Il Nutrimento degli Dei

 

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IL NUTRIMENTO DEGLI DEI

Brani scelti

Introduzione: Un manifesto per il nuovo pensiero sulle droghe

Uno spettro si aggira nella cultura planetaria è lo spettro della droga. Sembra sul punto di scomparire nel nulla quella definizione della dignità umana che fu creata dal Rinascimento e che era diventata cardine della moderna civiltà occidentale. I media principali ci informano con tutto il clamore possibile che la propensità umana verso il comportamento ossessivo e verso da dipendenza ha combinato un matrimonio satanico con la farmacologia moderna, con il marketing e con i trasporti ad alta velocità. Esistono forme di uso di sostanze chimiche che, in precedenza ignote o quasi, ora si fanno concorrenza tra di loro in un mercato mondiale in larga parte non regolamentato. Nel Terzo mondo governi e nazioni intere sono caduti sotto il controllo di prodotti, legali e illegali, atti a provocare comportamenti ossessivi. Questa situazione non è certo nuova, ma sta peggiorando. Fino a tempi abbastanza recenti i cartelli internazionali degli stupefacenti erano creature ubbidienti al servizio dei governi e dei servizi segreti, che li avevano creati nella loro ricerca di fonti «invisibili» di fondi con i quali essi potessero finanziare il loro particolare tipo istituzionalizzato di comportamento ossessivo. Oggi questi cartelli della droga si sono evoluti, grazie all’aumento senza precedenti dell’uso di cocaina, in elefanti pazzi il cui potere comincia a mettere a disagio anche i loro stessi creatori. Abbiamo continuamente davanti ai nostri occhi il triste spettacolo delle «guerre della droga» condotte da istituzioni governative le quali sono solitamente letargiche e inefficienti fino alla paralisi totale, o che sono trasparentemente in combutta con gli stessi cartelli della droga internazionali che pubblicamente si erano impegnate a distruggere. Non sarà possibile gettare alcuna luce su questa epidemia universale di uso e di abuso di droghe se non intraprenderemo una nuova e spietata valutazione della situazione attuale, nonché un esame di alcune modalità antiche e quasi dimenticate, di esperienze e di comportamenti connessi alla droga. E' impossibile sopravvalutare l’importanza di questo dovere, perché l’auto-somministrazione di sostanze psicoattive, legali o illegali che siano, è destinata, in modo evidente, a ricoprire un ruolo sempre più importante nel dispiegarsi futuro della cultura globale.


