Beruf (vocazione professionale)
 

Non si può ignorare che già nella parola tedesca “Beruf”,come, in una maniera forse ancora più evidente, in quella inglese “calling”, almeno echeggi una rappresentazione religiosa - quella di un compito assegnato da Dio -, e che diventi tanto più percettibile, quanto più energicamente accentuiamo la parola nel caso concreto. E se seguiamo storicamente la parola, attraverso le lingue colte, in primo luogo risulta che ciascuno dei popoli prevalentemente cattolici - così come l'antichità classica -non conosce un'espressione di tonalità analoga, per indicare quello che noi chiamiamo "Beruf" (nel senso di una posizione occupata nella vita, di un ambito di lavoro preciso e circoscritto, insomma di una professione), mentre esiste in tutti i popoli prevalentemente protestanti. Inoltre, risulta come non vi sia implicata una qualche peculiarità eticamente condizionata delle lingue in questione, per esempio l'espressione di uno “spirito del popolo germanico”, ma come la parola nel suo senso odierno derivi dalle traduzioni della Bibbia, e precisamente dallo spirito dei traduttori, non dallo spirito dell'originale. Pare sia usata, nella traduzione luterana della Bibbia, per la prima volta in un passo di Gesù di Sirac (11, 20 e 21 ), proprio nel nostro senso attuale. Ha poi acquistato il suo significato attuale molto presto, nel linguaggio profano di tutti i popoli protestanti, mentre prima, nella letteratura profana, non si poteva notare il benché minimo spunto di un senso siffatto, neanche nelle prediche - per quanto ci risulta -, con la sola eccezione di un mistico tedesco […] di cui è nota l'influenza su Lutero.
E come il significato della parola, anche il pensiero è nuovo ed è un prodotto della Riforma (come forse è noto, in generale). Non nel senso che già nel Medioevo, anzi persino nel mondo antico (tardo periodo ellenistico ), non fossero presenti certi spunti di quella considerazione del lavoro svolto quotidianamente nel mondo che è insita in questo concetto del Beruf (se ne dovrà parlare più avanti). Incondizionatamente nuova era comunque una cosa, in primo luogo: la convinzione che l'adempimento del proprio dovere nell'ambito delle professioni [Berufe] mondane fosse il contenuto supremo che potesse mai assumere la realizzazione della propria persona morale. Proprio questa fu l'ine- vitabile conseguenza della rappresentazione del significato religioso del lavoro svolto quotidianamente nel mondo, e ingenerò per la prima volta il concetto di Beruf in tale senso. Nel concetto di Beruf trova dunque espressione quel dogma centrale di tutte le chiese protestanti che respinge la distinzione cattolica degli imperativi morali in praecepta e consilia, e secondo cui l'unico modo di essere graditi a Dio non sta nel sorpassare la moralità intramondana con l'ascesi monacale, ma consiste esclusivamente nell'adempiere ai doveri intramondani, quali risultano dalla posizione occupata dall'individuo nella vita, ossia dalla sua professione, che appunto perciò diventa la sua “vocazione” [Beruf].
In Lutero questo pensiero si sviluppa nel corso del primo decennio della sua attività riformatrice. Inizialmente il lavoro mondano, sebbene voluto da Dio, rientra per lui nell'ordine creaturale, esattamente nel senso della tradizione medievale dominante […].
Ma, via via che si sviluppa più chiaramente il pensiero “sola fide”, con le sue conseguenze e l'implicita opposizione - sempre più aspra - ai “consigli evangelici” cattolici del monachesimo, invero “dettati dal diavolo”, aumenta l'importanza del Beruf. Ora l'esistenza monacale non solo è ovviamente priva di qualsiasi valore, al fine della giustificazione di fronte a Dio, ma diventa anche il prodotto di un'arida insensibilità, di un egoismo che si sottrae ai doveri di questo mondo. Al contrario, il lavoro professionale svolto nel mondo appare come l'espressione esterna dell'amore del prossimo […].
[…] resta, sempre più energico, l'argomento secondo cui l'adempimento dei doveri intramondani in tutte le circostanze sarebbe l'unico modo di essere graditi a Dio, esso ed esso soltanto sarebbe volontà di Dio, e quindi tutte le professioni lecite avrebbero assolutamente lo stesso valore, di fronte a Dio.
(M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, op. cit., pp. 101-103)
 
Ma qui non occorre che ci addentriamo in particolari, - soprattutto perché il pensiero del Beruf in senso religioso era passibile di configurazioni molto diverse, nelle sue conseguenze per la condotta della vita intramondana. La Riforma in quanto tale dapprima ebbe solo la funzione di accrescere enormemente - in contrasto con la concezione cattolica - il peso morale e il premio religioso per il lavoro intramondano, ossia per la professione regolare e ordinata. Il modo in cui fu ulteriormente sviluppato il pensiero del Beruf, che diede espressione a questo fenomeno, dipese dalla più precisa configurazione della pietà e devozione che da allora in poi si venne delineando nelle singole chiese riformate.
