REGIA MARINA

 


NAVE CORAZZATA ROMA

BATTLESHIP ROMA


La corazzata Roma fu una nave da battaglia, la terza unità della classe Littorio e rappresentò il meglio della produzione navale bellica italiana della seconda guerra mondiale. Costruita dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico e consegnata alla Regia Marina il 14 giugno 1942, venne danneggiata nel corso di un bombardamento aereo statunitense quasi un anno dopo mentre era alla fonda a La Spezia, subendo in seguito altri danni che la costrinsero a tornare operativa, dopo le dovute riparazioni, solamente il 13 agosto 1943. A seguito dell'armistizio italiano, alla Roma fu ordinato, assieme ad altre navi militari, di raggiungere l'isola sarda della Maddalena, come concordato con gli Alleati. La squadra navale italiana, tuttavia, venne attaccata da alcuni bombardieri tedeschi che, servendosi delle bombe radioguidate plananti Ruhrstahl SD 1400, affondarono la Roma. Nei suoi quindici mesi di servizio la Roma percorse 2.492 miglia in venti uscite in mare, senza partecipare a scontri navali, consumando 3.320 t di combustibile, rimanendo fuori servizio per riparazioni per 63 giorni. Il 28 giugno 2012 il relitto della corazzata è stato rinvenuto a 1000 metri di profondità e a 16 miglia dalla costa nel golfo dell'Asinara dopo decenni di ricerche. La caratteristica più significativa della corazzata Roma fu data dalle pessime doti balistiche dei cannoni italiani. I tanto lodati cannoni da 381/50 della Roma non erano in grado di centrare un isolotto a dieci chilometri di distanza. Questo a causa della grande dispersione di tiro dei cannoni che faceva in modo che ogni colpo avesse caratteristiche diverse dagli altri non permettendo quindi di centrare il bersaglio. In tutta la Seconda Guerra Mondiale questo tipo di cannone, equipaggiato anche sulle corazzate Vittorio Veneto e Littorio, non riuscì mai a centrare un bersaglio (Shinano).


CARATTERISTICHE TECNICHE

Nave Roma
Classe  Littorio
Tipo Corazzata
Cantiere Cantieri Riuniti dell'Adriatico  San Marco - Trieste
Impostazione 18 settembre 1938
Varo 9 giugno 1940
Entrata in servizio 14 giugno 1942

DIMENSIONI

Lunghezza 240,70 metri
Larghezza 32,90 metri
Immersione 9,60 metri (vuota)

10,50 metri (a pieno carico)

DISLOCAMENTO

A pieno carico 46.215 tonnellate
Normale 44.050 tonnellate
Standard vuota 41.650 tonnellate
Di disegno 35.000 tonnellate

MOTORI

Caldaie 8 caldaie a coppie 
Turbine 4 turbine Belluzzo
Potenza 140.000 cavalli vapore
Velocità 30 nodi  

32 nodi raggiunti in prova

Combustibile 4.000 tonnellate
Autonomia 4.580 miglia marina a 16 nodi

PROTEZIONE

Prua inferiore: 100 - 249 mm.

media: 350 mm.

superiore: 61-129 mm.

Poppa inferiore: 100 - 162 mm.

media: 71 mm.

superiore: 104 mm.

Lanciasiluri 40.6 mm.
Torrette principali davanti: 289.5 mm.

lati: 210 mm.

dietro: 100 mm.

barbette laterali: 350.5 mm.

Torrette secondarie davanti: 134.6 mm.

lati: 61 mm.

dietro: 35.6 mm.

barbette laterali: 100 mm.

Ponte di comando 259 mm.

200 mm. corridoio di comunicazione

ARMAMENTO

Principale 9 x Ansaldo/OTO da 381 mm., modello del 1934, in 3 torri trinate, 2 a prua ed 1 a poppa
Secondario 12 x Ansaldo da 152 mm., modello del 1936 in 4 torri trinate

Caratteristiche (tratto da http://it.wikipedia.org/wiki/Roma_(nave_da_battaglia_1940)
Il sistema di cilindri assorbitori "Pugliese" delle Cavour, di generazione precedente a quello installato sulle Littorio Progettata dal generale ispettore del Genio Navale Umberto Pugliese, questa classe di navi da battaglia costituì uno dei primi esempi al mondo di unità sopra le 35 000 tonnellate, limite imposto dal trattato navale di Washington in vigore all'epoca della progettazione e costruzione dell'unità,[5] ma che venne disatteso di oltre il 15% per ottenere le caratteristiche desiderate, come già accaduto con la classe Zara di incrociatori pesanti; in effetti il limite fissato in un documento riservato redatto da parte del Sottosegretario alla Marina fu di 40.000 t.[5] Dopo l'impostazione, nel 1934, delle prime due unità della classe, Littorio e Vittorio Veneto, in seguito al deteriorarsi della situazione internazionale con la guerra d'Etiopia e la guerra civile spagnola, fu dato nuovo impulso al riarmo navale, nel 1938, con l'impostazione della Roma e della sua gemella Impero.


