In un agosto molto dolce
Volendo una spin-off da un punto più o meno a metà del capitolo 185, andando come sempre al di là, è una breve storia per un personaggio che ho amato molto, che emana forza e sa andare avanti, sempre.
Che in fondo è il modo migliore di vivere.

 

- uno più uno -

Si immerse nel suono delle voci, scandivano il suo nome, esaltate e brucianti: le avrebbe ascoltate in eterno. Gridavano per un canestro davvero spettacolare, ma tutto qui. Chi fosse lui veramente, buono o crudele, felice o triste non aveva importanza, perché subito, nonostante le ovazioni, gli sguardi femminili, ma anche, perché no, maschili, correvano altrove, ai capelli di gomma dello splendido numero sette: tutti quegli occhi puntati sul profilo perfetto di Sendo Akira, impossibile ignorare il fascino naturale del playmaker, o resistere a quel corpo che si muoveva incurante del pubblico.

Eppure lei guardava altrove, verso un altro giocatore, verso un amico.

"Niente da fare, è uno di quelli di cui dire che è bello è riduttivo," la ragazza accanto a lei poteva avere quindici anni eppure, nonostante la giovinezza, era molto più pacata negli apprezzamenti di molte tra le ammiratrici di Sendo: facevano a gara con quelle di un certo Rukawa, promettente matricola della squadra avversaria.

"In effetti... Kido, tu non fai il tifo per Sendo?"

Si voltò verso la voce: "Faccio il tifo per il Ryonan," sospirò in risposta, seguiva la partita distrattamente, insensibile alle emozioni provenienti dal campo, e ascoltava quei commenti inutili e, anche, dolorosi, di un dolore di seconda mano in un certo senso. Provò a mettersi nei panni dell’amico, ma quell’espressione assoluta che gli vedeva dopo ogni giocata le impediva di reagire.

"Meno male che c’è uno come Sendo in campo, gli altri fanno paura! Il capitano è davvero orrendo e quel numero tredici... ma da dove è uscito?"

Una voce ancora differente, Kido reagì guardando verso Uozumi, e non poté dare torto a quelle parole, poi si spostò sul numero tredici: fermo vicino all’area, aveva uno sguardo apparentemente distante da ogni cosa, eppure non perdeva un solo movimento della palla.

"Fukuda..." pensò Kido, sorridendo: andò con la mente al loro primo incontro, quando il ragazzo era molto sudato e la maglietta gli si era incollata addosso. Continuava a tirare: non era dal viso, ma da quelle spalle forti e quel corpo saldo ancorato al mondo che scivolava una rabbia strana. Kido aveva seguito i suoi movimenti per un tempo indefinito, aveva appoggiato la chitarra a terra per avvicinarsi, una frase qualunque sulla scuola e scoprirlo del Ryonan. Poi era venuta quell’amicizia strana che le faceva forse soltanto male, perché a lei Fukuda era andato bene immediatamente, ma come uomo. Una differenza che gioca sui sentimenti e non sulle parole. Ascoltarlo e farsi ascoltare, imparare che il viso di lui non raccontava il suo modo di vivere irruente e orgoglioso e sensibile, era divenuto qualcosa di essenziale per lei.

La partita terminò, con la vittoria dello Shohoku, e non fu possibile capire quanto avesse fatto la bravura dei suoi giocatori e quanto la fortuna.

Kido strinse i pugni sulle ginocchia, ancora sensazioni di seconda mano, viveva quella sconfitta attraverso le espressioni tristi dei giocatori, persino Sendo non aveva il suo sorriso di plastica e Koshino... Koshino era semplicemente più cupo del solito. Qualche matricola piangeva, forse anche qualche senpai, ma lo sguardo di lei era già su Fukuda: impassibile, si diresse agli spogliatoi, solo le spalle, meno forti del solito, curve come il giorno in cui le aveva raccontato di essere stato espulso dalla squadra, dicevano la sua amarezza.

Kido uscì lentamente dalla palestra, il sole era fastidioso, troppo felice per non ferire la sua tristezza: si legò i capelli per allontanare il caldo, gli occhi sull’uscita degli spogliatoi.

