Dal lavoro di ricerca della classe III sez. F

 

 

Il maiale: una storia di sangue

 

 

Lo sapeva bene.

Quel gran parlare dello scimmione nella campagne del cremonese…Ora poi, anche giornali.

Roba da matti. Sempre la stessa necessità, quella di vedere il mostro.

Che scemi. Non esistono i mostri. Lo sanno anche i bambini. Non credono più alle favole.

E lui che viveva da anni in quella vecchia cascina della Bassa. Per l’amor di Dio, se vuoi credere in qualcosa c’è la fantascienza, quella si che ti fa sbizzarrire. E Genova, con quel suo aeroporto già disposto al traffico, al rapporto con i mondi diversi? Una stazione interplanetaria. La vera notizia, ti scoperchia il cervello e ti fa sognare il sogno fattibile. E qui da me, tutti a caccia dello scimmione. Dal cielo possono arrivare, non qui in mezzo ai maiali, poveri scemi.

E saremo pronti a riceverli. Certo dobbiamo fermarli a Genova. Lo so io come si può fare.

Concentriamo una serie di situazioni passate e presenti: diossina, Chernobil, buco nell’ozono, irrespirabilità dell’atmosfera ravvicinata e il gioco è fatto.

Non potranno resistere, non ci sono abituati. Crollano sul bagnasciuga e la loro morte sarà la riconferma della nostra grande civiltà. L’aeroporto, solo nostro, a completa disposizione. Partiranno le astronavi e insegneranno loro come ci si deve comportare. Se nulla varrà allo scopo, li tratteremo come maiali. Chissà! Magari ne possiamo fare dei buoni prosciutti. Suggerisco anche questo, lo so io come si può fare.

Nella fantascienza tutto è possibile. Il maiale io lo chiudo nel gabbiotto di legno. È piccolo e l’abitacolo grande, proporzionato. Ha da poco smosse di tettare. Lo nutro con ogni sorta di rifiuto. È ingordo, mangia non importa cosa e trasforma velocemente in lardo. Aumenta di peso e si allunga e si allarga. Passa l’intera giornata a grufolare e mi guarda stupidamente.

Chissà se mi vede, con quegli occhietti annegati nel grasso!

Che repellenza. E’ la creatura più bassa della scala dell’ evoluzione.

Pensare che certa gente per insultare Dio usa il suo nome.

Io non bestemmio, solo non capisco come il Creatore si sia interessato ad un essere così brutto e immondo. Meglio un serpente, un coccodrillo, sono puliti. Il maiale si rotola nello sterco.

E finalmente, dopo mesi di spazzatura ingurgitata i suoi fianchi e la corta coda riccioluta toccano il fondo e le pareti laterali del gabbiotto.

Non potete credere quale sia la mia soddisfazione.

Non devo più sopportare la sua presenza orrenda. E lo vado a trovare pregustando il momento e gli annuncio che gli farò passare le pene dell’ inferno per il disturbo che mi ha dato.

Risponde con un grugnito di minaccia. Chi vuole minacciare? Stupida bestia. Lo trascino fuori tirandolo per la coda e per le orecchie. Forse capisce che deve ripagarmi del sacrificio e urla strilli acutissimi che mi innervosiscono.

Va a finire che trascendo.

Domani l’ammazzo e devo impedire, ora che può avere preso coscienza, che scappi, che deluda la mia fatica. Con una mazza gli fratturo una gamba, il gambuzzo, una volta conciato, obbligato a stare fermo, soffre tutta la notte e comincia a scontare i suoi peccati.

Brutto porco. Mi levo all’alba e saluto i norcini. Fa freddo di gennaio e in campagna non c’è il riscaldamento. Lo andiamo a prendere e lo trasciniamo fuori. Per fortuna la gamba gli si è sgonfiata, non tocca rincorrerlo.

Urla e si lamenta e la sua voce è simile a quella di un bimbo.

Fa venire rabbia. A calci e spintoni lo mettiamo sulla tavola. Lo so, i norcini disapprovano. Preferiscono il maiale libero di correre e lo affrontano con l’uncino. Dove capita capita: in un occhio, nel muso deridono i compagni inesperti. Il più bravo di loro lo raggiunge e gli spacca il cuore con un colpo solo. Si devono accontentare.

In quattro lo immobilizzano ed io affondo la lama nella gola e cerco con le mani in mezzo a tutto quel grasso e raccolgo largo il fiotto per il sanguinaccio. La prima cosa buona di questa brutta bestiaccia. Il lamento si fa più profondo, e l’urlo misto al rosso gorgoglio. Ha sofferto poco. Ho ancora addosso la sua puzza. I norcini lo pelano con l’acqua bollente ed iniziano a squartarlo e a spartire i tagli. Sembra fumi tutta la sua cattiveria. Accantoniamo le frattaglie. Come d’uso facciamo una frittura per festeggiare. Vado in cucina ed affido alle donne le parti destinate al rito. Siedo a tavola con i norcini e bevo vino e mangio… come un maiale.

Le pancette e i cotechini legati e pronti da appendere mi danno la nausea. Quell’essere schifoso è così buono che non riesco mai a limitarmi.

Questa volta temo di avere fatto indigestione.

Ecco mi sdraio un poco sul letto e mi gira la testa. Penso ai marziani.

Sì, è proprio il trattamento che riserverò loro se me li trovo davanti. Li rinchiudo nel gabbiotto e li nutro di rifiuti. Poi li lascio ai norcini.

Poveretti hanno bisogno anche loro di una soddisfazione. Io ho ucciso il porco. Chissà non siano così buoni. Sempre che la diossina, Chernobil…

 

(di Delio G.R. Carugati)

 

A fare mortadelle di carne

 

 

Prima bisogna pigliare le budella o bondole del porco, ben lavate a più lavature, senza tirargli il grasso che resta.

E’ distrigale con sale, farina e vino; fregale colle mani e sbattile molti bene. E poi lavale a più lavature di vino, e poi struccale da detto sale, e poi lasciale così per quattro giorni.

Poi piglia la carne netta da quelle pel legate che gli sono per dentro, ed accompagna la magra colla grassa, sì che stia bene a giudizio di chi la vuol fare; e pesta benissimo il tutto, dopo appisolato, e per ogni libbra 25 di carne gettagli dentro, in due o tre volte, oncie 10 di sale, e oncia una di pevere ammaccato, e cori quattro di porco, milze sei, levesini quattro, e una pennola di figato, ogni cosa di porco.

E questo dico per peso di roba che averai con queste quattro sorti insieme, il che serà liquido da se. E fa un buco nella carne pesta col pugno e gettagli detta composizione dentro, e poi rimescola ogni cosa insieme per lo spazio di un’ora spugneggiando. E poi aggiungegli uno bicchiero di vino nero puro, per peso della prima carne, in più volte, sempre spugneggiando.

E poi lasciala stare così impastata per spazio di due o tre giorni.

 

 

(Dai "Banchetti" (pubblicato a Ferrara nel 1545) di Cristoforo di Messisburgo)

 

 

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