UN APOLOGO
SUL “PASSAGGIO DEL TESTIMONE” NELLE ARTI MARZIALI
Un solo
allievo?
di Sergio Roedner
IL 3 MAGGIO MILLENOVECENTOTTANTA Henry
Plée[1], allora cintura
nera ottavo dan e pioniere del karate parigino, si congedò dal suo lussuoso dojo
in rue de la Montagne
Sainte Geneviève, nel
centro di Parigi. Affidò i suoi cinquecento allievi ai suoi istruttori e partì
in treno con otto praticanti, diretto verso la Villa del Sol, dalle parti di Saint Tropez.
In ventisette
anni di pratica e di insegnamento, tra le sue mani
erano passate centinaia e centinaia di allievi. Aveva cercato di curare
personalmente i progressi di ognuno, di seguirli dal primo yoi alla cintura nera e oltre. Aveva invitato nel suo club maestri
giapponesi del rango di Nambu, Mochizuki e Kase, e sfornato col loro aiuto decine di campioni, di
nazionali, di picchiatori.
Ora, per quanto
non fosse vecchio, sentiva avvicinarsi il momento della
verità. Per realizzarsi pienamente come sensei, doveva passare ad altri il ruolo di shinan[2],
l’insegna di maestro. L’istruttore entra, fa lezione, corregge, esce, viene pagato. Il maestro è colui che
trasmette il sapere. Henry Plée era alla ricerca di se stesso. Si era
arricchito col karate, aveva fatto il suo lavoro più che onestamente.
Dalle colonne di Budo Magazine aveva
spiegato a migliaia di profani il mondo delle arti marziali. Adesso, cercava la
felicità.
Aveva selezionato
otto persone su oltre
cinquecento, obbedendo non alla logica del grado e
dell’anzianità, ma alla non-logica dettata dai sentimenti. Degli otto allievi,
solo tre erano cinture nere. Gli altri avevano iniziato la pratica da poco, ma
Henry li amava e si sentiva in sintonia con loro, condizione indispensabile per
quello che si apprestava a fare.
A tarda sera
arrivarono alla Villa del Sol. Scaricarono
i bagagli, accesero le luci nella grande casa
arroccata sulle rupi della corniche. Henry per la prima volta in molti anni si sentì
soddisfatto. Guardò i suoi otto compagni e disse: “Cominciamo”.
Praticarono gli Heian
per un paio d’ore, poi cenarono e uscirono sulla terrazza. Qualche decina di
metri più in basso, il mare luccicava argenteo sotto la luna. Plée si mise
a piangere silenziosamente. I suoi allievi tacevano. Luc,
cintura nera terzo dan, parlò ad un tratto: “Sensei, che fai? Insegni a noi a farci forza, e poi piangi? Che
esempio ci dai? Fatti forza!” Plée si voltò bruscamente: i
suoi occhi ora erano freddi come l’acciaio. “Piangevo di gioia, ma troppo presto. Fa’ i bagagli e tornatene a Parigi!”
Gli altri
allievi, mentre anche Henry seguiva Luc in casa,
rimasero in terrazza a parlare dell’accaduto. Chi approvava e
capiva il maestro, chi in sostanza era sbalordito da tutta la faccenda e in
particolare dalla reazione di Henry. Plée tornò e disse: “So che tu,
Claude, non hai capito e lo hai detto agli altri. Ho
fatto male a portarti qui solo per il tuo secondo dan. In otto anni di karate
non hai pensato che obbedire è il presupposto per
capire. Non puoi giudicarmi, non te lo permetto.
Combatti con me o va in malora”.
Claude non combattè, ma ripartì con Luc, a
raccontare agli amici parigini che il maestro Henry Plée era diventato matto.
Quella notte,
egli rimase a parlare a lungo coi sei allievi. La
mattina dopo erano a pesca sul mare. Parlarono del nulla, della vita,
dell’amore e del karate. Sulla spiaggia deserta, combatterono sotto il sole
tiepido e dolce di maggio. Davanti a lui una cintura nera, una marrone, una
blu, una verde, due bianche.
Il pomeriggio
passò come un lampo nei boschi della corniche. Plée era nervoso, poi esaltato, qualche
volta anche sereno. Gli allievi, frastornati, tacevano. La sera
mangiarono sulla spiaggia, arrostendo della carne alla brace. Due di essi, François e Louise, erano ancora minorenni, praticamente scappati di
casa per seguirlo. François gli disse: “Sensei, domani vorrei telefonare a mia
madre per tranquillizzarla”. “Vai a dirglielo di persona”, rispose imprecando.
