Caterina di Chenal, visse in una casa non
lontana dal Castello di Chenal
Caterina di Chenal oltre ad essere una donna molto
bella, è una donna di indubbie,anche se discutibili, qualità. In particolare,
per sua ammissione è guaritrice specializzata in foruncoli o favi, chiamati
“droncloz” nel dialetto di allora per sanare i quali conosce una formula che
comincia con “Beneyta fu ly houra que diou fu na / et sita si ly pleit ansy / en nom de pare et
dou file t dou sent esprit / amen………..”.
Possiede fascino, non eccessivi scrupoli, tanto “sex appeal” fa girare la testa
al notaio Bonifacio, ad un altro eminente cittadino, il farmacista Jean Croy,
cui pure regala un bastardo, ad un certo Vuillermin Franquin, con il quale
convive tre settimane, ma c’è da giurare, a vari altri uomini, rimasti
sconosciuti alla cronaca perché non presentatisi a testimoniare nel processo
contro di lei. E ciò malgrado la “grida” fatta pronunciare nella messa grande
domenicale nella chiesa parrocchiale di Saint-Vincent, nel corso del
dibattimento.
Venticinque anni di età dividono la bella e il notaio. Bonifacio, che porta
bene i suoi 45/50 anni è ammalato. Malia o magia, dunque e anche oggi non vedo
chi, tra i custodi della pubblica morale, non gratificherebbe dell’aggettivo
qualificativo di “strega” la maliarda che in pochi anni irretisce “con male
arti” tutti i maschi locali.
Ma dire “strega”, in un secolo che manda al rogo in tutt’Europa un fiume di
maledonne, appunto per “stregoneria”, è pericoloso anche in Valle d’Aosta.
La diocesi Aostana - autonomista come la
comunità civile che il suo territorio abbraccia e che si è data ai Savoia con molte riserve, gelosa dei propri
privilegi – non ha mai voluto sentir parlare di inquisizione.
Ha sempre gestito e intende continuare a gestire in proprio la giustizia in
materia di competenza religiosa, quali i crimini di eresia, stregoneria,
simonia.
Tuttavia sono tempi calamitosi e di incertezza per la chiesa valdostana e per lo stato sabaudo, quelli in cui vive la
maliarda Caterina. Il Duca Luigi manca di autorità, la corte é dominata da Anna
di Cipro (1433/61) e da una folta schiera di bramosi levantini. Processi di
inquisizione si istruiscono sempre più numerosi nella vicina Savoia e la metà
dei beni confiscati alle “Streghe giustiziate” o delle pesanti multe
alternative, vanno alla duchessa Anna e da Lei ai cortigiani e ciò dice
qualcosa.
Circolano
anche nella nostra diocesi “des membres du clergé nommés par le Saint-Siège
chargés de s’enquérir des hérétiques”. Ma
incaricati da quale Santa Sede e quale Papa se contemporaneamente ve ne sono
tre, ed uno dei tre – dal 1439 al 1449 – é proprio un Savoia. Amedeo VIII, che
un conclave svizzero ha innalzato agli oneri della della tiara col nome di
Felice V.
Il Vescovo di Aosta, lo svizzero Antoine de Prez, nominato da Felice V, di cui
è stato un elettore, difende senza troppo zelo e solo per le pressione del
clero locale i privilegi antichi contro l’invadenza del “Tribunale di Santa
Inquisizione”. Ma la chiesa valdostana ha altri problemi: “l’esprit de
rébellion contre l’autorité spiritelle souffle dans la vallèe (Duc). Ayas,
Brusson, Challand, Montjovet, contestano le sentenze del tribunale
ecclesiastico . Ci si rifiuta di versare le decine dovute all’abbazia di
Saint-Gilles. A Saint-Pierre, nel 1448 si arriva a vie di fatto nella chiesa
stessa l’eresia serpeggia.
Alla metà del XV secolo si aggiunge per la petit patrie altro malessere, il
disordine conseguente, nella Basa Valle, alla ribellione di Caterina di
Challand, figlia di Francesco I°, morto nel 1442 che non vuole piegarsi alle
antiche legge di successioni vigenti nel paese, le quali escludono le donne
dalla successione feudale e, forte di un testamento e di un autorizzazione
ducale, poi revocata, attizza la resistenza alle forze dei cugini del ramo di
Aymavilles, sostenuti dai Savoia. Vi saranno lotte, scaramucce, una piccola
guerra, con battaglie e assedi, lutti, prigionia, per la durata di dieci anni.