Impianti
La propulsione era a vapore con quattro gruppi turboriduttori alimentati dal vapore di otto caldaie tipo Yarrow/Regia Marina alimentate a nafta in cui l'acqua di alimentazione veniva preriscaldata passando attraverso tubi investiti dai gas di scarico, sfruttando in maniera più efficiente il calore sprigionato dai bruciatori. Nel XX secolo questo tipo di caldaia diventò il modello standard per tutte le caldaie di grosse dimensioni, grazie anche all'impiego di acciai speciali in grado di sopportare temperature elevate e allo sviluppo di moderne tecniche di saldatura. L'apparato motore era protetto da cilindri corazzati singoli per ogni caldaia e per ogni ventilatore, mediante coperture corazzate a distanza sul ponte superiore e da diaframmi corazzati alla base; il sistema di protezione era coordinato alla corazzatura di murata sovrastante e alle strutture sottostanti del triplo fondo.
Secondo varie fonti l'apparato motore forniva una potenza massima di 130 000-140 000 CV[5] e consentiva alla nave di raggiungere la velocità massima di 31 nodi, con un'autonomia che ad una velocità media di 20 nodi era di 3 920 miglia.[5] Tuttavia la velocità massima poteva essere raggiunta solo per brevi periodi e solo impiegando la "extrapotenza", sviluppando in tal modo le macchine una potenza di 160.000 CV. Velocità massima che in ogni caso non venne mai raggiunta perché sfruttare la extrapotenza significava consumare una notevole quantità di nafta, nel 1942-1943 estremamente preziosa per la Regia Marina.
Comunque, nel diario di bordo della nave reperito nell'archivio dell'ufficio storico della Marina Militare, è scritto che nelle prove a tutta forza del 21 agosto 1942, avendo a bordo massimi rappresentanti della Marina e delle altre forze armate italiane, imbarcati a Trieste per partecipare al trasferimento a Taranto, e salutata durante la rotta dallo stesso Mussolini imbarcato su un MAS, le prove si svolsero con velocità crescenti (24 – 26 – 28 nodi) e infine, spingendo le macchine a tutta forza, la Roma raggiunse e mantenne per un'ora la velocità di 29,2 nodi.[6] La modesta autonomia, se comparata con unità analoghe di altre marine militari rendeva queste unità idonee solo all'impiego nel Mediterraneo. Le quattro turbine erano collegate a quattro assi dotati di eliche tripale, due centrali e due laterali,[5] mentre il sistema di governo era costituito da un timone principale poppiero, posizionato nel flusso delle eliche poppiere centrali, e da due timoni ausiliari laterali, ampiamente proporzionati e distanziati dal primo, situati nel flusso delle due eliche laterali, che costituivano il governo di emergenza della nave.
La nave poteva ospitare al massimo tre velivoli (tutti della Regia Aeronautica, visto che la Marina non poteva possedere velivoli), generalmente i ricognitori IMAM Ro.43 anche se, dall'estate 1943,[7] giunsero due caccia Reggiane Re.2000 Catapultabile.[8] La nave era dotata di due gru per il recupero degli idrovolanti, ma visto il tempo necessario al ricupero da effettuare a nave ferma, normalmente gli idrovolanti venivano fatti dirigere verso un aeroporto amico, prassi invece obbligatoria per i caccia. I Reggiane Re.2000 appartenevano inizialmente ad una squadriglia speciale, la "Squadriglia di Riserva Aerea delle FF.NN.BB." (Forze Navali da Battaglia), composta da otto velivoli dei quali sei operativi alla data dell'armistizio inquadrati nel "1º Gruppo di Riserva Aerea delle FF.NN.BB." e, di questi, uno si trovava sulla Roma alla partenza per La Maddalena.[9] La nave disponeva inoltre di un radar EC3/ter "Gufo",[10] sviluppato dalla SAFAR di Milano.


Costruzione
La nave fu impostata sugli scali del Cantiere San Marco di Trieste il 18 settembre 1938 e dopo il varo, avvenuto il 9 giugno 1940, il giorno prima della dichiarazione di guerra, venne inviata a Monfalcone per il completamento. Sin dal varo, al comando dell'unità venne designato il capitano di Vascello Adone Del Cima che seguì tutte le fasi dell'allestimento. La nave venne consegnata il 14 giugno 1942.


