In un giugno un po’ freddo e cupo

Essendo breve quanto segue, cercherò di esserlo anche io, giusto poche righe: tecnicamente un flash-back dal capitolo 50 del manga, in realtà una briciola di speranza se non per il protagonista che ho scelto, almeno per la vita, assoluta.

Perché a volte l’importante è solo il Qui e l’Ora.

-Matrioska di ricordi-

"Riuscirà a tornare a scuola in tempo per le eliminatorie?"

"..."

"Non fare la finta tonta, che hai capito benissimo."

Già. Ha capito e molto bene, quello che non riesce a mettere a fuoco è se le interessa del suo ritorno. O meglio, se non la rende inquieta il suo ritorno. Una sottile differenza, in realtà.

Guarda il capitano, l’espressione seria, tecnica, mentre scansiona nella sua mente le capacità del playmaker. Di quel playmaker.

Mancherebbe il suo gioco alla squadra. Nonostante un capitano come Akagi, nonostante Rukawa, la fragilità felina di Miyagi lascerebbe un vuoto appiccicoso in campo. Uguale a quello che lei sentì quel giorno, una di quelle mancanze che tolgono il fiato, ma forse perché prima o poi, si sa, verranno colmate. E torneranno per rompere equilibri troppo fragili.

****

La porta si aprì al suo procedere incerto, vomitandola di fronte ad un ascensore inerte, che sembrava già preludio del dolore, dell’abbandono.

Un ospedale è solo questo, in fondo: la triste tirannide dell’agonia che le prese la gola e sembrò toglierle la forza di premere quel pulsante.

Sospirò pigiando piano.

"Lo sa, vero, che non è orario di visita questo?"

Certo che lo sapeva. Come se l’affetto o i desideri si potessero ingabbiare nelle griglie del tempo per dar loro una cadenza regolare, controllabile.

"Bisogna davvero controllare ogni cosa?" si chiese e andò oltre.

I suo passi tintinnavano assordanti nel silenzio del corridoio e quel gusto acre di decomposizione prematura le incollava la pelle e l’anima: una camera, visi antichi, fragili; un’altra, corpi sfatti su menti troppo lucide; ancora, mani che tremano, figli che piangono. E poi la sua.

07

"Sette… il tuo numero…"

Si fermò sull’uscio, forse soltanto indecisa, forse semplicemente spaventata. Che lui era stato ricoverato lo sapeva, glielo avevano detto subito, Kogure e Akagi che farfugliavano imbarazzati, evitando di incrociare il suo sguardo. O meglio: Kogure che si sforzava senza risultato di sembrare tranquillo, di far passare tutto come la solita buffonata da teppisti, e Akagi muto, serio, troppo serio. Lei aveva inclinato la testa, forse per farvi scivolare lontano il senso di vertigine che le soffocava le parole. E poi si era allontanata, in fondo erano affari di Miyagi, comunque avesse decidere di vivere, o di morire, questa è solo una questione di punti di vista, non la riguardava affatto.

Eppure in quella serata malinconica Ayako era lì. Per lui. E per se stessa anche.

Poco prima stava inghiottendo il sapore rassicurante della vaniglia e Miyagi, o meglio, Ryota, le era tornato in mente, associazione dolorosa e contrastante. Mangiando gelato, coccolandosi in fondo, si era ricostruito in lei il ricordo di un giorno qualunque in cui lui la scorse mentre stringeva un cono tra le dita e, forse temendo di apparirle troppo stupido in quell’atteggiamento, si era agitato a tal punto da farselo cadere sui pantaloni.

Per questo ricordo aveva sorriso e aveva deciso di andare da lui e ora si trovava di fronte quella porta lattea, perché se non si può vincere la morte, la si combatta falsamente con la tinta che la nega.

Non trovava il coraggio di entrare, forse pensò davvero che era assurdo, che era troppo tardi, troppo buio, fuori, per essere lì. Non sono cose che si addicono ad una ragazza di sedici anni.

Appoggiò il palmo su quella superficie fredda, forse avrebbe potuto sentire il respiro di lui filtrarvi attraverso. I sensi acuiti dal silenzio, un silenzio che sembrava nascere proprio dall’interno di quella camera, come se Ryota avesse deciso che dormire, spegnere le emozioni e la mente, potesse servire davvero a qualcosa.