Come uomo, Plée non si
piaceva. Come maestro, era insuperabile. Il giorno dopo fu tutto dedicato al
kata Meykyo.
Dall’alba al tramonto praticarono Meykyo: mentre camminavano, mentre mangiavano, al buio, in
acqua, mentre parlavano e scherzavano. Lo allenarono col pensiero, in mokuso[3]. Lo allenarono
descrivendoselo, chiedendosi cosa rappresentasse per ciascuno di loro. Quella
sera Henry Plée
concesse la cintura verde alla bianca rimasta, e promosse tutti gli altri.
Diede il primo Dan alla cintura marrone e guardò la nera negli occhi,
cercandovi invano invidia e gelosia. L’allievo resse il suo sguardo e sorrise.
Alle due di
notte, il maestro svegliò tutti e li portò per i
boschi a correre. Aveva al suo fianco Marcel,
neo-promosso primo Dan, che correva con un’aria triste, e tutt’a un tratto lo guardò e si fermò. “Sensei, gli disse, non ho più voglia di restare, mi sembra di
subire un torto e con questa idea non farei più bene”.
Plée gli strinse la mano. “Torna a Parigi, sei un bravo ragazzo onesto, ci
rivedremo là tra qualche tempo”.
Corse con gli altri per due ore al buio, ferendosi e graffiandosi, più
stremato di loro.
Quella notte corse per mettersi alla prova, per vedere se aveva il diritto di sottoporre
i suoi allievi ad un’esperienza così dura. Resistette e ne fu sollevato. I
quattro rimasti correvano ansimando dietro di lui. Louise,
la più piccola, si fermò guardando nel buio, tremante, con gli occhi spalancati.
Plée ritornò, li raccolse tutti. Pierre,
neo-cintura blu, era sdraiato per terra e non si rialzò. Il maestro ne provò compassione, gli tese una mano.
“Un attimo, sensei”,
rantolò quasi il poveraccio. “Tutta una vita!”, ringhiò Plée passando oltre con tre
cani ringhiosi, bastonati ma vivi alle costole.
Nei due giorni
seguenti andarono a divertirsi lungo la costa: Antibes, Cannes, Cagnes-sur-mer. Ormai gli allievi
avevano capito, ridevano e scherzavano sulla lussuosa Cadillac
di Plée,
pronti a riprendere la “guardia” al primo cenno di tempesta. Erano rimasti in
tre, una nera, una marrone, una verde: Jean-Paul, Serge, Louise. Plèe si sentiva vicino alla meta ed era di
ottimo umore: aveva appetito, si sentiva in forze e amava la vita.
Non si parlò più
di karate per una settimana. Gli allievi erano stupiti ma maturati, non temettero di chiedere il perché di quella pausa al maestro.
Henry non rispose subito, poi ammise: “L’ho fatto per non perdere qualcun
altro. Ma avete ragione, è ora di decidere”.
Il giorno dopo
non mangiarono nulla, e nessuno ebbe da ridire. Alla sera, sulle rocce intorno
alla Villa del Sol, Plée disse
serenamente: “Combatteremo fino a domattina, voi e io”.
Quella notte
uccise in Plée
qualcosa del suo corpo e del suo spirito. Si battè
per trasmettere gli altri tutto il suo kumite. E dopo
non fu più lo stesso.
Serge non ce la
fece. Caduto in terra tre, dieci, venti volte, non se
la senti di rialzarsi e rinunciò al titolo di shinan.
All’alba, lucidi,
sereni e quasi allegri, il maestro e i due allievi rimasti fecero la doccia, consumarono un’abbondante colazione a base di the e croissant e scesero sulla spiaggia.
Henry Plée
consegnò la cintura nera a Louise.
Jean-Paul si alzò
e disse: “Sensei, ho voglia di fare
un po’ di kumite, come questa notte.” Plèe rispose: “Jean-Paul, da oggi non combatterò e non insegnerò più. Ho
chiuso col karate. Mi sono spremuto come un limone e voi siete le mie due
limonate. A chi piace aspra, a chi zuccherata. Non ho
più niente da fare”.
Si tolse l’obi nero e lo depose su un sasso.
Louise rispose:
“Finché non muori, il maestro sei tu”.
Henry si
addormentò al caldo sole di Saint-Tropez.
[1] Ho qui utilizzato la figura “storica” di Plèe per esemplificare la “via iniziatica”
al passaggio del titolo di shinan.
Fatti e persone che compaiono in questo racconto sono immaginari.
[2] In giapponese: bussola. Simboleggia il
ruolo del maestro, che indica agli allievi la direzione da seguire.
[3] In giapponese: meditazione (si effettua in seiza, prima e dopo la
lezione).