Benvenuti a tutti. Solo poche righe prima di lasciare spazio ad una storia che è nata come per caso dentro di me e che ora è reale davanti ai miei occhi. Spero che leggerla sia per voi bello come è stato per me scriverla. Chiunque volesse commentare (in positivo, in negativo, in “medio”) mi renderà felice permettendomi di correggermi e migliorarmi in futuro. Fiore aka Mu Una vita. Tutta in una scatola. Volevo sparire. Ogni volta che aprivo gli occhi in quel letto vuoto io avrei voluto sparire. Sarebbe stato più dolce un dolore straziante, un albergo da cui andarmene semplicemente pagando il conto, una notte in cui comandare, un bacio, un solo bacio alla luce del giorno. “Vieni qui, Adam”. Parlavo con il gatto perché potevo avere gatti, ma non potevo avere lui. Guardavo il mio corpo fragile, come malato: una sola lacrima aspra mi cadde sulle ginocchia. Sentii quella morsa terribile allo stomaco. Come ogni mattina da un mese sentivo quel dolore acido salirmi in gola. Cercai di raggiungere il bagno, ma Adam mi fece inciampare: il futon si colorò in un istante di quel colore acquoso di tristezza. Dolorosissimo. Il mio solo pensiero fu quello di averlo accanto, di sentire la sua mano calda sul mio viso seccato dal sole di quell’estate troppo luminosa. Non potevo… non dovevo telefonargli. Eppure lo feci. “Ciao”, sussurrai appena, ancora scossa dalle contrazioni del mio stomaco. “Sae! Sei impazzita? Deficiente… non devi telefonarmi!”. E attaccò. Senza nemmeno darmi un minuto, un solo minuto per dirglielo. Perché non riuscivo a farlo mentre, nervoso, istintuale, si muoveva sul mio futon sfregandomi la pelle, cercando in me solo soddisfazione. “Sarai libero”, solo questo. Solo questo avrei voluto dire in quel maledetto telefono. E non ne ebbi il tempo. E allora furono solo lacrime. Mi riempivano la bocca, mi impastavano il cuore e quel giorno che sembrava nato per non finire mai vide le mie prime lacrime di amante. Per quanto dolore, per quanta umiliazione io potessi avere sentito in tutti quegli anni dividendo con lui solo questo letto sfatto, io non ne avevo mai pianto. Sono sempre stata molto incline al pianto, forse fu l’esperienza onirica della mia giovinezza ad indebolire ancora di più la mia mente già sensibile. Non so. E alla fine quanti anni erano trascorsi da quelle emozioni pulite, assolute… Il suono del telefono mi rimbombò nel cervello, accompagnamento dei singhiozzi incontrollati che mi squassavano il petto. “Pronto?” “Kayama?” “Sì”, riuscii appena a dire: la flebile speranza che potesse essere Shingo era già svanita al suono di quella voce sconosciuta d’uomo. “Sei la Kayama?” “Sì”, ripetei. “Sono Miura… come stai?”. “Miura!”, mi venne di esclamare. Quanto tempo era trascorso dall’ultima volta in cui ci eravamo visti? I ricordi mi attraversarono il cuore come un vortice di colori. Per un istante mi dimenticai di Shingo, della vita che stava pulsando lontana da me, del freddo del tatami sotto i miei piedi nudi. “Già… ne è passato di tempo…”. Sembrava come imbarazzato, in attesa che qualcosa nelle mie parole giustificasse la sua chiamata. “Come stai?”, gli chiesi, così che la stessa domanda rivolta a me che Miura mi aveva fatto poco prima cadesse senza risposta. “B… bene. Sì, sì. Bene. Sono al lavoro… infatti non credevo di trovarti a casa…” “Beh… veramente oggi non sto molto bene…” “Mi dispiace”, disse solo, con un tono malinconico che senza ragione mi ferì. “Beh? cercai di usare il tono più allegro possibile- che mi dici?”. Silenzio. Per una manciata di secondi che mi parvero infiniti rimase zitto. “Non ti ricordi che giorno è oggi, vero?”