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Ultimo aggiornamento: 15-10-03

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Le amministrative del Maggio 2002

 

Fin dalla vigilia, le recenti consultazioni erano state caricate di attese che andavano molto al di là di un semplice turno di elezioni amministrative, per di più parziali. Ovviamente non si poteva pretendere —come qualcuno avrebbe voluto — che i risultati riflettessero con chiarezza le tendenze politiche del Paese, fino a cogliervi addirittura un giudizio sul primo anno di Governo Berlusconi. Infatti, ora che disponiamo dei risultati definitivi dei due turni, quasi tutti i commentatori si limitano a parlare di un generico «pareggio» tra i due schieramenti, che neppure la netta rimonta del centro-sinistra al secondo turno avrebbe sostanzialmente modificato. Tuttavia, pur trattandosi di elezioni amministrative parziali, non si può negare che i dati della recente consultazione rivestano pure un certo significato «politico», perché offrono l’occasione quanto meno di fare alcune riflessioni sullo stato di salute della maggioranza e dell’opposizione, e di formulare qualche previsione. è quanto noi cercheremo brevemente di fare. Faremo riferimento soprattutto ai risultati delle elezioni provinciali, per il fatto che in esse si votano simboli e partiti e non è ammesso il voto disgiunto (come invece nelle elezioni comunali); quindi le preferenze politiche dei cittadini appaiono più chiaramente e sono meno condizionate dalla figura del candidato. Tenendo dunque presenti questi limiti, faremo innanzi tutto una lettura dei risultati elettorali; in secondo luogo, alla luce di questa lettura, cercheremo di capire che cosa si muove all’interno dei due schieramenti; infine, ci sforzeremo di cogliere la lezione principale dell’ultima tornata elettorale. 

Lettura dei risultati elettorali

Al primo turno (26-27 maggio) erano chiamati alle urne 11.170.714 elettori (circa un quarto dell’elettorato), per rinnovare le amministrazioni di 10 Province, di 28 Comuni capoluogo, di 169 Comuni non capoluogo con più di 15.000 abitanti e di oltre 600 Comuni minori (che noi qui non considereremo, essendo essi difficili da collocare politicamente). Gli elettori del primo turno andati effettivamente a votare sono stati il 65,2% per le provinciali (meno 2,5% rispetto a quelle di quattro anni fa) e il 75,8% per le comunali (meno 0,6%). Al secondo turno (10-11 giugno) sarebbero dovuti tornare alle urne 3.254.434 elettori, per decidere con il ballottaggio l’amministrazione di 3 Province, di 10 Comuni capoluogo e di 65 Comuni non capoluogo con più di 15.000 abitanti. In realtà, l’astensionismo è stato ancora più forte. Sono andati a votare soltanto il 51,1% per le provinciali (meno 13,2% rispetto al primo turno) e il 66,4% per le comunali (meno 9,9%). Dai risultati definitivi è possibile trarre due indicazioni: una sicura, l’altra probabile. L’indicazione sicura concerne il numero delle amministrazioni andate all’uno o all’altro schieramento; l’indicazione probabile riguarda, invece, il calcolo approssimativo delle percentuali dei voti ottenuti dai singoli partiti. 

a) Le amministrazioni andate ai due schieramenti

1) Amministrazioni provinciali. – Al primo turno (26-27 maggio): delle 10 amministrazioni provinciali, 4 sono andate al centro-destra (Varese, Como, Vicenza, Reggio Calabria); 3 sono andate al centro-sinistra (Genova, La Spezia, Ancona); 3 sono andate al ballottaggio (Vercelli, Treviso, Campobasso). Al secondo turno (9-10 giugno): delle 3 amministrazioni provinciali in ballottaggio 2 sono andate al centro-destra (Treviso e Vercelli) e 1 al centro-sinistra (Campobasso). In totale: 6 amministrazioni provinciali al centro-destra e 4 al centro-sinistra. 

2) Capoluoghi di Provincia. – Al primo turno (26-27 maggio): dei 28 Comuni capoluogo di Provincia, 11 sono andati al centro-destra (Como, Varese, Parma, Lucca, Rieti, Latina, L’Aquila, Caserta, Lecce, Reggio Calabria, Vibo Valentia); 7 sono andati all’Ulivo o, più esattamente, al centro-sinistra allargato a Rifondazione Comunista e all’Italia dei Valori di Di Pietro (Genova, La Spezia, Savona, Carrara, Pistoia, Matera, Brindisi); 10 sono andati al ballottaggio (Alessandria, Asti, Cuneo, Gorizia, Verona, Piacenza, Frosinone, Isernia, Cosenza, Oristano). Al secondo turno (9-10 giugno): dei 10 capoluoghi in ballottaggio, 8 sono andati al centro-sinistra (Alessandria, Asti, Cuneo, Gorizia, Verona, Piacenza, Frosinone, Cosenza) e 2 al centro-destra (Isernia, Oristano). In totale: 15 capoluoghi al centro-sinistra e 13 al centro-destra.

