Nel decennio 1925-1935 si manifestano evidenti i limiti del sistema ferroviario minore, ma l'autobus non è ancora una valida alternativa

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LA FINE DELL'IMPRENDITORIA PRIVATA

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   Nella seconda metà degli anni ’20 in gran parte dell’Europa si concretizza una radicale riforma circa la politica della mobilità collettiva. L’evoluzione tecnologica aveva portato gli autobus a tutta una serie di prestazioni per l’epoca più che ottimali, e di ciò si approfittò per liberare le strade del centro storico di Roma (ancora non interessato dai nefasti sventramenti del decennio successivo), dall’ingombrante presenza delle sedi tranviarie. E che di presenza ingombrante si trattasse lo si può evincere pensando che fino ad allora era operazione comune la posa del doppio binario in strade come via dei Serpenti, laddove la rotaie esterne rasentavano di pochi centimetri il bordo dei marciapiedi (cosicché la sagoma della vettura arrivava a sporgere oltre gli stessi), e che non poche linee come il 25 e il 25 barrato (che collegavano Via Piemonte con Monteverde passando da Porta San Pancrazio e da Via N. Fabrizi), presentavano tratte in fortissima pendenza e a binario unico. La riforma tranviaria, entrata in vigore il 1 gennaio del 1930, determinò la totale eliminazione del tram dal centro storico, delimitato da una circolare tranviaria a grande traffico (storicamente conosciuta come “la nera”), alla quale si affiancò l’anno successivo una seconda circolare esterna che fu detta “la rossa”. Negli anni immediatamente successivi analoga tendenza si registra sui servizi ferrotranviari extraurbani, dove si rinuncia ai tronchi a minor traffico in favore di autoservizi più flessibili e certo meno costosi (sulla Roma-Frosinone, ad esempio, si chiude il tronco Fiuggi-Frosinone e le diramazioni Vico-Guarcino e Frosinone Città-Frosinone Scalo), ma in entrambi i casi i risultati furono deludenti. Gli autobus introdotti a forza al centro di Roma e sui percorsi extraurbani erano piccoli e scomodi, e la velocità commerciale delle linee fu addirittura inferiore a quella delle linee ferroviarie e tranviarie chiuse all’esercizio. 

   All’interno della città furono successivamente introdotti autobus più moderni e, soprattutto, capaci di contenere un numero sempre più alto di passeggeri come gli Alfa Romeo 80N della indovinata serie 3101-3151 del 1935 e, soprattutto, i 110A del 1937 a tre assi, e la situazione migliorò notevolmente con l’introduzione del filobus, iniziata nel 1936 con due linee (una delle quali è l’attuale 32), che prese ben presto il sopravvento su quasi tutte le linee centrali di autobus, ma nel frattempo l’allora ATAG si trovò ad affrontare il problema dei collegamenti extraurbani tra Roma e Tivoli, dopo aver ottenuto la concessione dell'autolinea sostitutiva della tranvia a vapore chiusa nel 1931 al servizio viaggiatori.

 
 

4 tipi di vetture autobus che sostennero a Roma tutto il peso della riforma tranviaria del 1930: in senso orario, uno SPA C9000 con trasmissione a catena (una fornitura degli anni '10), un Lancia Eptajota, un gruppo di Lancia Omicron e un autoelettrice

 
     
   
     
(Archivio Storico ATAC - Per l'immagine in basso a destra: dalla rivista Settestrade)
 

   Agli inconvenienti già accennati sulla Roma-Tivoli si aggiunse il problema della totale inadeguatezza dell’autobus di allora (i Lancia Omicron), ai percorsi extraurbani, specie lungo l’andamento tormentato della via Tiburtina, per giunta aggravato dalla lunga salita finale verso Tivoli, dopo la curva del regresso. Il problema principale, comunque, era sempre quello della scarsa capienza delle vetture, cui si cercò di porre rimedio inizialmente con un curioso autobus formato da motrice e rimorchio perennemente collegati da un intercomunicante di tipo ferroviario, antenato dei moderni articolati progettati sul principio della giostra Urbinati, brevettata nel 1938. Negli anni immediatamente successivi, tuttavia, si cominciarono a sperimentare tutta una serie di autobus cui si attribuirono sigle folli almeno quanto la fantasia dei progettisti, dalle forme più strampalate che si possano immaginare ma tutti accomunati dall’unico intento di trasportare più passeggeri che fosse possibile. La chiusura della tranvia a vapore era un provvedimento improcrastinabile, stante le condizioni di irrecu perabilità della linea conseguenti a decenni di totale disinteresse della società concessionaria, ma anche qui si registrarono quegli stessi problemi che davano al vettore su ferro ancora una predominanza che avrebbe dovuto consentire un ripensamento tecnologico cui non si arrivò.