Il primo ad uscire fu il giocatore con i capelli rossi: aveva il ghigno soddisfatto del vincitore, emanava energia. Dietro di lui intravide l’espressione autistica di Koshino: lo salutò con la mano, ricevendo in cambio una specie di grugnito. Poi i due capitani, a modo loro rispettosi l’uno della malinconia dell’altro e, poco dopo, l’uscita in trittico degli altri titolari della squadra avversaria: due di loro ridevano, e nessuno avrebbe potuto immaginare che, poco più di tre mesi prima, si fossero quasi ammazzati a vicenda; ma ad attirare per un istante l’attenzione di Kido fu il terzo, che, silenzioso, sembrava impermeabile alla gioia di quella vittoria. Apparentemente distante da tutto, come Fukuda.

Quando lo vide uscire, solo, lo raggiunse, fermandosi di fronte a lui: "Ehi..."

Fukuda scansionò velocemente l’elemento, sollevando la testa verso il viso tondo di Kido, lei spalancò gli occhi in quelli umidi di lui: piangeva, o aveva appena terminato.

"Ehi..." Ripeté, allungando una mano verso di lui.

"Kido..." sospirò lui.

Lei non si fermò a pensare, non a cosa fosse giusto o sbagliato, opportuno o meno, si buttò contro di lui stringendo il più forte possibile il suo corpo: non disse nulla, appoggiò la fronte contro la spalla di lui e sentì il cuore di Fukuda battere, dimostrare che era vivo. Avrebbe voluto farlo sentire a tutti quelli che lo consideravano solo per i suoi canestri. Le braccia di lui rimasero immobili, non strinse le piccole spalle di Kameko, né la allontanarono.

A separarli giunse la voce limpida di Sendo: "Ehi! Fukuda!" Kido lasciò subito la presa, allontanandosi. Il numero sette colpì Fukuda su una spalla: "Allora, ti sei ripreso? Andrà meglio l’anno prossimo, vedrai".

"La fai facile tu," gli sibilò lui.

Sendo parve accorgersi solo allora della ragazza: "Oh scusami," anche il suo sorriso era in qualche modo di plastica. "Sei la ragazza di Fukuchan? Allora dovresti consolarlo, in spogliatoio piangeva come un bambino! Diglielo tu che non è una partita a fare la differenza."

Kameko si affrettò a chiarire la situazione: "No, no!" scosse vigorosamente la testa. "Sono un’amica," spiegò.

"Ah, capisco, mi sembrava strano che il nostro Fukuda si fosse dato da fare... comunque, tu sei?"

"Kido Kameko," rispose per lei la voce di Fukuda. Non aveva ricambiato il suo abbraccio, ma disse il suo nome. Una sensazione comunque bella, la fece sentire considerata.

"Kido? Sei del primo anno?"

"No, del secondo... sono in classe con Koshino," rispose lei per orientare Sendo, guardò Fukuda per un istante, cercava qualcosa e non sapeva nemmeno cosa.

La risata del numero sette sciolse una tensione strana: "Devi avere pazienza con lui, Kido!" le fece un occhiolino completamente fuori luogo. "Beh, io vi lascio, se vi va potete raggiungerci al fast food in piazza, andiamo lì: il riposo del guerriero," concluse Sendo, sorriso gommoso e via.

Kameko guardò un momento verso Fukuda: non c’era più nessuna traccia delle lacrime che vi aveva visto all’inizio, ma c’erano state e si mescolavano al calore del corpo di lui, cercato e trovato, ma non ricambiato.

"Bene," la voce di Fukuda reclamò la sua attenzione. "Ora che quel fenomeno se ne è andato... hai bisogno?" non era un tono spiacevole, né acuto né profondo, sempre uguale ma in qualche modo caldo, e vivo.

Kameko abbassò istintivamente la testa: "Beh, scusami... non volevo".

"Di che cosa?"