Armamento
L'armamento principale era costituito da nove cannoni da 381/50 Mod. 1934[10] in tre torrette trinate ad azionamento elettrico, che sparavano proiettili da 885 kg (perforanti) e 774 kg (esplosivi) con un alzo massimo di 36º alla velocità iniziale di, rispettivamente, 850 m/s (perforanti) e 870 m/s (esplosivi) capaci di colpire alla distanza di 44,6 km.[11][12] Oltre a questi la corazzata ospitava come armamento secondario antinave dodici cannoni da 152 mm in torri trinate che, pare, potessero essere usati anche per lo sbarramento antiaereo, dodici cannoni antiaerei da 90/50 mm in installazioni singole e quattro da 120/40 mm per tiro illuminante, più venti cannoni da 37/54 mm (in otto installazioni binate più quattro singoli) e ventotto mitragliere antiaeree da 20 mm (in quattordici installazioni binate). Secondo alcune fonti, invece, sarebbero state presenti trentadue mitragliere in sedici installazioni binate.[5] I cannoni da 90/50, di tipo duale (antiaereo ed antinave) a caricamento manuale ed elevazione massima di 75º, avevano una gittata massima con alzo 45º di 15.548 metri (antinave), stimata in 13.000 secondo altre fonti, ed una tangenza di 9.000 metri (antiaerea),10.500 secondo altre fonti.


ARMAMENTO

I nuovi cannoni Ansaldo 381/50 mm con un elevazione massima di 30° e con ciascun pezzo in compartimento della torre separato dall'adiacente per mezzo di una paratia corazzata fu, ed è tuttora, l'arma balistica più potente mai sviluppata dall'industria nazionale. Anche questi cannoni ebbero un anima ricambiabile a freddo, in questo caso si doveva cambiarle ogni 220 colpi. Questi cannoni ebbero difetti di dispersioni più dovuti al munizionamento che a difetti propri ma presentarono anche problemi di dentizione ai complessi di brandeggio che in alcuni casi ne limitò l'efficacia. Potevano sparare un colpo ogni 45 secondi. 

Le Littorio ebbero uno dei complessi di armamento più potenti e moderni mai installati su di una corazzata.

I cannoni da 381mm. Modello 1934 nonostante l'alzo limitato a soli 30 gradi erano le armi a più lunga gittata – sia pure per pochissima differenza - mai avute da una nave da battaglia (se si esclude l'armamento missilistico), e oltre a questo la loro alta velocità iniziale e la pesantezza della munizione (oltre 880 kg) consentivano una capacità perforante eccellente, confrontabile con i migliori cannoni da 406 e 460 mm e sensibilmente superiore a quanto i cannoni moderni tedeschi e francesi calibro 380 mm erano in grado di offrire. Una corazza da 350 mm. era perforabile ad oltre 25 km, a breve distanza la perforazione possibile ammontava a circa 80cm.

Tuttavia, non erano presenti solo vantaggi.

I cannoni italiani avevano una cadenza di tiro assai ridotta, la dispersione del tiro era assai rilevante e se nessun colpo pare sia mai andato a segno nelle numerose battaglie sostenute, non si può certo affermare che la colpa fosse dovuta solamente alla mancanza di radar, che tra l'altro ad un certo punto della guerra venne installato.

I cannoni avevano anche una ridotta riserva di munizioni e la vita utile dell'anima del cannone era relativamente breve, con un totale stimato di circa 140 colpi sparabili senza degrado inaccettabile delle qualità balistiche, all'incirca la metà dei contemporanei cannoni stranieri.

A parte questo, la perforazione delle corazze verticali era assai elevata a causa della traiettoria molto veloce dei proiettili, ma questa era anche molto tesa data la ridotta elevazione: non c'è da stupirsi se la perforazione di armature orizzontali, essenziale nel tiro curvo da lunga distanza, fosse tutt'altro che impressionante, decisamente inferiore a quella dei cannoni da 381 inglesi (anch'essi elevabili a 30 gradi) e appena migliore di quelli tedeschi.

I cannoni secondari erano armi da 152 mm dell'ultimo modello, installati anche su incrociatori leggeri dell'ultima generazione (come il Giuseppe Garibaldi), sistemati in torri trinate assai robuste (fino ad oltre 100mm di corazzatura) che erano anch'esse derivate direttamente da quelle delle navi minori. La loro gittata arrivava ad oltre 24 km ed essi avevano delle elevate qualità balistiche, ma una cadenza di tiro non straordinaria e le solite problematiche balistiche.

I cannoni da 90 mm erano un modello sofisticato, dotati di affusti totalmente chiusi e leggermente corazzati, avevano anche un sistema di stabilizzazione che peraltro si rivelò troppo sofisticato per l'epoca. Le armi erano sistemate in torri singole, per cui erano necessarie ben 12 di queste, 6 per lato. Il volume di fuoco era elevato, ma un affusto binato sarebbe stato certamente più efficiente nella concentrazione di fuoco e molto meno impegnativo dal punto di vista della progettazione della nave. Se non altro, esse contribuivano a rendere elegante la sagoma della corazzata.

