi sofferenze, ma possono anche rappresentare risorse da utilizzare in modo costruttivo.
Purtroppo la diagnosi di disturbo borderline di personalità (DBP) viene frequentemente omessa e queste persone vivono, spesso, un disagio per tutta la vita, senza poter dare ad esso un nome, e senza sapere che avrebbero potuto trarre vantaggio da una terapia appropriata

Perché la diagnosi di DBP risulta difficile?

Il quadro clinico del DBP appare in genere piuttosto confuso e variabile da un periodo all’altro della vita. La presenza di una sintomatologia variegata e complessa conduce spesso a diagnosi psichiatriche svariate: disturbo depressivo, distimia, disturbo bipolare, disturbi d’ansia, psicosi, disturbo istrionico, ecc. Non è infrequente che queste persone ricevano la giusta diagnosi solo dopo numerose diagnosi psichiatriche errate o parziali. È anche frequente, tuttavia, l’associazione di questo disturbo ad altri disturbi di personalità (disturbo narcisistico di personalità, disturbo antisociale di personalità, disturbo istrionico di personalità, ecc.) o ad altre diagnosi psichiatriche (depressione, distimia, disturbo bipolare, disturbo schizoaffettivo, ecc.).


Quali sono le cause del disturbo?

Le cause del disturbo restano sostanzialmente sconosciute, non esistono dati certi anche se sono state sviluppate numerose teorie, alcune delle quali vengono considerate piuttosto attendibili.
Vi sono evidenze che in alcuni soggetti possa essere coinvolta una componente genetica o altri fattori biologici.
Per la maggior parte dei pazienti entrano in gioco fattori psicologici, come per es. aver subito un trauma infantile (maltrattamento, violenza sessuale, abbandono).
Secondo gli psicologi evoluzionisti alla base del disturbo vi sarebbe un tipo particolare di relazione che si instaura nella prima fase della vita tra il bambino e la figura che lo accudisce, in particolare essi parlano di “attaccamento disorganizzato”, intendendo con questo termine l’impossibilità da parte del bambino di farsi un’idea stabile di come funziona la figura accudente e in particolare della modalità di risposta ai segnali di richiesta di accudimento che il bambino istintivamente emette nel momento del bisogno (fame, bisogno di essere pulito, dolore, ecc.). Quello che manca nella relazione madre- figlio non è tanto la coerenza della risposta, quanto una sintonia tra il gesto di accudimento e l’emozione ad esso associata, che il bambino percepisce soprattutto attraverso l’espressione del viso materno. Si tratta spesso di madri che pur accudendo normalmente il bambino sul piano materiale, sono turbate a livello emotivo per i motivi più disparati. Secondo la Main l’aspetto centrale alla base di questo tipo di attaccamento sarebbe la presenza di un genitore che, invece di fornire un “base sicura” alla richiesta di cura e accudimento da parte del bambino, diventa fonte di paura, o perché esso stesso “impaurito e bisognoso di accudimento” o addirittura perché apertamente abusante e/o maltrattante; molto spesso si tratta di genitori con vissuti estremamente dolorosi, ad esempio perché hanno avuto un lutto non elaborato, oppure sono stati a loro volta vittime di maltrattamenti o abusi nel corso della loro vita; talvolta si tratta di persone affette da malattie psichiatriche.


Come evolve il DBP?

Il decorso del disturbo è variabile e spesso prolungato per tutto l’arco della vita. Vengono descritte due modalità di decorso:
-decorso ad andamento fluttuante: si evidenzia una sintomatologia che nel corso della vita presenta fasi di incremento alternate a fasi di parziale attenuazione;
-decorso progressivamente declinante: con l’avanzare dell’età la sintomatologia si attenua progressivamente.


Come si può curare il DBP?