Lei lo guardò un momento senza parole, inclinò la testa tentando un sorriso triste: "Niente, lascia perdere," concluse. Quell’abbraccio era scivolato addosso a Fukuda senza toccarlo, evidentemente.

Lui sembrò non curarsi della malinconia di quelle parole, si avviò verso il cancello: "Beh? Non vieni? Andiamo a mangiare con il grande asso Sendo," le disse, continuando a camminare.

Kameko lo raggiunse, affiancandosi a lui: era molto alto, certo non quanto Sendo, aveva potuto vederlo quando gli erano stati entrambi di fronte; rispetto al playmaker, al suo corpo perfetto che lo rendeva molto sottile, Fukuda aveva quelle spalle grandi e la loro forza Kameko la aveva sentita provando a stringerle poco prima.

"Dai, muoviti," fu la sola cosa che Fukuda le disse prima di precederla nel fast food luminoso, le grida concitate dei giocatori del Ryonan attirarono subito la loro attenzione.

"Fukuda!" lo chiamò subito Sendo.

Kameko guardò il ragazzo sedersi in silenzio accanto a Uozumi, rimase in piedi, indecisa.

"Kimo, siediti lì vicino a Ishikawa, dai! O vuoi che faccia spostare qualcuno per farti mettere accanto a Fukuda?" le ammiccò il playmaker.

"Veramente si chiama Kido," gli fece subito notare Fukuda. Di nuovo. Di nuovo diceva il suo nome, e poi nient’altro.

"No, no, va benissimo lì," Kameko si lasciò cadere sulla sedia sospirando: "Ciao..." accennò un gesto di presentazione verso la ragazza accanto a lei. Teneva le mani sul tavolo, immobili, e aveva uno sguardo vivo, profondamente attento, forse orgoglioso.

"Ciao," le rispose sorridendo.

"Kido! Adesso mi tormenti anche fuori dall’aula?" Koshino attirò la sua attenzione, sedeva accanto a Ishikawa, con l’espressione cattiva di sempre.

"Ho accompagnato Fukuda," buttò lì, ma senza la forza di guardare davvero verso quell’amico che non voleva avere. Non in quel modo.

"Ah ah! Come se ne avesse bisogno! E comunque sei troppo carina per uno come lui!" rise, un suono crudele, offensivo anche.

"Hiro!" Ishikawa aveva una voce molto dolce e femminile e riuscì a zittire Koshino, almeno per qualche secondo.

"Certo che se Sendo continua a monopolizzare le attenzioni femminili..." virò qualcuno dei presenti. Il numero sette nemmeno arrossì, ci sono cose a cui ci si abitua in fretta, la notorietà per esempio.

"Vi ricordo che abbiamo appena perso la partita più importante dell’anno," fece notare Uozumi, il viso contratto dalla frustrazione.

"Lo Shohoku è una squadra forte, non ha senso pensarci, è andata." Sendo aveva spontaneità e leggerezza, assolute: forse non era solo un ragazzo molto bello e molto bravo nel basket, ma a Kameko questo non interessava, non in quel momento. Avrebbe voluto guardare verso Fukuda, ma era certa che nei suoi occhi inerti ci fosse il nulla, almeno per lei.

E tutti parlavano di sogni spezzati, con odio o rabbia o rassegnazione, semplicemente: mentre Kameko respirava forte e perdeva la percezione del suo essere lì, quei ragazzi, così giovani, bambocci volendo, sapevano vivere e sentire forte. Anche Fukuda.

"E comunque tu il tuo bagno di folla lo hai fatto anche oggi," Koshino fulminò Sendo più con il tono che con l’espressione, sempre fredda quella.

"Il tuo stuolo di odalische ce l’hai anche tu, di cosa ti lamenti?" la risposta pronta del playmaker riportò l’attenzione di Kameko sulla conversazione: guardò Koshino, poi Ishikawa.

"Non mi interessano," rispose Koshino, guardò appena verso la ragazza accanto a lui, sembrò persino sorridere.

"Certo che voi senpai avete tutte le fortune..."

