I mezzi d'assalto della Marina italiana.

 

La squadriglia delle Stelle. "Così sfidammo gli inglesi a due passi dalla base di Gibilterra".

 

Ferraro, a nuoto sotto le navi nemiche.

 

L'impresa della Decima nel dicembre 1941.

 

 

 

 

La squadriglia delle stelle.

L'ammiraglio Ernesto Notari rievoca le sue prime prove dei "mailai" in acqua con Tesei.

Una copertina di "Storia illustrata"

Pericoli tanti, nella sua vita, il primo quando aveva soltanto quattro mesi. "Sì - dice sorridendo l'Ammiraglio Ernesto Notari, medaglia d'argento dei Mezzi d'Assalto della Marina Militare - avevo solo quattro mesi, quando mi buscai il terremoto di Messina. La casa ci crollò addosso; a me e ai miei, mia madre mi salvò saltando dalla finestra con me in braccio: tre metri d'altezza. Ci ritrovammo tutti, subito, salvo mio fratello di 2 anni, incastrato a testa in giù, con un piede fra due pali. Lo salvarono appena in tempo. Mia nonna, invece, ferita, morì poco dopo in una clinica di Palermo".
92 anni, ma sorridente e ricco di battute, Notari ci fa capire l'uomo che doveva essere a 30 anni, quando era in Marina. Uno di quei personaggi ai quali si pensa subito sentendo le note di "A noi la morte non ci fa paura", pronti alle imprese più spericolate, ed alle beffe anche, quando possibile.
"Sono stato il primo ufficiale palombaro di Stato Maggiore della Marina, brevetto n.l. Nel 1935 venni nominato ufficiale in 2" sul Titano, nave salvataggio sommergibili, e sostituii Borghese che andò al comando di un sommergibile. Sul Titano erano tutti sommergibilisti. Fra gli altri c'era Teppati, che avrebbe comandato, più tardi, il Marcello".
In quegli anni, sul Titano, Notari improntò subito il proprio lavoro di addestramento dei palombari all'uso di ogni più moderna tecnica ed allo sprezzo del pericolo. Da come parla di quel suo primo lontano incarico, si intuisce come uomini simili a lui possano calarsi in quelle autentiche tombe di metallo ("Le bare di ferro", le ha chiamate un autore tedesco) che sono i sommergibili affondati, per tentare di salvare qualcuno dei superstiti, com'è avvenuto, ma invano, col sommergibile russo di recente nel Mare Artico.

Fase della preparazione


"Il Titano era un rimorchiatore a carbone che era stato trasformato in nave da ricerca e salvataggio sommergibili su progetto inglese. Sulla vecchia unità c'era una camera di decompressione e dei grossi cilindri pieni d'aria compressa. Con quei mezzi era possibile raggiungere - racconta Notari - la profondità di soli 40 metri. Per farlo, occorreva mettere due pompe in parallelo e quattro uomini a manovrarle. Si figuri un po'. Ma a un certo momento mi autorizzarono a dirigere un corso "Alti Fondali" : così ci trasferimmo col Titano da La Spezia a S. Margherita Ligure, dove, fuori dal porto, s'arriva subito a 80-90 metri. Al corso "Alti Fondali" eravamo in sette, tutti palombari. Io fui il primo ad immergermi, per l'etica di Comando, naturalmente. Senza alcuna difficoltà raggiungemmo la profondità di 78 metri. Per risalire, la decompressione ci portava via un'eternità di tempo, tre ore grosso modo. Per passare il tempo, inventammo un sistema: avendo il bilancino, andavamo in coppia sott'acqua. Elmo contro elmo chiacchieravamo sott'acqua, aspettando che fosse finita".
Era proprio in quei giorni che Tesei e Toschi (ufficiali del Genio Navale che Notari conosceva avendo fatto insieme l'Accademia seppure in corsi a distanza di un anno) idearono il "maiale". Le prime prove del "maiale" vennero fatte a La Spezia nel bacino n°5 dell'Arsenale.