Anche se molte persone sono ancora scettiche circa la terapia del disturbo, si nutre una fiducia sempre maggiore in alcune forme di psicoterapie. Per alcune di esse esistono evidenze di efficacia.
Negli ultimi anni è stata sperimentata con un discreto successo una tecnica di derivazione cognitivo-comportamentale, chiamata “terapia dialettico-comportamentale”, finalizzata a ridurre i comportamenti autolesivi in pazienti borderline di sesso femminile.
Questa psicoterapia è stata la prima per la quale è stata documentata un’efficacia nel trattamento del DBP attraverso studi controllati.
Il trattamento si struttura in sedute di gruppo, che si tengono 1 o 2 volte la settimana per almeno un anno, associate a sedute individuali con cadenza settimanale. Il nucleo centrale del trattamento consiste nell’apprendere modalità di regolazione di un sistema emotivo considerato discontrollato. In particolare si sottolinea l’attenzione rivolta alla validazione delle emozioni. Si cerca in questo modo di contrastare gli effetti negativi provocati, durante l’infanzia, da un ambiente familiare fortemente invalidante. Per ambiente invalidante si intende un ambiente incapace di attribuire alle emozioni del bambino il giusto significato, e le risposte adeguate; talvolta si tratta di genitori che hanno difficoltà a leggere le emozioni proprie e altrui. In questo ambito rientrano anche tutte le manifestazioni di abuso o di trascuratezza.
Il lavoro in gruppo è arricchito da tecniche psicoeducazionali e si articola nei seguenti moduli:
1) abilità di mindfulness (versioni psicologiche e comportamentali delle tecniche di meditazione derivate da pratiche spirituali orientali, in particolare dalla filosofia Zen),
2) abilità di efficacia interpersonale,
3) abilità di regolazione emozionale,
4) abilità di tolleranza della sofferenza mentale.
Altre tecniche psicoterapeutiche utilizzate sono la psicoterapia di stampo analitico modificata da Kernberg; la psicoterapia cognitivo-comportamentale adattata al DBP.
La farmacoterapia può essere indicata per trattare l’impulsività, i disturbi affettivi e il discontrollo comportamentale; l’attenuazione di tale sintomatologia consente al soggetto borderline di accedere ad un trattamento psicoterapeutico con maggiore efficacia.
I farmaci più utilizzati nel caso di sintomi psicotici, impulsività e ostilità sono gli antipsicotici a basso dosaggio; attualmente si prediligono quelli di nuova generazione fra cui olanzapina, risperidone, quetiapina. Per l’instabilità affettiva vengono utilizzati gli stabilizzanti dell’umore (carbamazepina, acido valproico, lamotrigina, ecc.) e gli antidepressivi serotoninergici. Maggiore prudenza viene raccomandata per l’uso delle benzodiazepine a causa del rischio di induzione di dipendenza.
 

