Tameshi-wari:
di Sergio Roedner
Premessa
Anche se
l’immagine più universalmente riconosciuta, accreditata e diciamo pure derisa
del praticante di karate è quella di “spaccalegna”, tra gli addetti al lavoro
la specialità del tameshiwari è praticamente
sconosciuta.
Per quanto ne
sappiamo noi, in Italia, dove lo stile Kyokushinkai
del maestro Oyama (che conferisce particolare enfasi alle prove di forza e
in particolare alle rotture) non conta molti adepti, sono ben poche le palestre
dove ci si prepara e si pratica il
tameshiwari. A parte gli adepti del Taekwondo,
noti per le acrobatiche dimostrazioni di rotture in volo; a parte qualche
specialista isolato come Michel Jamet,
un tempo insegnante a Intra e ora Presidente onorario
della Fekda, i karateka di casa nostra (e in
particolar modo i praticanti dello stile shotokan) non dimostrano grande
simpatia per questa specialità. Eppure sono ben note le fotografie dei maestri Nishiyama e Kanazawa quando,
molti anni fa, eseguivano spettacolari rotture di pugno e di calcio; e una
ventina di anni or sono, in occasione di un campionato di kata, gli allora
“nazionali” Fugazza, Marangoni e Ruffini
ruppero di pugno, di taglio e di calcio tre robuste tavole di abete. Ma fu un
exploit isolato, e quando noi dello Students karate
club abbiamo voluto intraprendere questa ardua ma affascinante strada, abbiamo
trovato ben pochi punti di riferimento.
Le ragioni del
declino del tameshiwari in quasi
tutte le palestre che, d’altra parte, hanno abbandonato anche l’uso del makiwara, indispensabile premessa per le
rotture, sono intuibili: per “rompere”, anzitutto, occorrono coraggio e
potenza, e gli istruttori che non riescono a infondere o migliorare queste doti
nei loro allievi non vogliono rischiare di perderli sottoponendoli a prove che
non supererebbero. Il tameshiwari
inoltre va in direzione esattamente opposta alla “sportivizzazione”
e “demarzializzazione” del Budo che è ormai un fatto compiuto quasi ovunque, ed è certamente
inadatto ai bambini, la sola fascia di età che ancora popola le palestre di
karate.
Eppure il tameshiwari è una pratica altamente
formativa e, anche senza arrivare alla concezione del maestro Oyama (“This is Karate”, Japan Publ. 1973, un’opera
fondamentale per chi voglia studiare le rotture) per il quale “un karateka che
non conosca le rotture è come un albero che non dà frutti”), numerose sono le
doti che la sua pratica, assidua e non sporadica, permette di sviluppare. Poche
regole semplicissime permettono poi di accostarsi a queste tecniche minimizzando
gli attentati all’incolumità dei propri arti:
1)
Pratica
costante del makiwara (da 200 a 1000
pugni alla settimana; in analoga misura vanno allenate le altre tecniche che si
intendono usare);
2)
Apprendimento
della tecnica corretta (preferibilmente colpi otoshi, cioè dall’alto verso il basso)
da allenare con la pratica a vuoto;
3)
Visualizzazione
chiara della tavola rotta prima di provare effettivamente (per questo sono
assai utili la dinamica mentale o la meditazione);
4)
Fiducia
in se stessi, che si ottiene e si conserva attenendosi scrupolosamente ai punti
precedenti e compiendo progressi graduali, partendo cioè da misure abbordabili
e non facendo mai il passo più lungo della gamba;
5)
Uso
di materiale standard, di forma e misura già sperimentate. Le tavole di abete,
che sono le più usate per questo scopo, hanno il vantaggio-svantaggio delle
venature, che le rendono una diversa dall’altra. Io preferisco il truciolare, che dà indicazioni attendibili sui progressi
compiuti. Vanno benissimo i “coppi” dei tetti e i mezzi mattoni, l’ardesia e i
sassi piatti dei fiumi. Ad ogni modo, per la rottura di materiale inelastico e duro si richiede una tecnica particolare, che
è per me ancora oggetto di studio.
Consigli al principiante.
Il principiante delle tecniche di rottura (meglio precisarlo) non dovrebbe
essere un principiante di karate, ma avere alle spalle un paio d’anni di
pratica; e quando parlo di pratica, mi riferisco all’allenamento al makiwara, ai piegamenti sui pugni, e in
generale all’allenamento duro e stressante che forma lo spirito non meno di
quanto rafforzi il corpo.