Un doloroso riesame

Un qualsiasi riesame del nostro uso delle sostanze non può che partire dal concetto di abitudine: inclinazione acquisita con la ripetizione degli stessi atti. Familiari, ripetitive e in gran parte inesplorate, le abitudini non sono altro che le cose che facciamo. «La gente - ci insegna un’antica massima - è creatura delle proprie abitudini». La cultura è in larga misura una questione di abitudini, che apprendiamo dai genitori e da chi ci sta vicino e che vengono modificate nel tempo con i cambiamenti delle condizioni e dalle innovazioni ispirate. Ciò nonostante, per quanto possano sembrare lente queste modificazioni culturali, se le confrontiamo con quella evoluzione più lenta dei ghiacciai che avviene con le specie e con gli ecosistemi, la cultura ci offre uno spettacolo di novità continue e follemente imprevedibili. Se da una parte la natura ci offre un esempio di innovazione con parsimonia, sembra senz’altro che la cultura presenti invece un principio di rinnovamento tramite gli eccessi. Quando le abitudini finiscono per consumare noi, quando la nostra devozione a esse va oltre le norme definite dalla cultura, è inevitabile definirle come ossessive; e nelle situazioni di questo tipo ci sentiamo come se quella dimensione specificamente umana della libera volontà fosse stata in qualche modo violata. Possiamo ritrovarci in una condizione di ossessione nei confronti di quasi ogni cosa: di un comportamento quale quello di leggere il giornale al mattino, di oggetti materiali (il collezionista), di terreni e di edifici (il costruttore di imperi), di potere nei confronti del popolo (il politicante). Mentre molti fra noi possono aspirare al titolo di collezionisti, sono pochi quelli che possano dare sfogo alle proprie ossessioni fino a diventare costruttori di imperi o politici. Le ossessioni della persona ordinaria tendono a focalizzarsi su ciò che c’è «qui e ora», sul regno cioè della gratificazione immediata per mezzo di sesso, alimenti e droghe. Un’ossessione nei confronti dei componenti chimici dei generi alimentari e delle droghe viene definita come assuefazione. Le assuefazioni e le ossessioni sono fenomeni riscontrabili soltanto negli esseri umani. Certo, al livello aneddotico esistono abbondanti testimonianze dell’esistenza di una predilezione per gli stati d’intossicazione tra elefanti, scimpanzé e perfino alcune specie di farfalle. Ma come avviene anche quando confrontiamo le capacità linguistiche di scimpanzé o di delfini con quelle umane, vediamo che questi comportamenti animali sono enormemente diversi da quelli umani. Abitudine, Ossessione, Assuefazione; parole che rappresentano altrettante pietre miliari lungo una via che conduce a una riduzione sempre più forte della libera volontà. E' implicito nel concetto di assuefazione il rinnegamento della libera volontà e nella nostra cultura le assuefazioni sono viste come gravi; specie quelle esotiche o poco familiari. Nel Secolo XIX l’oppiomane veniva chiamato opium fiend [indiavolato dell’oppio -N.d.T.], termine che richiamava il concetto di possessione demoniaca da parte di una forza esterna. Nel nostro secolo l’idea che il tossicodipendente sia posseduto da forze malvagie ha ceduto il posto al concetto di assuefazione come malattia, e se prendiamo come presupposto una nozione del genere, il ruolo della libera volontà si riduce fino a scomparire del tutto. Non abbiamo, in fondo, alcuna responsabilità per le malattie che possiamo ereditare o che possiamo ricevere per contagio. Oggi però la dipendenza dalle sostanze chimiche da parte degli esseri umani ha un ruolo più che mai consapevole nella costruzione e nel mantenimento dei valori culturali. A partire dalla metà del Secolo XIX e con velocità ed efficienza sempre maggiori, la chimica organica ha messo nella mani di ricercatori, di medici e in ultima analisi anche tutti gli altri, una cornucopia colma fino all’infinità di droghe sintetiche. Queste droghe sono più potenti, più efficaci e di maggiore durata di quelle naturali e in molti casi danno luogo ad assuefazioni molto più intense. (Un’eccezione è rappresentata dalla cocaina che, quando viene raffinata, concentrata e somministrata per via endovenosa, ha effetti particolarmente devastanti). La nascita di una cultura mondiale basata sulle informazioni ha reso universalmente disponibili informazioni sulle piante afrodisiache, stimolanti, sedative e psichedeliche da esseri umani curiosi in quegli angoli remoti del pianeta che in precedenza erano scollegati dalla nostra civiltà, e nello stesso momento in cui raggiungeva la civiltà occidentale questa inondazione di informazioni botaniche ed etnografiche, trapiantando nella nostra cultura le usanze di altre e offrendoci una gamma di possibilità più ampia che mai, si facevano anche enormi passi avanti nella sintesi delle molecole organiche complesse e nella comprensione dei complessi meccanismi della genetica e dell’eredità. Queste nuove comprensioni e queste nuove tecnologie portano verso una cultura nuova e molto diversa nel campo dell’ingegneria farmacologica. Le droghe progettate da designer, quali MDMA ed Ecstasy, e gli steroidi anabolizzanti usati da atleti e da adolescenti per stimolare lo sviluppo muscolare non sono che precursori di un’epoca di interventi sempre più frequenti e sempre più efficaci sul nostro modo di comportarci e di provare sentimenti. L’idea di tentare di regolamentare, su scala mondiale, prima centinaia, e poi migliaia di sostanze sintetiche di facile produzione e molto richieste, ma illegali, non può che provocare un sentimento d’orrore in chiunque speri in un futuro più aperto e meno irregimentato.



