QUALE
FUTURO PER IL KARATE?
di Sergio Roedner
IL KARATE IN CRISI?
“A parte il
declino del livello della tecnica in questi tempi, mi sono reso pienamente
conto del quasi irriconoscibile stato spirituale a cui è arrivato il mondo del
karate”. Queste parole del Mº Funakoshi sono del 1956 (!), ma si adattano anche
troppo bene alla situazione di cinquant’anni dopo. In Italia la crisi è
evidente: la fusione tra le due più importanti federazioni è fallita e il
nostro mondo si è frantumato in una galassia di gruppi e gruppuscoli la cui
elencazione completa sarebbe di competenza delle “pagine gialle”. Nella pratica
si scontrano, ormai da un trentennio, due concezioni diverse della stessa arte.
Mentre uno dei due gruppi (la ex-Fik, per intenderci) non ha mai avuto “maestri”
ma solo istruttori e traguardi agonistici, l’altro gruppo resiste arroccato
intorno al proprio maestro ma dimostra limitate capacità, o forse volontà, di
proselitismo e ulteriore espansione. Il karate in generale è “passato di moda”
e soprattutto i giovani si dedicano alla kick
boxing o ad altre variazioni sul tema, in organizzazioni che promettono
l’efficacia immediata e attribuiscono ai propri insegnanti titoli e gradi che
da noi si guadagnano col sudore e la fatica.
Alla base di
questa crisi organizzativa c’è una crisi ideale, che ha probabili origini
lontane nel tentativo di trasformare il karate in una pratica sportiva. Se quel
che conta è il risultato agonistico, occorre sacrificare quella parte
dell’insegnamento antico che non permette di cogliere immediati frutti nelle
gare. La tecnica si standardizza, si semplifica, si inaridisce. Due o tre
principi, applicati bene o male, diventano l’unico oggetto dell’insegnamento. È
bene dire chiaramente che tutte queste magagne vengono dall’ex-FIK. Anche la
JKA di Nakayama (in aperto contrasto con le vedute dell’ottantenne Funakoshi)
ha seguito la stessa via, con più rigore, più precisione tecnica, più coerente
ricerca della potenza e della maturazione umana del karateka: ma era pur sempre
la strada che portava all’ippon
folgorante di Oishi nel kumite o al kata impeccabile di Osaka. La JKA ha
portato alla perfezione, alla stilizzazione assoluta il karate sportivo,
cercando di non dimenticare, di conservare al tempo stesso (nei suoi migliori
istruttori) l’altro del karate, la
sua portata originaria. Non è un caso se il tentativo di un ritorno alle
origini dell’arte, alla sua efficacia, si deve a maestri che all’interno della
JKA si sono mossi con indipendenza e spirito critico (come il Maestro
Nishiyama) o che ne sono usciti (come il Maestro Shirai o il Maestro Tokitsu).
Dopo 34 anni di
pratica e 30 di insegnamento, tutti all’interno del “karate tradizionale”, mi è
sembrato doveroso interrogarmi sul significato di questa pratica e condividere
interrogativi e possibili risposte con i lettori di Samurai.
PRIMA DEL KARATE SPORTIVO: IL KARATE DI FUNAKOSHI.
Negli anni della
maturità, Funakoshi raccolse e in parte creò una base etico-filosofica per il
karate, trasformandolo in Do sull’esempio
del Jiu-jitsu, del Ken-jitsu, ecc. Il karate per Funakoshi,
insegnante, poeta e studioso della filosofia giapponese e cinese, era una
ginnastica fisica e spirituale, uno strumento educativo, un mezzo per
migliorare il proprio carattere; il Maestro intendeva metterlo sullo stesso
livello delle altre arti marziali “nel promuovere i tratti del coraggio, della
cortesia, dell’integrità, dell’umiltà e dell’autocontrollo”. Una mediazione
quindi tra lo spirito dei Samurai e le moderne esigenze della società
giapponese, nella quale la morale del “vincere o morire” riaffiorò per l’ultima
volta tra i kamikaze, alla fine della seconda guerra mondiale. Il karateka
ideale immaginato da Funakoshi non era più forse il giovane Gichin stesso in
lotta col tifone, intento ad allenarsi di notte ore e ore in silenzio allo
scopo di imparare tecniche da applicare per la sopravvivenza: ma piuttosto uno
spirito nobile e generoso che applicava gli insegnamenti del Budo nella vita di
tutti i giorni. C’è altro nel karate?