Un'altra fase della preparazione


"Però, siccome per andare sott'acqua occorreva tutta un'attrezzatura subacquea - dice Notari - Tesei si rivolse a me che ero l'unico che poteva fornirgli in quel momento i "costumi" per andar sott'acqua. Per farla breve, io feci con Tesei le prime prove del "maiale" in acqua".
Notari rientra a S. Margherita Ligure e, poco dopo, sbarca dal Titano, la nave dei palombari. Inizia la sua guerra a Lero, come comandante della torpediniera Libra: "Un certo giorno, a Lero incontro Martellotta, mio compagno di corso in Accademia. Che ci fai qui? gli chiedo. E lui, in gran segreto, mi confida di essere entrato nei Mezzi d'Assalto. Era a Lero per una crociera di ambientamento con un sommergibile. Io tornai in Italia e la prima cosa che feci fu di andare al Ministero e chiedere di entrare nei Mezzi d'Assalto. Questo accadde subito dopo l'impresa di Malta in cui Tesei morì. Allora venne nominato il comandante Forza alla testa di quegli spericolati, in sostituzione di Moccagatta, morto a Malta anche lui".
Al Serchio Notari arriva alla fine del luglio '41 e vi trova in addestramento De La Penne, Martellotta e Marceglia, il primo gruppo pronto per una missione. Al Serchio si faceva l'addestramento in mare con il "maiale", mentre a La Spezia c'era la vecchia S. Marco ch'era stata a Tobruk ed ora serviva da base addestrativa, ottima per gli attacchi sotto carena.
"Partivamo con un pullman dal Serchio, s'arrivava a La Spezia verso le sei, facevamo le nostre brave esercitazioni, tutte pianificate da me. Avrei voluto partire in missione subito, ma mi dissero riò, tu da qua non ti muovi. Così potei partecipare solo alle ultime due azioni di guerra, maggio e agosto '43, quando ormai la guerra era persa, e tutta la costa nordafricana era occupata dagli Alleati. Ma noi avevamo l'Olterra".
Olterra, la nave dei misteri. Alla banchina nel porto spagnolo di Algesiras, ufficialmente unità mercantile sinistrata, era la base segreta di quelli della X, in vista di Gibilterra. Da lì partirono straordinarie missioni senza che mai gli Inglesi capissero che la base degli assaltatori che distruggevano le loro navi era quel malandato piroscafo.
"Nel gavone di prora c'era il portellone immerso nel mare, i maiali potevano uscire uno alla volta ogni mezz'ora, se le cose andavano bene. Borghese, che ora comandava la X, mi aveva detto, quando partii: "Tu devi attaccare esclusivamente i piroscafi". Erano in bella mostra quei convogli alla fonda, venuti dall'Atlantico e diretti a varie basi nemiche nel Mediterraneo, da Alessandria a Malta e più in là. Io che ero il capogruppo, partivo per primo. Dall'Olterra guardavamo quelle navi, tu becchi questa, tu quell'altra. Il grosso problema, oltre al nemico, era la corrente, quella che dall'Atlantico viene nel Mediterraneo e viceversa. Quando eravamo sotto le carene, venivamo trascinati via, occorreva ripetere la manovra varie volte con grande pericolo d'essere visti. Comunque, nella prima missione affondammo ben tre piroscafi. Avevamo la doppia testa, si staccava prima una e poi l'altra".
Dopo la prima missione, tornano in Italia.
"Appena arrivati ci hanno appuntato la medaglia d'argento sul campo. E l'ammiraglio Riccardi ci ha detto: "State pronti, perché dovete tornare per nuove missioni" : Eravamo pronti, altroché. Siamo tornati sull'Olterra e abbiamo rifatto il nostro attacco, stessa tecnica, stesse difficoltà, analogo risultato. Gli Inglesi capirono tutto solo dopo la guerra, quando trovarono la nostra base dopo aver preso l'Olterra. Con tutto il loro Secret Service non avevano mai capito nulla di quanto gli italiani, di solito così chiacchieroni, erano riusciti a fare per anni nel più assoluto segreto, a pochi passi da una grande base britannica come Gibilterra".
L'ammiraglio ride, soddisfatto.
Poi si fa serio e mi dice: "Ma sa, noi eravamo la Squadriglia dell'Orsa Maggiore. La Squadriglia delle Stelle".

 

 

 

Ferraro, a nuoto sotto le navi nemiche.

Fu autore di imprese memorabili contro la flotta anglo-americana. Nella foto sotto Luigi Ferraro e Orietta Romano nel giorno del matrimonio, il 24 maggio del '39 davanti alla Cattedrale di Tripoli.

