Per una corretta interpretazione del termine “Belcanto”.

                                                                           

Sogni e favole io fingo; e pure in carte

mentre favole e sogni orno e disegno,

in loro, folle ch’io son, prendo tal parte,

che del mal che inventai piango e mi sdegno.

Sogno della mia vita è il corso intero.

Deh Tu, Signor, quando a destarmi arrivo,

fa ch’io trovi riposo in sen del Vero!

 

Pietro Metastasio

 

 

    Con il termine “Belcanto” generalmente si designa un tipo di vocalità a sfondo virtuosistico o comunque rilevante per levigatezza e flessibilità di suono, per l’impeccabile uso di mezzevoci e smorzatore, per la proprietà dei legati, dei portamenti e simili. Per analogia si designano belcantisti i cantanti che si distinguono in un simile tipo di vocalità.

    Nella pratica si fa del termine un uso storicamente improprio; e questo sia da parte dei denigratori del belcanto (che lo ritengono una manifestazione legata a formule ormai superate d’esecuzione a sfondo divistico), sia da parte di melomani e di zelatori di singoli cantanti, portati ad adulare i loro beniamini definendoli come belcantisti. In entrambe i casi si incorre nel grave errore di ritenere il belcanto sinonimo di qualità intrinseche di un esecutore, anziché un fatto di portata storica vincolato ad un preciso periodo, ad un preciso repertorio ed anche a precisi indirizzi artistici che, prima che dei cantanti, sono propri dei compositori e dei librettisti. Il termine cominciò ad essere usato e divulgato tra il 1820 ed il 1830; e quindi proprio mentre il periodo che oggi definiamo come belcantistico, si esauriva. Coloro che per primi parlarono di belcanto (Stendhal ed in modo più ampio Nicola Vaccaj in una sua raccolta di arie) erano tra gli esponenti di una corrente – in primis Gioacchino Rossini – che nei modi di canto introdotti dai primi presagi e fermenti del Romanticismo, scorgeva un rovinoso regresso rispetto al passato. Di qui l’antitesi belcanto-cattivo canto, per il belcanto intendendosi la vocalità prima del 1820 – 1830; ed anche accese polemiche. Oggi si può tuttavia guardare al fenomeno del belcanto con valutazioni storicamente più ampie e delinearlo, quindi, con maggior compiutezza.

 

Corrado Giaquinto, ritratto del Cavalier Carlo Broschi detto Farinelli rivestito del manto con le insegne dell'ordine di Calatrava.

 

    Alcuni storici hanno definito come un periodo di «buon canto» quello che va dalle prime manifestazioni melodrammatiche alla fine del Seicento; mentre il belcanto vero e proprio coinciderebbe con il Settecento e con il primissimo Ottocento. Questa tesi è abbastanza attendibile se riferita alle pure e semplici evoluzioni della tecnica vocale, ma non tiene conto che molti elementi distintivi del belcanto trascendono il fatto vocale. Alcuni di essi sono presenti già nel melodramma fiorentino della Camerata de’ Bardi, altri compaiono con l’opera romana e confluiscono già abbastanza caratterizzati nel melodramma veneziano del secondo Seicento. Le matrici del belcanto vanno ricercate nella tendenza alla astrattezza e nel gusto dell’era barocca. Periodo tanto fantasioso quanto sensuale il Barocco inclina alla stilizzazione della realtà a tal punto che, in letteratura come in architettura e come in musica, giunge ad alterarla, e a suo modo, a trasfigurarla. Il primo sintomo dell’astratezza del melodramma del Seicento è, sin dall’inizio, l’avversione per le voci più consuete e realistiche (tenore baritonale, baritono, mezzosoprano) alla quale si contrappone per il timbro raro dei bassi profondi e la predilezione per quello rarissimo degli evirati. L’evirato che nell’Orfeo di Claudio Monteverdi configura il protagonista (uomo mitico), quello che nel Sant’Alessio di Stefano Landi impersona una leggendaria figura della Cristianità e quello che, nell’Incoronazione di Poppea, incarna Nerone (personaggio storico avvolto da leggende e miti, sia pur in senso negativo), rappresentano, con la loro voce irreale, l’astratezza del melodramma di tendenza belcantistica ed un deciso affrancamento dalla cosiddetta verità drammatica, da cui il belcanto rifugge perché il gusto barocco considera il realismo come piatto e dozzinale. Di qui il costante uso dei compositori e dei librettisti di affidare agli evirati le parti di amoroso, anche e soprattutto quando l’amoroso è una divinità dell’antico mondo greco-romano od un personaggio storico di dimensioni leggendarie appartenente a quello stesso mondo o, talvolta, al Medioevo od ai poemi cavallereschi: da Giasone, Teseo, Achille a Scipione, Annibale, Pompeo, Cesare, Totila od a Rinaldo, Tancredi, Orlando.