PRIMA DI FUNAKOSHI: IL KARATE DI OKINAWA.
Per i maestri di
Funakoshi (Asato, Itosu, Matsumura) il karate era prima di tutto un sistema di
difesa a mani nude contro ogni tipo di arma: da qui la ricerca della durezza
delle armi naturali (mani e piedi) e lo sforzo per trasformare il corpo intero
in una corazza con l’uso della contrazione muscolare; di qui lo studio dei
punti vitali (Kyusho) e il lavoro al makiwara. Sempre duro e sempre forte (Shorei), oppure leggero, ampio e veloce
(Shorin); anche se studi recenti
sembrano indicare che la contrapposizione dei due stili sia una forzatura o una semplificazione didattica dello stesso
Funakoshi.
L’espressione più
efficace del karate-difesa (jitsu) è
stata forse il kyokushinkai di Oyama,
dove l’elemento agonistico è assolutamente secondario e molto meno enfatizzato
dello studio della forza fisica e mentale. Le performances sbalorditive di certi allievi di Oyama, non tutte
attribuibili ai loro muscoli e alla durezza dei loro calli, testimoniano che il
karate-jitsu è una strada migliore
del karate sportivo per chi mira all’allargamento delle proprie facoltà
psico-fisiche.
NEL KIME LA CHIAVE DEL MISTERO.
Cos’è il ki? È l’energia vitale, scoperta dai cinesi
che la chiamano chi. Fluisce dal tanden (centro vitale situato in
profondità in corrispondenza dell’ombelico) attraverso le membra; può essere
concentrato in una parte del corpo, può essere disperso (malattia, morte), può
essere usato contro l’avversario. Tutti ne posseggono, pochi sanno usarlo e spremerlo. Kime: concentrazione del ki
in un attimo, un punto, una tecnica, contro un nemico. Il karate delle origini
eredita dal kempo cinese la ricerca
del ki, comune ad altre esperienze
orientali, marziali e no. Il duro allenamento di Okinawa e di certi dojo giapponesi e (pochi) occidentali
aumenta nei praticanti il ki, forza
spirituale che però resta mimetizzata sotto la forza fisica, enfatizzata dal
karate. Anche l’aikido si muove nella stessa direzione, con esiti più sottili e
profondi (Ueshiba, il fondatore di quell’arte, da vecchio, senza piu allenarsi,
proiettava chiunque: ormai egli era
l’aikido); così pure il kendo e lo Iai. Certi stili di lotta cinese
portano, in modo lento ma sicuro, allo stesso risultato: il dominio della
propria energia interna ed il suo uso per fini personali o altruistici. Lo yoga
indiano e tibetano con un’altra terminologia si muovono nella stessa direzione.
CHE COSA CERCARE OGGI NEL KARATE?
Ciascuno si
accosta al karate con motivazioni proprie. La maggior parte di coloro che si
iscrivono ad un corso cerca un’efficace difesa personale e scopre qualcosa di
meno (nella maggior parte dei casi) o di più (qualche volta, incontrando
maestri come Kase, Kanazawa, Shirai, Tokitsu, Montanari, Fugazza ed altri che
non cito solo perché non li conosco personalmente). Poi gli anni passano e varcato
più o meno felicemente il traguardo della cinquantina, per chi, come me, non è
in nessun senso un “professionista” del karate coinvolto nella gestione di un
organismo federale, il centro di interesse si sposta naturalmente sugli aspetti
meno “fisici” dell’arte.
ASPETTI PSICOLOGICI DEL KARATE.
L’approccio alle
arti marziali e alle discipline da combattimento nasce spesso dall’insicurezza,
che può essere dovuta a cause fisiche (debolezza...) o psichiche (cosiddetto
complesso di inferiorità). Inoltre ci può essere una forte carica di
aggressività nei confronti degli altri: si vuole diventare più potenti degli
altri. L’uno e l’altro atteggiamento sono collegati e denotano mancanza di
equilibrio nella personalità dell’allievo. Come influisce la pratica del karate
su questo atteggiamento psicologico?
