OLTRE I CONFINI
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"... sono 3000, sono arrivati, sono tutti sulla banchina, stanchi, affamati, con in mano il "libretto rosso" (che li bolla come analfabeti) o il "foglio giallo" che dà qualche maggiore speranza; ma per tutti c'è ora la quarantena, un attesa lunga, snervante; e per alcuni -che prima di partire hanno venduto case e podere, o si sono indebitati per fare il viaggio-  non è solo stressante ma è un'attesa angosciante".
(da un cronista dell'epoca - 1920)

 


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Emigranti italiani sul ponte del piroscafo Patricia diretto a New York (dicembre 1906)

 


Famiglia in attesa di sbarcare 
a Ellis Island

 


Emigranti in attesa di un imbarco   (1910)

 


Emigranti sbarcati negli Stati Uniti.
In bocca, in mano o sul cappello i biglietti per il controllo dell'emigrazione  (1900 ca)

 


Gruppo di uomini a Ellis Island (1911)

 


Emigranti sbarcati in Canada

 


Interno di una casa di emigranti italiani a New York. La stanza serve da dormitorio e laboratorio per 10 persone (1906)

 


Una classe di figli di immigrati nella Essex Market School (1890)

 


Bambini di famiglie emigrate in America che raccolgono stracci nella discarica di immondizia (1909)

 


Lavoratori emigrati dalle valli del Piemonte in Francia davanti a un ristorante italiano

 


Emigranti Italiani in Francia 
con un banchetto per la vendita
di stoffe e chincaglierie
(Anni Trenta)

 


Lavoratori italiani al passaggio della frontiera con la Svizzera nel 1950

L’ emigrazione europea dall’inizio del XIX secolo agli anni Cinquanta del Novecento.

Dall’inizio del XIX secolo fino alla Prima Guerra mondiale, 45 o 50 milioni di europei hanno lasciato il continente per raggiungere le terre collocate al di là dell’oceano, nelle Americhe o in Oceania.
A questo movimento, che ha avuto come risultato il popolamento di altri continenti, si deve aggiungere il grande flusso di persone che, nel medesimo periodo, in Europa hanno attraversato il vecchio continente da Est a Ovest, sempre alla ricerca di un lavoro.
L’emigrazione transoceanica ha conosciuto due fasi ben distinte, caratterizzate dal modo di espatrio, che sono note come “vecchia emigrazione” e “nuova emigrazione”.

La prima fase ha dominato fino alla metà degli anni ’80 dell’Ottocento ed era contraddistinta dal movimento e dal trasferimento delle famiglie intere: chi decideva di lasciare la propria terra portava con sé sia la moglie, che i figli, e con essi intendeva iniziare la nuova vita.
Si è verificato così un grande travaso di popolazione dall’Europa alle Americhe.
Questo ha causato problemi non semplici di integrazione: chi arrivava, aveva cultura e a volte religione diverse rispetto a coloro che già abitavano il continente americano.

La seconda fase segna il periodo successivo, che ha visto muoversi solitamente uomini tra i 15 e i 45 anni; questi, solo in un secondo tempo, quando erano sicuri che la sistemazione trovata riusciva a garantire loro un salario regolare, si facevano raggiungere dalla famiglia.
Più precisamente tra il 1870 e il 1903, lasciarono l’Europa ben 21 milioni di persone delle quali la metà si stanziò negli Stati Uniti e l’altra metà si diresse nell’America Latina, nel Canada, nell’Australia, nella Nuova Zelanda e nel Sud Africa.
L’emigrazione italiana, che si è attuata tra la fine dell’ ‘800 e la Prima guerra mondiale, ha prevalentemente questa caratteristica.
Gli italiani migravano soprattutto verso la Francia, la Tunisia, l’Egitto, l’Argentina e l’Uruguay. Tra il 1876 e il 1918, più di 14 milioni di persone lasciarono l’Italia; di questi 2/3 ritornarono in patria, ma la restante parte rimase nel Paese di emigrazione.
Nel 90% dei casi emigravano solo maschi, giovani o adulti, solitamente non qualificati.
Gli emigranti diretti in Argentina e in Brasile partivano spesso con le famiglie ed avevano esperienza nei lavori agricoli.
La manodopera italiana che andava all’estero tra il 1878 e il 1910 aveva una scarsa qualificazione professionale, era costituita soprattutto da contadini, pastori o addetti in genere al lavoro dei campi e da braccianti o giornalieri.
Solo una piccola parte di emigranti, attorno al 20%, era costituita invece da operai: muratori, scalpellini, lavoratori delle industrie, che generalmente trovavano una possibilità di lavoro nei paesi già industrializzati.