3) Comuni non capoluogo con più di 15.000 abitanti. – Al primo turno (26-27 maggio): dei 169 Comuni non capoluogo con più di 15.000 abitanti, 62 sono andati al centro-destra; 42 sono andati al centro-sinistra; 65 sono andati al ballottaggio. Al secondo turno (9-10 giugno): dei 65 Comuni non capoluogo con più di 15.000 abitanti, in ballottaggio, 42 sono andati al centro-sinistra e 23 al centro-destra. In totale: 84 al centro-sinistra e 85 al centro-destra.

b) Le percentuali (approssimative) dei singoli partiti

Un computo approssimativo dei voti andati ai singoli partiti si può fare analizzando — come dicevamo — i risultati delle elezioni provinciali. Stando all’elaborazione compiuta dall’ispo sui dati del Ministero dell’Interno relativi all’insieme delle 10 Province in cui si è votato al primo turno (cfr Il Corriere della Sera, 29 maggio 2002, 9), si può affermare che il centro-destra non dilaga, ma ha una battuta d’arresto e si attesta sul 46,7%; il centro-sinistra non riesce a prendersi la rivincita, e si attesta sul 39,8%. Al primo turno, dunque, nonostante qualche segnale di riassestamento nei rapporti tra le forze maggiori all’interno dei due schieramenti, il quadro generale risultava sostanzialmente confermato. Il ballottaggio, invece, ha messo in luce l’esistenza di una qualche alterazione degli equilibri preesistenti sia all’interno delle due coalizioni, sia nel Paese. è importante chiarire la portata e il senso di questi segnali di cambiamento. Nel centro-destra: fi subisce una certa erosione di consensi rispetto alle politiche del 2001, ma realizza un incremento rispetto alle precedenti provinciali; in ogni caso, si conferma come il primo partito con il 21,6%; la Lega ha un andamento inverso: perde molti consensi rispetto alle amministrative precedenti, ma risale decisamente rispetto alle ultime politiche, fino a toccare il 10,5%; tuttavia si conferma sempre più come un fenomeno territoriale, molto forte solo in un numero limitato e decrescente di città del Nord; an mantiene sostanzialmente le posizioni, perdendo un punto percentuale e attestandosi sull’8,5%; l’udc (ccd di Casini, cdu di Buttiglione, Democrazia Europea di D’Antoni) si rafforza specialmente nel Centro-Sud e raggiunge un significativo 5,7%. In conclusione, si può dire che la Casa delle Libertà va abbastanza bene al Sud del Paese, ma cede nel Nord, dove perde gran parte delle sue tradizionali roccaforti in Piemonte, Lombardia e Veneto. Nel centro-sinistra: i ds hanno una buona ripresa di consensi, dopo la crisi delle politiche del 2001, ricuperando in media il 3% e attestandosi sul 16,3%; la Margherita non decolla ma non crolla: non riesce a conservare le posizioni delle ultime politiche ma si attesta su un significativo (stando sempre al voto delle provinciali) sul 9,3%; Rifondazione Comunista rimane al 5,4%; l’udeur di Mastella, più che per il suo esiguo 0,7% ottenuto nelle provinciali, si è fatta notare perché a Reggio Calabria (e in altri Comuni minori) si è alleata con il centro-destra, favorendone la vittoria; la Lista Di Pietro, con il suo 2,1%, ha contribuito alla rimonta del centro-sinistra, nonostante che — insieme a Rifondazione Comunista — tenga a distinguersi dall’Ulivo. In sostanza, sia l’Ulivo sia il centro-sinistra cercano un equilibrio nuovo, che faticano a trovare, ma che i risultati del ballottaggio dimostrano possibile.  In conclusione, se è vero — a un anno di distanza dalle elezioni politiche del 13 maggio 2001 — che il quadro politico nazionale rimane invariato (del resto, nessuna tornata di elezioni amministrative avrebbe potuto alterarlo), tuttavia bisogna dire che la situazione mostra segni di movimento