"Animo Hikoichi!" Sendo alzò la voce. "Pensa al nostro Fukuda! Vedi questa bella ragazza? È una sua amica, nient’altro," indicò Kameko senza pudore e lei guardò istintivamente verso Fukuda: l’espressione era sempre uguale, sembrava che le parole gli giungessero ovattate, senza possibilità di ferirlo.

"E dire che i giocatori di basket hanno l’imbarazzo della scelta! Persino quel demente di Sakuragi sembra avere successo!"

"Secondo me dovresti fare leva sul tuo talento, Fukuda. Vedrai che così qualche cosa ottieni anche tu."

"In effetti... e poi forse anche sistemandoti quei capelli... un’espressione più vitale magari... decisamente avresti più seguito."

"Che poi l’hai mai avuta una ragazza, Fukuda? Una vera, intendo."

"Sì," fu il solo segno di reazione che diede durante quella conversazione: ne era l’oggetto, ma non sembrava interessargli.

"E quando, alle elementari?"

"In effetti lei è la prima donna con cui ti vedo da quando ti conosco," risero ancora, tutti.

Kameko si alzò senza dire una parola, le voci della tavolata coprirono i suoi movimenti; fu solo nel momento in cui si chinò su Fukuda, che si zittirono: la videro avvicinarsi al viso inerte del giocatore, fermarsi un istante brevissimo a guardare quegli occhi allungati per poi appoggiarsi alle labbra di lui.

Silenzio. Silenzio fino al momento in cui lui la spinse lontana: "Che cazzo fai?" le gridò, alzandosi per segnare ancora di più la distanza.

"Scusami," disse lei, e le lacrime non uscirono solo grazie alla forza della sua volontà.

"Grande Kido! Tre mesi che siamo in classe insieme e finalmente fai una cosa intelligente! Hai svezzato il nostro Fukuda!" Koshino alzò la voce abbastanza da rendere le gambe di Kameko molto fragili.

Uscì di corsa dal locale, senza che Fukuda avesse detto oltre, senza vedere Ishikawa alzarsi di scatto e gridare, molto forte, incurante degli altri avventori: "Sei davvero stronzo Hiroaki!"

Forse lo avrebbe persino colpito, ma uno schiaffo a Koshino poteva portare conseguenze inaccettabili, così lei semplicemente uscì, lasciando quei ragazzini ai loro stupidi discorsi, lasciando Koshino in silenzio, un’espressione che dalla rabbia passò presto alla malinconia.

Fukuda si avvicinò al compagno, lo sollevò dalla sedia stringendogli il colletto: "Credo che la tua ragazza abbia sintetizzato l’opinione di tutti noi," lasciò la presa immediatamente e andò anche lui.

 

Buttò a terra il futon senza curarsi di stenderlo con attenzione e si infilò una maglietta stropicciata sopra i calzoni: guardò il lenzuolo a terra prima di raggiungere la cucina.

"Kiccho, mi porti dell’acqua?" la voce di sua madre lo raggiunse, confusa a dialoghi spezzati di qualche film davanti al quale i suoi genitori si sedevano per giustificare i loro silenzi annoiati.

"Sì," rispose, ma cercava della birra e l’acqua fu solo un accidente.

"Perché?" si chiese sdraiandosi al buio, la bottiglia umida a pochi centimetri, il sapore che già si faceva strada, dalle labbra alla testa. "Che cazzo voleva dimostrare? Io non ho bisogno di un avvocato difensore... e con questo suo spettacolo mi ha umiliato ancora di più. Come se un bel viso e quelle gambe magre la giustificassero... a me fa solo male, così... non lo sopporto."

Fukuda si sollevò su un gomito, un’altra sorsata, e non amava nemmeno il sapore; per questo quella bottiglia riuscì a intontirlo fino al sonno: non avrebbe sopportato di pensare ancora alla vergogna che si sentiva addosso per quel bacio. E al disgusto.

****

Guardava i colori e i movimenti, attraverso il vetro e l’acqua che li deformavano: avvicinò la mano.

"Allora ha scelto qualcosa?"

Raddrizzò la schiena: "Veramente non volevo un pesce, hanno bisogno di strutture troppo costose".