Un revival dell’Arcaico


Questo libro prende in esame la possibilità di un ritorno verso l’atteggiamento del periodo Arcaico - cioè del periodo preindustriale e pre-alfabeta - verso comunità, uso di sostanze e natura. Atteggiamento, questo, che per lungo tempo servì ai nostri antenati nomadi preistorici prima che entrasse in auge l’attuale stile culturale che chiamiamo «occidentale». L’Arcaico è riferibile al Paleolitico superiore, cioè a un periodo che risale a settemila o diecimila anni, immediatamente precedente l’invenzione e la diffusione delle tecniche dell’agricoltura. L’Arcaico fu periodo di pastori nomadi e di condivisione; una cultura fondata sull’allevamento del bestiame, sullo sciamanismo e sull’adorazione di Dee. Ho organizzato la trattazione in ordine più o meno cronologico, e sono quindi gli ultimi capitoli, più orientati al futuro, a riprendere e a rimodellare i temi arcaici delle prime pagine. L’esame intrapreso ripercorre le strade di una specie di pellegrinaggio farmacologico, e per seguire questa metafora ho intitolato le quattro sezioni del volume Paradiso, Paradiso perduto, Inferno e - spero senza eccessivo ottimismo - Paradiso riconquistato. Alla fine del libro appare fra l’altro un glossario di termini speciali. È ormai ovvio che non possiamo continuare a pensare all’uso delle droghe secondo le solite vecchie modalità di pensiero. Come società globale dobbiamo trovare una nuova immagine che guidi la nostra cultura, un’immagine che unifichi le aspirazioni dell’umanità da una parte, con le necessità del pianeta e dell’individuo, dall’altra. Un’analisi dell’incompletezza esistenziale esistente in noi, che ci spinge a entrare in rapporti di dipendenza e di assuefazione nei confronti di piante e di droghe mostra come, all’alba della storia, sia andata persa una cosa preziosa la cui assenza ci ha fatti ammalare di narcisismo. Soltanto il ricupero del rapporto con la natura che avevamo sviluppato tramite l’uso di piante psicoattive, prima di cadere dentro la storia, potrà offrirci la speranza di un futuro umano e aperto. Prima di dedicarci irrevocabilmente alla chimera di una cultura libera dalle droghe, acquistata al costo del rinnegamento totale degli ideali di una società planetaria libera e democratica, dobbiamo porci alcune domande difficili. Perché, come specie, ci affascinano tanto gli stati alterati di coscienza? Qual è stato l’impatto di questi sulle nostre aspirazioni estetiche e spirituali? Che cosa abbiamo perduto negando la legittimità di quell’impulso, presente in ogni individuo, che lo porta a servirsi di sostanze atte a condurre a un’esperienza personale del trascendentale e del sacro? Nell’offrire una risposta a queste domande spero di costringere noi tutti ad affrontare le conseguenze del rinnegamento della dimensione spirituale della natura, del vedere la natura come null’altro che una «risorsa» per cui combattere e da saccheggiare. Una discussione informata di queste questioni non sarà di conforto a chi sia ossessionato dal controllo, non darà nessuna soddisfazione ai fondamentalisti religiosi che rinnegano il sapere; nessun incoraggiamento al fascismo vestito di beige qualunque forma questo possa assumere. Il modo in cui noi, come società e come individui, ci rapportiamo con le piante psicoattive nel tardo Ventesimo secolo, conduce subito a una questione ancora più ampia: in quale modo, con il passare del tempo, siamo stati plasmati dagli effetti delle alleanze con svariati membri del Regno vegetale, che abbiamo formato e che abbiamo abbandonato mentre percorrevamo il labirinto della storia? Questa è una questione che verrà esaminata nei particolari nei vari capitoli del libro. Il mito d’origine della nostra cultura si apre nel giardino di Eden con l’uomo che mangia il frutto dell’Albero del sapere. Se non impareremo in base al nostro passato, è possibile che questo racconto termini con un pianeta avvelenato, con le sue foreste un semplice ricordo, senza più coesione biologica, con il nostro retaggio trasformato in una terra di nessuno invasa dalle erbacce. Se nei precedenti tentativi di comprendere le nostre origini e il nostro posto nella natura abbiamo trascurato qualcosa, siamo ora in grado di rivalutare e di comprendere non soltanto il nostro passato ma anche il nostro futuro in un modo interamente nuovo. Se fossimo in grado di ritornare alla perduta comprensione della natura quale mistero vivente, potremmo confidare nella possibilità di scoprire nuovi orizzonti nell’avventura culturale che certamente ci attende. Abbiamo la possibilità di allontanarci dal tenebroso nichilismo storico che contraddistingue il regno della nostra cultura profondamente patriarcale di dominatori. Siamo in una posizione atta alla riconquista dell’arcaico apprezzamento del nostro rapporto quasi simbiotico con le piante psicoattive, come fonte inesauribile di intuito e di coordinamento che scorre dal regno vegetale verso il mondo umano. Il mistero della nostra coscienza e dei nostri poteri di autoriflessione si collega in qualche modo a questo canale di comunicazione con la mente non vista che, insistono gli sciamani, è lo spirito del mondo vivente della natura. Per gli sciamani e per le culture sciamaniche, l’esplorazione di questo mistero è da sempre una credibile alternativa alla vita ristretta nei confini limitanti di una cultura materialista. Noi cittadini delle democrazie industriali possiamo scegliere di esplorare fin d’ora queste poco familiari dimensioni, così come possiamo attendere fino al momento in cui l’avanzamento della distruzione del pianeta avrà privato di ogni attinenza le ulteriori esplorazioni ancora possibili.