Le mitragliere contraeree erano sia binate da 20 che da 37 mm, il meglio che l'Italia potesse sviluppare autonomamente ed assai efficaci nel loro ruolo di difesa ravvicinata, come anche il numero complessivo, 36, era adeguato.

Non erano previsti invece siluri, ma l'armamento "accessorio" era completato da 3 idrovolanti a poppa, dove era presente una catapulta. Tra le macchine impiegate, in genere Ro.43, era possibile trovare anche i Re.2000 catapultabili, aerei da caccia solo lanciabili senza possibilità di recupero, nonché estremo tentativo di rimediare ad una carenza - l'assenza di portaerei - che sarà il maggiore rincrescimento della Regia Marina durante tutto il conflitto.

Bellissime navi con un solo importante difetto, i proiettili dei cannoni principali avevano delle tolleranze assai elevate per esempio se rapportati con quelli tedeschi. Questo vuol dire che se una torre sparava con tutte le sue canne i colpi potevano anche cadere a 300 metri di distanza, troppi per sperare di colpire qualcosa che non fosse una città ... 

Quello che sorge spontaneo chiedersi è come abbiano fatto questi cannoni a passare i collaudi. Se alla prova dei fatti la dispersione delle canne e dei proiettili non permetteva di calcolare con esattezza dove cadessero i proiettili e quindi di colpire un bersaglio chi fu il funzionario ed il tecnico navale che permise di dotare la classe Littorio di codeste favolose armi?

Può anche succedere che un cannone alla prova dei fatti abbia difetti strutturali tali da non permetterne l'utilizzo operativo ma questo deve essere rilevato quando viene collaudata l'arma non certo quanto viene installato su tre corazzate ed in azioni di guerra.

In pratica avevamo bellissime navi che non erano in grado di colpire un'isola a mezzo chilometro di distanza, figuriamoci un'unità nemica a venti chilometri di distanza che si muoveva a trenta nodi.....


Protezione
La parte centrale della sovrastruttura della Roma in un modello: si notano, da sinistra verso destra, l'albero poppiero con le gru per il recupero degli idrovolanti, i due fumaioli con sotto i complessi singoli da 90 mm, il torrione di comando corazzato e la torre n° 2 da 381 mm
La Roma aveva la corazza di murata costituita da due strati di piastre inclinate, a differenza di tutte le altre costruzioni mondiali, in cui era costituita da piastre verticali. Quella principale che a centro nave era di 350 mm scendeva a 207 alle estremità,[5] seguita da una secondaria di 36 mm. La compartimentazione e il bilanciamento interno assicuravano buona stabilità e galleggiabilità anche nel caso le navi fossero state colpite da siluri, cosa che venne dimostrata dalle vicende belliche, quando le corazzate della sua classe, ripetutamente colpite, riuscirono a rientrare alle loro basi. La protezione dagli attacchi subacquei era ottenuta tramite il sistema dei Cilindri Pugliese, ideati dall'ingegnere e generale del genio navale Umberto Pugliese.[5] I Cilindri Pugliese consistevano in contenitori di 3,80 m di diametro e 120 m di lunghezza, collocati all'interno di una intercapedine tra lo scafo interno e la murata esterna e riempiti con acqua o nafta.[5] In caso di esplosione di mina o siluro, la potenza d'urto sarebbe stata distribuita in tutte le direzioni, diminuendo i relativi danni.


Servizio
La nave venne consegnata il 14 giugno 1942; non ebbe pertanto la possibilità di partecipare ad azioni belliche contro la flotta britannica. Il 21 agosto arrivò a Taranto dove fu assegnata alla IX divisione navale,[2] comprendente le navi Roma, Littorio e Vittorio Veneto.
Il 5 giugno 1943, durante il bombardamento della base di La Spezia, alle 13:59 due bombe perforanti da 908 kg danneggiarono estensivamente lo scafo, facendo penetrare 2.350 t d'acqua.[2] Anche la gemella Vittorio Veneto venne danneggiata, riducendo la squadra da battaglia alla sola Littorio, che era stata precedentemente danneggiata nel bombardamento di La Spezia avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 aprile, in cui era stato affondato il cacciatorpediniere Alpino. Mentre la Vittorio Veneto poté essere riparata in arsenale, rientrando in squadra in poco più di un mese, per la corazzata Roma, colpita nuovamente da altre due bombe, che non causarono falle nello scafo, durante il bombardamento della notte del 24 giugno, furono necessari l'entrata in bacino e il trasferimento a Genova, rientrando in squadra solamente il 13 agosto.