. Cercai nella memoria, velocemente. Sentivo il desiderio di rispondere, di sentire la voce di Miura, apparentemente vicina nell’etere e insieme incommensurabilmente distante, serena. Tintinnante come era stata l’ultima volta che, adolescenti, ci eravamo incontrati. Era stato… era stato dieci anni prima, per dissotterrare la nostra scatola. “Kayama? Ora sparirai di nuovo?” “Ci rivediamo qui. Tra dieci anni”. Allora Miura era poco più che un ragazzo. Ormai da tempo abbandonata la scena cinematografica stava per sposarsi. Così giovane, perfettamente adulto. Ci salutammo in fretta: io correvo alla stazione per prendere un treno che mi avrebbe riportata alla mia vita di nulla, dalla perfezione cinerea. Correvo e lasciavo lui alla sua realtà, ricordando appena quanto avevamo diviso nel passato, cercando di cancellare la sua espressione nel dirmi addio. Quegli occhi persi in un pensiero che non potevo conoscere mi tornò in bocca ora, stravolgendomi impercettibilmente. “La scatola!”, quasi gridai. “Già”, rispose e sentii la sua voce come vivificata. Guardai l’orologio, in uno strano stato di ansia leggerissima. “Se prendo lo Shinkaisen delle 10:00 dovrei arrivare per le due… ci vediamo lì. Dopo dieci anni…”. Fu l’ultima frase di quella conversione: Miura non rispose nulla solo un breve silenzio prima di riattaccare. In quel silenzio vidi il sole. E il volto di Miura sorridente. Ma era il volto di un diciottenne. Mi chiesi come sarebbe stato quel viso perfetto, glaciale nella sua bellezza, vivo in quel dolore sommesso che emanava incessantemente nei giorni dell’infanzia. Guardai di nuovo la mia pelle arrossata: la vista sfuocata del risveglio non mi aveva ancora infastidita. Strano. Di solito non sono in grado di fare nulla senza avere le mie nitide immagini artificiali. Invece quella mattina cercai solo allora i miei occhiali. I ricordi non hanno bisogno di lenti… Mi mossi appena nella stanza: mi guardai riflessa nello specchio, l’unico di tutta la casa. Li odiavo. Una vita a cercare di non detestare il mio riflesso, crudelmente centuplicato nel vetro, e nonostante questo ero sempre io. Gli stessi capelli dispettosamente scomposti, gli stessi occhiali sottili, gli occhi liquidi. La stessa magrezza. Questa, forse, solo appena più accentuata: una donna senza quelle forme morbide e dolci a cui gli uomini si piegano. Mi vestii in fretta, infilando una maglietta ampia che mi coccolasse un po’, il tempo di mettere le lenti a contatto, una carezza ad Adam. “Fai il bravo”. E uscii. Le nove e mezza. Fermai un taxi: “Alla stazione”, dissi e non avevo voglia di dire altro. Affievolita l’eco della voce di Miura preferivo il silenzio per quel mio dolore solitario. Miura. Quando riprendemmo a chiamarci per cognome? Forse quando lui partì per l’Inghilterra. Come se la confidenza affettuosa fosse stata logica solo nel momento in cui entrambi fummo uniti dal viso splendido e dolente di Eve. Un momento di simbiosi meravigliosa, naturalmente destinato a finire. Miura. Istintivamente pensai di averlo persino dimenticato, il suo nome. Scesi dal taxi distrattamente attenta a quel mondo vivo che mi passava accanto frenetico e incurante. Brulicavano le voci, i colori, gli odori ed ebbi la percezione di me come un fotogramma stinto di un film muto. Fuori c’era vita. Vita! Ed io, emozionalmente ferita, mi sentivo in uno stato lacerante di morte apparente. “Un biglietto per Tokyo, Shinkaisen” “Solo andata?” “Sì”. Pensai che sarei potuta tornare con un locale, per non pagare il supplemento. Credo. Credo perché quella mi sembrò sul momento la giustificazione più logica a quel mio “sì” che venne alle mie labbra automaticamente irrazionale. Fu un viaggio strano il mio su quel treno, un viaggio verso il futuro che mi condusse nel vortice del mio passato. Due, dieci, vent’anni prima. La mano di Miura che afferra le mie dita gelate, Eve che riapre gli occhi e poi ci fu semplicemente la vita. Diversa per ognuno di noi perché alla fine nemmeno Hotaru e Sugisaki avevano diviso un tempo più lungo insieme: maledizione della nostra straordinaria esperienza. Tutto come se fossimo solo pedine nelle mani di una forza mistica altra da noi. E così, tacitate le richieste del nostro governatore, tornammo isolati e senza vita. Io mi sentivo così. Ogni giorno da otto anni. Una pedina. Che si muoveva frenetica e illogica nel mondo, piegata alla forza incontrastabile della mia dipendenza da Shingo. Era stato molto tempo prima. Forse ero ancora una