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Ricordi

 

di Sergio Roedner

 

Nell’estate del 1971 avevo diciannove anni, i capelli che mi arrivavano alle spalle e pesavo settanta chili per 191 centimetri di altezza. I capelli lunghi, la barba e l’eskimo più o meno innocente dal quale mi separavo mal volentieri mi avevano già provocato più di un fastidio non appena mi allontanavo dal perimetro protettivo dell’Università Statale di Milano, nella quale frequentavo da un anno la facoltà di Filosofia.

Impegnato nella politica e poco propenso a chiudermi in casa, avevo deciso di intraprendere lo studio di un’arte marziale come metodo di autodifesa, e all’epoca c’erano solo due alternative: judo o karate. Un conoscente di mio padre mi aveva offerto un tesserino gratuito per alcune lezioni di judo al Jigoro Kano di via Solari, ma quell’estate successe qualcosa che mi fece orientare invece verso il karate, a me noto soltanto attraverso i film di James Bond, soprattutto Goldfinger. Bruce Lee e il fortunato filone di Hong Kong erano ancora da venire, e avrebbero riempito le palestre di arti marziali l’anno seguente.

Nel luglio del 1971, sulla Lambretta rossa fiammante faticosamente acquistata a rate, andai a trovare la mia ragazza che frequentava un soggiorno-studio nei pressi di Losanna, e sulla via del ritorno (ignaro del fatto che la fanciulla mi stesse già ignobilmente tradendo) mi concessi un tour della Svizzera, versione un po’ addomesticata dell’On the road di Kerouac, che avevo appena finito di divorare. In capo a due anni la guerra del Kippur avrebbe fatto schizzare il prezzo della benzina da 160 a mille lire al litro, spegnendo in me qualsiasi velleità di viaggi all’estero.

Nel campeggio di Interlaken feci la conoscenza di un simpatico coetaneo giapponese, cintura nera primo dan di judo, che, dietro mia pressante richiesta, mi atterrò e mi immobilizzò, non senza qualche difficoltà. Perplesso nel veder ridimensionati i leggendari poteri della “via della cedevolezza”, chiesi al mio partner che cosa avrebbe fatto se avesse dovuto fronteggiare un esperto di karate. Non me ne vogliano i judoka lettori di Samurai, ma il ragazzo (senza dubbio interprete poco affidabile e convinto dell’arte di Jigoro Kano), mi rispose, in inglese essenziale ma inequivocabile, che se la sarebbe data a gambe.

L’episodio dissipò i miei dubbi residui e ai primi di settembre mi presentai al Centro Studio Karate Shotokan di via Bezzecca, a porta Vittoria. Avevo avuto quell’indirizzo fatale da Matilde, conosciuta agli esami di maturità e frequentata per qualche tempo con reciproca soddisfazione (anch’io all’epoca non brillavo per fedeltà!). Suo fratello aveva appena conquistato la mitica cintura nera ed era uno degli agonisti più brillanti della scuola del maestro Shirai, che sentivo allora nominare per la prima volta.

Il C.S.K.S. mi sembrò una gabbia di pazzi ma, forse proprio per questo motivo, mi affascinò immediatamente. Presentate le mie “referenze”, mentre discutevo con il gestore (che si chiamava Gastone e sarebbe diventato in breve un mio caro amico) gli orari e i costi dell’allenamento, arrivavano alle mie orecchie delle urla selvagge e dei colpi secchi, simili a martellate, che attribuii erroneamente a dei lavori in corso nei locali adiacenti. Notando la mia perplessità, Gastone mi invitò a visitare la palestra.

Mi affacciai sul corridoio che collegava la reception al dojo e individuai la fonte dei rumori sospetti. Alcuni giovanotti scalzi vestiti di bianco stavano prendendo a pugni e calci delle assi di legno conficcate nel pavimento, incuranti del sangue che arrossava le loro nocche e inzuppava la spugna che avvolgeva i makiwara. Scavalcati (non senza timore reverenziale) i suddetti giovanotti, mi fu concesso di entrare in palestra, sedermi su una panca e osservare parte di una lezione di karate.

Non ricordo chi insegnasse quel giorno (Shirai non era ancora arrivato) ma non dimenticherò mai la colona sonora di quell’allenamento, incentrato sul kata Bassai dai: le espirazioni violente, i kiai, il tonfo del fumikomi inziale sul parquet, uniti al fruscio dei Tokkaido (un costoso karategi ruvido e scomodo che mi sarei potuto permettere solo parecchi anni più tardi) costituivano un accompagnamento formidabile per delle “mosse” (come le chiamavano i profani) che mi sembravano esprimere una potenza devastante. Conquistato e convinto, tornai alla reception e versai a Gastone le diecimila lire del primo mese di allenamento, proprio mentre il maestro Shirai in persona faceva il suo ingresso in palestra.

Il ’68 mi aveva insegnato a sfidare il potere e di aneddoti sulla “cattiveria” e sulla severità del Maestro non avevo ancora avuto modo di ascoltarne; pertanto, con la gucciniana incoscienza dei vent’anni, mi feci avanti, gli strinsi la mano e gli comunicai tranquillamente la mia intenzione di diventare anch’io un “adepto”. Devo dire che quel giorno, come del resto nella maggior parte delle occasioni in cui l’ho rivisto nei 34 anni seguenti, il maestro Shirai mi mostrò il suo lato migliore.