Il panico: un disturbo antico e moderno

a cura della dott.ssa Francesca Bortolotti

Fin dai tempi dell’antica Grecia è stato descritto un disturbo che provocava paure irragionevoli in soggetti sani di mente.
La parola panico deriva dal nome di Pan, una divinità della mitologia greca, che induceva un improvviso ed intenso stato di terrore nei viandanti (vedi figura).
Il disturbo di panico (DP) rientra fra i disturbi psichici più frequenti, con una prevalenza nel corso della vita di circa il 2%; negli ambienti medici generali, le percentuali di prevalenza variano dal 10 al 30%, e circa il 10% dei pazienti inviati per un consulto psichiatrico ne sono affetti.
La sua incidenza nella popolazione femminile è circa il doppio rispetto a quella maschile.
Può comparire ad ogni età, ma più spesso esordisce nella tarda adolescenza o nella prima età adulta. Il decorso è solitamente cronico con un’alternanza di periodi di crisi e di remissioni che talvolta durano anni. Alcuni soggetti possono manifestare un andamento clinico continuativo.
I soggetti affetti da DP sono spesso incompresi da familiari, amici e colleghi di lavoro, che minimizzando la gravità della sintomatologia riferita, possono contribuire a ritardare un tempestivo invio allo specialista per le cure necessarie. Un trattamento inadeguato, o mancato, comporta un maggior rischio di cronicizzazione della patologia; tale esito può risultare molto invalidante per il soggetto, inducendo una notevole compromissione del funzionamento sociale e lavorativo.
Il DP si caratterizza per la presenza di ricorrenti attacchi di panico.
Per attacco di panico si intende un episodio improvviso di terrore inaspettato accompagnato da sintomi fisici: è la forma più acuta, più intensa, più circoscritta temporalmente, di ansia; assume la caratteristica della crisi, cioè insorge rapidamente ed improvvisamente; si associa alla sensazione di pericolo incombente o alla convinzione che siano imminenti la perdita di controllo, la morte o la pazzia.
Durante l’attacco si possono presentare i seguenti sintomi:
1) palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia;
2) sudorazione;
3) tremori;
4) respiro affannoso o sensazione di soffocamento;
5) sensazione di asfissia;
6) senso di costrizione o dolore al petto;
7) nausea o disturbi addominali;
8) sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento;
9) impressione di essere distaccati da se stessi, o che le cose intorno non siano reali;
10) paura di perdere il controllo, o di impazzire;
11) paura di morire;
12) formicolii alle mani o ai piedi;
13) brividi o vampate di calore.