L'affondamento
La partenza
Il giorno in cui Badoglio proclamò l'armistizio italiano, 8 settembre 1943, la nave si trovava a La Spezia pronta a muovere per affrontare le navi Alleate impiegate a proteggere le truppe impegnate nello sbarco di Salerno previsto per il giorno successivo, ma nella stessa giornata dell'8 settembre l'ammiraglio Carlo Bergamini, comandante delle forze navali da battaglia, venne avvertito telefonicamente dal capo di Stato maggiore della Marina Raffaele De Courten dell'armistizio ormai imminente, e delle relative clausole che riguardavano la flotta, che prevedevano il trasferimento immediato delle navi italiane a Malta, dove sarebbero rimaste in attesa di conoscere il proprio destino e che durante il trasferimento avrebbero innalzato, in segno di resa, pennelli neri sui pennoni e disegnato due cerchi neri sulle tolde De Courten, dopo aver escluso l'autoaffondamento e la possibilità di tentare un'ultima battaglia (in accordo con Bergamini), accettò le disposizioni impartite dal capo della Mediterranean Fleet britannica Andrew Cunningham.
L'ammiraglio di squadra Carlo Bergamini, comandante delle forze navali da battaglia della Regia Marina.
Bergamini inizialmente era andato su tutte le furie[16] per poi formalmente accettare con riluttanza gli ordini, dopo che ebbe l'assicurazione che era esclusa la consegna delle navi e l'abbassamento della bandiera e dopo essere stato informato che il generale Vittorio Ambrosio aveva chiesto agli angloamericani che la flotta per motivi tecnici potesse trasferirsi all'isola sarda de La Maddalena, dove tutto era pronto per l'ormeggio delle navi e dove si sarebbero trovati il re Vittorio Emanuele III e il governo.
Cunningham, conscio che le navi italiane erano in difetto di protezione aerea, informò che queste avrebbero dovuto mollare gli ormeggi da La Spezia al tramonto dell'8 settembre, ma la squadra navale italiana, sottovalutando il pericolo rappresentato dalla Luftwaffe, salpò solamente alle 03:00 del mattino del 9 settembre.[17] Avendo Bergamini preso in mano la situazione, la corazzata Roma con l'insegna di nave ammiraglia della flotta, salpò per dirigersi a La Maddalena, insieme alle corazzate Vittorio Veneto e Italia che con la corazzata Roma costituivano la IX Divisione, con gli incrociatori Montecuccoli, Eugenio di Savoia e Attilio Regolo, che in quel momento costituivano la VII Divisione, i cacciatorpediniere Mitragliere, Fuciliere, Carabiniere e Velite della XII Squadriglia ed i cacciatorpediniere Legionario, Oriani, Artigliere e Grecale della XIV Squadriglia ed una Squadriglia di torpediniere formata da Pegaso, Orsa, Orione, Ardimentoso e Impetuoso, nave insegna della squadriglia.


La navigazione
La formazione, circa tre ore dopo la partenza, si ricongiunse con il gruppo navale proveniente da Genova, formato dalle unità della VIII Divisione, costituita da Garibaldi, Duca d'Aosta e Duca degli Abruzzi, nave insegna dell'ammiraglio Luigi Biancheri, preceduti dalla torpediniera Libra, al cui comando c'era il capitano di corvetta Nicola Riccardi. Dopo il ricongiungimento delle due formazioni navali, per ottenere una omogeneità nelle caratteristiche degli incrociatori, il Duca d'Aosta passò dalla VIII alla VII Divisione, sostituendo l'Attilio Regolo che passò alle dipendenze della VIII Divisione.
La formazione navale, composta da ventitré unità, navigava senza avere issato i pennelli neri sui pennoni e aver disegnato i dischi neri sulle tolde come prescritto dalle clausole dell'armistizio, ma la corazzata Roma con a bordo l'insegna dell'ammiraglio Bergamini aveva innalzato il Gran pavese. La formazione passata tra Imperia e Capo Corso puntò a sud, mantenendosi ad una ventina di chilometri dalle coste occidentali della Corsica, quindi le unità si diressero verso est in direzione delle Bocche di Bonifacio. Durante la navigazione vi furono tre allarmi aerei, in occasione dei quali le navi si misero a zigzagare. All'imboccatura delle Bocche di Bonifacio, all'altezza di Capo Testa, la squadra si dispose in linea di fila, con in testa le sei torpediniere, quindi i sei incrociatori seguiti dalle tre corazzate e infine gli otto cacciatorpediniere.
Pur avendo l'ammiraglio Bergamini richiesto una scorta aerea, quasi tutte le squadriglie da caccia in Sardegna e Corsica erano in trasferimento verso Roma, e solo quattro Macchi M.C.202 decollarono da Vena Fiorita, un aeroporto militare ora dismesso vicino Olbia,[18] per la scorta, ma non essendo stato indicato che la flotta navigava ad ovest e non ad est della Corsica, la cercarono senza esito per oltre un'ora. Tra le 14:30 e le 14:45, quando la flotta stava per giungere al punto più stretto delle Bocche di Bonifacio, l'ammiraglio Bergamini ricevette da Supermarina un messaggio con il quale si comunicava che La Maddalena era stata occupata dai tedeschi e gli venne ordinato di cambiare rotta e dirigersi a Bona in Algeria. Bergamini ordinò di invertire subito la rotta di 180º e dopo che la manovra venne eseguita a velocità elevata l'ordine della linea di fila si trovò ad essere esattamente opposto a quello precedente, con i cacciatorpediniere in testa e le torpediniere in coda.


