“Sebben che
siamo donne...”
di Sergio Roedner
Esiste un “karate
femminile”? La domanda non sembri oziosa: in alcune discipline sportive le
prestazioni delle donne sono paragonabili a quelle maschili (vedi corsa di
fondo, ginnastica), in altre, come il calcio e la velocità, molto meno. In
Occidente fino a poco tempo fa la lotta delle donne era considerato un fenomeno
da baraccone: “Million dollar baby” era di là da venire, due donne che si
menavano (possibilmente seminude e nel fango) erano solo uno spettacolo
eccitante per i maschi. La scherma, una piacevole eccezione.
Anche nelle arti
marziali la partecipazione femminile è sempre stata minoritaria, ma la tradizione,
più o meno leggendaria, del kung fu cinese e del karate di Okinawa propone comunque
alcune figure di “maestre” che si seppero imporre al rispetto dell’altro sesso
e alle quali si attribuisce addirittura la fondazione di uno stile e di una
propria scuola. Basti qui ricordare la leggendaria sacerdotessa Ng Mui,
sfuggita alla distruzione del monastero Shaolin di Fujian, che osservando la
lotta tra un serpente e una gru, decise di creare un proprio stile che poi
trasmise ad un’altra donna, Yim Wing-Chun, che avrebbe utilizzato le tecniche
apprese per rintuzzare le sgradite
avances di un “signore della guerra” locale. Dall’allieva di Ng Mui
deriverebbe il nome dello stile wing-chun,
reso popolare in Occidente da Bruce Lee, il più celebre allievo (alquanto
eterodosso!) del maestro Yp Man.
Nel karate di
Okinawa si ricorda la figura di Yonamine Chiru, moglie di “Karate” Sakugawa, maestro
di Matsumura e caposcuola dello Shuri-te, che l’avrebbe sposata dopo essere
stato sconfitto da lei in combattimento.
Da allora tanta
acqua è passata sotto i ponti: il judo femminile è diventato disciplina
olimpica nel 1992 a Barcellona, il karate non sappiamo se e quando lo
diventerà, ma nel taekwondo le categorie femminili esistono dai tempi di Seoul.
Nel 2004, ad Atene, Chen Shih-Hsin, rappresentante di Taiwan, ha vinto la
medaglia d'oro nella categoria 49 kg., davanti alla cubana Labrada e alla
thailandese Boorapolchai.
Agli inizi degli
anni ’70, quando ho cominciato io, il karate era “for men only”, come il
calcio, il rugby e la boxe: niente donne e bambini. Da noi le pioniere furono
Michela Turci, allieva del Maestro Fassi, Cristina Rissone e Nadia Ferluga. Ho
avuto personalmente il piacere di allenarmi con Nadia e ricordo che sul tatami l’indomabile
triestina era l’ultima a cedere e che i suoi maegeri facevano molto male.
Ma in gara le
donne facevano solo il kata, e in palestra (con l’eccezione di Nadia) si
allenavano fra di loro; quando si era in numero dispari e un uomo doveva fare
coppia con una donna si sentiva in punizione, “faceva piano”, o al contrario
cercava di strafare per dimostrare la sua superiorità. I corpetti protettivi
non erano ancora stati inventati o “non erano marziali”, come d’altra parte i
paranocche, e questo non facilitava certo il combattimento misto senza remore.
Non che i maestri
giapponesi ci incoraggiassero sulla via della parità tra i sessi: divisi su quasi
tutto, erano concordi nello sconsigliare il kumite femminile. Sentite cosa mi
dichiarava ancora nel 1983 il Maestro Nakayama:
“Perché le donne
devono fare le gare, farci vedere chi vince o non vince? Nei combattimenti
occidentali, come la boxe o la lotta, non esistono gare femminili. Perché nel
karate? Per il momento io non posso credere che le donne debbano fare gare di
kumite. Possono raggiungere lo stesso risultato attraverso strade diverse”.
Il maestro Shirai,
intervistato da Grey (Karate Union of Great Britain) dava una risposta non
molto diversa:
“Le donne sono
tecnicamente molto precise. Io considero più importante praticare un buon
karate, fondamentali e kata, che il kumite sportivo. A mio avviso non troppe
donne dovrebbero praticare il kumite, anche se alcune donne hanno buone
tecniche per il combattimento libero”.
Neppure Kanazawa,
da tempo fuori dalla JKA e capo di un’organizzazione concorrente, si dissociava
dal coro, ma dava una giustificazione “filosofica” al proprio scetticismo:
“Non c’è una
ragione precisa, ma credo che nell’universo esistano due poli, il positivo e il
negativo. L’uomo è il positivo, la donna è il negativo: la donna non è fatta
per il combattimento”.
La sola voce
fuori dal coro era all’epoca quella del maestro Yamaguchi, tecnico del kumite
per conto della JKA (da non confondersi con l’omonimo patriarca del Goju ryu,
soprannominato “il gatto”) che con pionieristica lungimiranza dichiarò a Carlo
Pedrazzini:
“Ritengo che
togliere il kumite alle donne sarebbe come escluderle da una buona parte del
Karate-Budo. Per una donna inoltre il kumite riveste doppia importanza, in
quanto le offre un ottimo mezzo di difesa personale. È importante che le donne
imparino lo stesso spirito del karate e ricerchino lo stesso fine, che è comune
a uomini e donne”.