Un nuovo Manifesto


E' giunto quindi il momento, nel quadro di quel grande discorso naturale che è la storia delle idee, di riconsiderare a fondo il fascino che proviamo per l’utilizzo abituale delle piante psicoattive e fisioattive. Se da una parte abbiamo qualcosa da imparare dagli eccessi del passato, e in particolare da quelli degli anni Sessanta, dall’altra non possiamo fare nostro lo slogan «Basta dire di no» né più né meno di quanto possiamo propugnare quello alternativo: «Provalo, ti piacerà». Né tanto meno possiamo essere a favore di un atteggiamento che divida la società in utilizzatori e non-utilizzatori. Per affrontare queste questioni serve un approccio più esteso che comprenda anche le più profonde implicazioni evolutive e storiche. E' ancora tutta da esplorare l’influenza della dieta nell’indurre mutazioni nell’uomo arcaico, per non parlare dell’effetto dei metaboliti esotici sulla sua evoluzione, sulla sua neurochimica e sulla sua cultura. L’adozione, da parte dei primi ominidi, di una dieta onnivora, e la loro scoperta dei poteri di determinate piante, furono tra i primi fattori attivi nello spostare i primi umani fuori del sentiero dell’evoluzione animale e nel portarli invece nella veloce marea del linguaggio e della cultura. I nostri remoti antenati scoprirono che l’assunzione di determinate piante sopprime l’appetito, riduce il dolore, mette a disposizione scoppi improvvisi di energia, conferisce l’immunità contro i patogeni o sinergizza le energie cognitive. Furono queste scoperte ad avviarci nel lungo viaggio verso l’autoriflessione. Una volta che eravamo diventati onnivori e utilizzatori di utensili, l’evoluzione stessa, dall’essere un lento processo di modificazione della nostra forma fisica, divenne la rapida definizione di forme culturali tramite elaborazione di rituali, linguaggi, scrittura, abilità mnemoniche e tecnologia. Questi immensi cambiamenti ebbero luogo per lo più come risultato delle sinergie tra gli esseri umani e le diverse piante con le quali interagivano e insieme alle quali entrarono in un processo di coevoluzione. In una valutazione spassionata dell’influenza delle piante sulle fondamenta delle istituzioni umane si finirebbe per assegnare a esse una posizione di primato assoluto. In futuro, l’applicazione di soluzioni «allo stato stazionario», di ispirazione botanica, quali la crescita zero delle popolazioni, estrazione di idrogeno dall’acqua del mare, e programmi estesi di riciclaggio, potranno aiutare a riorganizzare la nostra società e il nostro pianeta secondo un tracciato neo-Arcaico, più olistico e più consapevole nei confronti dell’ambiente. La soppressione del fascino naturale che gli umani provano nei confronti degli stati alterati di coscienza presenta nessi intimi e causali con l’attuale situazione di pericolo in cui versa tutta la vita sul pianeta Terra. Quando sopprimiamo l’accesso all’estasi dello sciamano, chiudiamo il flusso delle acque rinfrescanti delle emozioni che nascono dal fatto di vivere in un rapporto di legame profondo e quasi simbiotico con la Terra stessa. Ne consegue che gli stili sociali di adattamento negativo che incoraggiano il sovrappopolamento, la gestione errata delle risorse e l’avvelenamento