Alla fonda a La Spezia
Durante la giornata, aerei tedeschi avevano eseguito senza successo un attacco sulla formazione italiana, con uno sgancio in picchiata, ed un ricognitore Ju-88 aveva già avvistato, intorno alle 10:50, la flotta e segnalato che faceva rotta in direzione dell'Asinara.


L'attacco della Luftwaffe
Verso le 15:10,[14] al largo dell'isola dell'Asinara la formazione venne sorvolata ad alta quota da ventotto bimotori Dornier Do 217K del Kampfgeschwader 100 della Luftwaffe partiti dall'aeroporto di Istres, presso Marsiglia, in tre ondate successive, la prima delle quali si alzò in volo poco dopo le 14:00, con i velivoli che avevano l'istruzione di mirare unicamente alle corazzate. Gli aerei mantenendosi in volo livellato sganciarono degli "oggetti" affusolati, la cui coda luminosa, data l'altezza alla quale volavano gli aerei, fu inizialmente scambiata per un segnale di riconoscimento; si trattava di bombe razzo teleguidate Ruhrstahl SD 1400, conosciute dagli Alleati con il nome di Fritz X, la cui forza di penetrazione era conferita dall'alta velocità acquistata durante la caduta, essendo prescritto il lancio da un'altezza non inferiore ai 5000 metri. La bomba era munita di un apparecchio ricevente ad onde ultracorte trasmesse dall'aereo, che permetteva di dirigerla verso il bersaglio ed avrebbero potuto essere contrastate solo con disturbi radio, in quanto volando alla quota di 6500 metri, anche per gli ottimi cannoni contraerei da 90/50 mm, gli aerei sarebbero stati irraggiungibili una volta avvicinatisi alla nave e superato il massimo angolo di elevazione di 75º. Inoltre il comandante della formazione tedesca, maggiore Jope, come dichiarato in un'intervista degli anni settanta, riteneva (erroneamente) che la massima quota raggiungibile dalle artiglierie contraeree italiane fosse di 4000 metri:
« No. Non conoscevo i calibri della contraerea italiana, ma sapevo che potevano sparare a una distanza di circa 4.000 metri. E il mio aereo, e quelli del mio Gruppo, volavano a circa 5.000 metri perché quella era l'altitudine ottimale per poter dirigere via radio la bomba. Quindi avevamo un buon margine di sicurezza. Ricordo di aver visto molti proiettili esplodere al di sotto di noi, ma sempre a una notevole distanza, e naturalmente senza procurarci alcun danno. »
Invece, per una troppo stretta ottemperanza alle disposizioni del comando supremo di osservare la neutralità, fu solo quando gli aerei sganciarono la prima bomba (e ci si rese conto che si trattava di una bomba), che venne dato alle artiglierie contraeree delle unità della formazione l'ordine di aprire il fuoco; data però l'elevata quota a cui volavano gli aerei tedeschi, le artiglierie contraeree furono costrette a sparare alla massima elevazione, che ne penalizzava la precisione del tiro, utile solo come fuoco di sbarramento.