Ferraro il giorno del matrimonio

Le creature del profondo hanno qualche cosa in comune che le fa riconoscere subito l'una all'altra e ne provoca amicizia se non fraternità. E per creature intendiamo, ovviamente, anche quelle umane. Qualche cosa del genere è accaduta a Luigi Ferraro e a Ninì Cafiero, incursore dei mezzi d'assalto della Marina il primo, giornalista (e molto più giovane) il secondo. Cafiero, specialista di caccia subacquea e gran conoscitore di squali, Ferraro, cacciatore di navi nemiche con esplosivi a orologeria. E tutti e due personaggi scanzonati, tipi ai quali (come diceva una canzone notissima) «la morte non fa paura», sia essa rappresentata da una bomba di profondità pronta ad esplodere o dalla dentatura paurosa d'uno squalo-tigre, pronto ad azzannare. I due si conoscevano da oltre trent'anni e da tempo Ninì voleva scrivere un libro su Luigi. Il quale, con l'aria un po' a «sfottò» che lo ha sempre distinto, continuava a dire: «Ma a chi vuoi che interessi la mia storia». Una storia con la medaglia d'Oro.

Nel buio della notte.

Dài e poi dài alla fine ha ceduto e così ci siamo ritrovati sotto la carena delle navi nemiche negli anni '40, nel buio pesto delle notti mediterranee senza luna, a cercare l'aletta di rollìo del bastimento per attaccarci la «bombetta» che l'avrebbe fatto saltar per aria senza che nessuno capisse il perché. La storia di Ferraro, raccontata da Cafiero è bellissima, ne vien fuori il personaggio temerario, l'uomo spericolato (e non diciamo l'eroe, come sarebbe esatto, perché Luigi certamente sghignazzerebbe, prendendoci in giro). Ma che eroe! Nuotatore, ecco tutto, e di gran classe. Ed esperto - questo sì - d'esplosivi. E occhio bene aperto ed attento, perché da lassù qualche sentinella potrebbe accorgersi di quella specie di pesce che s'infila sotto il bastimento, e allora sarebbe dura assai. La storia delle famose azioni di Ferraro da Alessandretta e Mersina potrebbe far impazzire qualche regista americano di quelli bravi. Immaginate questo tranquillo signore, dipendente dal consolato italiano di Alessandretta, città della neutrale della Turchia al confine con la Siria. Non sa nuotare, è un tipo modesto di imboscato passacarte, frequenta (poco) il mondo diplomatico della città, pochissimo la spiaggia dove consoli e relative mogli fanno i bagni di sole approfittando del fatto che la guerra è certo lontana, goda chi può. Lui dà qualche occhiata alle donne più belle (gli italiani si sa come sono) ma poi molla, è un timido. La notte il personaggio cambia, lo attirano (chissà perché?) quelle navi americane e britanniche ancorate al largo, in acque turche neutrali. Lui scende tranquillo in spiaggia, entra in una capanna, ne esce in costume da bagno trasportando qualche cosa con sé. Si tuffa in acqua (ma allora sa nuota re?) e prende il largo. Il resto è noto, sistemato l'esplosivo, torna con precauzione fino a terra. «Nessuno mi ha mai visto - mi disse anni fa - ho solo incontrato, senza incidenti, un pescecane».

L’attacco.

Le navi nemiche si muovono e nessuno a bordo immagina che c'è, là sotto, un'etichetta che libera il meccanismo di morte. Dopo qualche miglio saltano per aria. Sarà forse stato un sommergibile. Ma questa è solo una parte della vicenda di quest'uomo straordinario, quella più nota. Come è noto il progetto di attacco alle navi britanniche giunte a Tripoli occupata avrebbe dovuto compierlo insieme alla moglie Orietta, esperta nuotatrice, ma non fu mai realizzato perché il ripiegamento verso la Tunisia delle nostre truppe impedì ai due temerari coniugi di raggiungere la capitale della Libia. Quello che sarebbe diventato Ferraro «da grande», si rivela quando era ancora poco più che un ragazzo e aveva 22 anni. Nel porto di La Valletta, offertosi volontario, riuscì a liberare con sforzi sovrumani, in apnea, l'elica della nave Firenze cui s'era attorcigliato un cavo. Riemerso coperto di sangue perché durante l'operazione aveva strisciato a lungo contro la carena di metallo, era stato accolto da un grande applauso dei passeggeri ed aveva ricevuto una lettera di encomio da Renato Ricci comandante dell'organizzazione giovanile del Regime. Era il settembre del 1936. Avventura anche dopo l'8 di settembre '43: Ferraro è al Nord con Valerio Borghese, nella X Mas. Alcuni disperati tentativi di raggiungere via mare il Sud per realizzare un accordo con la Marina del Re, per salvare, in qualche modo, insieme, le terre dell'Istria e Dalmazia fallirono. La sua esperienza di incursore potrebbe servirgli anche via terra o con il mezzo aereo. In questo caso l'aliante. Si tratta di atterrare con i silenziosi velivoli in territorio nemico. Il gruppo di uomini Gamma, già dei Mezzi d'Assalto della Marina Militare, raggiungerebbe un aeroporto dove sono concentrati numerosi aerei nemici, e lo assalterebbe distruggendoli. Piano degno di Ferraro. Ma la guerra finisce prima. Poi, la fine (nella foto sotto le azioni di Ferraro nella rada di Alessandretta).