Il 6 Agosto 1449 la “strega” Caterina di Chenal è arrestata e sprofondata nelle
segrete del castello di Montjovet. L’ultima infamia chele viene contestata, la
classica goccia che fa traboccare il vaso, è “l’uccisione a mezzo di
sortilegio” del parroco di Montjovet, Pierre Hospitis. Così dice l’imputazion,
anche se la descrizione del male cui soccombe il povero prete farebbe oggi
diagnosticare un tumore maligno e a rapida evoluzione, ma non è questa,
dell’assassinio, che una delle ben quarantadue imputazioni che si sono
addensate sul capo della nostra bella (ormai avviata alla cinquantina) e che
vanno dall’eresia, alla medicina abusiva, dalla partecipazione a “sinagoga” in
presenza del diavolo, all’antropofagia…..
In quanto al parroco di Santa Maria di Montjovet, come testimonia Alessia
figlia di Antonio Guillelmi di Issogne, visitato tre giorni prima della morte,
alla domanda “comment il se trouvait de sa personne”spiega di sentirsi male e
di avere un “malum bollum ante pectore”: Dove potete aver preso una tal
malattia? Gli domanda Alessia e don Hospitis, senza incertezze “in casa di
Caterina di Chenal che mi ha propinato un beveraggio, un certo “onisnustis” e poi del vino e
codesta Caterina è la causa della mi malattia e perciò io devo morire”.
Si istruisce il processo. Inquisitore è frate Bérard Tremesii dell’ordine dei
Minori, baccelliere in diritto e dottore in teologia, coadiutore il vicario
generale della diocesi reverendo Guidon Bollite. Vi è già la deposizione di un
teste che, libero dalle manette (essendo egli stesso detenuto per eresia), ha
deposto il 12 luglio di quel ’49 al predetto inquisitore, presenti due canonici
e il castellano, nel castello di Verres.
Le accuse sono pesanti. “Ho partecipato – dice il teste, tale Pierre Proveschy
– ad una “sinagoga” tenuta nel villaggio di Perrière,l’anno 1430 nella casa di
Marquiand, presente Caterina di Chenal, che là ho conosciuto, e l’ho veduta con
i miei occhi mangiare e bere, precisamente mangiare un pane chiamato “fogachia”
e rinnegare Dio, la Santa Vergine e tutti i Santi e baciare “in postremo” un
diavolo in forma di gatto nero, al quale essa ha fatto anche la reverenza e poi
sputare su una croce tracciata per terra e calpestarle”.
Qualcuno deve aver messo in dubbio la testimonianza di Proveschy, poiché
ripetutamente e con nuovi testimoni presenti, gli vengono chieste conferme.
“Libero da ogni catena di prigioniero, eccetto i ferri ai piedi” il nostro
testimone ratifica sempre la prima deposizione. Salvo il giorno in cui si avvia
alla pira destinata a spedirlo nel regno dei più “ignis consumptum”. Giorno che
non conosciamo, ma anteriore al 1° dicembre
di quello stesso anno, quando il difensore di Caterina di Chenal
pronuncerà la sua arringa. Quel giorno Pierre Proveschy, ai suoi esecutori e al
popolo pronto a dar fuoco alla catasta su cui lo stanno legando, tiene a dire
che tutto quanto ha affermato contro Caterina di Chenal è falso e mendace e
filosoficamente si sottoscrive “zo lo fidei ortodoxe (io uomo di fede vera)
tant la fin de mes jours est venue et je suis condamnè au feu”.
Ma restano altri accusatori che hanno la loro da dire. Vuillermet Franquin racconta che durante la sua convivenza di tre
settimane con la strega, 22 anni prima, i due figli di lei, Pantaleon
(Mistralis) e Jean, che erano “en bas age”, l’avevano chiamata nel cuore della
notte perché dalla finestra avevano
visto due diavoli sotto forma di lupi, che la spettavano ritti su una
roccia poco lontana e allora gli occhi di Caterina di Chenal avevano sfavillato
di una strana e viva luce!
Anche il notaio Calzini, incoraggiato dalla moglie, si presenta a deporre
quello che sa: il suo collega Bonifacio Mistralis gli ha confessato che, benché
obbligato a “cubare” (dormire) con la propria legittima consorte, “doveva”
inseguito alzarsi, magari anche a mezzanotte, per andare a trovare Caterina di
Chenal, persino con tempo cattivo, aggiunge.