Alle 15:30 la prima bomba venne diretta contro l'Eugenio di Savoia, cadendo a circa 50 metri dall'incrociatore senza provocare alcun danno, mentre una seconda bomba cadde vicinissima alla poppa dell'Italia (ex Littorio) danneggiando la centrale elettrica e immobilizzandone temporaneamente il timone, per cui la nave venne governata con i timoni ausiliari. Successivamente toccò al Roma; gli aerei, una prima volta fallirono il tiro, ma alle 15:42, l'Oberleutnant Heinrich Schmetz centrò la corazzata una prima volta tra le torri antiaeree da 90 mm; apparentemente il colpo non produsse effetti devastanti ma attraversò lo scafo esplodendo sott'acqua aprendo così una falla Il secondo colpo alle 15:50 centrò la nave verso prua, sul lato sinistro fra il torrione di comando e la torre sopraelevata armata con cannoni da 381 mm, con conseguenze ben diverse: a prua si allagarono le caldaie causando l'arresto nella nave e deflagrarono i depositi di munizioni, cessò l'erogazione dell'energia elettrica e la torre numero 2 (quella coi cannoni da 381 mm) saltò in aria, cadendo poi in mare, con tutta la sua massa di 1500 tonnellate; la torre corazzata di comando fu investita da una tale vampata che venne deformata e piegata dal calore, proiettata in alto a pezzi in mezzo a due enormi colonne di fumo portando con sé l'ammiraglio Bergamini e il suo Stato Maggiore, il comandante della nave Adone Del Cima e buona parte dell'equipaggio, morti pressoché all'istante. La vampata salì almeno a 400 metri di quota (ma alcune fonti parlano di 1500 m), formando il classico "fungo" delle grandi esplosioni.
L'insegna di ammiraglio di squadra, che veniva issata sulla nave che ospitava il comandante delle forze navali da battaglia, nell'occasione appunto il Roma
La nave, alle 16:11, girandosi su un fianco, si capovolse e, spezzandosi in pochi minuti in due tronconi affondò, mentre sul ponte si affannarono i marinai superstiti, molti gravemente feriti ed ustionati. Mentre la nave sprofondò in acqua, chi si trovò a bordo, specialmente se a poppa, rimase condannato, e cinquanta marinai in procinto di gettarsi in acqua vennero travolti. Chi riuscì a lasciare la nave poté allontanarsi ed essere salvato dai cacciatorpediniere di scorta. La scena del Roma che si spaccò in due tronconi venne immortalata in una famosa fotografia scattata da un membro dell'equipaggio di un ricognitore britannico Martin B-26, pilotato a media quota dal tenente colonnello Herbert Law-Wright. L'aereo, tra l'altro, fu fatto segno dal fuoco contraereo delle navi italiane che stavano sparando sugli aerei tedeschi.
I caduti del Roma furono le prime vittime italiane per mano tedesca dopo la dichiarazione dell'armistizio. Successivamente l'Italia venne nuovamente attaccato e questa volta colpito da una bomba, ma essendo la carica di scoppio assai ridotta, la nave da battaglia, nonostante avesse imbarcato circa ottocento tonnellate di acqua continuò, seppure appesantita, a navigare in formazione.



Il soccorso
Senza attendere ordini Mitragliere e Carabiniere invertirono immediatamente la rotta per recuperare i superstiti del Roma, seguiti da Regolo e Fuciliere. A queste unità si aggiunsero le torpediniere Pegaso, Orsa e Impetuoso. Ben 1352 marinai del Roma perdettero la vita. I naufraghi, recuperati dalle unità navali inviate in loro soccorso, furono 622, di cui 503 salvati dai tre cacciatorpediniere, 17 dall'Attilio Regolo e 102 dalle tre torpediniere.
A prendere il comando della flotta diretta a Malta, dopo l'affondamento del Roma, fu l'ammiraglio Oliva, il più anziano tra gli ammiragli della formazione e comandante della VII Divisione con insegna sull'Eugenio di Savoia, che adempì ad una delle clausole armistiziali, quello di innalzare il pennello nero del lutto sui pennoni ed i dischi neri disegnati sulle tolde. Mentre le sette navi si erano fermate a recuperare i morti e i feriti dell'ammiraglia, il resto della squadra proseguì la navigazione dirigendo verso Malta, destinazione scelta dagli Alleati, dove la formazione si sarebbe ricongiunta con il gruppo proveniente da Taranto guidato dall'ammiraglio Alberto Da Zara e costituito dal Caio Duilio, dagli incrociatori Luigi Cadorna e Pompeo Magno e dal cacciatorpediniere Nicoloso da Recco.



Il trasporto dei naufraghi alle Baleari
Il recupero dei naufraghi si concluse poco prima delle 18:00. Il comandante del Mitragliere, capitano di vascello Giuseppe Marini, come ufficiale più anziano, si ritrovò a capo del gruppo composto da sette navi, impossibilitato però a mettersi in contatto con la formazione al comando dell'ammiraglio Oliva e con Supermarina, i cui messaggi dimostravano l'impossibilità di rientrare in porti italiani per sbarcare i feriti, per cui era a quel punto necessario raggiungere le coste neutrali più vicine, anche perché le navi avevano ormai una ridotta autonomia a causa della riduzione delle scorte di nafta.
Marini diede alle torpediniere libertà di manovra sotto il comando del capitano di fregata Riccardo Imperiali, comandante del Pegaso, assumendo il comando del resto della formazione composta dal Regolo e dai tre cacciatorpediniere.[30] Marini decise di dirigere la propria formazione verso le isole Baleari, considerato che la Spagna era neutrale, sperando che avrebbe consentito lo sbarco dei feriti e fornito i necessari rifornimenti di carburante e acqua potabile, senza procedere all'internamento delle navi; per giunta, le Baleari avevano il vantaggio di essere in posizione centrale rispetto ad eventuali successivi spostamenti verso l'Italia, Tolone o l'Africa settentrionale. Marini alle 7:10 del 10 settembre inviò un messaggio alla VII Divisione Incrociatori in cui informò che avrebbe fatto rotta per Mahón, nell'isola di Minorca, dove arrivò alle 08:30.