bambina, pulita, ingenua. Sciocca in fondo. Ci eravamo incontrati per caso, davvero inaspettatamente: un seminario di diritto, mi sembra. La ragazzina un po’ fuori posto tra quei professori e l’assistente opportunista. Mi si era avvicinato come per errore, forse solamente incuriosito dalla mia presenza timida, dissonante, e non gli era stato difficile convincermi a seguirlo in un piccolo bar: beveva caffè, lo ricordo bene, un caffè nero come la sua anima, ma io ero già drogata di gioia e non avrei avuto davvero forze da opporre. Onestamente infido. Non mentì mai su di lei, la “splendida moglie”, né mai finse per me un interesse emozionale: da subito eravamo incatenati nell’eterno gioco degli amanti. Da subito. Fin dal momento in cui facendomi strada nell’entrare al bar mi appoggiò come per caso la sua mano grande su un fianco. Percepii appena quel contatto, il tocco delle sue dita avide filtrato dalla stoffa pesante che mi riparava dal gelo di quell’inverno. Ma fu ugualmente l’inizio. Non mi riempì la testa di parole, non creò la sua immagine modulandola sulle stereotipate attrattive dell’uomo adulto che concupisce la ragazza con le sue doti retoriche o culturali. Dopo appena qualche minuto lui mi era davanti in tutta la sua pochezza. Kido Shingo. Assistente universitario di ventisette anni, sposato, senza figli. Un’ora dopo avevo perso tutto quel poco che mi ero giurata di conservare in eterno. Un’ora dopo avevo lasciato la mia infanzia sul lenzuolo ruvido di un hotel. Un’ora dopo, la piccola, inesperta, sfortunata Sae era morta. E con lei tutto il passato. Sepolto, rimosso, soffocato per lasciare posto a lui. Se fossi potuta tornare indietro, se solo avessi avuto la forza di dire no, di dire basta, quel giorno su quel treno non avrei pianto ininterrottamente. “Perché piangi?”. Quella voce infantile mi riscosse dal mio incessante ricorso nel passato: alzai lo sguardo attraverso le lenti appannate dalle lacrime: un bambino mi guardava con una di quelle espressioni che solo l’innocenza permette, una mescolanza di curiosità e stupore triste. “Perché piangi?”, chiese ancora. Tentai di sorridere, lo giuro. Tentai, tentai con tutte le forze di sorridere a quel viso tenero e innocente. Tentai e invece mi uscì solo un singhiozzo violentissimo e le lacrime ricominciarono. “Akemi ha detto che vorrebbe un figlio” “U… un figlio?” “Sì. Dice che se non ne facciamo uno ora poi lei sarà troppo vecchia: non vuole essere scambiata per la nonna” “E… e tu?” “Niente. Le ho detto che ci penserò. Non mi dispiacerebbe, forse. Non lo so… non che io abbia molto tempo da dedicare ad un marmocchio. In fondo sarebbe una cosa più che altro di Akemi” “Ma…”. Non ero riuscita a dire più nulla quella notte terribile di parole sulla vita e lui a quel mio flebile “ma” aveva risposto sfiorandomi il corpo umido e chiudendomi la bocca con la sua. E poi un figlio davvero non lo avevano avuto e ora lui di anni ne aveva forse davvero ormai troppi per divenire padre. Vinse anche su Akemi, alla fine. Un figlio. Il bambino che mi era di fronte poteva essere un figlio. Un figlio mio. Per quello non trattenei il dolore: la consapevolezza che io un figlio non avrei mai potuto averlo mi travolse l’anima. Il bambino corse via, alla ricerca, credo, del calore della madre, incapace di affrontare il mio dolore incontenibile. Rimasi di nuovo nel mio limbo di non vita e il treno incurante proseguiva cadenzato,sempre uguale. “Sei libero”. Quella mattina, dopo avere vomitato per l’ennesima volta perché quello era ormai l’unico segno di biologico rifiuto alla corruzione della mia esistenza, io avrei voluto dire solo questo. Senza avere di fronte i suoi occhi inespressivi, quel viso assolutamente normale di uomo arido. Senza dovermi di nuovo arrendere a lui, avrei voluto dirgli quella frase. Non me ne diede il tempo e così già tremavo perché sarebbe tornato da me, sotto le mie coperte, nel buio degli amanti a reclamare quello per cui mi ero dedicata a lui fin dall’inizio. Il mio corpo gridava lacerato il rifiuto per Shingo, ma… ma