Penso che apprezzasse e apprezzi tuttora franchezza e schiettezza e si adegui soltanto alla piaggeria e all’adulazione di alcuni, più “giapponesi” di lui. Mi diede il benvenuto e subito dopo sferrò una decina di pugni scherzosi all’indirizzo del naso di Gastone, fermandoli tutti miracolosamente un centimetro prima di trasformare in poltiglia il suo setto nasale.

Fui immediatamente affidato alla cortese ma inflessibile guida di Carlo Fugazza, mio coetaneo, allora nella parabola ascendente della sua splendida carriera agonistica, che mi confidò di aver preso la cintura nera in poco più di un anno di duri allenamenti quotidiani. Devo ammettere che a quei tempi si progrediva nei gradi più rapidamente di oggi, anche perché, dopo la defezione di Falsoni, Abruzzo, Possenti ecc., la Fesika aveva la necessità di creare nuovi “quadri” che diffondessero il karate nel nostro paese. Ero cintura verde quando Carlo partì per il servizio militare e gli subentrò nell’insegnamento Rosario Capuana, milanese di Vizzini (Catania) tanto diverso da Fugazza nel carattere, quanto simile nella capacità di infondere nei suoi allievi determinazione e fiducia in se stessi.

Nel 1973, cintura marrone, partecipai a Rischiatutto e Mike, avendo saputo del mio hobby esotico, mi chiese di spaccare una tavoletta in apertura di trasmissione. Non ci avevo mai provato prima ma ruppi sia la tavoletta che il cinturino metallico del suo orologio; purtroppo quella fu l’unico successo della mia serata in TV. Portai a casa solo un gettone d’oro di presenza, che barattai con una Fiat 850 usata; inoltre la mia performance televisiva irritò non poco il conte Zoja, che poco dopo, in un’adunata oceanica della federazione, si premurò di ricordare a tutti che “fare karate non vuol dire rompere le tavolette”.

L’anno seguente, stufo marcio della mia ormai sbiadita cintura marrone, tentai il “folle volo” e mi iscrissi allo stage di Desenzano con l’intenzione di sostenere l’esame per primo dan alla fine dei tre giorni di allenamento. Non l’avessi mai fatto! I miei muscoli erano impreparati alle sei ore quotidiane di allenamento, i miei piedi erano piagati dal cemento dell’indimenticabile palazzetto, i miei riflessi annebbiati dalla nisidina che prendevo a dosi da cavallo per sconfiggere il mal di denti. Il secondo giorno avevo già le gambe marmoree per l’accumulo dell’acido lattico e mi muovevo come uno zombie. Il colpo decisivo me lo inferse il maestro Capuana che, passandomi accanto, mi sibilò: “Non vorrai mica fare l’esame, vero?”.

Cosi feci le valigie e me ne tornai a Milano. Se non smisi allora, credo che non smetterò più. Un anno più tardi, sul più familiare e meno “cartavetratotatami del nuovo, lussuoso dojo di via Maffei, ottenuto il benestare di Capuana, il mio sogno si avverava ed una fiammante cintura nera cingeva i miei fianchi. Poche settimane dopo, “complice” l’indimenticabile amico Franco Franchi che mi fece da direttore tecnico, aprii la “mia” palestra nel posto più improbabile di tutta Milano: l’Esercito della Salvezza, in via Paolo Sarpi. In quel periodo i club di karate spuntavano come funghi in tutta Italia e il più scalcinato degli insegnanti raccoglieva facilmente decine di allievi. Nel mio caso l’entusiasmo supplì all’inesperienza e alla modestia tecnica, tant’è vero che tra i miei primi allievi ci furono Giovanna Citrelli (futura campionessa europea di kata a squadre e di kumite individuale) e Paolo Severi, che si distinse nella delicata fase di transizione dalla Fesika alla Fikda, dimostrando di sapersi adattare a due modi così diversi di interpretare il combattimento.

Se ripenso ai quelle prime esperienze di praticante e insegnante, non rimpiango certo i dieci anni passati in veste di coach o di arbitro sui tatami di tutt’Italia, ma quell’atmosfera magica di scoperta e di rivelazione che avvolgeva ogni nuovo kata imparato, ogni stage diretto da maestri dal carisma di Kase, Nakayama, Enoeda. Adesso che molti di loro ci hanno lasciati e il nostro mondo appare sempre più frammentato, mi dispiace che la politica sportiva o più semplicemente i casi della vita mi abbiano separato da tanti amici e compagni di strada.

Chissà cosa ne è stato di quella ventina di persone che impararono i primi chokuzuki assieme  a me in quel lontano settembre del 1971. Io ho trenta chili in più sulle spalle, qualche acciacco e un figlio dodicenne che ha seguito me e mia moglie sulla strada del karate. È stato bello presentarlo al Maestro Shirai e leggere negli occhi di Giulio la mia stessa ammirazione e il mio stesso rispetto di allora.

“È una persona gentile e normale”, mi ha detto mio figlio uscendo dalla palestra, “non è un gasato, anche se è l’uomo più forte del mondo”.

Ho così capito che il karate aveva fatto un’altra vittima in famiglia. Il ciclo continua...