·
Può
rafforzare l’aggressività dandole un supporto reale. La pratica del controllo,
il rapporto coi compagni hanno l’effetto di attenuare questa carica; ma individui
gravemente nevrotici sanno frenarsi in palestra per poi scatenarsi fuori.
L’insegnante deve vigilare su questo aspetto della pratica.
·
Il
karate può invece riequilibrare il soggetto dandogli calma, fiducia in se
stesso, eliminando o almeno alleviando la sua insicurezza. In generale il
soggetto aumenta il controllo della proprie reazioni (un obbiettivo chiaramente
proposto dal dojokkun: Kekki no yu o imashimuru koto)
rafforzando l’io.
·
Fondamentale
è il rapporto col maestro: secondo la teoria freudiana si sviluppa un transfert positivo o negativo. Il Maestro
viene visto come modello, identificato con la figura del padre (buono o
autoritario). In alcuni casi si può parlare di plagio. In realtà il transfert è
necessario per permettere all’allievo di superare certe resistenze alla fatica
e all’impegno, ma va tenuto sotto controllo da parte di tutti e due.
·
In
termini psicodinamici si può parlare anche di sublimazione. Le cariche aggressive di diversa origine
(frustrazioni affettive, scolastiche, professionali) si mutano in atteggiamenti
di grandezza spirituale, disinteresse, ecc.
·
Compito
dell’insegnante è di non creare allievi nevrotici e complessati ma di far sì
che la pratica del karate abbia funzione equilibratrice. Si richiedono pertanto
conoscenze psicologiche da parte degli istruttori che non devono mai incoraggiare
a fini agonistici l’aggressività degli allievi né mantenerli in uno stato di
perpetua dipendenza, ma abituare gli allievi a valutare serenamente i propri
mezzi e aiutarli a “crescere”.
ASPETTI MORALI DEL KARATE.
Si tratta di un
terreno spinoso: sarebbe facile (e altri l’hanno già fatto...) limitarsi a commentare
il Dojokkun e il Nijukkun come dei testi sacri
e darli per scontati. Bisogna invece capirli e vedere in che senso far
propri i principi del perfezionamento, della giustizia, della perseveranza, del
rispetto degli altri e dell’autocontrollo.
Rileggendo quelle
25 massime (possibilmente in una traduzione italiana attendibile) saltano agli
occhi alcuni aspetti fondamentali: il rapporto con gli altri, il proprio sforzo
verso un fine, un canone di giustizia presentato come oggettivo.
Il Mº Nishiyama
ha parlato di “vita pulita”, non come fine ma come mezzo per la stabilità
emotiva. Questo è importante: il karate non è un sistema morale o una religione,
e le norma che dà in questo senso hanno il fine di garantire la serenità al
praticante. Questi perciò si accorderà con quanto si sente in diritto e in
dovere di fare, con un’elasticità anche abbastanza notevole. Un cattolico
interpreterà i dettami della sua coscienza diversamente da un marxista, e il
karate non interferirà. Solo laddove le convinzioni personali si interesechino
con la sfera altrui, ci si adeguerà alla massima della tolleranza e del
reciproco rispetto.
Il ruolo del
maestro, che è un po’ più avanti nella comprensione del significato morale del
karate, è di intervenire nel caso di dubbio insegnando la via per lui giusta (Shihan = bussola).
Alcune abitudini
che l’esperienza prova dannose per il fisico o per la concentrazione sono
proibite nell’ambito del dojo, come il bere alcolici e il fumare. Anche il dojokkun e il nijukkun vanno storicizzati e riferiti all’ambito in cui sono nati
e alla società in cui si sono sviluppati.
Il codice del
karate si tramanda piuttosto oralmente, più con l’esempio che con la teoria. La
pratica del karate si accompagna a un certo rituale, che va conservato perché è
la forma per quel contenuto.
ASPETTI FILOSOFICI DEL KARATE.
