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Hito Kata Sanen

 

di Sergio Roedner

 

“I kata sono gli esercizi classici del karate. Sono stati tramandati fin dalle origini cinesi di quest’arte, alcuni secoli fa, da maestri che volta per volta vi introducevano anche nuove forme. Alcune di queste sono state sviluppate molto recentemente e sono a tutt’oggi circa 50 (...) Il kata ha due impieghi basilari: plasmare il corpo, che comprende il rafforzamento dei muscoli e l’indurimento delle ossa, e allenare i riflessi...” Così suona l’introduzione del maestro Nakayama alla serie sui kata Heian, pubblicata dalla Kodansha di Tokyo e tradotta in italiano per le edizioni Mediterranee. Questa è, a grandi linee, la concezione dei kata che siamo abituati a sentire e trasmettere nelle nostre palestre: una versione chiara e accettabile che, però, ha il difetto di appiattire la prospettiva storica, di accomunare in un’illusoria continuità il passato e il presente senza permetterci di coglierne le differenze e di valutarne le ragioni.

Per comprendere l’origine e la ragion d’essere dei kata, dobbiamo anzitutto renderci conto che la moderna tripartizione dell’insegnamento del karate: kihon – kumite – kata, non esisteva prima della sistematizzazione operata soprattutto dallo shotokan dopo il trasferimento dell’arte marziale da Okinawa in Giappone. In altri stili come lo Shoreikan o Goju-ryu di Okinawa tale divisione è molto meno netta e si chiamano kata anche degli esercizi che nello shotokan farebbero parte dei fondamentali. In realtà, il kihon è estrapolato dalla sequenza dei kata nello stesso modo in cui gli Heian (o per meglio dire i Pinan) nascono da kata più antichi come Kushanku: la pratica decennale ha dimostrato che ripetere cinque o dieci volte avanti e indietro la sequenza ageukegyakuzuki permette un più rapido apprendimento della stessa che l’esecuzione ripetuta di Jion: di qui l’evoluzione. D’altra parte, non è lo stesso procedimento per cui, studiando ad esempio Gojushiho-sho, il maestro Kase ci faceva ripetere una ventina di volte la sequenza kakuto-uke seiryuto-uchi? Tutto sta a indicare che, prima dell’evoluzione attuale, la totalità dell’insegnamento tecnico era affidata ai kata, ma che questi venivano studiati diversamente da oggi, in modo da supplire a quegli aspetti dell’arte che oggi si allenano nel kumite e nel kihon. Funakoshi, nel suo Karate-do Kyohan, ci dice qualcosa, ma non molto, a riguardo: “in passato, ci si aspettava che fossero necessari circa tre anni per apprendere un singolo kata ed era comune che anche un esperto di considerevole abilità conoscesse soltanto tre o al massimo cinque kata. A farla breve cioè si pensava che una conoscenza superficiale di molti kata fosse poco utile (...) Anch’io ho studiato dieci anni per imparare realmente i tre kata Tekki. Tuttavia, poiché ogni forma ha i suoi vantaggi particolari e poiché si possono ricavare dei benefici anche dalla conoscenza di un’ampia scelta di forme, si potrebbe riesaminare criticamente la pratica di ricevere un’istruzione approfondita in pochissimi kata. Mentre la gente un tempo faceva studi profondi in un campo limitato, la gente oggi studia un vasto campo senza approfondirlo (...) È meglio seguire la via di mezzo. Per questa ragione mi è piaciuto il metodo di insegnare agli studenti, appena hanno una buona conoscenza di un kata, quello che segue, fino al quinto Heian o al terzo Tekki, e poi di ritornare al primo per rinnovarne la pratica. Una volta che una forma è stata appresa, deve essere praticata ripetutamente finchè non possa essere applicata in un’emergenza, poiché conoscere solo la sequenza di un kata nel karate è inutile”.

Questa lunga citazione ci mostra che, se da un lato fu proprio Funakoshi a incoraggiare il passaggio dall’antica formula Hito kata sannen (un kata in tre anni) al metodo attuale, più “vario” e commerciabile, in cui gli allievi vanno a “caccia” di kata “rari” passando da uno stage all’altro in cerca dei “pezzi mancanti” della loro collezione, dall’altra però l’autore dà per scontato che per “buona conoscenza” non si intenda il meritare un “7.3” ai campionati regionali, ma l’essere in grado di applicare soddisfacentemente Heian godan in caso di aggressione per strada.

Come avveniva, dunque, lo studio di quei tre kata che dovevano bastare al praticante medio per tutta una vita di allenamento?

Sempre Funakoshi in Karate-do my way of life ci riferisce dei suoi allenamenti con Azato: “Nel cortile della casa degli Azato, mentre il maestro mi guardava, io allenavo un kata settimana dopo settimana, talvolta mese dopo mese, finché il mio maestro non fosse stato contento della mia esecuzione. Questa costante ripetizione di un solo kata era snervante, spesso esasperante e talvolta umiliante. Più di una volta dovetti mordere la polvere sul pavimento del dojo o nel cortile (...) Dopo aver eseguito un kata, aspettavo il suo giudizio verbale. Era sempre conciso. Se rimaneva insoddisfatto della mia tecnica, mormorava: “Fallo ancora” o “Ancora un po’ ”. Ancora un po’, ancora un po’, così spesso ancora un po’, finché il sudore scorreva e io stavo per crollare; era il suo modo dirmi che c’era ancora qualcosa da imparare. Poi, se trovava soddisfacente il mio progresso, il suo verdetto era espresso in una singola parola, “Bene!”. Quell’unica parola era la sua lode più alta”.