"Ma non è mai così… non si può mai soffocare quello che siamo…" Pensò lei.

Si chiese se lì, in quello stesso ospedale, immerso in quel medesimo vuoto insostenibile, ci fosse anche Mitsui. Non che lo conoscesse, ma, in fondo, non conosceva molto bene nemmeno Ryota, non gli aveva mai permesso di raccontarsi a lei: di uno sapeva che era un delinquente, o meglio, sapeva che gli altri lo definivano così; dell’altro solo il nome in realtà, e che era una testa calda.

Stessa razza. E allora perché era arrivata fino lì? Perché, se disprezzava Ryota per essersi fatto massacrare?

Ryota era innamorato di lei, per quanto loro, tutti loro, sapessero e potessero parlare di questo sentimento tanto violento e terribile. Glielo aveva detto, gridato, giurato. E altrettanto scandito era arrivato il rifiuto.

"Non ti voglio… è molto semplice… non saprei nemmeno dire se c’è qualcuno che vorrei vicino."

Le tornarono in mente le voci stridule che gridavano insopportabili durante le partite, le loro partite. Anche sue, sì. I nomi dei giocatori scanditi non per passione del gioco, ma per infatuazioni stupide nei confronti di quei ragazzi. Non che lei ignorasse l’aspetto piacevole dei loro corpi, dei loro visi, sapeva bene che Rukawa o Akagi o, perché no, lo stesso Ryota potevano infiammare facilmente la giovinezza frustrata di molte femmine. Sì, pensò proprio in questi termini, "femmine", perché non c’è parola più umiliante, più volgare per parlare di una donna.

Ad ogni modo a lei di Rukawa e di tutti gli altri non importava nulla allora, come non le importa nemmeno in questo momento.

Ancora immobile, voltò le spalle alla porta e vi appoggiò la schiena: quel contatto rigido le fece tornare in mente il suo, di concetto di amore. Sorrise di una smorfia amara e cinica: probabilmente Ryota aveva soltanto sbagliato i tempi.

Provò a ricordare il loro primo incontro, ma l’immagine che prendeva corpo era di un ragazzino basso ed esile che non poteva in alcun modo sovrapporsi con il suo viso a quello di lui. Che Ryota potesse addirittura vincere contro di lui, non era in discussione, in quel giorno lontano del loro primo anno. E, in realtà, non lo era nemmeno allora, mentre Ayako, gli occhi socchiusi nella penombra, ripensava a quel viso di quattordicenne. Non portava ancora l’orecchino, allora, o, se già aveva forato il suo lobo teso con un ago arrugginito, lei non se ne ricordava.

"Perché non me ne frega davvero un accidente di te… stupido Ryota!" gridò in se stessa, in realtà solo sforzandosi di non pensare con così tanta insistenza al passato, al suo primo anno.

Lui aveva giocato così crudelmente con Ayako che ancora le sue ferite sembravano impedirle ogni emozioni, lobotomia dei sentimenti da certi punti di vista.

"Decisamente hai proprio sbagliato l’entrata, Ryota…" si stemperò la rabbia nei suoi stessi pensieri.

Si lasciò scivolare lungo il legno dietro di lei e appoggiò il mento sulle ginocchia: un giorno aveva visto Ryota seduto su un’altalena, il viso rilassato e l’espressione serena. Gli si era avvicinata in silenzio, decisa a farlo spaventare, ma proprio quando stava per afferrargli le spalle e dire qualcosa, lui si era alzato: "Aya-chan! Credevi che mi sarei fatto prendere come un idiota?"

E poi le aveva afferrato la vita, costringendola a sedersi su di lui e a dondolare insieme. Per i pochi secondi in cui entrambi erano rimasti in silenzio, Ayako aveva lasciato che l’aria tiepida le accarezzasse il viso e l’odore della pelle di Ryota non le aveva dato alcun fastidio, non la aveva nauseata. Forse perché in quella posizione non poteva guardarlo negli occhi, Ayako non si era sentita, come di solito le accadeva, assolutamente inerme, totalmente priva di forze. Almeno fino al momento in cui lui, decisamente privo di percezione scenica, le aveva detto, mantenendo quella faccia da bamboccio strafottente: "Ti ricordi che sono innamorato di te, vero?"