"Ma abbiamo vasche che partono dai settemila yen," si affrettò a far notare il negoziante.

"Appunto."

Tornò a guardare i pesci ancora qualche minuto e solo allora si avvicinò alla cassa: "Vorrei una tartaruga d’acqua dolce, un maschio".

Fukuda uscì dal negozio stringendo tra le mani una piccola bacinella rettangolare: la tartaruga tirava la testa verso l’esterno, pensò che forse avrebbe voluto essere libera, ma che sarebbe morta di quella libertà.

Le cercò un posto tranquillo nella sua stanza: "Dovrei darti un nome..." le disse, sfiorandone il guscio umido, ma il suo sguardo corse al pallone, abbandonato da troppi giorni. Dopo la sconfitta del Ryonan, la squadra non aveva più avuto allenamenti, le vacanze estive si dilatavano in giorni vuoti, utili solo a rendere il ricordo di quella serata meno disgustoso: la sola cosa che Fukuda sperava era che se ne dimenticassero presto anche gli altri. Per questo evitava di andare ad allenarsi nel campo pubblico, avrebbe potuto incontrare Sendo, o Koshino, ed era ancora troppo arrabbiato per affrontarli: se solo lo avessero stuzzicato, il suo orgoglio non avrebbe sentito ragioni, li avrebbe colpiti alla cieca, di questo era certo.

Ma ormai era il tramonto e il desiderio di lanciare quella palla nel canestro fu più forte di tutto il resto.

Kameko avrebbe continuato ad andare lì ogni giorno, fino a che non lo avesse incontrato, ma anche quel giorno sembrava soltanto un’inutile perdita di tempo; che poi trascorresse il tempo pizzicando le corde della chitarra, sussurrando parole reinterpretate di qualche canzone americana, non colmava ugualmente il vuoto. In fondo voleva solo scusarsi, perché davvero baciare un giocatore, in un luogo pubblico, davanti alla squadra intera, andava al di là anche della sua percezione, molto elastica tra l’altro, di pudore. Che lui la avesse rifiutata continuava a fare male, ma in un modo diverso.

Il rumore della palla la distolse dal tentativo senza speranze di trovare gli accordi senza ascoltare la canzone: lo vide avvicinarsi al canestro e fermarsi prima della linea dei tre punti. Si sollevò in fretta, lasciando la chitarra a terra, e lo raggiunse: "Fukuda..." lo chiamò, e avrebbe voluto piangere, non occuparsi delle apparenze per sfogare la frustrazione di quel momento. Lacrime per non averlo rispettato, lacrime perché quel bacio lontano la aveva fatta fremere troppo.

Fukuda si voltò subito verso di lei, gli occhi gelidi, e le lacrime le si fermarono in gola: "Cosa fai qui?"

"Scusami..." farfugliò distogliendo lo sguardo da quello di lui.

"Credi di cavartela così?" il tono divenne freddo come l’espressione, la afferrò per un polso, stringeva molto forte.

Kameko sentì il calore della stretta farle male, e non nella carne: "Lasciami... Fukuda, per favore... ti ho chiesto scusa, che vuoi ancora?" si sentiva la paura nella parole di lei.

La strattonò avvicinandone il viso al suo petto: "Che cazzo volevi dimostrare quella sera?"

Quante risposte avrebbe potuto trovare? E quale quella vera?

"Io... volevo che smettessero di dire che sei bravo solo in campo... che sei..."

"Orrendo? Inguardabile? Forza, dimmi quale missione umanitaria avevi in mente."

Solo lacrime, pentite, colpevoli. Dolorose.

"Allora! Perché hai fatto quello spettacolo? Volevi farmi sentire come gli altri? Volevi aiutare un tuo amico sfigato? Che cazzo volevi? Perché ti sei persa con me, tu che potresti davvero avere uno come Sendo con questo fottuto muso da bambolina? Perché?" la strattonò ancora più forte.

"Perché mi piaci molto..." buttò fuori tra i singhiozzi.

