Picture
Picture

TESORI E IMMONDIZIA
di Koibito8
 

Parte: 1/1
Pairing: scopritelo da voi, e non linciatemi.
Rating: PG13, POV, forse un po’ di OOC.
Note: Bla … bla … bla … i personaggi non sono miei ma del grande Inoue.  ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ---

Ho guardato se c’erano messaggi, ma non ce n’erano.

Ci sono rimasto male.

Dovrei esserci abituato, ma ci sono rimasto male.

Shinichi non chiama mai.

Sono io che lo chiamo.

Il traffico era pauroso, tremendo.

Ho ingranato la quarta, e sono sgusciato via, con due ruote sul marciapiede e due sull’asfalto, a settanta all’ora in mezzo a una marmellata di gente, macchine, motorini.

Per fortuna, nessun vigile.

Sono entrato in via Moruboki ed ero contromano, ma non me ne importava proprio nulla.

Al primo incrocio ho girato e mi sono ritrovato in Piazza Fushimoto.

Esattamente davanti all’Hotel Majestic.

È un ignobile albergo, l’Hotel Majestic.

All’ingresso, c’è una specie di scrivania lercia con una seggiola sbilenca, su cui siede un tizio con gli occhiali ed i capelli unti, che gioca con le chiavi del quadro che gli sta appeso dietro alle spalle.

Quando entri, il tizio ti dà uno sguardo di straforo, poi tira fuori un modulo stropicciato e dice: “Quarantamila, senza bagno” e allunga la mano.

L’uomo con cui sei (Shinichi) apre il portafoglio, tira fuori i quarantamila ien in contanti, poi prende la penna senza cappuccio che il tizio gli porge e firma. Il tizio continua a tenere la mano tesa, anche dopo che Shinichi ci ha messo dentro i quarantamila ien.

Allora Shinichi apre di nuovo il portafoglio, tira fuori altri diecimila ien, ce li aggiunge. Il tizio ritira la mano. Poi finalmente porge le chiavi. Mi viene sempre in mente una canzone, non ricordo di chi, che dice: “io lavoro al bar, io lavoro al bar, di una albergo a ore… Porto su il caffè, porto su il caffè a chi fa l’amore”.

Non so se era amore, quello che abbiamo fatto, Shinichi ed io, in questi mesi. Non so se è amore quello che faremo stasera, stasera quando lui mi chiamerà.

Non lo so se mi chiamerà.

In ufficio, naturalmente, ho fatto finta di nulla. Però credo che alcuni lo sappiano, credo che alcuni se ne siano accorti: se vai a letto con il capo qualcuno se ne accorge, sempre. Tu fai finta di nulla ma loro ti mangiano, ti tagliano.

Mi dispiacerebbe se Akira lo venisse a sapere. Ma tanto non lo saprà mai, nell’ufficio di pubblicità come quello in cui lavoro io, Akira non si azzarda ad entrare.

È tanto buono, Akira.

Ma ha quella specie di timidezza che hanno certe volte gli operai, quelli della vecchia guardia, quelli che sono orgogliosi di lavorare alla Toyota e che gli sembra che fare un bullone sia un lavoro così importante. Mio marito mi guarda come se fossi una divinità solo perché sono laureato in Economia e Commercio.

Pensavo di aver scelto l’Università giusta, ma alla fine non sono nient’altro che il direttore di una famosa agenzia di pubblicità. Però, in confronto ad Akira, che se vede un libro si sente male, e legge solo riviste di basket, perché una volta era un giocatore, io sono una creatura speciale.

Kanagawa è un bel posto, e poi ha questo nome fenomenale, come direbbe mio figlio Kintaro.

Kanagawa: sembra una caramella da scartare.

Ogni mattina, quanto vengo a Tokio a lavorare, mi sento come se uscissi dal guscio.

Sono contento di scappare ma anche di tornare.

No, non sono onesto. La verità è che io vorrei scappare. Con Shinichi. Vorrei che lui lasciasse il suo compagno Nobunaga e venisse a vivere con me. Vorrei essere il compagno del direttore regionale della mia agenzia.

Non è stato facile conquistarlo, Shinichi.

Però, ormai ho imparato come si fa. Mi ci è voluto così tanto per imparare.

Mi sono dovuto ammorbidire, non è stato facile per un tipo sempre scorbutico come me. Lo sono sempre stato, scorbutico intendo.

Shinichi è un bell’uomo. Un duro, freddo, bellissimo uomo di acciaio; più di me. Mi ricorda 007. Sean Connery. E non sono esagerato, è proprio bello e molto, molto cattivo.