"Vaffanculo Ryota!" avrebbe voluto gridargli mentre si allontanava da lui, l’altalena che oscillava ancora.

Ma non aveva detto nulla, solo se ne era andata con il suo passo deciso e fiero.

I ricordi sono sempre un po’ puttane.

Il sapore di quel pomeriggio le salì in gola e, per la prima volta, capì che in fondo Ryota poteva anche avere fatto la sua solita uscita da innamorato respinto per farle compassione, ma certo non doveva essere stato semplice per lui sentirla così vicina e sapere di non poterla avere.

"Chissà se fosse arrivato dopo…"

Dopo. Dopo il primo anno, dopo i quattordici anni di Ayako, dopo le prime sconfitte dello Shohoku, dopo, molto dopo, di lui.

Ayako non trovava ancora, nonostante il tempo affievolisse l’umiliazione, la forza di chiamare lui per nome. Preferiva ricordarlo come chi le aveva strappato la sua purezza ingenua, promettendole amore e facendole tornare solo argilla secca, che le era scivolata inesorabilmente tra le dite.

Lui era molto cupo, quasi inquietante averlo vicino, però quanto le piaceva. Forse perché era furbo e aveva sempre quell’aria incazzata.

La prima volta che lo aveva incontrato, guardava imbronciato il fondoschiena di lei, un apprezzamento pesante e via così, sull’onda tanto stupida quanto inebriante del primo amore, si era lasciata andare, quasi in tutti i sensi. E anche Ryota era sempre così insopportabile, nel suo ghigno supponente, così rabbioso…

"E così solare, a modo suo…" sospirò piegando il collo fino ad affondare gli occhi in se stessa.

Si ricordò che Ryota era stato il primo giocatore a prendere la sua sana bastonata sulla testa, il primo a cui aveva gridato "Corri!" pensando "vola", il primo, e l’unico per molto tempo, che aveva chiamato per nome.

Cercò di focalizzare il viso del playmaker dentro di sé e la sola immagine nitida che le venne in mente fu quella di quel giorno, quando avrebbe voluto poterne fotografare il viso soddisfatto nelle tinte un po’ antiche del bianco e nero.

"Miyagi vieni qui," lo aveva chiamato Akagi.

Lui si era avvicinato, incassando un po’ la testa nelle spalle già in attesa del meritato cazzotto.

"Ma come diavolo cammini, cretino?!" gli aveva fatto notare il capitano.

E Ryota lo aveva raggiunto rassegnato: "Fai di me quello che vuoi, gorilla," Ayako era certa che quello fosse stato il suo pensiero.

"Tieni!" e Akagi gli aveva quasi buttato in faccia la divisa.

"Complimenti, Miyagi." Kogure aveva accompagnato a parole quel gesto impacciato del numero quattro.

Ayako aveva visto gli occhi di Ryota luccicare di commozione per un momento, mentre tendeva davanti a sé quella maglia numero sette: il piccolo playmaker era nato quel giorno.

Lei lo aveva aspettato fuori dalla palestra per fargli i complimenti, o provarci almeno: poco prima, quando le parole di ammirazione sarebbero state al posto giusto, si era trattenuta, temendo una delle sue botte di idiozia, seguita da rigoroso giuramento di amore eterno nei suoi confronti. Decisamente sarebbe morta pur di risparmiarsi l’ennesima situazione imbarazzante.

"Ehi, Ryota," lo aveva fermato quindi sulla porta.

"Aya!" si era subito bloccato lui, ma non aveva il solito sorriso ebete, no.

Ecco. Ayako voleva ricordarsi di Ryota esattamente con quell’espressione: si era voltato ed era in qualche modo uomo, forse per quegli occhiali tondi calcati sulla fronte, forse per l’orecchino, o per la camicia di jeans portata aperta sulla maglietta, così diversa dalla t-shirt da allenamento che lo inghiottiva rendendolo, se possibile, ancora più piccolo. O forse era stato semplicemente lo sguardo: la aveva fissata per un attimo dall’alto, socchiudendo appena le palpebre, le sopracciglia tese in segno di soddisfazione. Forse quella era stata sul serio la prima volta in cui non aveva avuto niente da rimproverare a se stesso. E in cui lei lo aveva visto per quello che era davvero: un ragazzo, se non già un uomo, che amava il basket e lo viveva fino in fondo, sputando il sangue, piangendo anche, se necessario.