Ci fu un silenzio molto lungo, pieno di nulla, che portò solo male per lei e rabbia per lui.

"Cazzate," disse Fukuda.

Kameko strinse i pugni lungo i fianchi e più che il rifiuto, fu la distanza che lui metteva tra loro a toglierle il fiato e ad asciugarle le lacrime: "Forse hai ragione, solo cazzate, le tue però. Scusami per il numero al bar... così va bene? O vuoi farmi ancora più male?"

"Non credi di averne fatto tu a me?"

Kameko spalancò gli occhi, non fu un’espressione qualificabile, Fukuda semplicemente ne guardò il colore, nocciole tiepide a vederli così.

"No... alla fine ho fatto una cosa che volevo."

Finì di parlare contro il torace di lui, sentiva il cuore di Fukuda battere piano, per nulla teso o emozionato, eppure la aveva trascinata contro di sé e ora era lui a stringerla fino a toglierle il respiro.

"Fukuda..." disse solo.

"Stai zitta. Io a capire che mi piaci molto ci ho messo il tempo di una canzone."

Kameko rimase in quell’abbraccio, ripensando alle parole che aveva cantato quel giorno e che poco prima cercava di ricordare: "L’ho dimenticata".

"Che cosa?"

"La canzone. Ho dimenticato gli accordi."

"Ma ti ricordi come inizia vero?"

"Sì... I don’t want to be the filler if the void is solely yours..."

"Non è soltanto mio..." lo soffiò sul collo di lei, parlando piano, senza allentare la stretta.

"Perché?"

"Perché cosa?"

"Perché non mi hai voluta quella volta..."

Fukuda la allontanò da sé, stringendole le spalle per guardarla in viso, gli occhi liquidi, forse sentiva male: "Perché davvero pensavo ti stessi solo divertendo... non ho bisogno di un dottore".

"Ed io non voglio esserlo... potrei ricantare tutta quella canzone per fartelo capire... qualunque cosa io abbia fatto non era per leccarti le ferite."

Ma Kameko era stanca di parole, sembravano solo allontanarli, gli afferrò le mani, stringendole lungo i loro corpi e non si limitò a sfiorargli le labbra, chiese e diede quanto possibile.

*****

"Ma sei sicuro che non disturbo?" Kameko entrò in quella casa un po’ cupa con timore, imbarazzata più dal luogo che dall’essere per la prima volta sola con Fukuda.

"Tranquilla, voglio solo farti vedere una cosa." E il viso sorridente di lui fece capire che non c’era alcun doppio senso in quelle parole.

Cercò la sua mano, guidandola per stanze che non conosceva; Kameko ascoltava i suoni di quelle pareti, cercava di capirne la storia, di scoprire qualcosa di quel suo ragazzo che la stringeva con le dita calde e ruvide.

La precedette nella stanza, si fermarono sull’ingresso: "Questo è il mio posto".

Kameko guardò le pareti bianchissime, il disordine della scrivania e del pavimento, la divisa appesa alla sola gruccia presente, e il pallone, naturalmente, quello con cui lui si allenava da solo, per ore. Non aveva sistemato il futon: guardando le pieghe scomposte della stoffa, pensò che non lo aveva mai visto dormire, non erano mai stati insieme tra le lenzuola. Non che fosse certa di volerlo: essersi data molte volte per gioco, ora le impediva di darsi alla prima persona che sentiva di amare veramente, come se quel gesto che tante volte aveva diviso per noia, ora non avesse valore se offerto a Fukuda.

Sospirò appena, non si erano mai trovati in una situazione del genere, ma lui aveva cercato molte volte il corpo di lei, lo sapeva, aveva sentito le mani di Fukuda chiedere la pelle e molto altro. Eppure era certa che non le avrebbe imposto nulla, e non le importava la ragione.

Fukuda si inginocchiò a terra, dandole le spalle: "Vieni".

Kameko si chinò accanto a lui, guardando nella piccola vasca: "Ma è bellissima!"

Lui sorrise: "È un maschio... e non ha ancora un nome".