La strega! Stessa sorte , pare toccasse al povero farmacista, Jean croy. A
Francesca moglie di Pietro Deda è successo altro. Per colpa di maleficio di
Caterina di Chenal , la sua vacca ha perso il latte. Ha dovuto ricorrere ad un
complicato scongiuro per liberare la povera bestia della fattura: con una verga
di quercia per tre settimane a stomaco vuoto, ha dovuto battere, come le è
stato insegnato, la secchia di legno del latte, la caldaia di rame e l’imbuto
pronunciando queste parole “zo no bato pas nyun de mes veysses me zo bato
estries et eystriones”. Il latte è tornato e otto giorni dopo, Francesca, ha
avuto la soddisfazione di vedere le conseguenze sui fianchi della responsabile.
Caterina di Chenal, naturalmente, resa “souffrante et infirme” dai colpi dati
ai recipienti.
Un paio di signore del paese depongono sulla cattiva reputazione dell’imputata
e Margherita de Petit Rhun, che è stata a servizio per circa un anno, dice che,
colpita da una accidente verbale scagliatole dalla padrona, s’è sentita subito
un dolore al ginocchio “curato poi dalla stessa Caterina di Chenal, pentita di
averle causato un male per un semplice capriccio”. Riferisce anche di frequenti
uscite notturne della padrona.
Caterina di Chenal non confessa: Le si ricorda che è sotto giuramento, la si
minaccia di scomunica e di venticinque “livres fortes” di multa. Ancora non
ammette nessuna colpa, salvo, ma di questo deve rispondere a Dio, il peccato di
luzzuria. Siamo a fine ottobre, il tribunale siede nella camera che fù già del
Conte Francesco nel castello di Montjovet. Oltre all’inquisitore sono presenti
il parroco di Montjovet Borgo, un magistrato della Corte Episcopale, il vice
castellano e due testi laici.
“Conosce almeno l’imputata il Pater Noster e l’Ave Maria?”
Li conosce e li recita alla Corte. Conosce anche un’altra preghiera, in patois
questa quella per guarire i foruncoli e la recita pure. Eccola in traduzione
“Benedetta l’ora in cui Dio nacque, / così gli piacque, /nel nome del Padre del
Figlio e dello Spirito Santo. Amen / Nostro Signore Gesù Cristo per terre
andava / tre fratelli buoni incontrava /dove andate voi tre fratelli bravi? /
Signore Gesù Cristo, sul monte Oliveto. / A far cosa bravi fratelli? / a
cercare erbe e fiori per guarire dolori e piaghe. / Tornati (con le erbe) tre
fratelli buoni prendono lana di pecora e olio vegetale (probabilmente di
mandorla, secondo un suo uso non dimenticato)
per guarire queste piaghe e così possano guarire come quelle di Nostro
Padre Gesù Cristo / in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo”. Poi il
malato deve segnarsi e recitare cinque Pater in onore delle cinque piaghe del
Nostro Signore.
Se in passato ho fatto uso di questa preghiera è stato a fin di bene, di tutti
gli altri capi di accusa nella è vero – insiste Caterina di Chenal.
Che torni nella prigione la pervicace!
E’ giocoforza ricorrere alla tortura. Bérard Tremesii ne fa richiesta ufficiale
alla Corte Episcopale e l’autorizzazione è concessa. Si arriva così alla seduta
del 10 novembre. Si intima all’imputata di dire la verità, ossia riconoscere
giusti i capi di accusa, e di giurare. Caterina di Chenal nega ogni colpa e
rifiuta di giurare, una volta, due volte, tre volte.
L’inquisitore tuona: “Caterina torqueri debere et tormenté” . “Non intendiamo
tuttavia – aggiunge – farti morire, né mutilarti e neppure provocare effusione
di sangue”.
E’ subito condotta nella stanza della tortura, legate le mani dietro la
schiena, viene sospesa ad una corda e le viene inflitta una piccola
“cavallata”.
Che tipo di tortura sia esattamente questa “cavallata” non lo sappiamo. Quel
che sappiamo è che Caterina di Chenal non solo non confessò proprio niente, ma
alzò al cielo tali strilli – sihskio (sicllio) nel testo – da consiliare di
rinviare quel trattamento in attesa di escogitarne di più validi per
costringerla a dire la verità.
Altro interrogatorio quattro giorni più tardi, altra tortura, altro diniego.
“Gyo nego omnes petitiones vestras”, dice Caterina di Chenal , dolorante, ma
fremente di sdegno.
Una donna di ferro! Ed è un sollievo che registriamo a questo punto della
vicenda, un intervento, che come vedremo, avrà favorevoli conseguenze: a
palazzo episcopale viene depositata istanza di garantire legale difesa
all’imputata.