Il karate non è
una filosofia. È una disciplina fisica e mentale che ha un’origine ibrida, frutto
di tre influenze almeno: quella cinese (ki
e zen), quella di Okinawa (con pochi
risvolti teorici) e quella giapponese (con aggancio alla mentalità del Budo).
Il karate ha dei legami con tutto questo e ciò suggerisce di studiarne le fonti
vicine e lontane per quanto possono dare al nostro spirito.
Tentare una
sintesi è assurdo perché ciascuna di quelle esperienze filosofiche rifugge
dalla sistematicità: figurarsi tutte quante insieme.
Come conciliare
la “filosofia del karate” (tra virgolette) con una visione del mondo, poniamo,
cristiana o marxista? Credo sia un quesito individuale. A me non ha mai dato
nessun problema. Il Budo regolamenta
soprattutto i rapporti tra l’individuo e se stesso e tra individuo e individuo:
non abbraccia una dottrina politica, non vuole uno stato più che un altro. C’è
senz’altro un grande attaccamento al proprio paese e alle proprie tradizioni, e
uno spirito aristocratico; c’è un sentimento cavalleresco nei confronti dei
deboli e dei diseredati.
Il rapporto con
le donne è ambivalente: da un lato protezione (vedi cavalleria medievale),
dall’altro però rivalutazione di un loro ruolo preciso di protagoniste (sia in
Cina che ad Okinawa che in Giappone: in quest’ultimo paese tuttavia è presente
una forte carica conservatrice, nel senso migliore e peggiore del termine).
La teoria del ki, infine, non è né religiosa né
antireligiosa: il ki finisce con la
vita, ma questo non esclude qualche forma di sopravvivenza. Il Buddismo invece
crede nella reincarnazione. La scienza occidentale ammette l’esistenza
dell’energia psichica e mentale, senza alcuna implicazione metafisica, e
questa, per quel che può valere, è anche la mia posizione personale.
UNA PRATICA DA RACCOMANDARE A TUTTI : LA MEDITAZIONE.
Cercare il vuoto
mentale perché la mente sia uno specchio dell’universo è lo scopo del buddismo
zen (se pure è corretto affermare che si prefigga una scopo...) e, come tutti i praticanti sanno, karate significa appunto, oltre che
“mani nude”, anche “mente vuota”.
Per i non
buddisti e i non religiosi ciò che conta è la tecnica dello Zen, che cerca la calma interiore attraverso il
controllo del respiro. Lo zen è una
pratica semplicissima e difficilissima al tempo stesso, da consigliare a tutti
i praticanti di arti marziali. I suoi risultati si vedono con gli anni.
La via
occidentale è come al solito più sistematica, e parte dalla scoperta delle onde
cerebrali e dalla programmazione delle stesse. “Trasmettendo” su una certa
lunghezza d’onda (alpha, da 8 a 12
hertz) inferiore a quella della veglia attiva, ma più rapida di quella del
sonno, la mente umana è più disponibile alla creatività, all’apertura, al
miglioramento, alla ricezione di messaggi positivi. La ricerca del livello
“alpha” permette il perfezionamento di noi stessi, il superamento dei problemi,
la conquista degli obiettivi che ci prefiggiamo. Il tutto con delle tecniche
graduate che, una volta apprese, si possono praticare da soli. Varie scuole di
“dinamica mentale” o sigle concorrenti da decenni reclutano adepti (o clienti)
nei dojo occidentali.
Personalmente
ritengo che la ricerca dell’interiorità vada perseguita non iscrivendosi a corsi
o stage ma in solitudine, con il conforto di una guida o di un praticante più
avanti di noi su questa strada.
UNA CONCLUSIONE.
L’universitario
barbuto e arrabbiato che nel settembre 1971 varcò per la prima volta la soglia
della palestra di via Bezzecca non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi, 34
anni dopo, intento a cercare un senso complessivo alla propria esperienza. Eppure
essere qui ancora a parlarne significa (scusate la banalità) che il Mº
Funakoshi aveva proprio ragione: karate no shugyo wa issho de aru, il karate è
regola per tutta la vita.
Sergio
Roedner
roedner@yahoo.it