Kameko si abbracciò le ginocchia dondolandosi appena: "Io la chiamerei come te... ma mi rendo conto che non ha senso che tu chiami la tua tartaruga con il tuo nome... d’altronde cosa vuoi, il mio certo non posso darglielo!" rise forte.

Lui allungò un dito verso il guscio, solleticandone la resistenza: "Sai quando l’ho comprata?" Kameko scosse la testa. "Il giorno che ci siamo visti al campo."

"Magari era destino, compri una tartaruga e poi mi incontri..."

"Non credo sia stato un caso, non comprare proprio lui, voglio dire." Kameko lo guardò, lasciandosi scivolare a terra; incrociò le gambe sorridendo. "Beh... quando ho chiesto un maschio pensavo a me, però... però è una tartaruga, d’acqua dolce."

Kameko capì a metà: "Che vuoi dire?"

"Che pensavo a te, alla tua dolcezza."

"Decisamente la chiamerei come te," disse, la voce bassa, gli occhi sulla vasca.

"È per te... se vuoi."

Il sorriso rispose per lei e l’abbraccio con cui ringraziò li gettò entrambi a terra: risero, giocarono e si baciarono.

"Kiccho," disse Kameko, mentre il corpo di Fukuda la schiacciava contro il pavimento.

"Chi stai chiamando?" non lo aveva mai chiamato per nome.

"Kiccho. Alla tartaruga troveremo un nome differente..." rispose stringendosi il più possibile a lui.

"Perché?"

"Perché spero che tu non te ne vada... e di potere chiamare te in questo modo."

"Quando vuoi, Kameko," le sfiorò le labbra e si alzò.

"Che fai?" gli chiese mettendosi immediatamente seduta: Fukuda si era avvicinato alla finestra, ma guardava verso di lei.

"Non hai mai fatto nulla che non volessi, vero?" abbassò lo sguardo verso il pavimento. "Voglio dire... ti senti la metà di qualcosa?"

Kameko sorrise prima di gattonare fino a lui, gli afferrò un polso spingendolo a raggiungerla a terra: "E tu?"

"Uno più uno fa due, senza vuoti da colmare."

"Alla fine lo hai capito... non pensare mai più che la mia sia una missione."

"Non lo penso più da tempo."

Kameko si trascinò addosso il peso di Fukuda, giocando con le labbra sul suo viso; le pulsazioni aumentarono presto per entrambi, e lui sperò solo che lei non si accorgesse dell’inesperienza: non aveva nessuna intenzione di dirlo, voleva il corpo piccolo di Kameko e non era una questione di dimostrarle il proprio valore. E comunque c’erano le sue dita lunghe, abituate a pizzicare le corde fragili della chitarra, che cercavano in lui, su di lui. C’era lei a guidarlo senza insegnare.

Inghiottirono entrambi le loro paure stupide, paure di troppa o troppo poca abilità, e si presero così, per amore. In questo senso è sempre una prima volta.

****

Sentiva le voci dei giocatori, ora forti, ora stanche: aspettava che scemassero, ferma nel cortile della scuola, come ogni giorno da quando erano riprese le lezioni. Guardò verso Ishikawa senza il coraggio di avvicinarla. Non sapeva nulla di lei, né della sua espressione rabbiosa, e non era certa di poter invadere quel territorio.

Aspettavano entrambe di vedere un viso stanco di soddisfazione uscire da quella porta, ma mentre Kameko sorrideva, Ishikawa teneva le braccia incrociate sul petto e lo sguardo duro.

Ancora qualche minuto e Fukuda sarebbe uscito, forse avrebbe sorriso, forse la avrebbe abbracciata, non aveva nemmeno importanza.

I don’t want to be your other half
I believe that one and one make two...

 

Credits: i personaggi, ad eccezione di Kameko e Ishikawa, sono naturalmente © di Takehiko Inoue, la canzone citata è "Not the doctor" di Alanis Morisette, © degli aventi diritto.
Ma accanto ai disegni e alla musica ringrazio semplicemente chi c’è, indipendentemente dal tempo e dallo spazio.
Fiore

Slam

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