E’ il 24 novembre 1449 ed a presentare l’istanza – sottoponendosi a tutte le
condizioni che gli sono imposte, in particolare di assumersi le spese
processuali e di detenzione dell’imputata – è Pantaleoin Mistralis. Personaggio
che conosciamo, figlio di Bonifacio e padre di Pierre Bertrand. Caterina di
Chenal è sua madre, anche, se, lo ripetiamo, non è la legittima consorte del fu
notaio suo padre.
Le cose cambieranno da questo momento. Anche grazie al fatto che il difensore
scelto da Pantaleone è un luminare del diritto, canonico della cattedrale,
baccelliere, già procuratore fiscale in altra causa di stregoneria. E’ belga di
origine, nativo di Fleurus nella diocesi di Liegi. Deve essere sulla
cinquantina quanto entra nella nostra storia, morirà nel ’75 ed è sepolto nel
chiostro della cattedrale valdostana.
La sua difesa si imposta su quattro punti: 1) non si può tenere conto della
deposizione Proveschy in quanto ritrattata in “articulus mortis” e fatta da
persona non degna di fede ed eretica; 2) nessuna prova di stregoneria è stata
portata contro Caterina di Chenal, i testimoni si sono limitari a ripetere cose
“sentite dire”; 3) sul fatto del parroco di Montjovet, se di assassinio
trattasi, la questione non è di competenza del tribunale ecclesiastico, che
anzi deve assolutamente astenersi, secondo preciso parere della corte di Roma,
in cause criminali; 4) l’imputata non ha mai confessato, benché sottoposta a
tortura alcuna colpa, né colpa pare possa considerarsi quella di recitare
preghiere, con parole che non sono affatto eretiche, in presenza di casi di
malattia.
Frate Bérard Tremesii non demorde; fa ricercare dal pulpito della parrocchiale
di Saint-Vincent, per due domeniche, pubblicamente altri e più sicuri
testimoni. Ma non ha successo. Si deve emettere la sentenza e non sarà di
morte.
Lunga e articolata sentenza che bandisce Caterina di Chenal dal territorio
della diocesi (entro sei giorni, dalla data della sentenza, che è del 23
dicembre) pena la morte per fuoco, le ordina id andare in pellegrinaggio a
Roma, di portare sul petto e sulla schiena una croce di tessuto rosso alta un
palmo, pagare le spese della sua detenzione ed abiurare gli errori del passato
secondo una precisa formula dettata d al tribunale.
La pena si portare la croce rossa sul petto e le spalle viene condonata sul
momento stesso della lettura della sentenza da
Caterina di Challand (figlia del Conte Francesco) che assiste in compagnia dekl
suo secondo marito, Pierre d’Introd, allora luogotenente generale del contado.
In quanto all’abiura, che la cronaca non ci dice come e quando Caterina
di Chenal fece, eccome la formulazione (in essenziale): “Io Caterina di Chenal
…… inginocchiata,le mani sui santi vangeli….. abiuro profondamente e detesto
ogni eresia contro la fede cattolica e Santa Madre Chiesa”. “Inoltre abiuro e
detesto…. Il bastone per cavalcare, l’omaggio al diavolo, la sua adorazione, i
suoi tributi…. Le infermità inflitte con l’arte diabolica, i bambini uccisi e
le loro carni mangiate nel corso delle nefandissime sinagoghe…….” – “Giuro che
d’orinnanzi non riceverò alcun eretico…. E se avrò dei sospetti che una persona
sia eretica la denuncerò senza indugi” – “Giuro e prometto di vivere secondo le
regole di Santa Madre chiesa…..”
Se ci meraviglia si sentir parlare di bambini uccisi e mangiati, facciamo un
salto indietro ed andiamo a leggere tra le imputazioni. Vi troveremo quanto
segue: “Ci consta che hai appartenuta alla setta dei moderni eretici rinnegando
Dio e la Santa Vergine, ricevendo il diavolo in presenza di parecchie persone,
rendendogli omaggio e pagandogli tributo mediante bambini uccisi e mangiati in
vari luoghi nel corso di nefandissime sinagoghe, infliggendo infermità,
commettendo misfatti, adoperando il bastone per cavalcare e l’infusorio
(siringa medioevale per iniettare in vena), causando sortilegi, invocando il
demonio……”
Non sappiamo quel che avvenne di Caterina di Chenal dopo il natale del 1440
quando questi fatti si concludono, per fortuna meno drammaticamente del
terribile.
Certo che se ha molto peccato, molto le deve essere perdonato per quanto pagato.
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