Le azioni di Ferraro

Medaglia d'Oro.

Nel gennaio del 1951 la Marina Militare, con decreto del ministro della Difesa, Pacciardi, trasforma le 4 medaglie d'Argento conferite durante la guerra a Ferraro, nella Medaglia d'Oro. Nella motivazione si legge fra l'altro che Ferraro «ha coscientemente affrontato e superato rischi mortali sempre maggiori, dando prova di esemplare noncuranza del pericolo, di chiaroveggente freddezza, d'insuperabile perizia tecnica e d'inesausto amor di Patria. I risultati da lui ottenuti aggiungevano nuove glorie a quelle che già avevano resi famosi nel mondo i mezzi navali d'assalto italiani».

 

 

L'impresa della Decima Flottiglia Mas nel dicembre 1941.

 

L’impresa della Decima Flottiglia Mas - denominazione di copertura dei mezzi d'assalto della Marina - contro la base inglese di Alessandria d'Egitto, fu sessant'anni fa (18 dicembre 1941) la più memorabile di tutta la guerra in Mediterraneo. Per audacia, preparazione tecnica, perizia marinaresca, l'operazione «G. A.3» risultò un modello mai eguagliato. I cinquanta uomini di equipaggio del sommergibile Scirè (capitano di fregata Junio Valerio Borghese) e i sei operatori dei Siluri a Lenta Corsa - noti come «maiali» - seppero conseguire un successo mai conseguito dalla flotta da battaglia italiana, malamente impiegata. L’ammiraglio Cunningham, comandante della «Mediterranean Fleet», riconobbe lealmente: «Uno non può non ammirare il sangue freddo di questi italiani: ogni cosa era progettata, pensata, decisa». Quando si levò l'alba del 19 dicembre 1941, la nave da battaglia Queen Elizabelh - sulla quale Cunningham alzava la sua insegna - poggiava con la chiglia sui fondali di Alessandria. Anche l'unità gemella Valiani aveva subìto la stessa sorte e migliaia di tonnellate d'acqua erano penetrate nel suo scafo da una falla enorme. Poco distante, la grande cisterna militare Sagona appariva sbandata e la carica esplosiva applicata dagli assaltatori italiani aveva provocato danni anche al cacciatorpediniere Jervis. Un disastro. Di «terribile disastro» parlò infatti il Capo di Stato Maggiore Generale britannico, Alan Brooke, perché l'eliminazione dal servizio attivo delle due corazzate aggravava, in quel momento, una situazione già molto seria. Sembrava che gli alleati del Tripartito avessero ingaggiato una gara a chi realizzava il colpo più grosso. I tedeschi avevano affondato in Mediterraneo la portaerei di squadra Ark Royal e la corazzata Barham; i giapponesi, nel Mar Cinese Meridionale, avevano colato a picco le navi da battaglia Prince of Wales e Repulse: se a queste perdite si aggiungevano le otto corazzate americane affondate o gravemente danneggiate a Pearl Harbour, gli Alleati avevano temporaneamente perduto la loro supremazia navale dal Mediterraneo Orientale all'Oceano Indiano, al Pacifico. Per una felice coincidenza, nell'équipe che operò contro Alessandria erano rappresentate le Specialità della Marina: Vascello, Genio Navale e Armi Navali. Tra le coppie: De la Penne-Bianchi; Marceglia-Schergat; Martellotta-Marino (Duran De la Penne nella foto sotto).

Duran De la Penne

 Perfetta la navigazione del sommergibile Sciré, salpato da La Spezia il 3 dicembre e da Lero il 14 dicembre, per affrontare il tratto di mare più pericoloso. Quando lo Scirè, dopo aver letteralmente strisciato sul fondo del mare, alzò il periscopio, il faro di Ras el Tin, che segnava la rotta per penetrare nella base, occhieggiava davanti alla prua. I sei operatori ebbero la buona sorte dalla loro; gli inglesi aprirono le ostruzioni, per lasciar entrare alcune siluranti e i tre «maiali» si infilarono nel porto. Ciascuna coppia visse una vicenda propria; la più drammatica fu quella di De la Penne e Bianchi. Occorre precisare che il «secondo uomo», al pari del «primo uomo» a cavalcioni sul mezzo d'assalto, era il più sacrificato, nei brevi momenti dell'affioramento, in quanto non poteva respirare aria pura, rimanendo sott'acqua.