i miei sentimenti sarebbero del tutto morti se lo avessi lasciato. Vivevo perfettamente dissociata: odio nella lontananza, assoluta dipendenza nella presenza. Quando lui non era con me, di giorno, alla luce del sole, sentivo solo il dolore di essere un niente nelle mani di un uomo e lo odiavo con tutta la forza possibile. E poi arrivava puntuale il tempo del crepuscolo, quel tempo che poteva essere tutto e niente, ed io cadevo di nuovo di fronte al suo potere. Perché lo amavo. In quel mio modo singhiozzante e puerile che governava la mia esistenza, io amavo Shingo. Con tutta l’anima, con tutto il corpo, anche se è sciocco e scontato e umiliante da dire. Se l’amore fosse una forza razionale, se fosse possibile non essere dipendenti da un essere umano fuori di noi, io forse sarei stata risparmiata da quello strazio vergognoso che mi vedeva asservita ad un uomo che per me non provava nulla. Perché davvero Shingo non voleva me, con la mia precarietà emotiva, i miei timori, la mia insicurezza. Voleva solo giocare con l’incastro dei nostri corpi, voleva solo una bambolina da modellare con le sue dita. Da mesi avrei voluto dirgli addio e non potevo. Razionalmente perfettamente consapevole che era un amore distruttivo che forse avrebbe anche potuto uccidermi, il mio io più profondo rifiutava quell’addio e così lasciavo la mia porta sempre aperta e il mio corpo teso si scioglieva per lui. Mi trovai col viso seccato dal sale delle lacrime che senza che io me ne potessi rendere conto si erano fermate, non più armoniche con il flusso dei miei pensieri. Mi picchiai la fronte impercettibilmente, come per allontanare almeno per un istante tutto quel grumo di sofferenza e imbarazzo. Mi ripetevo che non aveva alcun senso torturarmi, che forse dovevo rassegnarmi all’immobilità: la mia vita sarebbe proseguita così, fino al giorno in cui o io o lui o entrambi fossimo morti. Poi sarebbe stato quel mondo mistico delle anime. Mi chiesi se avrei trovato pace almeno nella morte o se la mia esistenza così deformata , buttata al vento, non mi avrebbe costretta a vagare nel nulla come Sayaka. Incapace di vivere e incapace di morire. Sentii un brivido a quel pensiero. Guardai fuori dal finestrino: il treno correva velocissimo, dilatando lo spazio e concentrando il tempo. Le 13:15. Ancora pochi minuti. Non avevo nemmeno mangiato, né ero riuscita a fare il minimo ordine dentro di me. Mi sembrava così incoerente, antistorico tornare in quella città, rincontrare Miura. Un momento senza dimensione, forse avevo proprio quella sensazione. Almeno fino a che il treno proseguì nel suo moto. Perché non appena posai i piedi a terra, sentendo l’odore della mia infanzia nella stazione, il caldo familiare dell’estate, i ricordi mi travolsero fino a stordirmi. “Kayama… tu pensi che questa nostra esperienza possa avere un senso?” “Eh?.. No. Non credo” “Ma ci sarà una ragione per cui proprio noi… voglio dire… siamo ancora qui tutti e quattro…” “Ma ognuno di noi ha la sua vita. Vedi Hotaru? Erano cinque anni che non ci incontravamo, nonostante questa scatola, nonostante tutto”. Eravamo seduti sotto l’ombra dell’albero, sufficientemente vicini per ritrovare un po’ dell’intimità di quando eravamo bambini, abbastanza lontani perché tra noi ci fosse una distanza incolmabile. “E così ti sposi?” “Sì”. E gli si illuminarono gli occhi di una luce splendida che invidiai crudelmente. Mi sentii subito sporca per quel sentimento negativo provato proprio nei suoi confronti, eppure non riuscii a reprimerlo. Anche se allora la mia vita si muoveva ancora lenta sui binari della monotonia e Shingo nemmeno aveva sfiorato il mio equilibrio calcolato, nemmeno allora ero felice. Già. Credo di non avere mai più provato la vera felicità dopo che Eve era tornata finalmente libera, quella felicità cristallina non tornò più ed io ripresi gradualmente ad essere malinconicamente introversa. È stato un vorticoso cammino verso il nulla la mia vita: chiudendomi progressivamente sempre più in me stessa, trasferendomi lontana dai soli luoghi