Le tre torpediniere al comando del capitano di fregata Imperiali lungo la rotta furono ripetutamente attaccate da aerei tedeschi, e perso ogni contatto con le altre navi, anche questo gruppo decise di dirigersi autonomamente verso le Baleari giungendo nel mattino del 10 settembre nella baia di Pollensa, nell'isola di Maiorca.
Dei 622 naufraghi recuperati dalle sette unità, 9 decedettero a bordo delle navi e 16 avrebbero fatto la stessa fine all'ospedale di Mahón.


Le ricerche e il ritrovamento del relitto

Sono stati diversi i tentativi di localizzare e recuperare il relitto del Roma, generalmente ritenuto "riposare" ad una ventina di miglia al largo di Castelsardo (SS). Se la Marina Militare ha dato il benestare e fornito appoggio al raggiungimento del primo obiettivo (su cui comunque non c'è pieno consenso), non ha fatto altrettanto nel dare il via libera al recupero del relitto perché, come ha spiegato l'ex capo di stato maggiore della Marina Paolo La Rosa, lo considera un cimitero da non profanare. Da decenni oggetto di interesse di ricercatori ed esploratori subacquei, ma l'imprecisione delle coordinate del presunto luogo dell'affondamento (41°08′N 8°09′E secondo quanto riferito dai piloti Luftwaffe o 41°10′N 8°40′E secondo quanto comunicato dall'ammiraglio Oliva alle 16:20 del 9 settembre 1943) e la variabile profondità del mare hanno frustrato i tentativi di ritrovamento. Nel 2007 un'altra spedizione sembrò aver individuato l'esatta posizione del relitto (di cui è stata scattata anche una foto da un ROV) nelle coordinate 41°07′52″N 8°37′44″E, attirando addirittura l'attenzione di due case cinematografiche, la tedesca Contex Tv e la svizzera Polivideo, che si misero in contatto con la Marina Militare per ottenere il permesso di girare un documentario, senza tuttavia giungere a nulla.
Il cacciatorpediniere Antonio da Noli nel 1942. Il ritrovamento di questa nave, affondata poco dopo il Roma, diede nuovo impulso alla ricerca del relitto della corazzata italiana
Alla fine dell'estate del 2007 un ricercatore italiano, Fernando Cugliari, ha dichiarato di avere con buona probabilità localizzato il relitto della corazzata, identificando anche, con un ROV, un giubbotto di salvataggio compatibile con quelli usati dalla Regia Marina all'epoca dell'affondamento comunicando anche le coordinate geografiche del punto.[36] L'8 settembre 2009 il ritrovamento del cacciatorpediniere Antonio da Noli, colato a picco a sud di Bonifacio, mentre cercava di unirsi alla formazione di cui faceva parte il Roma, per aver urtato una mina navale, ridestò le attenzioni sul Roma.
Chiarito il fatto che questa si trova a circa 400 m di profondità, il ricercatore catanzarese Francesco Scavelli chiese aiuto alla francese COMEX e alla sua nave oceanografica Minibex. Aiutati anche dalle coordinate fornite da Cugliari due anni prima, Scavelli e la COMEX, assistiti dalla Marina Militare,[37] per il maggio 2008 avevano perlustrato 100 miglia quadrate di mare;solo allora sono emersi documenti riposti negli archivi militari di Washington, Friburgo, Londra e Roma che hanno permesso di identificare la posizione dei campi minati tedeschi, dando così modo al team di ricercatori di ricostruire la probabile rotta seguita dal convoglio italiano nel 1943, nella quale, in un certo punto, è stata riscontrata una forte anomalia magnetica che proverebbe la presenza del Roma.[38] Nel 2011 un'associazione marinara sarda ha avanzato nuove coordinate circa l'esatta ubicazione del Roma. Questa, tenendo conto delle infruttuose ricerche della Marina Militare avvenute nel 2003 e 2007, e dopo aver vagliato documenti ufficiali italiani, è giunta alla conclusione che il Roma si trova nelle coordinate 41°24′N 7°48′E, cioè 33 miglia a nord-ovest dell'Asinara.
Il relitto è stato infine ritrovato il 28 giugno 2012 da un team di ricerca guidato dall'ingegnere Guido Gay, con la presenza di personale della Marina Militare, nel golfo dell'Asinara a 1.000 m di profondità ed a circa 16 miglia dalla costa sarda. Il personale militare è stato in grado di confermare l'esattezza del relitto confrontando le immagini di alcuni cannoni d'artiglieria contraerea.


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