“Kekki no
yu wo imashimuru koto”
di Sergio Roedner
La curiosità
degli allievi e la vanità degli istruttori spesso alimentano quelle leggende
metropolitane che fanno delle arti marziali altrettante discipline esoteriche,
avvolte in un alone di mistero in cui prosperano, accanto a
onesti professionisti (e dilettanti), ciarlatani e millantatori. Per fortuna
poi ci pensano spassose pellicole dissacratrici come Kung fu soccer o la fortunata serie di Jackie
Chan a sdrammatizzare il nostro mondo riportandoci coi piedi per terra.
La “madre di tutte le domande” che ci siamo sentiti fare centinaia di volte
in occasione della “pizza societaria” o negli spogliatoi è naturalmente:
“Maestro, ma le è mai capitato di mettere in pratica il karate?”. Lì per lì non sai bene se il
sottinteso sia “Ma tutti quegli ageuke e quegli shutouke
serviranno poi a qualcosa?” o se invece il principiante curioso cerca dalle tue
labbra una conferma di quell’invincibilità impossibile che va cercando per tamponare
le sue insicurezze. Io di solito rispondo in modo un po’ “zen” raccontando (in attesa della pizza) due storielle vere, e lasciando che
sia il neofita a trarne le conclusioni.
STORIELLA Nº1 OVVERO: LA FORTUNA DEL PRINCIPIANTE.
“Una sera di
marzo di molti anni fa, un mio caro, vecchio amico se ne andava
spensieratamente a spasso per le vie di Milano, naso all’aria e mani in tasca.
Tornava da una visita alla fidanzata, che abitava nei pressi della Fiera
Campionaria, e per arrivare a casa avrebbe dovuto
compiere mezzo giro della Fiera. La primavera era nell’aria, la serata tiepida
e il mio amico esultante. Aveva in tasca, ancora fresca d’inchiostro, la
tessera della federazione, sulla quale il grande
maestro giapponese aveva, quel pomeriggio, al termine di un duro e stressante
esame, apposto la sua firma corrispondenza della casella “Cintura marrone:
terzo kyu”. Il suo primo pensiero era stato quello di
correre a casa della sua anima gemella e
mostrarle, orgoglioso, quella tessera e quella firma.
Ora se ne tornava a casa, centellinando quei minuti di serenità, quella bella
passeggiata primaverile, i viali intorno alla fiera, deserti e silenziosi.
In piazza Giulio Cesare, dove in tempo di fiera funzionava una
grande fontana, vide qualcosa che non andava. Intuì una zuffa, della gente che
correva. Vide due ragazzi insanguinati che scappavano, cadevano, venivano pestati con spranghe, calci e pugni,.
Invece di
proseguire per la sua strada, il mio amico affrettò il passo verso la scena
della rissa. Anzitutto per curiosità, e per spirito bellicoso. Poi perché aveva
visto tanta gente accanirsi contro due persone isolate, e una voce dentro di
lui gli diceva che se non faceva qualcosa era un vigliacco. Un’altra voce gli
ripeteva invece di proseguire per la sua strada, di lasciar perdere, di non
cercare di mettere a frutto le sue ancora limitate conoscenze di lotta in una
situazione simile. Funakoshi gli sussurrava nelle orecchie: “Il karate non è
mezzo per arrecare danno al prossimo: e se poi ti menano, oltre a violare i
sacri principi, ci fai anche la figura del fesso!”.
Tutte queste riflessioni nello spazio e nel tempo necessari per percorrere
una decina di metri.
Poi sentì la propria voce, alterata dall’emozione, esclamare:
“Ehi, ma cosa
fate?!”
Tre persone si
staccano dall’orda e corrono verso di lui con delle chiavi inglesi in mano, e
lui non ha più il tempo di capire da che parte stanno, di che colore sono, cosa
vogliono da lui. Si gira e scappa! La neo-cintura marrone della Fesika si gira e scappa. Poi, forse memore dello scontro
tra Orazi e Curiazi, si ferma e sferra un gyakuzuki destro con tutta la sua
forza al primo inseguitore. Lo colpisce sulla bocca, si taglia la mano e gli
tira giù due denti. Quello vacilla e cade. Il mio amico è senza fiato e ha la
vista annebbiata. Il secondo assalitore vibra due fendenti con un’enorme chiave
inglese, il primo è sulla spalla mancando di un soffio la testa, il secondo va
a vuoto, e lui riesce a rientrare di kin-geri, calcio diretto all’inguine. L’altro apre la bocca
per dire qualcosa ma gli manca il fiato e si inginocchia
sull’asfalto.