che mi avevano dato gioia e emozione, mi ero ritrovata a diciotto anni un involucro vuoto di nevrosi e solitudine. Avevo paura. Avevo sempre avuto solamente paura. Dei miei sentimenti, degli altri, della vita stessa. Vivevo cercando di essere incorporea, di non avere davvero peso nell’esistenza degli altri, studiando, incapace di esprimere sentimenti semplicemente perché avevo deciso di smettere di averne. Credo che il giorno in cui Miura ci salutò, in partenza per Londra, io avessi semplicemente deciso di smettere di amare. Se solo avessi capito che ancora non potevo conoscere l’amore, che la vita era ancora tutta da costruire e assaporare! Forse la paura mi sarebbe rimasta estranea… Forse. Non so. Perché alla fine la ragione si piegò al cuore di fronte a Shingo e scoprii che non potevo smettere di amare. Potevo solo fingermi capace di farlo. E ugualmente scoprirlo non tamponò la paura, semplicemente la trasferì: dal terrore di innamorarmi, al terrore di essere abbandonata. Con Shingo accanto, in fondo, io ero passata dall’essere ragazza all’essere donna, quasi in silenzio, come soffocando ogni speranza, ogni desiderio per lui. Un sacrificio mai ripagato e mai chiesto. Avevo iniziato a camminare, automaticamente, senza nemmeno curarmi di dove davvero mi stavano portando i miei passi: ogni minuto mi portava più vicina al mio passato e più lontana dal mio presente. Il profilo di Shingo si affievoliva nella mia mente per lasciare il posto a quello di Miura. Mi batté impercettibilmente il sangue un po’ più forte nelle tempie: raramente in quei dieci anni mi era capitato di pensare così intensamente a Miura, tentavo, quando accadeva, di cancellare la sua immagine perché faceva male. Un male cane. Sono sempre stata troppo brava ad uccidere i sogni. “Kayama… secondo te perché Sugisaki e la Shiraishi hanno perso i contatti?” “Non lo so. Forse perché le cose cambiano, le esigenze, i desideri… o forse solo perché è capitato…” “Un po’ fatalista, non credi?” “Eh eh… tu mi parli di fatalismo? Vuoi parlare del tuo sano cinismo?” Risi, forse stupidamente. “Cinico io? Ti sbagli” “Cioè? Vorresti dire che hai trovato qualcosa per cui valga la pena vivere?”. Fui molto provocatoria in quella domanda. “Ora sono felice”. Mi gelai quel giorno a queste parole: sapevo che avrebbe di nuovo raccontato della sua felicità. E non ero certa di riuscire a sopportarlo. “Buon per te… in fondo sei pur sempre un futuro marito… deve essere una sensazione inebriante…” “Ma tu non hai un ragazzo?”. Avessi potuto, avrei scelto di sparire in quell’istante dal mondo pur di non rispondere. Miura mi mise di fronte alla mia nullità con il suo tono pacato di noncuranza leggera. “No”. E mi alzai. La mia debolezza interiore era troppo forte. Scelsi come sempre di scappare, di abbandonare il campo. D’altra parte lui stava per sposarsi e non avrebbe avuto alcun senso dire la verità. “No. Perché sono innamorata di te”. No. Non potevo certo dire una cosa del genere: me lo impedivano le circostanze e insieme il mio disperato tentativo di estraniarmi dall’amore. Forse se avessi parlato, non avrei dovuto piegarmi alla vergogna di essere amante. “Kayama!”. Mi chiamò all’improvviso, mentre ancora non mi ero resa conto di essere arrivata accanto al luogo del nostro incontro. E la sua voce mi tolse lucidità per un momento. Sì. Fu solo un momento, ma mi sembrò di una immobilità assoluta. Miura. Erano trascorsi altri dieci anni come per caso e ora avevo di fronte un uomo. Eppure era sempre lui. Gli stessi occhi freddamente vivi, quell’espressione indecifrabile che solo qualche volta, come in quell’attimo in cui i nostri sguardi si incrociarono dopo tanto tempo, diveniva una piccola esplosione di vitalità e sensazioni. Avevo di fronte Miura. Miura che si era sposato. Miura che era stato il mio grande amore, pur nell’incoscienza della giovinezza. Miura che sembrava il solo ad essersi ricordato dell’anniversario della nostra scatola di ricordi. “Miura! esclamai infine, come svegliandomi da quello stato atemporale in cui ero