Nel 1982 ci pensò
la WUKO a dare una brusca accelerata alla “parificazione” tra i sessi,
introducendo il kumite femminile, con tre categorie di peso, ai campionati
mondiali di Taipei. Di fronte all’alternativa se rinunciare alle medaglie o ai
principi, come spesso accade nello sport agonistico, furono questi ultimi a venire
sacrificati. E così anche quei paesi, come l’Italia, in cui non si era mai
disputato un campionato italiano di kumite femminile, organizzarono frettolosamente
delle selezioni e inviarono proprie rappresentanti.
Da quei primi mondiali
emerse la supremazia delle nazioni che da tempo davano alle donne “pari
opportunità sul tatami”, come l’Olanda, la Francia, il Giappone (nonostante gli
anatemi dei capi-scuola) e la Gran Bretagna. Eccelse su tutte la fuoriclasse Guus
Van Mourik, praticante olandese di kyokushinkai (attualmente 6. dan), che vinse
quattro titoli mondiali prima di ritirarsi imbattuta.
L’Italia Fikda
(fresca di unificazione tra Fik e Fesika) si difese onorevolmente con il bronzo
di Nadia Ferluga e dall’anno successivo (1983) pensò bene di includere il
kumite femminile nelle gare nazionali. Nel 1984 la società da me allenata, lo
Students’ Karate Club, conquistò il titolo italiano a squadre femminili, due
titoli individuali con Giovanna Citrelli e Rosemary Ghidotti, e, grazie alle
medesime due atlete, il campionato assoluto davanti a Carabinieri e Fiamme
Gialle. Citrelli e Ghidotti entrarono in nazionale e parteciparono, talvolta
con successo, a vari campionati europei e mondiali; gli allori più
significativi furono per la prima il titolo europeo WKSA nel 1992 e per la
seconda la medaglia d’argento, alle spalle della Van Mourik, alla World Cup 1984
di Budapest.
Le ragioni di
questo successo non sono certo dovute alla mia particolare perizia di tecnico
(in campo maschile non ho mai raggiunto risultati di pari rilievo) ma, oltre
che alla bravura delle atlete, ad una scelta fatta con decisione fin dagli
esordi: quella di non discriminare in alcun modo le mie allieve e di avere nei
loro confronti le stesse pretese e aspettative che nutrivo verso i loro
compagni. Quindi non pretendevo da loro solo stile e precisione, ma velocità e kime; in palestra niente “apartheid” ma
coppie miste nell’allenamento del kumite e gare miste; niente sconti nei giri a
saltelli, negli addominali e nei piegamenti.
Grazie a questo
“trattamento di favore”, le teorizzate differenze fisiche tra uomini e donne
(minore massa muscolare, minore forza fisica, maggiore massa grassa ecc.) nella
mia esperienza di istruttore si sono decisamente ridimensionate fino a
diventare irrilevanti ai fini delle prestazioni atletiche, forse perché
compensate da maggiori motivazioni. Devo però purtroppo rilevare che forza ed efficacia
reale delle tecniche non vengono sempre valorizzate nelle donne agli esami di
dan e in gara. Ai campionati assoluti di kata, a Napoli, il compianto arbitro
Cesare Baldini tolse addirittura un decimo al bassai dai di una mia atleta affermando che aveva eseguito il kata
“troppo forte”.
Al di là della
qualità delle loro prestazioni, trovo che le donne nel dojo brillino per quelle doti di serietà, affidabilità,
perseveranza e rispetto reciproco che sono le colonne portanti della vita
associata in generale e della pratica delle arti marziali in particolare.
Attualmente, nel mio corso avanzato, sono sette su quindici, pari al 46%! So
bene che la proporzione non è rappresentativa della realtà delle palestre
italiane, ma è proprio questa eccezionalità ad inorgoglirmi. Non si deve infatti
(ahimè!) al sex-appeal dell’attempato istruttore, ma al successo di un
contratto formativo affrontato e rispettato con serietà da entrambe le parti.
Insomma, a mio
giudizio, non si tratta di adattare il karate alle donne, ma di dare loro le
stesse chances di apprendere e praticare il karate ‘vero’, in tutte le sue
opportunità, in primis quella ricerca
della massima efficacia che può dare loro maggior serenità e fiducia in se
stesse in un mondo in cui la violenza contro le donne è ancora una vergognosa pratica
quotidiana.
Didascalie foto:
1)
Bruce
Lee e Yp Man. Si dice che il
wing chun sia stato inventato dalla monaca di Shaolin Ng Mui.
2)
Europei
1984: la formidabile Guus Van Mourik sembra voler proteggere il nostro Simmi.
3)
Nadia
Ferluga, un’atleta completa: qui campionessa europea di kata ai tempi della
vecchia Fesika.
4)
Students
Milano campione d’Italia: Rossana La Rosa, Giovanna Citrelli, Rosemary
Ghidotti, Tiziana Rinaldi.