(tratta dal sito del Corriere della Sera www.corriere.it/)

Mercoledì 31 Luglio 2002

L’attore sarà in gara nei panni del poeta Dino Campana con «Un
viaggio chiamato amore», regia di Michele Placido
Stefano Accorsi: il Lido mi porta bene e il cinema
italiano deve «resistere»

Ricciolo, coi baffetti, sguardo sul futuro e mutandoni inizio secolo, un gatto
nero sulle spalle: un vagabondo con una valanga di emozioni dentro. Stefano
Accorsi sarà a Venezia l’eccentrico protagonista di «Un viaggio chiamato
amore» di Michele Placido, storia dell’amore che nel 1916 consumò Dino
Campana, poeta dei «Canti orfici» e la scrittrice Sibilla Aleramo (Laura
Morante). «E’ uno di quei film per cui ringrazi questo mestiere. E’ stata una
emozione grandissima, un regista con cui da tempo volevo lavorare, un bel
copione, un personaggio eccezionale, nato libero. Una storia di non ordinaria
follia che parla soprattutto d’amore».

Come l’ha colpita il letterato?
«Ex aequo i suoi versi e la sua vita. Mi ha stupito il suo essere controcorrente,
la sua voglia di libertà anzi tempo, vissuta in una grande gabbia in cui lo
avevano metaforicamente rinchiuso a chiave sia la famiglia sia l’ambiente
letterario. Fu un pezzo unico, rimasto prigioniero della sua stessa ribellione.
Voleva volare ma aveva ali sottili, era forte e fragile, un insieme di opposti,
capace di sfidare a duello, ma di scrivere miti, gentili lettere di scuse».

Un altro romantico per la sua serie di primi e ultimi baci?
«Il più eccentrico, difficile, infelice, scostumato, furioso. Io vivo Campana nel
suo amore vitale per Sibilla: prima era andato solo con prostitute, sarà la sua
unica donna. Naturalmente c’era una follia latente anche in questa passione
divorata dalla gelosia, mai serena, oscura, frenetica».

Quale Campana sarà il vostro?
«Un uomo raro e diverso, portatore sano di una bella confusione ma incapace
di svelare il suo enigma. Io ho 31 anni, lui ne aveva 32 nella storia; io mi sento
mentalmente più sano, ma l’ho amato, sentivo la voglia di proteggerlo».

Alla Mostra ci va volentieri?
«Molto. Mi ha sempre portato bene, da Avati a «Radiofreccia», ed è il mio
primo protagonista in concorso. Mi piace il clima, l’atmosfera, l’arrivare e il
ripartire sull’acqua, ho del Lido bei ricordi. Ci sono rischi, ma voglio godere
l’occasione senza paranoie».

Dopo un anno di vacanza...
«Otto mesi. Ne avevo bisogno, avevo lavorato per due no stop, recitando
anche un Casanova in tv ma fuori dal gusto omologato della fiction, e poi un
calciatore italiano da dolce vita in un film inglese. Set e promozioni, senza
soste. Così sono andato in vacanza-studio in Francia, ho letto copioni, ho
comprato casa, ho fatto trekking in zone desertiche, ho girovagato in moto con
gli amici: il casco protegge dalla fama, anche se io accetto le regole del gioco».

Prigioniero del divismo dopo il suo anno d’oro di Muccino, Moretti e
delle «Fate» di Ozpetek?
«No. Il successo mi rende libero di scegliere in modo non avventato i progetti
ma non sono un attore costretto a scegliere i film per conquistare pubblico».

Come trova il cinema italiano?
«Trovo che si esagera sia con le primavere sia con le crisi. Sono ottimista, ho
visto film bellissimi di Bellocchio, Crialese, Comencini. Ma ci vogliono altre voci.
Sono contro il monopolio della produzione, urgono altri centri di potere,
bisogna fare cose belle, non farsi spaventare ma non accettare: il Resistere
vale anche per noi».

(intervista di Maurizio Porro)

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