2. Segni di movimento 

Da un’attenta lettura dei dati usciti dalle urne, pur trattandosi — lo ripetiamo — di elezioni amministrative parziali, si intravedono alcune increspature nella vita politica del Paese che sarebbe miopia sottovalutare. Da un lato, l’astensionismo crescente denuncia una disaffezione per la vita politica che non promette nulla di buono; dall’altro, soprattutto l’esito del ballottaggio mostra che le acque non sono affatto stagnanti. In particolare, nel centro-destra prendono corpo alcune «incognite», già segnalate l’anno scorso all’indomani delle elezioni del 13 maggio, quando ci chiedevamo: la presenza nella coalizione di centro-destra di una forza anomala qual è la Lega Nord consentirà mai alla Casa delle Libertà di avere quella omogeneità culturale che si richiede affinché uno schieramento politico possa effettivamente governare? E ancora: una gestione «aziendale» del potere — qual è quella conclamata dal centro-destra — che persegue l’efficienza a ogni costo, anche a scapito della solidarietà, riuscirà mai a risolvere equamente i gravi problemi di un’Italia a due velocità, oppure finirà col dividere ulteriormente sul piano sociale e politico un Paese già diviso sul piano economico? Ebbene, i risultati elettorali — nonostante i limiti di una consultazione amministrativa — confermano innanzi tutto quanto influisca negativamente la mancanza di omogeneità culturale tra le forze del centro-destra. Nessuna leadership, per quanto carismatica, potrà mai supplire al vuoto di ideali comuni condivisi. Ciò spiega, per esempio, perché neppure l’intervento diretto di Berlusconi nella campagna elettorale abbia impedito la conquista di città quali Verona e Frosinone da parte del centro-sinistra. Del resto, l’assenza di una comune cultura politica sta condizionando pure l’azione del Governo. Non si va molto lontano con la «cultura del fare», cioè con una gestione «aziendale» e pragmatica della politica, di marca neoliberista. In una situazione come quella italiana, ispirarsi a una visione meramente efficientistica dei rapporti sociali porta ineluttabilmente a favorire i ceti più forti a scapito dei più deboli, come già avviene con la eliminazione dell’imposta di successione e sulle donazioni, con il rientro dei capitali esportati illecitamente all’estero, con la depenalizzazione del falso in bilancio, con le deroghe all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ecc. Ancor più evidente appare quanto sia inadeguata la «cultura del fare» per affrontare un problema come quello dell’immigrazione. Esso non si risolverà mai, se si rinuncia a considerare gli extracomunitari come persone umane con la loro dignità e con i loro diritti inalienabili, per considerarli invece come mera forza-lavoro, da utilizzare o da respingere se servono e finché servono, da usare e gettare senza alcun riguardo ad aspetti umani essenziali del problema, dal ricongiungimento familiare alla integrazione sociale degli immigrati. Fino a quando le componenti della Casa delle Libertà troveranno il consenso dell’ opinione pubblica moderata subordinando e sacrificando la solidarietà umana e la voce della coscienza al mito di una politica efficientistica e pragmatica?

3. La lezione dell’ultima tornata elettorale

«Uniti si vince, divisi si perde». Tutti lo hanno detto e ridetto in questa tornata, a commento del voto amministrativo. Eppure non è affatto scontato che sia veramente così. Dipende, infatti, dalle ragioni per cui ci si unisce. Se ci si unisce solo per ottenere il potere o per vincere le elezioni, certo vi si può riuscire, ma la vittoria sarà fragile, perché una unità costruita sul potere è di natura sua instabile e mutevole. L’unità è stabile, solo se poggia su forti valori condivisi, se si realizza intorno a un programma di cose da fare, se i partner si riconoscono negli ideali dei leader. Ora, sia il crescente astensionismo, sia i segnali di mutamento e di instabilità nei due schieramenti, messi in luce dai risultati elettorali, indicano che il vero problema di fondo è quello di restituire dignità e ideali alla politica, ai suoi valori, ai suoi programmi, ai suoi uomini. «Uniti si vince»: sì, ma il vecchio modo di fare unità, cioè dando vita a coalizioni tra sigle diverse per vincere le elezioni, non regge più, né basta il carisma di un leader a colmare l’assenza di una cultura politica comune. Le recenti elezioni insegnano che il voto di appartenenza, tipico della passata stagione ideologica, non ha futuro. Non vi sono più Regioni, Province o città legate per sempre ad una parte politica. Il consenso dei cittadini lo si dovrà meritare, di volta in volta, sul territorio con la chiarezza degli ideali e la concretezza dei programmi. La speranza e la forza per cambiare le cose possono venire solo dagli ideali e dalle idee, incarnati nei programmi e ben riconoscibili dalla società civile. Si vorrà imparare questa lezione? Si avrà la forza di metterla in pratica?

 

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Ultimo aggiornamento: 06-09-03