dell’ambiente, danno impulso al loro proprio sviluppo e si autoperpetuano. Nessuna cultura su tutto il pianeta è narcotizzata quanto quella dell’Occidente industrializzato se si pensa nei termini di assuefazione alle conseguenze del comportamento di adattamento negativo. Portiamo avanti gli affari come se nulla fosse, in faccia a un’alluvione surreale di crisi sempre più gravi e di contraddizioni sempre più irrisolvibili. Come specie, abbiamo la necessità di riconoscere la portata del nostro dilemma storico. Continuiamo a giocare con mezzo mazzo di carte, e sarà così finché continueremo a tollerare il fatto che i porporati del governo e della scienza abbiano la presunzione di dettare quali siano le aree sulle quali la curiosità umana possa, o non possa, focalizzare la propria attenzione. L’imposizione di tali restrizioni all’immaginazione umana è umiliante e ridicola. Il governo non soltanto limita ricerche sulle sostanze psichedeliche che potrebbero forse condurre a intuizioni e a comprensioni psicologiche e mediche di valore; va oltre e si permette di limitarne anche l’uso religioso e spirituale. L’utilizzo religioso delle piante psichedeliche è una questione di diritti civili. Non si tratta infatti della soppressione di una particolare sensibilità religiosa; si tratta invece della soppressione della sensibilità religiosa in sé, dell’esperienza di religione fondata sui rapporti tra umani e piante che erano in esistenza molto prima dell’inizio della storia. Non possiamo più rinviare il momento in cui dovremo rimettere in esame i veri costi e i benefici dell’uso abituale di piante e di droghe in confronto con i costi e i benefici della soppressione del loro uso. La nostra cultura globale si trova di fronte al pericolo di soccombere a un tentativo totalitario di eliminare il problema, a colpi di randello, tramite il terrorismo poliziesco e militare diretto contro i consumatori di droghe in seno alla nostra popolazione e contro i produttori di droga nel Terzo mondo. Questa reazione repressiva è per lo più spinta da una paura frutto da disinformazione e di ignoranza. Esistono pregiudizi profondamente radicati che spiegano perché la mente occidentale diventa improvvisamente ansiosa e repressiva quando tenta di contemplare le droghe. Le trasformazioni della coscienza operate da sostanze mettono in rilievo, con tutta la sua drammaticità, il fatto che le radici della nostra vita mentale sono fisiche. Le droghe psicoattive pertanto sfidano il presupposto cristiano dell’inviolabilità e dello status ontologico speciale dell’anima. Mettono analogamente in dubbio l’idea moderna dell’io, o dell’ego, della sua inviolabilità e delle sue strutture di controllo. In poche parole, gli incontri con le piante psichedeliche mettono in forse l’intera visione mondiale della cultura del dominio. Spesso, nel nostre riesame della storia, ci ritroveremo di fronte a questo tema dell’io e della cultura del dominatore. Il terrore, infatti, che l’ego prova quando contempla la dissoluzione dei confini tra il sé e il mondo è alla radice non soltanto della soppressione degli stati alterati di coscienza ma anche, e più in generale, serve a spiegare la soppressione del femminile, dell’estraneo e dell’esotico, nonché