 
   
  (Archivio Storico ATAC)  
 

   In questa foto si può vedere l’esempio del Torpedone Osservatorio Lancia (T.O.L.), un curioso autobus senza sedili, scoperto, che somiglia più ad una barca con le ruote (se non fosse per la classica forma del radiatore e dei copriruote sormontati dai fanaloni tipici dell’epoca), dal quale non è mai stato ben precisato cos’è che si potesse - o si dovesse - osservare. Esistevano poi il T.D.L. (Torpedone Decappotabile Lancia), il T.T.F. (Torpedone Trasformabile Fiat), il T.C.F. (Torpedone Coupè Fiat, i cui interni erano di un eleganza e di una raffinatezza degni della residenza di un Re). Il massimo della follia, comunque, fu raggiunto con l’autoalveare, così chiamato poiché i passeggeri  dovevano sistemarsi all’interno della vettura similmente alle api nelle celle di un alveare. Esternamente si presentava come un mostro a due piani e mezzo e a tre assi con ruote gemellari al secondo asse posteriore (che costituisce comunque un primato mondiale mai eguagliato), ma era un tre piani sui generis, non avendo all’interno un ambiente effetttivamente suddiviso. I posti superiori (sulla seconda e terza fila), potevano essere raggiunti solo a mezzo di scalette del tipo utilizzato per i letti a castello, certo più adatte a degli equilibristi che non a chi si recava alle terme delle Acque Albule per curare ogni sorta di dolori. Secondo alcune cronache giornalistiche dell’epoca l’autoalveare poteva trasportare fino a 250 passeggeri, ovvero quanto possono oggi contenere un serpentone seguito da una normale 12 metri. La sua guida era particolarmente faticosa in un presente storico in cui non esistevano il servosterzo e il cambio a convertitore idraulico, probabilmente a causa della incredibile pesantezza del mezzo a pieno carico di passeggeri e bagagli, che rendeva problematiche le manovre dello sterzo e, soprattutto, del cambio a quattro marce con riduttore, ovvero ad otto rapporti, dove il passaggio dalla marcia più alta a quella più bassa era una spettacolare manvora di due leve, e il fatto non sorprende se si pensa che il filobus ha risolto lo stesso problema della scarsa maneggevolezza che caratterizzava i pesanti autobus di tipo urbano allora in circolazione (ma il filobus extraurbano sulla Roma-Tivoli rimase soltanto un progetto).

 
 

Due immagini degli autoalveari a due piani e mezzo che circolarono tra Roma e Tivoli negli anni '30.

 
   
     
   
  (Archivio Storico ATAC)  
 

   Prodotto fortunatamente in soli due esemplari numerati B.3401 e B.3403 (fino al 1964 al materiale motore su gomma furono riservati i soli numeri dispari: le lettere B., G., E. e D. indicavano il tipo di propulsione, ovvero benzina, gasolio, elettrica o gasogeno), entrarono in servizio nel 1932 e si presentavano tecnicamente come dei normali Lancia Omicron del futuro tipo C urbano sempre a tre assi, ma con motore a benzina, con velocità massima di 45 Km/h (anche se poi, per motivi facilmente intuibili, non ultimo la già citata pesantezza del mezzo, sulla salita finale verso Tivoli arrivavano a malapena ai 30). Appare evidente che questo autobus non potè avere fortuna, ed infatti se ne perdono le tracce parimenti a tutti gli altri nel giro di pochissimi anni (peccato non averne conservato un esemplare), e non meravigli il lettore questa lunga disgressione sulla relazione extraurbana per Tivoli e su questi esperimenti, dal momento che a giudizio di chi scrive un legame con la storia delle tranvie dei Castelli che stiamo raccontando c'è.