Due sommozzatori su un "maiale"

Così accadeva spesso che nella fase cruciale dell'azione, il «secondo» fosse il più provato (si considerino anche i tempi: il materiale, dalla tuta di gomma ai respiratori, a tutto il resto, non era quello di oggi). Sta di fatto che il palombaro Emilio Bianchi venne a mancare e Luigi Durand De la Penne restò solo, col mezzo piantato sul fondo. A viva forza, un po' alla volta, il «maiale» fu spinto in avanti e quando, a causa della respirazione affannosa, le lenti della maschera si appannarono e De la Penne, d'istinto vi infilò la mano per pulirle, penetrò acqua salata e fu giocoforza berla, un sorso alla volta. Il rumore di una pompa alternativa consentì l'orientamento verso la carena della corazzata presa di mira e, finalmente, De la Penne azionò le spolette e tornò a galla, ricongiungendosi con Bianchi, abbarbicato a una boa. Il tramestio sotto bordo aveva intanto richiamato l'attenzione delle sentinelle. Prima arrivò la raffica di un mitragliatore, poi una raffica di insulti e di frasi irridenti verso gli italiani. De la Penne disse a Bianchi che, di lì a un paio di ore, gli inglesi avrebbero avuto una diversa considerazione degli italiani. Il comandante della Valiant non si comportò in modo cavalleresco (gli inglesi avrebbero voluto che fosse il diavolo in persona a minare le loro navi, non gli italiani). Di fronte al rifiuto degli assaltatori di rivelare dove la carica era stata collocata, De la Penne fu rinchiuso in un locale sotto la linea di galleggiamento, perché subisse per primo gli effetti dell'esplosione. La situazione era tale quale quella in cui si erano trovati Rossetti e Paolucci, dopo aver minato, a Pola, la corazzata austriaca Viribus Unitis; ma il comandante della nave, Vukovic, aveva consentito che i due ufficiali italiani si mettessero in salvo (Morgan tentò di rimediare, in seguito, al poco edificante comportamento tenuto ad Alessandria; nel 1944, a Taranto, volle personalmente appuntare la medaglia d'oro sul petto di De la Penne). L’ufficiale italiano fu comunque fortunato; l'esplosione scardinò un portello, De la Penne salì in coperta e si avviò verso poppa: al suo passaggio, i marinai inglesi si alzarono in piedi. Dopo la Valiant fu la volta della Queen Elizabeth, che si sollevò sull'acqua, sotto la spinta di trecento chili di alto esplosivo: l'ammiraglio Cunningham, in plancia, venne sbalzato a mezz'aria. Marceglia e Schergat avevano eseguito un'operazione da manuale e riuscirono perfino a uscire dalla base di Alessandria: furono traditi da un banale cambio di valuta; il «servizio» della Marina aveva consegnato loro sterline inglesi, che non avevano corso legale in Egitto! Nessuna pubblicità fu data, in Italia, all'impresa: la fotografia di Alessandria con le corazzate colpite non venne mai resa di pubblico dominio. Era tutto molto strano ed equivoco. A Mussolini fu negata la soddisfazione di documentare che, con Alessandria, era stata restituita la pariglia di Taranto, dove gli inglesi avevano aerosilurato le nostre corazzate. Eppure, sotto la data del 9 gennaio 1942, il Capo di Stato Maggiore Generale, Cavallero, annotò: «Ho notizia dei gravi danni inflitti dai nostri mezzi speciali ad Alessandria». La Valiant, rappezzata alla meglio, fu trasferita a Durban, in Sud Africa, per lunghi lavori; la Queen Elizabeth, spezzata in chiglia, era ancora in bacino ad Alessandria, quando gli italotedeschi raggiunsero El Alamein, alla fine di giugno del 1942. Le due corazzate non andarono completamente perdute. Il 9 settembre 1943, gli inglesi inviarono incontro alla flotta italiana, che andava a consegnarsi a Malta, la nave da battaglia Warspite - veterana della guerra nel Mediterraneo - e proprio la Valiant, nuovamente operativa.