caduta- Aspetti da molto?” “Non preoccuparti si avvicinò sorridendomi- io abito qui a due passi” “Bene”, mi limitai a rispondere dirigendomi sotto l’ombra dell’albero, decisa a dissotterrare per la seconda volta la nostra scatola e poi ad andarmene. “Beh? Non mi racconti niente? È una vita che non ci vediamo…” “Già iniziai e sentivo una rabbia antica salirmi in bocca- una vita…” “Una vita”, ripeté, ma non riuscivo a capire se si stesse semplicemente prendendo gioco di me o se davvero stesse riflettendo sul senso del tempo. Un tempo che mi era sembrato eterno nei giorni della lontananza e che si era immediatamente azzerato quando mi ero trovata di fronte a lui. Incomprensibilmente, senza freni né logica, esattamente come dieci anni prima io avevo rincontrato Miura e ogni cosa aveva perso contorni, valori, rimanevo, per una volta, solo io. A rapportarmi con i miei sentimenti. “Non ti sembra stupido?”, gli chiesi sedendomi sull’erba. Aspettò di essere anche lui seduto, accanto a me, come quando mi disse che si sarebbe sposato. Per un momento temetti che avrebbe detto qualcosa capace di ferirmi allo stesso modo. Ma per un attimo: perché ormai era già sposato e credo che nulla avrebbe potuto farmi più male di quello. “Che cosa?”, mi chiese. “Questo. Non sappiamo nulla l’una dell’altro però siccome sono passati dieci anni… allora bisogna ritrovarsi. Non so. Non mi sembra abbia molto senso”. A quel punto non sapevo nemmeno più classificare il mio stato d’animo. Rabbia? Per l’ipocrisia che pensavo di scorgere in quel nostro incontro? Dolore? Per ragioni che in realtà non c’entrano nulla con Miura? Rimpianto? Per il passato felice e il presente insensato? Forse erano un po’ tutte queste cose insieme. Davvero non sapevo. Allora non sapevo, non volevo sapere, né capire. Miura rimase in silenzio per un po’ e stranamente quell’assenza di parole non mi mancò affatto: speravo, così, di ritrovare la calma, la tranquillità, o almeno la sua apparenza, e potere così alzarmi, dissotterrare quella scatola di latta ormai marcia, guardarci dentro in fretta, ricordare qualcosa insieme a lui e tornarmene a casa. Non riuscivo a voltarmi verso di lui, ma con la coda dell’occhio potevo vederlo fissare un punto indefinito della strada di fronte a noi: forse strizzò un po’ gli occhi per mettere a fuoco. Pensai che non gli importava nulla del nostro incontro e così la mia frase di pochi minuti prima mi sembrò totalmente insensata: in fondo avevo avuto una reazione esagerata… non eravamo altro che due vecchi compagni di scuola che si rivedevano dopo anni. Pensai anche che forse avrei potuto semplicemente chiedergli qualcosa di sé… ma ero bloccata: si possono raccontare dieci anni in poche frasi (citazione… NdFiore)? “Io volevo vederti”. Queste parole, lapidarie, irrevocabili, mi straziarono il cuore accelerandone i battiti. Una frase bellissima. Per distruggerla, dentro di me, ci vollero pochissimi secondi. Gli uomini vanno via, mi dissi convinta e bastò a placare il mio cuore e la mia gioia. Non ero più abituata alla gioia. In un istante mi venne in mente una scena della notte precedente, con una vitalità e un realismo massacranti: Shingo era rimasto qualche minuto a guardarmi mentre, nuda, gattonavo sul tatami per recuperare almeno gli slip che naturalmente lui mi aveva sfilato non appena aveva messo piede lì. Non mi ero accorta del suo sguardo, né mi ero curata del modo in cui mi stavo muovendo nella penombra: avevo semplicemente sonno, svuotata dal nostro ennesimo incontro fisico, volevo rivestirmi e chiudere gli occhi. Stavo per rimettermi addosso qualcosa, non guardavo verso di lui, gli davo le spalle, quando, quasi prepotente, mi afferrò per i capelli trascinandomi sul futon. Per avermi una seconda volta, mi resi conto poco dopo. Ed io che non volevo, che ero stanca, malinconica, schifata, ferita, mi piegai per l’ennesima volta al gioco degli amanti. No ci fu nulla di violento nel modo di Shingo di prendermi, ma ugualmente vi vidi la concezione che aveva di me come un suo giochino, una bambolina da