   Avevamo lasciato quest'ultima al progetto del 1925, che prevede una nuova sistemazione dei servizi extraurbani in una nuova stazione sotterranea sotto piazza Vittorio Emanuele, e il moltiplicarsi degli studi circa il miglioramento della rete e la sua sempre maggiore appetibilità furono condotti in modo più massiccio nel momento in cui l'autobus inizia a porsi quale pericoloso concorrente dei servizi su ferro: la situazione economica della società era allora buona, con utili d'esercizio soddisfacenti, e la minaccia incombente di una concorrenza al lungo periodo letale spinse la STFER a prodigarsi in senso contrario in quelli che erano i suoi ultimissimi anni di imprenditoria privata. Tali studi, seppure non impedirono il rilevamento della società da parte del Governatorato di Roma, furono alla base dei tentativi di potenziamento del decennio che va dal 1930 allo scoppio del secondo conflitto mondiale, posto che al contrario di quanto accadeva altrove la produttività economica delle linee rimase buona almeno fino al 1942, l'ultimo anno in cui si registra un discreto utile nella chiusura dell'esercizio sociale. L'evidente impossibilità dell'autobus ad assicurare una capacità di trasporto pari almeno alla metà della tranvia, oltre che una velocità commerciale accettabile, determinò la scelta di orientarsi verso il potenziamento del servizio su rotaia.

   L'acquisto da parte del Governatorato dell'intero pacchetto azionario della società (Deliberazione 145 del 21 gennaio 1928), costituito da 33.000 azioni, fu promosso con lo scopo di unificare sotto un unica gestione i servizi extraurbani in partenza da Roma dal momento che pochi mesi dopo si arrivò all'acquisto della tranvia a vapore Roma-Tivoli per la somma di 5.500.000 lire (2 marzo 1928 - Deliberazione 1018), e nei primi anni di guerra della ferrovia Roma-Ostia dalla S.E.F.I. (Società Elettro Ferroviaria Italiana), e Roma-Fiuggi (ex Roma-Frosinone), dalla S.F.V. (Società Anonima per le Ferrovie Vicinali), cosicchè le tre reti passa rono sotto l'unica gestione di una nuova azienda pubblica che nel 1928 cambiò la propria ragione sociale da STFER a STEFER, e sotto il controllo diretto del Governatore, che aveva negli anni precedenti operato analogamente sulla rete urbana sotto l'unica gestione della ATAG (la sola Roma P.le Flaminio-Viterbo, quella inaugurata nel 1932 nella posizione attuale, rimase della SRFN (Società Romana per le Ferrovie del Nord), fino al 1976 (costituzione del consorzio A.CO.TRA.L.).

   Messi da parte gli interessi relativi al solo profitto (tipico di una gestione privata), la nuova STEFER si mise immediatamente al lavoro lungo l'obiettivo di adeguare l'intera rete secondo un progetto che prevedeva il miglioramento del servizio tranviario urbano e la trasformazione delle linee extraurbane in linee di tipo ferroviario, con nuovi tracciati in sede propria e materiale rotabile adeguato alla bisogna, cercando di migliorare le prestazioni di queste ultime al breve periodo attraverso l'acquisto di nuovo e più moderno materiale rotabile. Dei primissimi anni '30, infatti, è l'acquisto di ulteriori e più moderni tram per il servizio extraurbano.

   Del 1927, e quindi della STFER, è lo acquisto delle motrici del gruppo 7-14 e dei rimorchi 113-120, che furono gli ultimi rotabili con rivestimento in doghe di legno. Le motrici furono soprannominate le Napoletane in quanto furono costruite dalle Officine Ferroviarie Meridionali e rimasero in servizio regolare di linea fino alla guerra: la 10 e la 11 furono utilizzate come motrici di servizio fino agli anni '60, mentre dei rimorchi sono giunti agli anni '70 i 117, 118, 119 e 120 (gli ultimi due ancora esistenti), trasformati in materiale ausiliario.

