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Jean Goss Fede e nonviolenza
 

Scritti e discorsi degli anni '50 e '60 di Jean Goss, grande animatore e operatore della nonviolenza evangelica, in zone di conflitto di tutto il mondo.

2 giugno 2007 - Enrico Peyretti

 

 Fede e nonviolenza

Jean Goss, Fede e nonviolenza, a cura di Etta Ragusa, Edizioni L'Epos (Via Dante Alighieri 25, 90141 Palermo, tel 091-611.31.91, info@lepos.it; http://www.portidiulisse.it Collana Il Pellicano, pp. 170, euro 16,80

Nella collana, arrivata all’ottavo volume, di studi e testi di storia del cristianesimo sotto il profilo della pace, diretta da Sergio Tanzarella, della Facoltà Teologica di Napoli, appare ora questa raccolta di scritti e discorsi, dagli anni ‘50 agli ’80, di Jean Goss (1912-1991). Egli scoprì il vangelo e la nonviolenza in prigionia, dopo avere ucciso in guerra (p. 158). Insieme alla moglie Hildegard Mayr, è stato un grande animatore e operatore della nonviolenza evangelica, nel Movimento Internazionale della Riconciliazione (Mir). È, questo, un piccolo ma tenace movimento, che conta fino ad oggi 6 Premi Nobel, operoso in tutto il mondo. Fondato da protestanti inglesi e tedeschi nel 1914, per tagliare le frontiere di guerra con la riconciliazione, è entrato in Italia nel 1952 ed è oggi apertamente ecumenico.
I coniugi Goss-Mayr, cattolici, hanno diffuso la nonviolenza in Europa orientale, in Russia, presso i vescovi nel Concilio Vaticano II, in America Latina, in Medio Oriente, in Africa, in Asia. Sono all’origine della liberazione nonviolenta delle Filippine dalla dittatura di Marcos, nel 1986. La loro azione è riferita nel libro di Hildegard Goss-Mayr, Come i nemici diventano amici, Emi, Bologna 1997.

 
In Jean Goss la nonviolenza ha una forte ispirazione evangelica, ma è del tutto comunicante con la nonviolenza umanistica e con quella gandhiana. Con riferimento a Matteo 25 scrive: «Ogni ateo che vive questo amore sarà alla Sua destra, ogni credente – anche un papa – che non vive questo amore sarà alla Sua sinistra» (p. 46).
Come la violenza è il peccato contro la persona umana, la nonviolenza, dice Goss, è l’amore, la santità (p. 69). Essa è ben di più di un insieme di tecniche: «I due pilastri della nonviolenza sono il perdono delle offese e l’amore per il nemico» (p. 74). Goss non parla ai dotti, ma al fondo umano di tutti. La conversione del violento è possibile: un poliziotto torturatore, nel Brasile sotto dittatura, è trasformato dal comportamento di Hildegard (pp. 79-81). «Bisogna credere che gli uomini hanno un cuore e una coscienza, anche i peggiori» (p. 123). «La nonviolenza attacca la coscienza, l’anima e il cuore, mai il corpo» (p. 87). L’idea di questo “attacco” è ripetuta: esso avviene col dire la verità, denunciare l’ingiustizia, e così risvegliare, smuovere le coscienze, pronti a pagare il conto. «La prima volta che sono stato torturato ho sentito di amare quelli che mi torturavano» (p. 88). L’azione nonviolenta richiede preparazione interiore (identificarsi con gli altri) ed esteriore: il dominio mentale del dolore, che rende più forti dell’aggressore. La strategia dell’azione consiste nel dialogo, nell’azione diretta nonviolenta, nella disobbedienza civile. Il dialogo è anzitutto scoprire la verità che è nell’altro, anche nell’avversario, e dirgli come l’abbiamo disconosciuta, perché ogni persona ha una verità («Anche la Chiesa cattolica, quando pensa di avere il monopolio della Verità, diventa violenta», p. 110); poi dire all’avversario la nostra verità e quanto poco le siamo stati fedeli; quindi dirgli le ingiustizie che ha commesso, motivo per il quale cerchiamo il dialogo con lui; e infine proporre una soluzione concreta. Se il dialogo non ha raggiunto una soluzione, si passa all’azione diretta nonviolenta: è la manifestazione (parla più il silenzio che le urla), la dimostrazione (un’azione che renda evidente l’ingiustizia e tocchi le coscienze), il digiuno, che è pentimento e purificazione, mentre «lo sciopero della fame è una pressione che vuole costringere, non è più nonviolento, ma è una violenza» (p. 124). «Anche se imponiamo la nostra maniera nonviolenta di vedere le cose, siamo dei violenti» (p. 138). Infine, la disobbedienza civile a ordini e leggi ingiuste: «Bisogna imparare a disobbedire. Che cosa invece ci insegna la religione? Ci insegna ad obbedire. (…) Bisogna obbedire al Padre, non agli uomini, se non quando professano la legge di Dio» (p. 131). Trovo anche qualcosa di discutibile, come l’affermazione «Per principio il potere è sempre violento» (p. 139), che meriterebbe alcune distinzioni.

 
Con un titolo che piacerebbe a chi non crede nella nonviolenza, La violenza dei nonviolenti, nell’ultimo capitolo Jean Goss denuncia la complicità dei “buoni” con un mondo di violenze inaudite, e col potere nucleare: «La nostra morale è monca» (p. 156). Racconta come ha “attaccato” le Chiese, nelle persone dei cardinali Suhard, Ottaviani, Montini, perché prendessero sul serio il problema della guerra. Quando quelli «che, in guerra, «hanno, come me, ucciso senza saperlo centinaia di migliaia di uomini», si accorgono «che la Chiesa non solo non è stata turbata da questo problema, ma che non vi ha neppure pensato in profondità, credetemi, si fa fatica a non perdere la fede» (p. 158). Il libretto termina con un semplice “appello ai teologi” perché colmino il ritardo delle chiese, e ai laici perché li stimolino. In questi decenni qualcosa è stato fatto: abbastanza?
Se qualcuno trova troppo “religiosa” la nonviolenza di Jean Goss, può pensare che molte strade portano a questa scelta, ma può trovare anche un’ammissione relativa all’inizio del suo impegno: «Non sapevamo esporre il problema da tutti i punti di vista, sapevamo esporlo solo dal punto di vista della nostra fede nell’uomo e in Dio. Ma ci sfuggiva la conoscenza della maggior parte delle scienze umane»: questa carenza è oggi meglio affrontata dalla cultura nonviolenta, ma quella ispirazione dà grande energia interiore.

 

Enrico Peyretti (22 gennaio 2007)

 

Tratto da PeaceLink 25/11/2008

 

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