sfruttare fino in fondo nella sola cosa di cui era capace. Gli vomitai davanti. Non appena questa immagine si presentò alla mia mente nel suo nitore e nella sua irruenza, io vomitai davanti a Miura. Improvvisamente, senza riuscire a fermarmi. Vomitai il nulla che avevo nello stomaco. “Kayama! gridò mentre io ancora mi tenevo lo stomaco cercando di placarlo, di ucciderlo se avessi potuto- Kayama, vieni andiamo a casa”. Mi si era avvicinato e tendeva una mano verso di me, come se non osasse toccarmi realmente. Pensai che probabilmente dovevo fargli schifo. Chiusi gli occhi attenta a capire se finalmente il mio stomaco aveva trovato pace e poi mi risedetti, poco più in là. Miura mi seguì senza parlare e si sedette di nuovo anche lui, questa volta lo avevo di fronte: non potei più evitare di guardare nei suoi occhi adulti. “Scusa…”. Mi guardò come stupito: “Perché ti scusi? Può capitare a chiunque di non sentirti bene… magari il viaggio o qualcosa che hai mangiato -si interruppe come se avesse capito che stava dicendo qualcosa privo di senso- … è per quello che ho detto?”, mi chiese. “No… -iniziai, ma le contrazioni dell’esofago mi facevano singhiozzare nel parlare- cioè… non è per le parole che hai detto in sé… è per quello che mi hanno fatto tornare in mente…” “Che cosa?”. Avrei preferito morire che rispondere a quella domanda. “Ricordi”, mi limitai a dire. “Io volevo rivederti”. Alzai la testa verso di lui, con un’espressione che mescolava domande non dette e diffidenza: perché lo ripeteva se la mia reazione era stata così irrefrenabile? “Volevo rivederti… o forse avrei voluto poterti vedere sempre, in ogni momento della mia vita… ma in fondo sono un cretino e ho avuto bisogno di una scusa come quella della scatola per trovare il coraggio di cercarti”. Io giuro, giuro che non capivo il senso delle sue parole. “Sae?” e si interruppe. Come volesse darmi il tempo di metabolizzare il mio nome, che gli avevo appena sentito dire dopo forse quasi vent’anni. Lo guardai, in attesa. “Tu credi che il passato debba rimanere qualcosa di morto, concluso?” “Perché stai dicendo tutte queste cose strane, Miura? Non ti capisco… siamo qui per la scatola e dici che è un pretesto… avremmo un sacco di cose da raccontarci e invece ci perdiamo in questi discorsi insensati…” “Volevo fare una prova…” “Una prova? Di che?” “Volevo mettere alla prova me stesso… vedere se le mie erano solo illusioni o costruzioni della mia mente…” “Cioè?” “Cioè volevo capire se ero innamorato del mio passato, o il mio passato aveva fatto sì che io fossi tutt’ora innamorato… -pausa, infinitamente lunga e infinitamente incomprensibile- di te”. Punto. Avevo sentito un punto fermo dopo quelle due parole. Sorrisi. Sorrisi! Quanto tempo era passato? In quel momento io ero solo felice, per qualche istante provai il sapore della gioia assoluta, priva di domande, di incertezze, di paura. Solo un momento. “E..?”, riuscii a chiedere. “E ho capito”. Guardava fisso nei miei occhi, mentre io non riuscivo a evitare di distogliere lo sguardo che sentivo emotivamente vulnerabile. “Sei sposato”. Non avevo pensato di dirlo! Non avrei voluto. Ma mi venne così, automatico, contemporaneamente a ogni mio ricordo su Shingo. Forse avrei ritrovato immagini nauseanti nella mia memoria, su questa mia condizione di amante, ma lui non me ne diede il tempo. “No. Non sono sposato pausa, sospiro, cuore che tremava, il mio e, ora lo so, anche il suo- non lo sono mai stato”. Stravolsi il viso, incredula o semplicemente incapace di capire: cosa? Dicevano i miei occhi. “Non ce l’ho fatta… non potevo…”. Si alzò tirandomi per una mano e avvicinandomi a lui, così vicina che sentivo il mio battito rimbalzare sul suo. Mi venne da piangere e così Miura sentì per la prima volta il sapore delle mie labbra macchiato di sale. “Ma… Masaki”, sospirai allontanandolo da me, allontanando il suo corpo, il suo calore, il suo odore. Mi guardò e sorrideva: “Sai per quanto tempo ho maledetto di averti rivisto a pochi mesi dal mio matrimonio?”, disse semplicemente. “E sai