(Ibidem, p. 105)
Se, quindi, studiando le relazioni che sussistono fra l’etica del vecchio protestantesimo e lo sviluppo dello spirito capitalistico muoviamo dalle creazioni di Calvino, del calvinismo e della latre sette “puritane”, ciò non può essere tuttavia inteso nel senso che noi ci attendiamo che uno dei fondatori o degli esponenti di queste comunità religiose si prefigga già lo scopo di destare quello che noi chiamiamo “spirito capitalistico”, in qualsiasi senso.
(Ibidem, p. 112)
Dovremo ora seguire l'idea puritana di Beruf nell'influenza esercitata sulla vita dedita all' attività Iucrativa, dopo che il precedente schizzo ha cercato di svolgere il tema della sua fondazione religiosa. Nonostante tutte le divergenze particolari, e ogni differenza nel peso che le diverse comunità religiose ascetiche attribuiscono ai punti di vista per noi decisivi, questi ultimi sono nondimeno presenti ed efficaci in tutte. Ma - per riassumere - decisiva, per le nostre considerazioni, è stata continuamente la concezione dello “stato di grazia” religioso che ricorre in tutte le denominazioni: appunto come di uno status che libera l'uomo dalla condanna del creaturale, dal “mondo”, ma il cui possesso (comunque fosse conseguito secondo i dogmi delle varie denominazioni) non poteva essere garantito da mezzi magico-sacramentali di qualsiasi specie, o dallo sgravio della confessione, o da singole opere pie, ma solo dalla comprova data da una forma di esistenza, da una condotta di vita specifica e peculiare, indubbiamente diversa dallo stile di vita dell'uomo “naturale”. Ne derivava, per l'individuo, l'impulso al controllo metodico del suo stato di grazia nella condotta della vita, e quindi alla sua configurazione ascetica. Ma questo stile ascetico dell'esistenza - come abbiamo visto - significava appunto una conformazione razionale della vita intera, orientata secondo la volontà di Dio. E questa ascesi non era più un “opus supererogationis”, ma una prestazione che era pretesa da chiunque volesse essere sicuro della propria salvezza. Quella vita speciale dei santi che era diversa dalla vita “naturale” e che la religione esigeva non si svolgeva più al di fuori del mondo, in comunità monastiche, ma all'interno del mondo e dei suoi ordini (ed è questo il punto decisivo). Questa razionalizzazione della condotta della vita entro il mondo e con riguardo all'aldilà era l'effetto della concezione della professione propria del protestantesimo ascetico.
L'ascesi cristiana, che inizialmente era fuggita dal mondo nella solitudine, aveva già dominato ecclesiasticamente sul mondo, uscendo per così dire dal convento, proprio in quanto rinunciava al mondo. Eppure in complesso aveva lasciato alla vita quotidiana laica il suo carattere naturale e ingenuo. Ora veniva sul mercato della vita, si chiudeva alle spalle le porte del convento e imprendeva a pervadere proprio la vita quotidiana mondana della sua metodicità, a trasformarla in un'esistenza razionale nel mondo eppure non di questo mondo o per questo mondo.
(Ibidem, pp. 213-214)
E, soprattutto: l'utilità di una professione, con la corrispondente approvazione da parte di Dio, si giudica sì in primo luogo secondo criteri etici e in secondo luogo secondo l'importanza per la “collettività” dei beni che vi si producono; ma poi segue il terzo criterio, che naturalmente è quello praticamente più importante: il “profitto” economico privato. Poiché, se quel Dio che il puritano vede all'opera in tutte le circostanze della vita indica a uno dei suoi un'opportunità di guadagno, ha certamente uno scopo per farlo. E quindi il credente cristiano deve rispondere a questa chiamata, approfittandone. “Se Dio vi indica una via dove voi, senza pregiudizio per la vostra anima o per altri, secondo la legge, potete guadagnare di più che seguendo un 'altra strada, e se voi la rifiutate e seguite il cammino che apporta un guadagno minore, allora voi contrastate uno degli scopi della vostra chiamata” (“calling”), “voi rifiutate di essere amministratori” (“stewarts”) di Dio e di ricevere i suoi doni per poterli usare per lui, se lo dovesse chiedere. Certamente non per scopi della concupiscenza e del peccato, bensì per Dio, voi avete il diritto di lavorare al fine di essere ricchi”. La ricchezza è pericolosa solo e precisamente come tentazione di adagiarsi nell'ozio e di godersi peccaminosamente la vita, e la sua ricerca lo è solo quando ha luogo per poter vivere, più tardi, senza preoccupazioni e allegramente. Ma in quanto esercizio del dovere professionale non è solo moralmente lecita, è addirittura obbligatoria.
(Ibidem, pp. 221-222)