L’apprendimento del kata era seguito dallo studio del suo bunkai, o applicazione pratica, che si faceva in coppia, ed era uno dei modi di allora per avvicinarsi il più realisticamente possibile a un combattimento reale (erano ancora da venire il gohon kumite, il kihon ippon, il jiyu ippon kumite, per non parlare del combattimento libero con controllo del colpo, della cui si invenzione molti maestri si contendono oggi la “gloria”). È una pratica ancora viva oggi nel goju ryu, ma in via di abbandono nel nostro stile, almeno fino a quando, alcuni anni or sono, il Maestro Shirai non vi ha dedicato tutta la sua attenzione ed esperienza, codificandola in varie forme ed inserendola nella pratica di allenamento e  nelle competizioni. Prima di questo prezioso lavoro di riscoperta del bunkai da parte del caposcuola dello Shotokan in Italia, chi applicava il kata lo faceva spesso in modo superficiale e scolastico, cadendo in quella che il maestro Tokitzu giustamente chiama “giustificazione” delle tecniche invece che studio e comprensione dei loro spesso numerosi significati. Questo accade, dice Tokitzu, “perché essi lavorano sulle tecniche contemporanee dei kata senza discuterle e riportarle addietro alla loro formazione storica. Ora (...) questi kata hanno subito delle trasformazioni che impediscono loro di essere chiari.”

La “poca chiarezza” (o illusoria semplicità) degli Heian dello stile shotokan ad esempio dipende dalla tendenza di questo stile a rendere più ampie le tecniche per aumentane l’efficacia e per trasformare il karate stesso in una ginnastica adatta ad essere insegnata nelle scuole e diffusa ampiamente. Una tecnica “piccola” come una parata ageuke accompagnata da un colpo col martello della mano opposta ai genitali dell’avversario è diventata nella versione attuale un improbabile uchiuke jodan e contemporaneo gedanbarai (vedi Kankudai) e come tale veniva fino a pochi anni fa spiegato e applicato. Risalire dalla forma attuale al significato originario è un lavoro che pochissimi maestri possono oggi sperare di compiere: a Tokitzu va attribuito il merito di aver aperto da pioniere una strada sulla quale oggi tanto è avanzato il Maestro Shirai.

Una volta ogni tecnica del kata veniva applicata a destra e a sinistra, avanti e indietro, e se ne studiavano diverse interpretazioni: juji-uke nel 4º e nel 5º heian, ad esempio, poteva essere sì una parata, ma anche una leva, una presa...

Come ci sono giunti oggi, i kata, specie quelli shotokan e wado-ryu, rappresentano ancora, se vogliamo, un “combattimento immaginario”, ma in versione “bigino”, e per di più contengono materiale che viene giudicato poco pratico e “datato”.

Mentre i tao del kung-fu contengono l’intera sequenza delle difese e dei contrattacchi (tanto da dar l’impressione, a un osservatore anche profano, di mimare un vero e proprio combattimento) nei kata di karate spesso i contrattacchi sono “sottintesi”, le difese ripetute geometricamente, e sono stati aggiunti passaggi di collegamento tra una sequenza e l’altra. È quindi lodevole lo sforzo di quei maestri che, come Shirai e Tokitzu, si sforzano di riportare i kata ai loro significati originari.

La differenza sostanziale tra allora e adesso è e resta comunque che a Okinawa “il kata non era destinato a essere visto ma era una ricerca di efficacia in combattimento”. L’aspetto incompleto o “ambiguo” di molti kata dipende anche dal fatto che certe tecniche erano gelosamente custodite e tramandate solo ai discepoli più fidati. Non bisogna dimenticare che la pratica delle arti marziali nelle isole Ryukyu è stata a lungo clandestina e soggetta a divieti da parte dell’autorità cinese prima e giapponese poi. Nilla di strano che elementi esoterici e settari persistessero a lungo nell’insegnamento del karate, e che tecniche di attacco e di difesa si trovino, mascherati, anche nella danza tradizionale di Okinawa.

Studiando oggi i kata, dobbiamo renderci conto che i maestri e i compagni di Funakoshi  si servivano realmente, per difendersi e per offendere, di quei gedanbarai, di quegli oizuki, di quei tetsuiuchi e di quegli shutouke. Un tale baratro si è aperto oggi tra il karate come goshin (difesa personale) e il combattimento sportivo (specie quello targato Fijlkam) che è quasi comprensibile lo scetticismo di quegli agonisti di oggi che considerano i kata come “cineserie”, lui ignorano o li sopportano con stoicismo per compiacere il maestro, o li allenano coscienziosamente per rispetto alla tradizione. Ma mai e poi mai si sottoporrebbero alla snervante routine necessaria a rinforzare le dita delle mani o dei piedi per colpire di nukite (Heian 2, 3) di ippon nukite (Unsu) o calciare con le dita dei piedi (tsumasaki) come faceva comunemente il Maestro Kase. D’altra parte gli specialisti del kata (almeno fino a pochi anni fa) ne perseguivano la perfezione formale rassegnati a scordarne l’efficacia, al solo fine di eseguirli in gara.

Se è impossibile far rivivere oggi la necessità storica che fece dei kata un veicolo di trasmissione gestuale con un contenuto di efficacia immediata, è però doveroso cercare oggi, con l’aiuto dei pochissimi esperti disponibili in Europa, una comprensione più ampia dei kata che pratichiamo da anni, forse illudendoci soltanto di conoscerli.

 

Bibliografia essenziale: G. Funakoshi, Karate-do Kyohan; idem, Karate-do my way of life; Haines, Karate’s History and Tradition, S.Tokuchi, Okinawan Goju-ryu; R. Kim, The weaponless Warriors; K. Tokitzu, La voie du Karate; idem, Gli stili: l’illusione della verità; M. Nakayama, Heian 1-Tekki 1.