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Note inattuali a margini della gara di Treviso

 

di Sergio Roedner

 

Una premessa doverosa: sono stato arbitro nazionale di kata e kumite più di vent’anni fa, all’epoca della prima unificazione tra Fesika e FIK, dopodiché una crisi di rigetto nei confronti dell’agonismo mi ha tenuto lontano dai tatami di gara per parecchio tempo. La gara di Treviso mi è molto piaciuta per la sua vivacità e mi ha suggerito alcune riflessioni che vorrei condividere coi lettori di Samurai. Mi scuso in anticipo con gli addetti ai lavori se le mie osservazioni non terranno in debito conto le sottigliezze tecniche dell’arbitraggio.

·        Una prima considerazione riguarda le regole del gioco: negli anni ’80 come adesso, gli atleti dello shotokan italiano si caratterizzano per la ricerca dell’esecuzione “pulita” della tecnica e della massima potenza, condizioni del resto indispensabili nell’ ITKF per ottenere un wazari. È il concetto di todome o colpo risolutivo, sul quale tanto ha insistito il Maestro Nishiyama per differenziare il karate tradizionale da quello sportivo. Questo perfezionismo purtroppo li ha spesso penalizzati in gare dove i criteri per l’attribuzione dei punti sono più elastici: ai miei tempi contro gli agonisti dei gruppi sportivi dell’Esercito ed i loro (per noi scandalosi) uraken volanti, oggi contro i giovani atleti JKA dell’università di Komazawa allenati dal Maestro Oishi (tanto bravo quanto modesto), più leggeri e più imprecisi ma più veloci e imprevedibili dei nostri. È molto difficile allenarsi contemporaneamente per due tipi diversi di competizione, e difatti ai tempi della Fikda/Fikteda esistevano due nazionali, una per le gare UEK e una per quelle EAKF. Attualmente ragioni di budget e il carattere eclettico degli agonisti Fikta (che gareggiano nel kata, nel kumite, nell’embu, nel fukugo) rendono forse improponibile questa soluzione.

·        La seconda considerazione ha carattere tattico: nella gara di tipo “shobu ippon” subire il primo wazari è quasi fatale e saper combattere d’incontro per arginare l’aggressività dell’avversario (gli universitari giapponesi visti a treviso ne avevano da vendere!) o per mantenere il vantaggio acquisito fa parte del bagaglio indispensabile di ogni agonista. Qualcuno dei nostri ragazzi non era impostato per farlo, non certo per mancanza di decisione o di perizia tecnica.

·        Considerazione numero tre: il fattore “A”, come arbitri. Quelli italiani visti all’opera a Treviso costituiscono innegabilmente il meglio dello staff arbitrale della Fikta. Ex agonisti o maestri di validi atleti, si sono guadagnati e conservati la qualifica con anni di duro lavoro e di continuo aggiornamento. Anche se non li conoscessi tutti personalmente da almeno un decennio, lo dedurrei dal rigore col quale il maestro Shirai cura questo settore così delicato della federazione. Non è quindi colpa loro se a Treviso, in occasione di Italia-Giappone, raramente si sono viste alzare quattro, o anche solo tre bandierine dello stesso colore, rendendo così ancora più arduo il compito dell’arbitro centrale. Fatta salva la condizione di mienai (quando il giudice di sedia è ‘coperto’ dall’arbitro centrale o l’allineamento dei due combattenti gli permette di vedere solo la tecnica di uno dei due), tanta disparità di giudizio, soprattutto rispetto ai colleghi giapponesi, non può che sottintendere criteri diversi di attribuzione del punto, che dovrebbero far riflettere soprattutto quando si organizzano gare col regolamento JKA.

·        Considerazione numero quattro: in tale situazione di disaccordo, l’arbitro centrale ha raramente deciso in modo autonomo (ricordo solo un wazari assegnato dal maestro Basso), preferendo ricorrere ‘democraticamente’ al toremasen o all’aiuchi (salomonico ma statisticamente piuttosto raro). Eppure talvolta è lui e solo lui a trovarsi nella posizione ideale per valutare sincronismo, corretta distanza e controllo. È curioso il contrasto con quanto accade nel jiyu-ippon kumite made in Fikta, dove l’arbitro centrale può assegnare autocraticamente i punti.

·        Considerazione numero cinque: vanno riconosciuti ai nostri direttori di gara assoluta buona fede e grande fair play (qualcuno direbbe un po’ troppo) per cui molti punti controversi sono stati infine assegnati agli ospiti. Non si può dire che i colleghi nipponici abbiano ricambiato la cortesia, anche se bisogna riconoscere che nessuno di loro ha mai arbitrato al centro.

·        Considerazione numero sei: come piace ai puristi (incluso il sottoscritto) i combattimenti si sono svolti senza guantoni o paranocche. Peccato che gli incidenti siano stati piuttosto frequenti anche se non particolarmente gravi, comunque sempre tempestivamente sanzionati con penalità o addirittura con la squalifica. Dato che a toccare, di calcio e di pugno, sono stati soprattutto i nipponici, c’è da chiedersi se siano ancora abituati a combattere senza protezioni. In Italia siamo  abituati al controllo assoluto dei colpi e non posso che esprimere tutto il mio rispetto e la mia stima ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze, che hanno affrontato a viso aperto i loro focosi e spesso maneschi avversari. Alcuni di loro, soprattutto nella selezione veneta, hanno a parer mio le carte in regola per ribaltare il risultato in un prossimo futuro.