Quando gli telefono, ha sempre da fare.

Dice: “Ti richiamo” con un tono terribilmente infastidito, come se la mia voce fosse una puntura; infatti, poi, non richiama.

Oppure dice: “Ora non posso” e ha, nella voce, una specie di rassegnazione, una tonalità dolente, di pena infinita; e non richiama.

Certe volte, io insisto; allora lui diventa ancora più gelido, risponde a monosillabi; certe volte riattacca appena sente che sono io.

Io continuo a telefonare. Per il suo compleanno, avrei tanto voluto vederlo, non per molto,  per poco.

Un minuto. Un’ora. L’amore per mezz’ora: sono i suoi tempi. Pensavo che mi avrebbe chiesto di vederci, e non mi importava di vederlo all’Hotel Majestic, non mi importava la camera sudicia e la trapunta con il disegno di fiori gialli e le macchie di quelli che ci si erano sdraiati prima di noi, non mi importava la luce appesa sul soffitto, troppo forte, come quella di una cella.

Non mi importava di nulla, solo dei suoi baci, del modo in cui mi apre con dolcezza le gambe, del modo in cui mi solleva il mento  e mi sfiora il collo con la bocca ed io sento i brividi, solo brividi, e mi sembra di essere racchiuso nello spazio infinitesimo che lui si degna di toccare con la sua lingua meravigliosa, tutta concentrata sotto le sue labbra.

Invece è arrivato al solito appuntamento, in via Fukuoka, nel buio degli alberi e ha parcheggiato in fretta, di traverso. Io ho registrato quel modo stranissimo di parcheggiare, del tutto anomalo, per lui, che è sempre così attento, così preciso e ha moltissima paura delle multe. “Se mi arriva una multa a casa, come mi giustifico?” dice. Avrei dovuto capire.

È sceso e, nel buio, si è avvicinato alla portiera della mia macchina, l’ha spalancata, “Spostati” ha detto con la voce stanca.

Neanche “ciao” ha detto, ma non ci sono rimasto male.

*ora mi bacia* , ho pensato.

Avevo sul sedile di dietro, il pacchetto con la carta blu, con dentro il suo preziosissimo maglione di cachemire color panna, l’unico che non aveva, lo voleva tanto.

“Happy birthday to you, happy birthday to you…” ho sussurrato. Ero contento. Ogni volta che vedo Shinichi mi si accende una luce nell’anima, come una lampadina che lampeggia e dice: “ecco, questa è la felicità”.

La mia lampadina andava a mille.

Lui si è girato infastidito. “Smettila”.

Ho serrato le labbra, strette, perché sentivo che avrei potuto scoppiare in un pianto infinito; da quando sono così rammollito? Posso passare dalla felicità alla disperazione in un nanosecondo. Ero già disperato. Subito disperato. Ho capito che non mi avrebbe mai baciato.

“Nobunaga ha dei sospetti” ha detto.

Il maglione color panna riposava tranquillo sul sedile di dietro.

“Ho tanta voglia di stare con te” ho detto.

Lo sapevo che era la cosa sbagliata da dire, ma l’ho detta lo stesso, io lo faccio spesso: distruggo da solo le cose a cui tengo di più. Suona molto ridicolo espresso in questo modo. Però lo faccio. Shinichi ha acceso il motore ed io ho sentito un brivido, un vero brivido di speranza che mi scuoteva il cuore.

*Allora mi porta in albergo* ho pensato.

Mi sono spostato leggermente contro di lui, ho messo un braccio  sullo schienale del suo sedile, volevo accarezzargli i capelli, quei capelli sottili sottili, proprio sopra il morbido della nuca. Invece lui ha fatto un movimento brusco, si è scrollato di dosso le mie dita, prima che lo toccassero.

“Piantala”. Se avessi avuto un minimo di dignità, la dose minima di sopravvivenza standard, avrei dovuto aprire la portiera e andarmene. Forse lui mi avrebbe inseguito. Forse mi avrebbe portato in albergo.

Invece mi sono messo a piangere. Mi sono sentito come un sacco di immondizia.

A volte penso che lui mi consideri proprio così: un sacco di immondizia, mentre io penso di avere trovato in lui un tesoro. Ho tirato su con il naso e lui ha detto di nuovo: “Piantala”, in un modo che non ammetteva repliche ne altri commenti. “Piantala”.

Ho singhiozzato come un pollo strozzato. Allora lui ha spento il motore, ha aperto la portiera. È uscito. L’ho visto camminare nel buio, un’ombra nera contro la luce dei fari delle macchine che si incrociavano sul viale Nirumoto.

