I concetti di “normale” e “patologico”

Ogni fenomeno sociologico - come del resto ogni fenomeno biologico -è suscettibile, pur restando essenzialmente se stesso, di assumere forme differenti a seconda dei casi. Queste forme sono di due tipi. Le une sono generali per tutta l'estensione della specie; esse si ritrovano, se non in tutti gli individui, almeno nella maggior parte di essi e, anche se non si ripetono in modo identico in tutti i casi in cui possiamo osservarle, ma variano da un soggetto all'altro, queste variazioni sono però comprese entro limiti assai vicini. Ve ne sono invece altre che risultano eccezionali; non soltanto esse appaiono unicamente in una minoranza, ma anche dove si verificano accade spesso che non durino per tutta la vita dell'individuo. Esse costituiscono un'eccezione sia nel tempo che nello spazio. Noi siamo quindi in presenza di due distinte varietà di fenomeni, che devono venir designati con termini differenti. Chiameremo normali i fatti che presentano le forme più generali, e denomineremo gli altri morbosi o patologici. Se conveniamo di chiamare tipo medio l'essere schematico che costituiremmo riunendo nel medesimo tutto - in una specie di individualità astratta – i caratteri più frequenti nella specie insieme alle loro forme più frequenti, possiamo dire che il tipo normale si confonde con il tipo medio, e che ogni divario nei confronti di questo campione della salute è un fenomeno morboso. […]
Una volta che si sappia riconoscere le diverse specie sociali […] è sempre possibile trovare qual è la forma più generale che un fenomeno presenta in una specie determinata.
Si vede qui che un fatto non può venir qualificato patologico se non in rapporto ad una data specie. Le condizioni della salute e della malattia non possono venire definite in astratto e in maniera assoluta. La regola è incontestata in biologia; a nessuno è mai passato per la mente che ciò che è normale per un mollusco lo sia anche per un vertebrato. Ogni specie ha la propria salute, perché ha il proprio tipo medio, e la salute delle specie più basse non è minore di quella delle specie più elevate. Lo stesso principio si applica alla sociologia, sebbene in essa venga sovente misconosciuto. Bisogna rinunciare all’abitudine - ancora troppo diffusa - di giudicare un’istituzione, una pratica, una massima morale, come se fossero buone o cattive in sé e per sé, per tutti i tipi sociali indistintamente.
Dal momento che il punto di riferimento nei confronti del quale si può giudicare lo stato di salute o di malattia varia con le specie, esso può variare anche per una sola ed unica specie se questa muta. Perciò, da un punto di vista puramente biologico, ciò che è normale per il selvaggio non lo è sempre per l’uomo civile, e viceversa. C’è soprattutto un ordine di variazioni delle quali dobbiamo tener conto, perché esse si verificano regolarmente in tutte le specie - le variazioni che dipendono dall’età. La salute del vecchio non è la salute dell’adulto, come quest’ultima non è quella del bambino; e lo stesso vale per le società. Un fatto sociale può quindi venir definito normale per una specie sociale determinata soltanto in relazione ad una fase egualmente determinata del suo sviluppo; di conseguenza, per sapere se esso abbia diritto a questa denominazione non basta osservare in quale forma si presenta nella generalità delle società che appartengono a quella specie, ma occorre considerarle nella fase corrispondente della loro evoluzione.
(É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, op. cit., pp. 65-66)

La normalità del fenomeno verrà spiegata soltanto ricollegandolo alle condizioni di esistenza della specie in questione […]. Il sociologo […] dopo aver stabilito mediante l’osservazione che il fatto è generale […] risalirà alle condizioni che hanno determinato tale generalità nel passato, e cercherà quindi se tali condizioni sono ancora date nel presente o se, al contrario, esse sono mutate. Egli avrà il diritto nel primo caso di considerare il fenomeno come normale, e nel secondo di rifiutargli questo carattere.(Ibidem, pp. 68-69)