Premesso questo, il praticante si deve procurare il materiale adatto per la
rottura e il sostegno più idoneo. Suggerisco, come ho già detto, il truciolare di misure standard (cm. 40 x 15) e di spessore
crescente. Per la prima prova si dovrebbe scegliere una tavola di spessore irrisorio,
diciamo 10 mm. Il perché è presto detto: si tratta di mettere a punto la tecnica e di non
distruggere sul nascere quella fiducia in se stessi che, stando al maestro
Oyama e alla mia personale esperienza, costituisce il 70 % delle condizioni di
successo. Chiunque è in grado di spezzare in qualunque modo (comprese tecniche
improvvisate di nukite
o … colpi di testa) un centimetro di truciolare; ma
queste prime esperienze sono importantissime ed è vitale assicurarsi che siano
positive.
La prima tecnica che suggerisco di impiegare è lo shuto-uchi (colpo col taglio
della mano) portato dall’alto verso il basso su una tavola disposta
orizzontalmente davanti a noi all’altezza (all’incirca) della cintura mentre ci
troviamo in posizione di zenkutsudachi.
La tavola appoggerà: a) su due blocchi di cemento o pietra (soluzione ottimale,
indispensabile per misure superiori); b) sui bordi di due robuste sedie o
tavoli. È esclusa ovviamente, a causa della direzione della tecnica, la
collaborazione di uno o due compagni incaricati di reggere la tavola stessa. Il
colpo dovrà essere il più veloce possibile e sarà diretto verso il centro della
tavola, ruotando la mano al momento dell’impatto in modo da colpire non col
bordo della mano ma con l’osso vicino al polso, impiegando la superficie più
piccola possibile. Ripetere due o tre volte la tecnica fino a padroneggiarla
prima di passare alla misura seguente: due tavole da un centimetro, da rompere
usando la stessa tecnica. Anche qui è altamente improbabile che il principiante
adulto incontri la benché minima difficoltà nell’eseguire la rottura richiesta.
Non è tuttavia fuori luogo che egli sin da ora si abitui ad associare
all’allenamento della tecnica un’adeguata preparazione mentale, che vorrei qui sintetizzare:
1)
Regolarizzare
la funzione respiratoria, che si sarà certamente alterata e affrettata
approssimandosi il momento della prova;
2)
cercare
l’isolamento dall’ambiente circostante, concentrandosi esclusivamente
sull’oggetto della prova, la tavoletta;
3)
visualizzare
vividamente le tavolette rotte e fare propria questa immagine.
Volendo codificare il “cerimoniale” di una rottura ben eseguita: il
praticante sistema le tavolette sui blocchi, assicurandosi della loro stabilità
come del fatto che poggino in prossimità dei bordi (altrimenti la superficie
ridotta della tavola complicherebbe inutilmente la prova). Si allontana di un
passo ed esegue alcuni esercizi respiratori concentrandosi e visualizzando la
rottura che sta per effettuare; si avvicina decisamente, prova una volta la
distanza e colpisce, enfatizzando la velocità e senza riserve mentali, mirando
a un punto immaginario sotto la tavola. Quindi…raccoglie I cocci e se ne va.
Rottura col gomito.
La posizione della tavola è la stessa, ma il praticante si disporrà in una
posizione meno frontale, quasi parallela alla tavola. La rottura verrà eseguita
con un deciso colpo di gomito (caricato altissimo) direttamente verso il basso,
accompagnato da un abbassamento deciso di tutto il corpo. Si potrà assumere la
posizione di kibadachi
o di fudodachi;
ciò che è veramente importante è colpire verticalmente usando il prolungamento
dell’ulna (parte estrema del gomito, dalla parte dell’avambraccio) e non
l’articolazione, che è alquanto delicata e va ovviamente tutelata. La tecnica
di gomito è in grado di sviluppare una potenza spaventosa anche in persone poco
allenate e non richiede particolare allenamento al makiwara. Eseguita con le
precauzioni che ho detto, permette prestazioni sbalorditive (dieci tavole e più
con un colpo).
Altre tecniche di rottura.
Oltre al pugno, al taglio e al gomito abbiamo sperimentato il calcio maegeri e il “leggendario” nukite. Per
quanto riguarda maegeri, è una
tecnica molto efficace ma impegnativa, che richiede rapidità di esecuzione,
capacità di contrarre le dita verso l’alto e sicurezza. Due assistenti (con la
procedura che sarà esposta tra breve) reggono la tavola di fronte a voi,
all’altezza della vostra cintura, con un’inclinazione di circa 45º. Voi
calciate da zenkutsudachi
direttamente verso l’alto, tenendo per maggior sicurezza la caviglia ad angolo
retto rispetto alla gamba (invece che allungata come nella normale esecuzione
del calcio).