"Volevo farti i complimenti," gli aveva detto Ayako alla fine, distogliendo lo sguardo dal suo viso liscio.

"Grazie." E si era allontanato fischiando.

"Ryota…" Pensò ancora, finalmente sollevandosi e tornando a guardare la porta della stanza, una mano sulla maniglia.

Quella stessa frase, Ayako, la aveva pronunciata anche per lui. Con gli occhi lucidi per l’emozione aveva letto i suoi risultati di ammissione all’università ed era corsa a cercarlo.

"Volevo farti i complimenti," gli aveva detto ansimando per la fatica e la commozione.

Ma lui non aveva risposto "grazie", aveva sorriso di superiorità guardandola nella sua pochezza di ragazzina delle medie.

"Basta… perché ogni cosa deve riportarmi a lui?" Supplicò la sua mente di darle tregua, di riportare il viso di Ryota e non quello di lui.

La prima azione costruita da titolare le apparve nella mente. Un’esplosione di colori e gioia sul viso di Ryota e "bravo Miyagi" dalla panchina e "vai così, Ryota!" dalle labbra di Ayako.

Sospirò. Troppi ricordi. Troppe emozioni, forse. E lei non era più abituata: lui gliele aveva rubate per almeno tutti quegli anni.

"Ma io ti amo…" Lo aveva supplicato in lacrime, coprendo di singhiozzi le sue frasi sconnesse che miravano solo a togliersi di torno quell’adolescente troppo impacciata e timorosa.

"Mm… Ayako, piantala… io devo andare." Lui la aveva lasciata sola, in mezzo ad una via che sembrava implodere in se stessa.

"Chi direbbe che ho tanto male dentro?" si domandò lasciando la maniglia e appoggiandosi la mano sulla fronte.

Guardò ancora una volta la porta, come potesse attraversarne lo spessore e vedere il viso addormentato di Ryota: "Chissà come sarebbe andata se tu fossi arrivato più tardi," una lacrima le scivolò lungo il mento. "Se avessi aspettato ad innamorarti di me, magari… magari, per lo meno, avrei dimenticato lui e tutto il male che mi ha fatto… soprattutto, magari, avrei dimenticato di avere ancora paura, nonostante tutto… se non fossi apparso proprio allora, con questi tuoi occhi da gatto di strada che… che sono uguali ai suoi. Porti troppi ricordi con il tuo viso, Ryota. E ti odio solo per questo… non puoi permetterti di rubarmi il passato, di sovrapporti all’immagine di lui non potrò mai volerti bene, non ne ho la forza, né le risorse… se lo facessi, ogni volta, guardandoti in faccia, mi tornerebbe in mente lui e il sapore che mi lasciò in gola…"

Singhiozzò con violenza ricordando il gioco di bocca umiliante a cui due anni prima si era lasciata convincere da lui, bevendo, insieme al suo liquido, le sue parole che le descrivevano quel gesto come un segno d’amore. Sentì un conato insostenibile arrivarle fino in gola, si morse le labbra.

"Niente da fare… non ci riesco."

Accarezzò per l’ultima volta il legno: "Guarisci presto, Ryo-chan" sussurrò attraverso la porta prima di ripercorrere il corridoio freddo e ributtarsi sulla strada luccicante di vita.

****

"Ayako? Ti ho chiesto un asciugamano…"

Guarda in viso Kogure, gli sorride meccanica e torna al presente. Il presente è lo Shohoku, è quel matto di Hanamichi; il presente è studiare e vivere e sorridere anche se fa male. Il presente è avere i capelli ricci e non più lisci come quando ci fu lui. Il presente è anche Kogure che la osserva un po’ intimidito, forse per il suo corpo di donna che sta sbocciando. Il presente è lei stessa, curarsi, volersi bene, il presente è molte cose.

Tranne Ryota.

Lo ripeto ancora, crediti infiniti a Takehiko Inoue, che ha il meritato © di tutti i personaggi.

Ma poiché scrivere, comunque vada, è vita, io ringrazio chi mi fa sentire viva: a chi forse non leggerà mai e a volte ignora ciò che dico perché serve anche questo; a chi ha trovato un luccichio tra i lati oscuri; a chi si lascia consolare.

Fiore aka Mu

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