Il terzo aggressore
è fermo, spaventato e furioso, con una sbarra in mano. Il karateka è pesto,
dolorante, ansimante e vede rosso. Si lancia lui in avanti questa volta, e intravvede
troppo tardi la spranga che gli cala addosso dall’alto, per
cui è costretto a pararla proprio con il classico ageuke, e si rompe l’ulna e il
radio. L’altra mano però afferra il bastonatore alla gola e non lo molla
neanche quando quello sbianca, strabuzza gli occhi, annaspa...
Li divisero i
poliziotti di una pattuglia. Il mio amico finì in questura con gli aggressori;
occorsero parecchio tempo e l’aiuto di un avvocato per ristabilire la verità...
ne valeva la pena?”
STORIELLINA Nº2 OVVERO: MAI FARSI GIUSTIZIA DA
SOLI!
“Passarono gli
anni e quel mio amico generoso, impulsivo e fortunato aveva faticosamente
conquistato la cintura nera e la qualifica di istruttore.
Ora insegnava part-time in un locale
fatiscente in zona Corvetto, ad un gruppo di adolescenti ammaliati da Bruce Lee. Le siringhe sporche di sangue che ogni tanto trovava
nel cortile del palazzo testimoniavano il dramma di
una generazione che annaspava tra eroina ed estremismo, due modi diversi di
esprimere la propria disperazione.
Uno dei suoi
allievi proveniva però da un ceto sociale ben differente: il mio amico lo aveva
capito dalla ricercatezza nel vestire, dai modi un po’ snob, dal freddo e
ironico distacco che ostentava nei confronti dei compagni di allenamento.
Un distacco che però, nella pratica del combattimento libero, si trasformava in
aggressività, se non proprio in aperta aggressione: tocca oggi, tocca domani,
non c’era quasi nessuno nel corso avanzato che non mostrasse
in volto il “timbro” di un colpo poco controllato.
Il neo-istruttore
a sua volta frequentava una scuola di karate nella quale era il maestro ad
assumersi il ruolo di “educatore” e di “vendicatore” dei più deboli, e pertanto,
fedele al suo sanguigno modello, non esitò un attimo ad invitare il manesco ad
un combattimento con lui. Non si trattò di un pestaggio ma, così almeno la
considerò il mio amico, di una “lezione di vita” sigillata da un mawashigeri
sull’orecchio, seguito da una spazzata e da un kizamizuki finale che impresse
sul labbro inferiore della vittima un timbro del tutto simile a quello con il
quale egli aveva l’abitudine di firmare i propri kumite.
Finito il tutto, privo
di dubbi sulla legittimità e sulla moralità del proprio operato,
il mio amico aiutò l’allievo a rialzarsi e lo riaccompagnò nello spogliatoio.
Pensava e forse si augurava che il picchiatore picchiato non avrebbe più
rimesso piede nella sua palestra; quello che proprio non si aspettava è di
ricevere sue notizie, parecchi mesi dopo, tramite un atto giudiziario.
Il pretore
davanti al quale si presentò confuso e preoccupato, lo informò gelidamente che
l’ex-allievo aveva sporto querela contro di lui per lesioni volontarie ed
omissione di soccorso e lo consigliò di arrivare ad una definizione amichevole
della vertenza prima di arrivare in giudizio.
Morale: la ‘soddisfazione’ e la ‘punizione’
gli costarono trecentomila lire di allora, forse 3000
euro attuali, e gli insegnarono, una volta per tutte, la saggezza dell’ultima
regola del Dojokkun: “Il karate è via per acquisire
l’autocontrollo”. Una dote conquistata con una certa fatica ma che ora può
affermare con ragionevole certezza di aver fatta sua una
volta per tutte”.
A questo punto
del racconto le pizze di tutti si saranno raffreddate e i commensali avranno
perso un po’ di entusiasmo, ma è secondo me opportuno
e urgente che sostituiscano nel proprio immaginario le fantasticherie eroiche
di duelli rusticani o urbani con la prosaica realtà di un’aula di tribunale, di
un lungo iter giudiziario nel quale spesso si può passare (se già non lo si è
in partenza) dalla parte del torto. I tempi della legge del taglione sono
passati e bisogna proprio augurarsi di non dover mai mettere in pratica ciò che
si è appreso, consolandosi col pensiero che in giapponese la parola Budo è rappresentata da un ideogramma
nel quale due alabarde si incrociano neutralizzandosi
a vicenda. Il senso è inequivocabile: fermare la violenza.