Perché un episodio sia diagnosticabile come attacco di panico devono essere presenti almeno 4 dei 13 sintomi elencati.
Un attacco di panico dura di solito da 5 a 30 minuti e la maggiore gravità dei sintomi si ha dopo circa 10 minuti.
Può manifestarsi anche durante il sonno e svegliare il soggetto.
I primi episodi di panico sperimentati da un soggetto si imprimono in modo indelebile nella sua mente, in quanto si tratta di un’esperienza inattesa, molto spiacevole, spesso accompagnata dalla paura di svenire, di perdere il controllo, di morire o di impazzire; in genere la persona cerca di allontanarsi dal contesto in cui si è verificato l’episodio, sperando, in questo modo, che il panico cessi.
Spesso le crisi d’ansia in soggetti predisposti sono secondarie ad avvenimenti stressanti, in particolare, esperienze di perdita o di minaccia, tuttavia non si verificano durante il periodo di stress, ma quando esso è stato superato, ovvero quando si allenta la tensione emotiva.
Il disturbo di panico
La confusione tra attacchi di panico e disturbo di panico è piuttosto comune. Molti disturbi psichiatrici (fobia sociale, fobia specifica, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo post-traumatico da stress, disturbo d’ansia da separazione, disturbo d’ansia generalizzata, disturbi di personalità) possono associarsi a manifestazioni ansiose molto intense e acute; ma queste si presentano sempre in risposta a situazioni o stimoli specifici (ad es. la vista di un oggetto fobico, nel caso della fobia specifica; l’esposizione ad un pubblico, nel caso della fobia sociale; l’impossibilità a compiere una compulsione; nel caso del DOC; ecc.); nel caso di disturbo di panico, invece, gli attacchi sono del tutto inaspettati, anche se in alcuni soggetti possono essere scatenati da alcune situazioni specifiche, come il guidare, il viaggiare, il fare acquisti in un negozio affollato. Inoltre nel DP, gli episodi sono ricorrenti, e per un mese (o più) il soggetto trascorre buona parte del suo tempo in preda alla paura di successivi attacchi, è preoccupato dell’implicazioni dell’attacco o dalle sue conseguenze (per es., perdere il controllo, avere una attacco cardiaco, impazzire, ecc.) e il suo comportamento è alterato a causa degli attacchi.
Crisi di panico si possono manifestare anche in seguito agli effetti di sostanze stimolanti del sistema nervoso centrale (cocaina, amfetamina, caffeina) o a condizioni mediche, come l’ipoglicemia, l’ipertiroidismo, feocromocitoma, disfunzioni vestibolari, ecc.
Fortunatamente non tutte le persone che sperimentano attacchi di panico, svilupperanno un vero e proprio disturbo di panico; spesso gli episodi di panico restano isolati oppure si ripresentano di rado.
Spesso chi è colpito da questo disturbo comincia ad evitare determinate situazioni o luoghi per paura di avere un attacco. Maggiori sono gli evitamenti e maggiori saranno gli sforzi, ed il tempo necessario, per superare il disturbo.
Le situazioni più frequentemente evitate sono spazi chiusi (ascensori, autobus, treni, ecc), spazi aperti (come per esempio le piazze) e posti lontani da casa. Si parla in questo caso di agorafobia, intendendo con questo termine, che etimologicamente significa “paura della piazza”, l’ansia relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile allontanarsi in tempi brevi, o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto nel caso di un attacco di panico; per questo motivo spesso viene richiesta la presenza di un accompagnatore. I timori agorafobici riguardano, appunto, l’essere fuori di casa da soli, in mezzo alla folla, il viaggiare in treno, in autobus o in automobile, il dover aspettare in coda. La percezione della perdita di controllo, o la sensazione di essere “intrappolati”, sono temi di pensiero frequenti in tali situazioni.
Il perdurare della sintomatologia nel tempo può generare demoralizzazione e, in alcuni casi, depressione secondaria. I soggetti gravemente agorafobici possono condurre una vita molto ritirata, costretti a rimanere in casa perché timorosi di affrontare la guida, di effettuare un viaggio, o semplicemente di recarsi al lavoro; ne risulta un’esistenza limitata negli scambi sociali, comportando un senso di inadeguatezza pervasivo in più ambiti. Una paziente riferiva di sentirsi sminuita dal disturbo, in quanto non poteva più accompagnare la figlia a scuola per paura di avere un attacco, così come non riusciva a fare la spesa al supermercato da sola. Un altro paziente professore universitario non era in grado di recarsi all’estero per paura di viaggiare in aereo.
Le cause del disturbo di panico
Una teoria sulle basi biologiche del disturbo di panico ipotizza che vi sia un’alterata regolazione dei neurotrasmettitori cerebrali (noradrenalina e acido gamma-aminobutirrico) e che la sede anatomica fondamentale di tale disregolazione sia il locus coeruleus, modulatore principale nel Sistema Nervoso Centrale della vigilanza, dell’attenzione, della paura e dell’ansia. Un’altra teoria propone che gli attacchi di panico siano il risultato di anomalie della funzione respiratoria; infatti, i pazienti suscettibili a crisi di panico sono soggetti ad iperventilazione cronica.