    Questa astrattezza timbrica, elemento fondamentale del belcanto, coincide con un altro aspetto del gusto musicale barocco e cioè una certa tendenza all’ambivalenza sessuale, poiché nel belcanto i ruoli stabiliscono con evidenza l’estensione simbolica di quel canto, il suo potere di incarnare personaggi femminili/maschili e di renderli credibili non attraverso la definizione del corpo dell’interprete, ma grazie alla vocalità che li evoca. In definitiva, il belcanto, con la sua estrema suscettibilità nei confronti dei suoni pesanti, metallici, morchiosi, caratterizza i ruoli in base alla rarità del timbro e alle capacità estatiche e virtuosistiche e non in base al sesso, come avverrà quando il Romanticismo si farà latore di istanze realistiche.

 

Bartolomeo Nazzari, ritratto giovanile di Carlo Broschi.

 

    Insomma, il belcanto, anche in ciò diretta emanazione del Barocco, si forgia suoi propri criteri di plausibilità e credibilità. In questo senso, esso potrebbe essere definito come il periodo storico che ha avuto maggiore fiducia nelle possibilità espressive del canto. Una fiducia così illimitata che il timbro e le melodie vocali bastano a creare una realtà autonoma dalla realtà sensibile. Ne nasce l’uso di affidare parti di amoroso e di eroe anche a donne in travesti e parti di amorose ad evirati in abbigliamento muliebre. Ma alla astrattezza timbrica fa riscontro una astrattezza di linguaggio. Quando Monteverdi stabilisce che il canto di stile recitativo, semplice, disadorno, in parte improntato al linguaggio umano, s’addice ai personaggi che raffigurano uomini e donne, mentre le divinità esigono, in scena, il «canto di garbo» (passaggi vocalizzati, ornamenti), enuncia uno dei principi fondamentali della poetica belcantistica: il personaggio mitico o favoloso deve esprimersi in linguaggio stilizzato, allegorico, per distinguersi dai comuni mortali.

    A questo principio il melodramma si atterrà fino a Rossini. Appunto da ciò deriva l’importanza del virtuosismo nel belcanto. Per certi aspetti si potrebbe dire che, per il gusto belcantistico, tanto più il personaggio è mitico, quanto più questa posizione sublimata deve essere espressa in una sorta di epicità vocale tradotta in schemi melismatici di grande complessità. E questi schemi sono soprattutto gli evirati ad esprimerli, non soltanto per la rarità del timbro, ma massimamente per le eccezionali facoltà che si assommavano nella loro organizzazione vocale e nel loro addestramento. Il virtuosismo vocale che si sviluppa dagli inizi del Seicento ai primi decenni del Settecento, chiaramente si rifà a ciò che era, nel periodo barocco, il fine supremo di ogni manifestazione artistica: suscitare meraviglia. E dunque la «poetica della meraviglia» è uno degli elementi essenziali del belcanto. Suscitano meraviglia il timbro raro, la voce che – stante il simultaneo sviluppo del virtuosismo vocale e di quello strumentale ed i continui scambi tra le due sponde – emula il violino o la tromba, le grandi finzioni macchinistiche della scenografia barocca che rafforzano la caratura mitica o favolosa del personaggio che canta. Ma la meraviglia, per la sensibilità barocca è emozione profonda, commozione. Risponde alla «poetica della meraviglia» anche la prassi delle variazioni ed improvvisazioni dei cantanti, che colpisce il pubblico non soltanto per l’estemporanea trovata virtuosistica, ma per il gusto, lo stile e la fantasia della variazione e dell’ornamentazione. Ma in tutto ciò l’esecutore belcantista è soggetto e, al tempo stesso, oggetto. Giacché sono le strutture melodrammatiche approntate dai compositori e dai librettisti che consentono al cantante di esprimersi come si esprime: il tipo di melodia, il tipo di scrittura vocale, il tipo di accompagnamento, la scelta dello strumento concertante con cui gareggiare e, ancora più a monte, la distribuzione e la conformazione delle arie e dei pezzi chiusi in genere, di cui il librettista stabilisce il numero, le dimensioni, il metro ed il genere. Ne la meraviglia che compositori, librettisti, cantanti miravano a suscitare consisteva soltanto nel gioco combinato del timbro raro e del virtuosismo.