 
  Convoglio con motrice gruppo 7-14 e rimorchio gruppo 113-120  
   
 

   Nel 1931, per contro, a quest'ultimo gruppo di motrici a due assi la STEFER contrappone i primi rotabili di nuova concezione, che imprimeranno quel carattere dei tram bianchi e azzurri col pantografo, simili ma non uguali a quelli dell'ATAC, che rimase caratteristico della rete fino alla fine. I primi rotabili a cassa metallica, colorati in bianco e azzurro ma ancora col trolley a rotella, furono due gruppi di convogli motrice-rimorchio dei gruppi "80+280" e "90+290", entrambi costituiti da 4 convogli accoppiati secondo il sistema "80+280", "92+292", etc (il primo numero è la motrice): assieme alle napoletane furono i primi tram a presentare l'equipaggiamento elettrico della CGE (Compagnia Generale di Elettricità), che già dagli anni '20 aveva sostituito l'originario e inaffidabile Thomson & Huston sul rimanente materiale. I convogli "80" erano treni composti da motrice e rimorchio semplice, mentre i "90" costituirono un interessante gruppo di 4 treni reversibili, composti da motrice e rimorchio pilota permanentemente accoppiati, entrambi bidirezionali (ovvero coi comandi alle due estremità del rotabile).

   Nei mesi successivi alla loro immissione in servizio, tuttavia, i quattro convogli "90" furono equipaggiati col pantografo non solo sulla motrice, ma anche sul rimorchio pilota, dal momento che la presenza di una sola presa di corrente determinò l'impossibilità di condurre il convoglio dalla rimorchiata nel merito dello azionamento del segnalamento "Nachod" ed anche degli scambi elettrici a comando diretto dal filo di contatto lungo le tratte in comune con le linee tranviarie dell'ATAG: il secondo pantografo fu sistemato all'estremità di marcia del rimorchio, come testimonia la foto sotto, scattata ad Ariccia negli anni '50.

 
   
 

   All'immissione in servizio dei treni reversibili fece seguito la ristrutturazione del materiale esistente ancora ritenuto in grado di operare. Furono avviati alle demolizione le "giallette" del primo servizio urbano (del resto da tempo inutilizzate), le due assi della serie "30" - salvo la "37" e la "38" che furono utilizzate fino agli anni '50 come motrici di servizio - i rimorchi "105-112" : per quanto riguarda il rimanente materiale rotabile tutti i tram vennero ricostruiti con cassa metallica nei colori bianco e azzurro e dotati di pantografo. Queste trasformazioni fecero seguito ad una trasformazione delle casse che previde la soppressione degli accessi centrali e la generalizzazione dei due accessi per lato, aggiungendolo dove mancava, Queste trasformazioni interessarono alcune motrici e rimorchi del gruppo "60", coi quali si ottennero i convogli da 61+161 a 64+164 (treni non reversibili, con rimorchio semplice), e quelle del gruppo "70", alle quali si riservò il traino (raro peraltro), dei rimorchi a due assi serie "200" e dei rimorchi a carrelli, oltre che alle 12 motrici a due piani che, con tali trasformazioni, perdono nelle immagini fotografiche parecchio del loro fascino.

   Doveva trattarsi, come si è detto, di una ristrutturazione destinata a migliorare le prestazioni di un semplice sistema tranviario che cominciava ad apparire ingombrante ed antiquato, destinato - nelle intenzioni che rimasero tali - a lasciare il posto ad un moderno sistema di ferrovie rapide con qualche raccordo da mantenersi per i piccoli collegamenti a carattere locale lungo strade dove non si riteneva pratico l'utilizzo dell'autobus di allora. I treni reversibili furono, per contro, gli ultimi tram extraurbani entrati in servizio sulla rete dal momento che ulteriori acquisti riguarderanno soltanto il materiale urbano che arrivò fino alla definitiva scomparsa della rete nel 1980, assieme a tre motrici extraurbane e ad un rotabile di servizio di cui diremo meglio in seguito.

 

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