Secondo il modello cognitivo di Clark, noto come il ”modello del circolo vizioso” del panico, una determinata sequenza di eventi, in una successione circolare, conduce agli attacchi di panico. Gli attacchi di panico sono il risultato di “catastrofiche interpretazioni” di eventi fisici (ad esempio un capogiro) e mentali (ad esempio difficoltà di concentrazione), erroneamente considerati segni di un imminente disastro, quale avere un infarto o un ictus, svenire, impazzire, ecc. La percezione di tale minaccia genera lo stato d’ansia con i relativi sintomi associati (tachicardia, respiro affannato, sudorazione, tremore, ecc.), sintomi che, a loro volta, sono interpretati erroneamente, non come conseguenti all’ansia, bensì come indicatori di malattia grave o di morte imminente, ciò produce un ulteriore aumento del livello d’ansia intrappolando l’individuo in un circolo vizioso, culminante nell’attacco di panico.
Il trattamento
Attualmente il trattamento del disturbo di panico può essere farmacologico o psicoterapeutico. I due approcci possono essere associati. La scelta del tipo di trattamento dipende dalle caratteristiche del quadro clinico del soggetto, ma anche dalle sue personali preferenze.
Trattamento farmacologico
I farmaci utilizzati appartengono alla categoria degli antidepressivi serotoninergici, il cui effetto terapeutico inizia a manifestarsi dopo un periodo di trattamento che può variare da 3 a 8 settimane; per consentire una riduzione rapida della sintomatologia ansiosa fino dalla prima settimana di assunzione, si ricorre all’associazione con benzodiazepine, farmaci che alleviano rapidamente l’ansia e gli attacchi di panico, ma che, se vengono assunti a lungo, possono indurre dipendenza fisica e psicologica.
In genere le terapie farmacologiche danno una buona risposta terapeutica con una significativa riduzione della sintomatologia almeno nel 50% dei casi. Purtroppo, però, la possibilità di ricaduta alla sospensione della terapia farmacologica appare molto elevata, anche in pazienti che hanno avuto una completa risoluzione dei sintomi. Inoltre gli effetti collaterali possono essere mal tollerati, hanno scarsa efficacia nell’eliminare gli evitamenti quando sono stabilizzati e fanno parte dello stile di vita del paziente.
Trattamento psicoterapeutico
Al momento il trattamento maggiormente sottoposto a verifiche sperimentali è la psicoterapia cognitivo-comportamentale (TCC).
Dai dati disponibili emerge che la TCC è risultata altrettanto efficace del trattamento farmacologico nel ridurre la sintomatologia ansiosa e il rischio di ricadute.
L’approccio è orientato sul sintomo, ponendosi l’obiettivo primario di ridurre la sintomatologia ansiosa e l’evitamento.
Le componenti di un trattamento TCC standard sono:
- intervento psicoeducazionale;
- monitoraggio del panico;
- applicazione di tecniche di gestione della sintomatologia ansiosa;
- ristrutturazione cognitiva dei pensieri disfunzionali e catastrofici legati al DP;
- esposizione graduale agli stimoli ansiogeni.
Lo scopo fondamentale della TCC consiste nella riduzione delle credenze relative alle interpretazioni erronee, nella soppressione dell’evitamento agorafobico tramite esposizione graduale a stimoli specifici e nell’insegnamento di tecniche di respirazione e di rilassamento. La TCC viene attuata classicamente in un setting individuale. Negli ultimi tempi, però, si sono sviluppate diverse esperienze di terapie di gruppo ad impostazione cognitivo-comportamentale.
Terapia cognitivo-comportamentale di gruppo
Le ricerche hanno dimostrato che i risultati ottenuti con un trattamento individuale di TCC sono efficaci quanto quelli ottenuti con una TCC di gruppo.
Inoltre il gruppo permette ai pazienti di confrontarsi con altre persone con lo stesso problema, trovandovi conforto ed incoraggiamento. Il nostro intervento si articola in dieci sedute di gruppo, con un numero massimo di dieci partecipanti. Ogni seduta dura due ore.
Ogni seduta si svolge in due fasi.
La prima è dedicata al trattamento cognitivo-comportamentale e prevede:
1) intervento psicoeducativo per l’ansia e spiegazione del modello cognitivo del panico, secondo Clark;
2) monitoraggio degli AP secondo il modello dell’ABC di Ellis;
3) ristrutturazione cognitiva;
4) esercizi di sensibilizzazione sistematica graduale;
5) autogestione da parte del gruppo di situazioni ansiogene immaginate in seduta.
La seconda parte prevede l’applicazione di tecniche di rilassamento muscolare e di respirazione con l’ausilio di sottofondo musicale.
Questa psicoterapia ha prodotto risultati incoraggianti, risultando efficace nel ridurre intensità, durata e frequenza degli attacchi di panico anche in soggetti non trattati farmacologicamente. I risultati migliori si sono osservati in soggetti con insorgenza del DP recente. Tali risultati si sono mantenuti dopo due anni dalla conclusione del trattamento.


 

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