L’ho guardato salire in macchina, la sua Mercedes grigio metallizzato, accendere il motore, le luci. L’ho visto partire. Via. Via da me. E intanto piangevo e alla fine ho preso il maglione di cachemire color panna, che ci ho messo cinque giorni a trovare, e alla fine l’hanno fatto arrivare da Kyoto apposta per me, perché avevo commosso il direttore del negozio dicendogli che era per mio marito (“mio marito”).

Ho preso il maglione color panna, nel suo bel pacchetto di carta blu e l’ho accarezzato, come se fosse un bambino; poi sono sceso e l’ho appoggiato bene in vista sopra un’aiuola. A casa, ho dovuto fare finta di niente, mi sentivo morto, morto dappertutto e invece ho preparato la cena ed ho guardato con Akira la televisione, una partita di basket. E poi mio figlio voleva giocare con il Lego  ed io ho pensato che a dieci anni è un po’ strano che il Lego gli piaccia ancora e gli ho detto che doveva andare a letto e un’altra giornata senza senso è finita dentro il nostro letto freddo.

Akira ed io non facciamo l’amore da tantissimo tempo.

Si dice che succede a quasi tutte le coppie, anche a quelle gay, e un po’ mi fa piacere, sarò meschino ma mi fa piacere. Mal comune mezzo gaudio: che idioti. Se avessi letto che tutte le coppie lo fanno tutte le sere, starei molto peggio, decisamente. Conquistare Shinichi è stata una vittoria, di quelle vittorie che ci metti una vita per trovartele sul piatto.

Lo volevano tutti e me lo sono preso io. Certo, io sono un dipendente, per questo mi tratta un po’ così, con superiorità.

Ma poi, a letto sono io che comando. No, diciamo la verità: lui resta il capo, sempre, lui ordina ed io eseguo. Io mi racconto le storie che vorrei avere, non quelle che ho.

E Akira aspetta.

Akira sta lì, buono buono, con le sue mani ruvide, con le sue camicie stropicciate e le pantofole blu e guarda le televisione e io penso: *Povero Akira* , e intanto guardo di nascosto se ci sono messaggi sul telefonino.

Sono sempre stato un bel ragazzo, non molto alto, e con un carattere difficile, che alla fine è riuscito a smussare gli angoli più appuntiti di quel carattere e si è laureato; e nessuno ha mai capito da dove arrivavo, visto dove sono arrivato: direttore di una famosa agenzia pubblicitaria. Mi sono preso alcune soddisfazioni, tolto alcune curiosità. Akira è rimasto buono buono, non si è accorto di nulla.

Shinichi, all’inizio, era uno sfizio. Poi, non so come, gli è riuscito di prendere lui in mano la storia, ha fatto quello che voleva ed io dietro, come un cagnolino.

Mai nulla insieme. Mai un regalino.

Mai un fine settimana, sempre questo compagno tra i piedi e nei  discorsi e sempre quel modo brusco di liquidarmi, “ho da fare” e  nessuna telefonata, mai. E io, pazzo. Pazzo d’amore e stupido, perché glielo facevo vedere e capire.

Facevo capire tutto quanto al mio <tesoro> e lui continuava a trattarmi come <immondizia>. I colleghi dell’ufficio sarebbero contenti, se mi vedessero adesso. Piangere come uno scemo mentre guido nel traffico e penso all’Hotel Majestic e alla nostra camera e al modo in cui Shinichi mi prende, steso contro di me e forte e irresistibile e cattivo, senza baci.

Ho guidato ancora, giravo in tondo, nel traffico. Non mi andava di tornare a casa.

Ogni tanto, guardavo il display del telefonino. Niente messaggi.

Ho pensato che mi potevo buttare nella baia. Che mi avrebbero ritrovato come un sacco di vestiti vuoto, o forse non mi avrebbero ritrovato affatto. Dove vanno i morti? E chi li cerca? Sei vivo e poi sei morto e avevi solo quella vita lì, anche se poi ti raccontano che rinasci farfalla, ma a me non me ne importa nulla, di rinascere farfalla, io voglio vivere ora ed essere felice ora e avere Shinichi e vivere con Shinichi e partire con Shinichi e fare l’amore con Shinichi.

E Shinichi non chiama.

Nessun messaggio.

Dovevo tornare a casa e invece giravo in tondo, come uno scemo. Chissà che nebbia c’è, a quest’ora, sulla strada per Kanagawa. Chissà se Kintaro è tornato dalla palestra. Chissà se ha fame. Chissà se Akira.