La ricerca di lavoro della manodopera all’estero riprende alla fine della Prima guerra mondiale, nel 1918. Gli Stati Uniti nel 1921 stabilirono delle aliquote di immigrazione per ogni Paese europeo, aliquote che non potevano essere superate.
Nasceva proprio in quegli anni la figura dell’ “Italiano all’estero”, come di colui che doveva mostrare al paese ospitante l’immagine della nuova Italia.
Dopo il 1927 la legislazione italiana pone degli ostacoli alla fuoriuscita della popolazione. 
Il regime fascista però non rinunciava ad utilizzare per i propri fini l’emigrazione già avvenuta. Venivano creati circoli e società che avevano come obiettivo la diffusione dell’ideologia fascista anche tra coloro che avevano lasciato da tempo l’Italia. La risposta all’impossibilità di lasciare l’Italia, è data dalla ricerca di un posto di lavoro in un altro paese, in un’altra città o in un’altra regione all’interno della penisola.

Con la fine del secondo conflitto mondiale, lo squilibrio tra le risorse e la popolazione riemergeva, e la disoccupazione assumeva caratteri preoccupanti. Ancora una volta, la soluzione veniva ricercata nell’emigrazione al di fuori dei confini nazionali.
Tra il 1946 e il 1957 si sono avute migrazioni verso paesi europei e transoceanici. Si tratta in qualche modo della continuazione delle correnti migratorie, che le leggi fasciste avevano sospeso. Il flusso verso le Americhe e l’Oceania è prevalentemente meridionale: gli emigranti provenivano soprattutto dalla Calabria, dall’Abruzzo, dalla Sicilia e dalla Campania. I paesi preferiti erano l’Argentina, il Canada, gli Stati Uniti, il Venezuela e l’Australia. Un carattere ha differenziato però questa ondata migratoria: essa è in gran parte organizzata e assistita dallo Stato italiano che, mediante accordi con il paese di immigrazione, garantiva agli emigranti dei contributi che spesso coprivano le spese di viaggio e un minimo di assistenza per il trasferimento sul posto di lavoro. Quando però giungevano a destinazione, gli emigranti non godevano di alcuna tutela e venivano occupati nei lavori più pesanti, sia nell’agricoltura, sia nelle miniere o nell’edilizia.
Complessivamente dal 1946 al 1957 emigrarono verso destinazioni extra-europee 1.400.000 italiani, contro trecentomila rimpatri. In un primo momento questi flussi sembrano la continuazione dei flussi ante-1927, dovuti al meccanismo della “catena migratoria” (per il quale gli emigrati già inseriti richiamano dalla madrepatria amici e parenti, procurando loro appoggio se non addirittura casa e lavoro). Compare una nuova destinazione, il Venezuela, che in questi anni presenta saldi migratori assai consistenti.
Con la fine degli anni Cinquanta però queste correnti migratorie perdono vigore, sia per il verificarsi del boom industriale italiano, sia per l’andamento favorevole in gran parte dell’Europa. Nel 1957 poi veniva istituita la Comunità Europea con la firma dei Trattati di Roma, mentre ormai molti erano i vincoli burocratici per le destinazioni extraeuropee. A questo va aggiunto il tracollo dell’area meridionale del continente latino-americano, precedentemente lanciato verso ambiziosi obiettivi di crescita.
L’emigrazione continua quindi, ma verso destinazioni europee.


Condizioni degli emigranti durante il viaggio e all’arrivo a destinazione.