1) un fatto sociale è normale per un tipo sociale determinato, considerato in una fase determinata del suo sviluppo, quando esso si presenta nella media delle società di quella specie, considerate nella fase corrispondente della loro evoluzione;
2) possiamo verificare i risultati del metodo precedente mostrando che la generalità del fenomeno dipende dalle condizioni generali della vita collettiva nel tipo sociale considerato;
3) questa verificazione è necessaria quando il fatto si riferisce ad una specie sociale che non abbia ancora compiuto la sua evoluzione integrale. […]
Applichiamo dunque le regole precedenti. Il reato non si riscontra soltanto nella maggior parte delle società di questa o quella specie, bensì in tutte le società di tutti i tipi: non c’è società in cui non esista qualche tipo di criminalità. Essa muta di forma, e gli atti così qualificati non sono dappertutto i medesimi; ma dappertutto e in ogni tempo vi sono stati uomini la cui condotta è stata tale da attirare su di essi la repressione penale. […]
Senza dubbio può darsi che il reato stesso abbia forme anormali - ed è quello che accade quando, per esempio,attinge un tasso esagerato: un simile eccesso è infatti di natura morbosa. Normale è semplicemente il fatto che esista una criminalità, purché essa attinga e non sorpassi - per ogni tipo sociale - un certo livello che non è forse impossibile fissare conformemente alle regole precedenti.
(Ibidem, pp. 71-73)
[…] dal momento che non può esserci società laddove gli individui non divergono più o meno dal tipo collettivo, è inevitabile che alcune di queste divergenze presentino un carattere criminale. Infatti ciò che conferisce ad esse tale carattere non è la loro importanza intrinseca, bensì quella attribuita dalla coscienza comune. Perciò, se quest'ultima sarà più forte, e se avrà abbastanza autorità per rendere tali divergenze molto deboli in valore assoluto, essa sarà anche più sensibile e più esigente e - reagendo contro deviazioni di scarsa importanza, con l'energia che di solito sfoggia soltanto nei confronti di dissidi più considerevoli - attribuirà loro la stessa gravità, cioè le bollerà come criminali. Il reato è dunque necessario; esso è vincolato alle condizioni fondamentali di ogni tipo di vita sociale, ma proprio per questo motivo è utile; infatti le condizioni a cui è legato sono indispensabili alla evoluzione normale della morale e del diritto.
Infatti non è possibile, al giorno d'oggi, contestare che non soltanto il diritto e la morale variano da un tipo sociale all'altro, ma anche che essi mutano all'interno di un certo tipo se si modificano le condizioni dell'esistenza collettiva. Ma affinché queste trasformazioni siano possibili, occorre che i sentimenti collettivi che sono alla base della morale non siano refrattari al mutamento, e che abbiano perciò soltanto un'energia moderata: se essi fossero troppo forti, non sarebbero più plastici. […]
Più una struttura è consolidata, tanto maggiore è la resistenza che essa oppone a ogni modificazione […]. Se non ci fossero reati questa condizione non sarebbe soddisfatta, poiché un'ipotesi del genere presuppone che i sentimenti collettivi abbiano raggiunto un grado di intensità che non ha esempio nella storia. Nulla è indefinitamente e incondizionatamente buono. È necessario che l'autorità di cui gode la coscienza morale non sia eccessiva; altrimenti nessuno oserebbe levare la mano su di essa, che si irrigidirebbe troppo facilmente in una forma immutabile. Affinché essa possa evolvere, occorre che l'originalità individuale abbia la possibilità di emergere; e affinché la personalità dell'idealista che sogna di oltrepassare il proprio secolo possa manifestarsi, occorre che quella del criminale, che è al di sotto del suo tempo, sia possibile. L'una non può esistere senza l'altra. […]
Quante volte […] il reato non è altro che un'anticipazione della morale futura, il primo passo verso ciò che sarà! Secondo il diritto ateniese, Socrate era un criminale e la sua condanna non aveva nulla di men che giusto; eppure il suo reato - vale a dire la sua indipendenza di pensiero - è stato utile non soltanto all'umanità, ma anche alla sua patria. Esso serve infatti a preparare la nuova morale e la nuova fede di cui allora gli Ateniesi avevano bisogno, perché le tradizioni in base a cui erano vissuti fino a quel giorno non erano più in armonia con le loro condizioni di esistenza. Ed il caso di Socrate non è isolato, ma si riproduce periodicamente nella storia. La libertà di pensiero della quale godiamo attualmente non avrebbe mai potuto venir proclamata se le regole che la vietavano non fossero state violate prima di venir solennemente abrogate.

(Ibidem, pp. 75-77)