Ecco, questo pensiero, *Chissà se Akira*, mi si è stampato nella testa all’improvviso.

Chissà se Akira.

Mi è venuto in mente Akira quando ci siamo sposati, sedici anni fa, il modo in cui mi ha guardato mentre camminavo nel corridoio della chiesa e dalle panche tutte le facce che vedevo mi sorridevano e mi tremavano le gambe e pensavo *Dei del cielo, mi sposo, mi sto sposando, uno dei primi matrimoni gay del nostro Paese* .

E Akira era in piedi, davanti all’inginocchiatoio con il suo bellissimo vestito, blu, blu come i suoi occhi, ed aveva il viso così bianco. Mi guardava come se fossi un miracolo, come se fossi un folletto, mi guardava tremante, atterrito, come se mi potessi sfarinare, in un attimo, davanti a lui, sparire.

E io ho visto che ha come barcollato e poi si è appoggiato con la mano destra alla spalliera della sedia e intanto mi guardava, come  se mi volesse trattenere, mi guardava con una forza e con una debolezza insieme, mi guardava come se mi invocasse, come se non ci fossi, come se non gli stessi camminando incontro.

Poi gli sono arrivato accanto, e Akira ha aperto le braccia ed ha fatto un gesto, come per prendermi. Ho dovuto girarmi, in un modo troppo brusco, esagerato, scusami Akira.

Scusami, non volevo, ma avevamo provato, ti ricordi? Avevamo provato tutta la cosa, e il prete non sarebbe stato affatto contento, se tu mi avessi abbracciato prima del momento giusto. Già non era contento di dover celebrare un matrimonio come il nostro. E allora mi sono scansato.

Guidavo e avevo davanti la faccia di Akira, i suoi occhi, quello sguardo. E mi sono accorto che avevo smesso di girare in tondo e che avevo preso la strada per Kanagawa.

C’era la nebbia. La strada sembrava un batuffolo di cotone, un enorme batuffolo forato dalla luce rada di pochi fari giallastri. E mi sentivo come se camminassi dentro i miei pensieri.

Andavo piano. Non piano per la nebbia. Piano per pensare. Mi è venuto in mente Akira quando abbiamo adottato Kintaro.

Dopo quasi diciotto mesi di discussioni, perché io non volevo figli. Ma poi sei riuscito a convincermi, o forse ero solo stanco di discutere, perché sapevo che avevi tutte le ragioni ed anche il diritto ad avere dei figli. Mi ricordo il giorno in cui gli assistenti sociali ci hanno portato a casa Kintaro.

E tu hai detto: “Grazie amore mio, mi hai fatto il regalo più bello di tutta la mia vita.”

E adesso mentre guido, nella nebbia, mi sono accorto che piango. Piango. Piango come uno stupido e mi pare di piangere per Shinichi, perché Shinichi non telefona, perché è con il suo compagno da qualche parte e io sono sempre solo, sempre solo.

Invece piango per Akira, ora lo capisco, piango per il modo ingenuo e generoso e senza richieste in cui mi ama. Piango per il modo in cui mi guarda, piango perché non sa niente e perché di notte mi abbraccia, mentre dorme. E poi sono arrivato a casa e le luci erano spente e mi sono sentito così male, così male, mi pareva che la mia famiglia fosse svanita, si fosse dissolta nella nebbia, sparita, via, finito.

La mia famiglia. Il mio tesoro?

Era forse quello il mio vero tesoro?

E sono corso su per le scale come un pazzo e ho aperto la porta e la chiave non voleva girare e alla fine sono riuscito ad entrare, ho acceso la luce; e ho visto che lampeggiava la luce della segreteria telefonica.

“Ciao, Hiroaki. Torniamo un po’ più in ritardo, stai tranquillo” ha detto la voce di Akira.

Akira.

E, di colpo, ho capito.

Ho capito con una evidenza che mi ha lasciato scioccato.

Mi sono seduto, per l’emozione.

Poi ho preso il telefonino, ho cancellato dalla memoria i numeri di Shinichi.

E poi l’ho spento.

Sono stato io, questa volta, a liberarmi dell’immondizia.

E sono rimasto a casa, seduto in salotto, ad aspettare il ritorno di Akira e Kintaro; la mia famiglia.

Il mio tesoro.

FINE

*************

mailto: koibito8@jumpy.it

Torna alla pagina di Slam Dunk

[Home] [English] [Italiano] [Links] [Collabora!] [Rings]