Per quel che concerne nukite, preparatevi alla prova con almeno tre mesi di
piegamenti sulle dita. Formate la mano a picca nella versione modificata
suggerita dal maestro Oyama, vale a dire con le dita che formano un angolo di
90º/120º rispetto al palmo, e allineate la punta del medio con le altre dita.
Imparate a contrarre la mano in questa scomoda e insolita posizione allenandovi
anche a colpire il makiwara. A questo punto siete pronti per realizzare modeste
misure che però saranno sufficienti a farvi ricredere sulla fragilità delle vostre
dita. Se poi volete imitare Miyagi, Oyama e Agena,
squartare vitelli, strappare cortecce e perforare tramezzi, allora due o tre
anni di tuffi (delle mani, si intende) in secchi pieni di riso, ghiaino
eccetera non saranno di troppo. Io non l’ho mai fatto.
Una progressione
ragionevole.
Nella nostra pratica abbiamo imparato una regola che consideriamo aurea: non dare per acquisita una misura prima di
averla superata almeno tre volte. Così, non cimentatevi con tre tavole da
un centimetro prima di essere ben sicuri, in qualsiasi condizione, di romperne
due. Non cimentatevi nel tameshiwari troppo spesso, soprattutto se c’è qualche
abrasione o contusione da far riassorbire: un ritmo quindicinale è
soddisfacente. Scoprirete presto che nelle rotture col gomito progredirete più
in fretta e facilmente che nelle altre prove.
Quando sarete riusciti a rompere quattro tavole da un centimetro potrete
passare a tavole di spessore doppio (2 cm). Se il lavoro preliminare sarà stato
compiuto in modo progressivo e soddisfacente, il praticante sarà sorpreso di
non trovare poi “così dura”questa tavola.
Le prove con gli assistenti.
Richiedono, da parte di chi sorregge le tavole, una certa perizia. Per
evitare che sotto l’impatto del colpo le braccia degli assistenti cedano assorbendo
così parte della potenza e impedendo la rottura, essi si collocheranno spalle
al muro e reggeranno i bordi delle tavole: a) a braccia tese (pericolo di
contraccolpo ai gomiti); b) a braccia piegate coi gomiti raccolti contro il
corpo e gli addominali ben contratti.
Gli errori. Perché si
sbaglia. Che fare quando si sbaglia.
Nonostante tutte le precauzioni, talvolta si sbaglia. E arrivati a certe
misure, prima o poi si sbaglia senz’altro. Perchè?
1.
Perché
si è a una misura-limite: caso non infrequente ma neppure comunissimo. Se siete
sicuri che questo è il vostro problema, non ostinatevi. Provate periodicamente
la misura appena inferiore e lavorate di più al makiwara. Cercate di accrescere
la velocità piuttosto che la pesantezza delle vostre tecniche. Apettate un paio di mesi...e riprovate.
2.
Perché
ripetuti errori hanno provocato in voi un blocco psichico. Adesso colpite
credendo di voler rompere la tavola, ma in realtà, pieni di riserve, colpite la
tavola. E vi fate male. E il blocco si rafforza. E voi cominciate a odiare il
tameshiwari e a deridere “chi pensa che fare karate vuol dire rompere le
tavolette”. È un momento difficile che tutti i praticanti hanno attraversato
almeno una volta. Per uscirne c’è solo un metodo: ripartire da zero. Da un centimetro. Poi due. E
risalire, con fermezza e pazienza, sicuri che in cima alla salita c’è la
sicurezza, che avete perduto e che ritrovate per strada.
Non dimenticate: ogni successo
rinforza l’immagine mentale della rottura, ed è perciò la premessa del successo
seguente. Ma purtroppo anche il contrario è vero: e se le nocche sbucciate
si rimarginano in fretta, non è lo stesso per il morale sotto i piedi.
Rimando a una puntata successiva il discorso su pietre, tegole e mattoni.
Didascalie per le foto
1) L’autore dimostra la tecnica di shuto-uchi.
2) Rottura di yoko-geri con gli assistenti
3) Questo allievo del Maestro Oyama se la prende con le tegole!
4 e 5) Ma anche Gemma e Giulio (12 anni!) fanno sul serio!