 

Anonimo, ritratto di Gaetano Guadagni.

 

    Meraviglia, per la sensibilità barocca e per ciò emozione, era tutto ciò che corrispondeva ad un elaborato frutto della fantasia umana. Quindi anche l’espressione patetica – il barocco fu un periodo molto emotivo – e la raffigurazione sublimata (verosimile, cioè, ma non realistica) dei sentimenti e delle passioni. Una delle interpretazioni più false e più rozze del fenomeno belcantistico è quella che tende ad identificarlo con il solo virtuosismo. La vocalità semplice, spianata (cioè non fiorita) di natura elegiaco-patetica, come pure l’ampiezza e l’eloquenza nell’esecuzione dei recitativi, furono, con l’astrattezza ed il virtuosismo, la terza fondamentale componente del belcanto. Stendhal, anzi, nella vita di Rossini, ravvisò proprio nella varietà di accenti e di tinte e nell’eloquenza dell’espressione, l’arte del canto così come l’avevano configurata gli ultimi evirati. E se egli lamentava una decadenza nelle nuove generazioni non era per carenza di virtuosismo, ma per il venir meno di quel «cantar che nell’anima si sente» (così anche Rossini e, con parole quasi identiche Pacini) di cui gli evirati, muro maestro del belcanto, erano stati i maggiori esponenti. Le facoltà espressive degli evirati risalivano, secondo Stendhal, ad un addestramento tecnico che consentiva, attraverso la facilità, la fluidità e l’omogeneità di emissione, non soltanto un accentuato fascino timbrico, ma sfumature quasi infinitesimali di tinte, inflessioni, sonorità, accenti. Queste affermazioni di Stendhal coincidono con una delle più acute definizioni del belcanto che siano mai state date e che dobbiamo a Reynald Hahn, il quale considera come elementi fondamentali del belcanto: a) la stilizzazione intesa come trasfigurazione artistica della realtà; b) la capacità dei cantanti di passare «attraverso tutti i colori del prisma sonoro», usando non una tinta o due o tre, ma dieci o venti, grazie ad un dosaggio del suono di estrema abilità e sottigliezza. Questa straordinaria delicatezza, duttilità e ricchezza di tinte determina altrettanta delicatezza, duttilità e ricchezza d’espressione e porta in certe arie a quella estasi lirica che molto arbitrariamente le correnti antimelodrammatiche hanno definito come edonismo e che viceversa era uno dei momenti magici del melodramma belcantista. All’esigenza dell’estasi lirica e non al gusto dell’ambiguità sessuale, dobbiamo l’importanza nel Settecento e nel primo Ottocento, oltre che degli evirati, delle donne che cantano in travesti e delle voci femminili in genere. Il Belcanto richiede sia il virtuosismo sia l’espressione patetica a tutti i tipi di voce, ma ritiene che solo le voci bianche degli evirati e delle donne abbiano la duttilità, la fluidità e la pieghevolezza necessarie ad una suggestiva esecuzione e degli arditi virtuosismi e delle melodie delicate e sottilmente larmoyantes che caratterizzavano le parti di amoroso e di amorosa. Perciò mentre agli illuministi e, più ancora, ai romantici sembreranno assurde i personaggi di eroi e di amorosi incarnati da evirati o da donne, il belcanto troverà altrettanto assurdo che cantino da amoroso le due voci maschili allora in uso (tenore baritonale e basso), perché esse suonano pesanti, metalliche, morchiose al gusto del Seicento e del Settecento e non si identificano con le melodie e con i sentimenti che un amoroso deve esprimere.

