Venerdi 12 Dicembre 2003
IL DELITTO DI SENIGALLIA
Stefano, un’agonia di oltre due ore nel taxi
La pista porta all’Est: ha sparato un’arma fabbricata in Russia. Ancora ignoto il movente

di GIOVANNI SGARDI


SENIGALLIA - Stefano Guazzarotti non è morto sul colpo. I tre colpi di pistola al viso, alla spalla e al torace lo hanno fatto piombare immediatamente in coma ma la fine è arrivata parecchio tempo dopo, forse addirittura due ore. Un responso agghiacciante, quello del medico legale a corollario dei risultati dell’autopsia. Il tassista senigalliese, 39 anni, ucciso in circostanze misteriose martedì sera, ha agonizzato davanti al night-club mentre i clienti uscivano ed entravano dallo ”Snoopy”, sfiorando il suo taxi, senza accorgersi di nulla. Le lesioni al cuore e ai polmoni, probabilmente, non avrebbero risparmiato Stefano anche in caso di soccorsi tempestivi. Resta l’amarezza perchè non c’è stato nemmeno un tentato di salvare quel poveraccio, esanime al suo posto di guida, nel piazzale affollato di un locale pubblico, mentre la gente lo credeva addormentato. Sul fronte delle indagini le novità rafforzano l’ipotesi dell’esecuzione a sangue freddo ad opera di un sicario, dell’est europeo o appartenente alla malavita. I carabinieri avrebbero identificato ed interrogato l’ultimo cliente, quello salito a bordo del taxi alle 19.30 di martedì, risultato estraneo all’omicidio. Estraneo ma testimone di qualcosa, se è vero che l’uomo è ora protetto dall’Arma. Rilevante anche l’arma (scomparsa) con cui è stato commesso il delitto. Gli esperti balistici sono convinti che a sparare sia stata una Tokarev calibro 762 parabellum di fabbricazione russa, modello 1962. Si tratta di una pistola molto potente in uso alle forze armate dell’ex Urss, poi declassificata. Ma che c’entra il buon Stefano Guazzarotti, che il papà Mario definisce un pacioccone, che la moglie Daniela ricorda come papà affettuoso e marito appassionato, con la malavita? Assolutamente nulla, e non solo in virtù dei racconti che arrivano dall’interno della sua famiglia. «Dopo la rapina, tendiamo ad escludere un movente legato in qualche modo alla sua famiglia» dicono gli investigatori.