Gli emigranti partivano con la speranza di trovare quasi una “terra promessa”, ma si scontravano subito con una dura realtà.
Le sofferenze degli emigranti iniziavano già all’imbarco: gli agenti di emigrazione inviavano gli emigranti sui moli alcuni giorni prima della partenza per farli derubare dai tavernieri, dai cambiavalute, dai venditori di liquori, in generale da truffatori.
All’imbarco si formava una processione interminabile di gente che proveniva da tutte le parti d’Italia, operai, contadini, donne, bambini i quali aspettavano che il delegato della Questura esaminasse i loro passaporti.
Le navi che trasportavano gli emigranti non erano attrezzate per questo genere di viaggi. Erano imbarcazioni a impiego misto (merci e uomini): partivano dall’America o dall’Australia cariche di prodotti da vendere in Europa e ritornavano cariche di uomini. A farne le spese erano gli emigranti che venivano ammassati sulle navi in condizioni disumane.
La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, erano stanchi e pieni di sonno. Quasi tutti portavano una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma in mano o sul capo, bracciate di materassi e di coperte; molti erano scalzi e portavano le scarpe appese al collo.
Quando partivano, gli emigranti, sempre in numero troppo elevato rispetto alla capienza del piroscafo, venivano mandati in terza classe,su navi vecchie e malandate dove anche ponti e stive erano sovraffollate e le condizioni igieniche disastrose.
Accadeva così che scoppiassero delle epidemie e che alcune persone morissero per malattie, fame o soffocamento. In caso di burrasca poi, si creava uno “sconvolgimento”e sul piroscafo risuonavano pianti e rosari. 
Specialmente nei viaggi verso il Sud America, si assisteva al doloroso spettacolo dei passeggeri che si serravano l’uno all’altro e si urtavano a vicenda, tanto le navi erano sovraffollate. Mangiavano sul sudicio pavimento o in piedi, facendo sforzi continui per conservare l’equilibrio col rollio del bastimento e non versare la minestra.
Giunti a destinazione, gli emigranti non avevano nessuna organizzazione che li assistesse, tranne qualche modesta iniziativa caritatevole.
Una parte degli emigranti, una volta arrivata, riusciva a trovare un lavoro che permetteva di sistemarsi e spesso di migliorare sensibilmente le condizioni di vita. Alcuni addirittura “trovavano l’America”, cioè facevano fortuna, altri invece dovevano rifarsi una vita e per loro la “Merica” era terra di lavori faticosi e mal pagati, di sacrifici, di emarginazione sociale e di difficile inserimento.
Negli Stati Uniti gli emigranti entravano in contatto con una popolazione estranea per lingua e spesso per religione, che aveva usanze e cultura diverse dalla loro: si trattava di operai specializzati o piccoli proprietari che sapevano leggere e scrivere e che disprezzavano quella povera gente che sbarcava carica di stracci.
A questa emarginazione, gli Italiani reagirono appartandosi in quartieri dove riprodussero il modo di vita lasciato in patria; in queste situazioni di emarginazione, soprattutto nell’America Settentrionale, divenne importante la figura del “boss”. Questi era un italiano che si era ambientato nel luogo e che procurava agli emigranti, in cambio di una tangente, una pronta occupazione oppure si arricchiva affittando baracche a cifre esorbitanti e obbligando i lavoratori ad acquistare merci prodotte dalle sue piantagioni.
In America Latina l’emigrazione fu ancora una volta dura e difficile, ma nel complesso l’integrazione fu più rapida e meno problematica. L’affinità della lingua e della religione, e il fatto che l’economia fosse arretrata come quella italiana, favorirono gli emigrati.
Molti Italiani riuscirono anche ad avere cariche pubbliche importanti, ma la maggior parte ebbe una vita più modesta, contribuendo però allo sviluppo degli stati di quel continente.

 

SCHEDE DI APPROFONDIMENTO:

 

QUESTIONARIO SULL'EMIGRAZIONE »

IMMIGRAZIONE ED EMIGRAZIONE A BARENGO »

 

 

           

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