    Nei periodi che subentrarono al barocco – dal Rococò all’Arcadia fino a giungere al Neoclassicismo – il melodramma italiano mantenne il carattere di opera belcantistica perché i compositori ed i librettisti vollero preservare il carattere astratto e favoloso delle trame, dei personaggi e del linguaggio, pur procedendo ad una serie di mutamenti strutturali. Ma Rossini, che trasforma l’antico concetto barocco della meraviglia intesa come emozione assoluta, nel principio del sentimento umano espresso in modo meraviglioso, è l’ultimo compositore che consideri come banale e volgare il realismo insito nella verità drammatica.

    Il Romanticismo procede invece in senso contrario. Tende a mettere a nudo i sentimenti umani attraverso una raffigurazione sempre più realistica; esige timbri vocali che rispecchino con precisione il sesso e l’età del personaggio; riversa sul linguaggio vocale certe suggestioni del linguaggio parlato o declamato a scapito delle allegorie del canto fiorito; offre all’esecutore sempre minori occasioni di improvvisare; introduce tipi d’accompagnamenti che costringeranno i cantanti a gareggiare in vigore con l’orchestra; eleva le tessiture; giocherà sull’effetto di note acutissime emesse di forza (come il Do di petto del tenore Gilbert Duprez, che alle belcantistiche orecchie di Rossini suonerà come «l’urlo di un cappone sgozzato») e, in definitiva menomerà gravemente sia le capacità virtuosistiche dei cantanti sia quella fluidità e capacità di emissione da cui scaturiva una eccezionale varietà di colori, sfumature e gradazioni sonore. Tutto questo si manifesterà in modo progressivamente accentuato nel secondo Ottocento, ma già con Bellini e Donizetti è piuttosto improprio parlare di belcanto, trattandosi di compositori tendenzialmente inclini, in non poche opere, ad anteporre il realismo romantico all’astrattezza belcantistica. Assolutamente erroneo e fuori luogo è poi parlare di belcanto per esecuzioni ed esecutori di Verdi e di Puccini, come pure la retorica dei melomani spesso pretende. Il fatto che anche Verdi talvolta scriva ornamenti e vocalizzi non ha rilevanza alcuna. La coloritura di Verdi si propone obiettivi ben diversi da quelli che potevano proporsi Alessandro Scarlatti, Nicolò Porpora, Giovanni Bononcini, Leo, Vinci, Georg Friderich Haendel, Johann Adolph Hasse e Gioacchino Rossini, cioè gli autori che maggiormente caratterizzarono nelle sue varie fasi, il belcanto. E d’altronde il virtuosismo è soltanto una delle componenti del belcanto non la sua immagine.

    Il belcanto è, in definitiva, un periodo storico ed anche una poetica, fondata sulle emozioni della meraviglia e dell’estasi lirica. Come tale ha a protagonisti i compositori ( e per varii aspetti i librettisti) prima ancora dei cantanti. I quali sono belcantisti quando eseguono, con il dovuto rispetto delle regole, un’opera di un autore belcantista; non lo sono indipendentemente dalle loro qualità, quando eseguono lavori estranei al ciclo del belcanto, di quel periodo cioè di cui furono gli artefici coloro «… che non potean percorrere altra carriera che quella del canto; furono i fondatori del “cantar che nell’anima si sente” e l’orrenda decadenza del belcanto italiano ebbe origine dalla soppressione di essi» (G. Rossini, lettera a Luigi Grisostomo Ferrucci 23 marzo 1866).

 

 Liberamente tratto dalla "Storia del Belcanto" di Rodolfo Celletti,

a cura di Andrea Moncada-Paternò

                                                                                 

 

 

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