quanto male sentii io vedendoti così felice del tuo amore?”, lo accusai tra le lacrime aspre che mi bruciavano in fretta sul viso prima di evaporare. “No. Perché sai mentire troppo bene… ma in fondo anche io avevo mentito a me stesso per anni, illudendomi di un sentimento che non c’era… Sae… io… io spero di non avere di nuovo sbagliato tempo…”. E finalmente, per la prima volta capii cosa volevano dire le sue parole: nella nostra vita io e Masaki ci eravamo incontrati per tre volte; la prima troppo bambini, troppo assorbiti da un’esperienza assoluta e unica, per avere tempo e anima disposti ad accettare il nostro amore; la seconda quando lui lottava con se stesso per accettare un matrimonio, una donna, una moglie, forse dei figli, che in realtà non voleva; e ora, la terza. E in questa terza occasione lui si stava chiedendo se fosse ancora in tempo per essere felice, se io non mi fossi nel frattempo sposata o innamorata. “Questo è il tempo giusto gli dissi rimanendo immobile, distante fisicamente da lui, vicinissima sensitivamente- ma… ma dovrai prima ascoltare la mia storia… perché le cose cambiano, si commettono errori e si sente male… ed io mi faccio schifo ed ho paura, ora… voglio essere felice, Masaki, ma non voglio più mentire…”. Mi interruppi: mi stava guardando sorridendo. “Anche io voglio non mentire più, Sae…”. Mi prese la mano e mi portò via. Dimenticammo la nostra scatola, che aveva fatto l’ultimo miracolo, il più grande e che non avremmo mai più dissotterrato. Mi prese la mano e mi portò via dal dolore del passato, dalla vergogna, dalle lacrime. E infine gli raccontai di Shingo, del dolore, del nulla della mia vita che era finalmente finito; nel buio amico della sua casa riuscii a vomitare a parole quello che per un mese aveva vomitato il mio corpo e di fronte a me c’era un uomo che mi amava, nella mia magrezza senza forme, nei miei occhiali, nella mia fragilità. Masaki ascoltò in silenzio il mio racconto, disse solo questo, quando ebbi finito: “Sono felice… perché, come me, non hai mai fatto l’amore con qualcuno che amavi davvero”. Io non ebbi più parole, si sciolse nel suo abbraccio tutta la rabbia. “Domani dobbiamo andare a farci rimborsare il tuo biglietto di ritorno”, mi disse e fu la prima volta che sentii un uomo parlare di me e di lui al plurale, come due entità pur distinte, ma unite. Profondamente unite. Per sempre. Risi. Risi forte, per dare suono a tutta la mia gioia: “Non l’ho mai preso! esclamai- Il ritorno! Non lo ho comprato!”. Mi abbracciò forte. Un bacio. Umido e dolcissimo. “Vieni… andiamo a dormire”. Stava ormai sorgendo il nuovo giorno, il mio primo giorno di vita, al fine. Lo trattenei un istante per la mano: “Dov’è il telefono?”. Mi portò all’apparecchio. Il numero. La voce che tanto dolore aveva portato. “Non voglio vederti più. Mai più”. E attaccai. Dormimmo, poi. Vicini. E Masaki non volle il mio corpo su quel futon. Non subito. Non chiese. Fu solo molto tempo dopo. Ma questa è un’altra storia che il viso di Kurumi, ogni singolo giorno, racconta nel dirmi “Mamma” e poi subito cercando Masaki con quegli occhi azzurri e quei capelli mossi, come i miei. “Papà”, dirà domani prima di uscire per andare all’asilo. Papà. Il padre di mia figlia è mio marito. E domani, prima di uscire, Kurumi mi darà un bacio sulla guancia e Masaki mi abbraccerà forte. Poco dopo uscirò salutando Adam e sorriderò sedendomi in ufficio. Da quel giorno sotto il nostro albero, io non ho più vomitato. Ringrazio Misato per la disponibilità e per l’ospitalità sull’AYW. Ringrazio la mia sorellina che è stata sottoposta a spoiler massacranti (come sempre ^^;; ) durante la lavorazione. Ringrazio chi mi ha fatto conoscere le ff, la bravissima Miyae. Ringrazio Aiwa che mi ha dato nuovo incoraggiamento nello scrivere. Ringrazio la vita perché è sempre davvero imprevedibile. Ringrazio tutti coloro che hanno avuto la pazienza e la voglia di leggere questa storiella. Fiore aka Mu mailto: hyponoia@tiscali.it Torna alla pagina degli shoujo manga Torna all’indice delle fiction |