Tempo di esami
di Sergio Roedner
Gli esami sono
tra i momenti più temuti e attesi della nostra esistenza in generale, e della
pratica delle arti marziali in particolare; fin da quando indossiamo per la
prima volta il “kimono” veniamo tempestivamente informati, dall’insegnante o
dagli allievi anziani, che il passaggio alla “cintura superiore” avverrà per
mezzo di un esame.
Non è stato
sempre così: le cinture colorate non sono sempre esistite nel karate, ma solo
dopo che Funakoshi ha deciso di adottare il sistema di graduazioni esistente
nel judo, contribuendo in tal modo all’assimilazione del karate alle altre
discipline che costituivano tradizionalmente l’addestramento del guerriero. Si
racconta che abbia consegnato le prime cinture nere ad alcuni allievi nel corso
della cerimonia del the, senza bisogno di nessun esame.
L’attuale pratica
dell’esame ha una sua validità ed un suo significato che vanno al di là della verifica dell’abilità tecnica
del candidato, o degli indiscutibili vantaggi finanziari che il club o la
federazione ricavano dalla riscossione della relativa tassa e dalla
compravendita delle cinture e dei diplomi. Come la gara, l’esame pone l’allievo
di fronte ad una situazione stressante per mettere alla prova le sue reazioni.
Non a caso molti atleti fanno molto meglio, o molto peggio, in un esame o in
una gara che in una normale seduta di allenamento.
Tutti gli esami,
da quello per cintura gialla (che non esisteva 30 anni fa, quando si passava
direttamente da bianca a verde se non a marrone) a quello di cintura nera, sono
emotivamente molto coinvolgenti: personalmente ricordo quello di primo dan come
l’esperienza più significativa della mia vita. Per avere validità oggettiva,
devono però rispondere a dei requisiti precisi:
Nella pratica, gli esami di passaggio di kyu nella maggior parte delle palestre di mia conoscenza si
concludono senza grandi spargimenti di sangue: già gli allievi scarseggiano, se
poi si comincia a bocciarli, le palestre si svuotano del tutto. Cosi i dojo rigurgitano di improbabili cinture
marroni costrette a restare in tale grado a vita o quasi; sono state introdotte
(già da tempo) le “nere di palestre”, un contentino per gli allievi volonterosi
e un toccasana per l’ego ipertrofico degli istruttori; altri ancora, più
fantasiosi di loro, hanno inventato le mezze cinture per distinguere i gradi e
venderne di più: in fondo l’Italia è il paese dove un titolo non si nega a
nessuno.
Un altro escamotage, uscito però dal cilindro della federazione (o dalla
pratica scolastica, dove peraltro non si usa più da oltre un decennio), è
quello del “rimando”: il candidato dovrà ripetere solo una parte dell’esame e
rimarrà in una specie di limbo “tra color che son sospesi” fino alla sessione
successiva. Si tratta secondo me di un errore: l’esame è un unicum, l’allievo viene valutato
globalmente e promosso o respinto prendendo in considerazione tutti gli aspetti
della sua prestazione, dall’entrata sul tatami
fino all’ultimo kiai dei kata.
Gli esami di Dan rappresentano un salto di qualità e di difficoltà abbastanza
drammatico, almeno in una federazione seria. I candidati provenienti da tutte
le società della regione vengono radunati nello stesso luogo (un palazzetto o
una palestra scolastica) ed esaminati da una commissione di maestri di alto
grado della quale, nella maggior parte dei casi, non fa parte il loro
istruttore. Hanno provato e riprovato il programma per settimane o per mesi, ma
una cosa è eseguirlo in un ambiente familiare sotto gli occhi esigenti ma
benevoli del proprio maestro, molto diverso è invece trovarsi di fronte delle
facce sconosciute, nella confusione più totale o nel silenzio più
agghiacciante, quando le gambe ti tremano o sembrano diventate di piombo. Un
maestro con un pacco di moduli chiama il tuo nome, nella calca spesso sei
nell’impossibilità di riscaldarti e di riprovare quel famoso passaggio che non
ti viene mai.
Anche questa difficoltà fa parte del gioco: una cintura nera (e a maggior
ragione un secondo o terzo dan) deve saper reagire all’emozione: dopo tutto il
karate è nato come metodo di autodifesa, e quando mai in una situazione di
pericolo si hanno il tempo e la voglia di fare stretching o tai-so? È
però importante che queste difficoltà oggettive non vengano inutilmente
ingigantite da atteggiamenti autoritari o comunque discutibili degli
esaminatori e dei loro collaboratori. Cito a caso: un quinto Dan in borghese
che spreca fiato ed energie per tener immobili a raffreddarsi per un paio d’ore
un nugolo di ragazzini spauriti in attesa di sostenere l’esame dopo due ore e
mezzo di intenso allenamento starà sicuramente eseguendo ordini dei superiori, ma a tarda sera non gli fischieranno per caso
le orecchie?
E quel maestro (sola nota stonata in una commissione impeccabile) che prima
giudica sufficiente un candidato, gli firma la tessera, poi cambia idea, lo
richiama sul tatami, gli fa rifare il
kata e lo rimanda, completando il suo capolavoro con uno scarabocchio sulla
tessera, starà forse esercitando la sua legittima autorità, ma quale immagine
della sua federazione proietta all’esterno? Io credo che, prima di cedere al
delirio di onnipotenza, dovrebbe almeno dare un’occhiata alla propria sinistra
ed imparare con quale ostinata pazienza il maestro Shirai fa fare e rifare il
programma ai candidati ventenni o ultrasessantenni prima di assolverli o di
condannarli.
Fare l’esaminatore comporta grandi responsabilità: più spesso di quanto si
creda, non si decide solo su una promozione, ma sulla futura carriera di
giovani e meno giovani, si incide sulla loro voglia di continuare o meno la
pratica di un’arte marziale. È perciò vitale, non che non ci sia severità, ma
che ci siano coerenza, apertura mentale e quel minimo di psicologia che servano
ad evitare che una prova impegnativa e stressante si trasformi in un incubo o,
peggio, nella sensazione soggettiva (e a volte oggettivamente fondata) di
un’ingiustizia subita.
Didascalie:
1)
ottimismo
e apprensione prima dell’esame
2)
per i
più piccoli l’emozione è ancora maggiore