delle esperienze trascendentali. Nei tempi preistorici ma post-Arcaici che vanno dal 5000 al 3000 a.C. circa, la soppressione della società della condivisione [partnership society -N.d.T.] da parte di invasori patriarcali che prepararono la scena per la soppressione dell’investigazione aperta della natura così come veniva condotta dagli sciamani. Nelle società altamente organizzate, a questa tradizione del periodo Arcaico se ne sostituì una fatta di dogmi, di mistificazioni sacerdotali, di patriarchie, di guerre e infine di valori «razionali e scientifici» di dominio. Fino a questo punto ho usato termini quali «partnership»¿[o condivisione] e «cultura del dominio» senza offrire spiegazioni. Sono debitore di Riane Eisler per questi utili termini, nonché per l’importante riesame della storia contenuto nel suo The Chalice and the Blade. La Eisler porta avanti l’ipotesi che i modelli sociali basati sulla condivisione abbiano preceduto le forme di organizzazione sociale basate sul «dominio» con le quali si siano trovate in concorrenza fino a subirne la soppressione. Le culture del dominio e del dominatore sono gerarchiche, paternaliste, materialiste e dominate dal maschio. Secondo Eisler la tensione fra organizzazioni basate su condivisione e quelle basate sul dominio, con l’eccessiva espressione del modello del dominio, sarebbero responsabili della nostra alienazione dalla natura, da noi stessi e dai nostri simili. Eisler ha scritto un brillante e sintetico resoconto dell’emergere della cultura umana dell’antico Medio Oriente e del dispiegamento del dibattito politico relativo alla femminilizzazione della cultura e alla necessità di andare oltre gli schemi di dominanza maschile per la creazione di un futuro vivibile. La sua analisi della politica dei sessi eleva il livello del dibattito oltre quello di chi ha, in maniera tanto stridula, acclamato o denigrato questa o quell’altra antica «patriarchia» o «matriarchia». The Chalice and the Blade presenta il concetto di partnership society [società della condivisione] e di dominator society [società¿del dominio o del dominatore], e arguisce con il sostegno di dati archeologici che in zone molto vaste e nell’arco di molti secoli, che le società della condivisione nell’antico Medio Oriente siano state prive di guerre e di sconvolgimenti. Guerra e patriarchia sarebbero arrivate con la comparsa dei sistemi di valori basati sul dominio.



Retaggio del dominio


La nostra cultura, autoavvelenatasi con i rifiuti tossici della tecnologia e dell’ideologia egocentrica, è erede infelice dell’atteggiamento della cultura del dominio secondo la quale l’alterazione degli stati di coscienza tramite l’utilizzo di piante e di sostanze sia in qualche modo male, onanistico e perversamente antisociale. Io presenterò l’ipotesi che la soppressione della gnosi sciamanica, che contava e che insisteva sulla dissoluzione estatica dell’io, ci abbia derubato del significato stesso della vita e che abbia fatto di noi nemici del pianeta, di noi stessi e delle generazioni future. Stiamo uccidendo il pianeta per tenere in piedi le presupposizioni forsennate dello stile culturale basato sul dominio dell’io.
E' giunto il momento di cambiare.

Terence McKenna