il sito di storia salernitana

a cura di Vincenzo de Simone

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La pagina contiene le seguenti relazioni di visite guidate condotte da Vincenzo de Simone:

  

 

 

 

 

 

Il quartiere meridionale da Palazzo Sant’Agostino a Portanova

 

Palazzo Sant’Agostino

 

Palazzo Sant’Agostino è una costruzione di inizio Ottocento, successivamente rimaneggiata, realizzata, allo scopo di ospitarvi la sede dell’Intendenza, trasformando radicalmente l’omonimo convento, del quale sopravvisse, in pratica, la sola chiesa, ancorché privata della parte absidale. Per la sua costruzione, oltre l’area del complesso agostiniano, fu utilizzata anche quella di alcune case dello stesso ordine monastico che si trovavano adiacenti al lato orientale del convento, mentre le strade laterali furono aperte l’una, il tratto terminale di via Duomo, demolendo una costruzione con botteghe degli stessi agostiniani e dell’oratorio di Sant’Antonio dei Nobili, l’altra, l’attuale via Giuseppe Vigorito, demolendo abitazioni private. 

La caratteristica immediatamente evidente di Palazzo Sant’Agostino è la prominenza della facciata rispetto all’allineamento delle costruzioni vicine, caratteristica che fu propria anche del convento che sostituì e che trova spiegazione in altre caratteristiche, quelle originarie dell’area sulla quale insiste. Questa, al 1309, quando fu avviata la costruzione del convento, era limitata a monte da un asse viario, la via Carraria o della Giudaica, del quale sopravvivono tratti nel vicolo Giudaica e nella via Masuccio Salernitano, a valle dal lido, lungo il quale anche correva una strada, grosso modo riconoscibile nella via Roma; longitudinalmente era attraversata dal muro meridionale della città, che correva circa alla metà della sua ampiezza latitudinale.

Questa linea difensiva, detta il muricino, risaliva all’epoca del principe Arechi o dei suoi immediati successori, il figlio Grimoaldo I e Grimoaldo II, ed era stata realizzata nell’ambito di un vasto intervento di ampliamento della città e di rafforzamento delle difese preesistenti. Essa era stata edificata grosso modo parallelamente al vecchio muro che chiudeva il tessuto urbano verso il mare, creando una lunga striscia di nuova città che sarà rapidamente urbanizzata divenendo il quartiere Inter murum et muricinum. La costruzione del muricino certamente creò non pochi problemi ai possessori dei terreni compresi fra la via Carraria e il lido, in quanto le loro proprietà venivano a trovarsi tagliate dalla nuova difesa; tanto determinò l’apertura di una serie di piccole porte, le posterole, alcune al servizio di più proprietà, in quanto aperte in corrispondenza di anditi interpoderali, altre aperte direttamente fra le parti del terreno rimasto tagliato. Di esse ne sono documentate tre nell’area ove sorgerà il complesso di Sant’Agostino, fra le quali quella che permetteva di raggiungere la chiesa di Sant’Angelo de Mare, edificata aderente alla faccia esterna della muraglia e appartenente alla famiglia dei conti di Giffoni, ossia ad uno dei rami collaterali alla sesta e ultima dinastia di principi longobardi di Salerno.

In realtà, l’intera area appartenne a questa famiglia che, con donazioni da parte di alcuni suoi esponenti intervenute nel corso della prima metà del XII secolo, alcune documentate, altre che possiamo presumere, la trasferì, parte in lotti già delimitati, parte indivisa, alla curia arcivescovile di Salerno e alla badia di Cava. Nel giugno 1165, alla presenza dell’arcivescovo Romualdo II e dell’abate Marino, si procedette alla divisione della parte posseduta in comune dai due enti: furono delimitati sei lotti di varie dimensioni; due, i maggiori, che dalla via della Giudaica, superando il muricino, raggiungevano la strada lungo il lido, gli altri compresi fra la stessa via e la muraglia, dei quali due posti al settentrione della chiesa di Sant’Angelo. I maggiori furono assegnati uno ciascuno ai due enti; degli altri, tre toccarono alla curia, uno alla badia. Il 16 aprile 1309, nel coro del duomo, si procedette alla stesura dell’atto relativo alla cessione gratuita, in realtà già avvenuta, da parte dei canonici della cattedrale, che evidentemente ne detenevano il beneficio ecclesiastico, del suolo vuoto ove anticamente sorgeva la chiesa di Sant’Angelo de Mare, affinché fosse possibile agli agostiniani edificare il luogo e la chiesa del loro ordine. Ovviamente, perché tanto fosse possibile, quei religiosi dovevano ricevere, o forse già possedevano, anche la parte dell’intera area che abbiamo visto oggetto della divisione fra la curia e la badia, forse intanto pervenuta interamente nelle disponibilità degli arcivescovi salernitani.

Edificando il loro complesso, gli agostiniano demolirono il tratto del muricino che tagliava quanto da loro acquisito e utilizzarono interamente l’ampiezza disponibile fra la via della Giudaica e quella che correva lungo il lido, la qual cosa portò il fronte meridionale dell’edificio a protendersi esternamente alla difesa, divenendo di fatto, in quest’area, il limite della città verso il mare.

 

Il largo Dogana Regia

 

Il largo Dogana Regia costituisce un esempio di quegli spazi aperti, i medievali campitelli, così detti in opposizione al Campo per antonomasia, che punteggiano l’impianto urbanistico del centro storico e una volta rappresentarono il baricentro di parti del tessuto urbano. Nell’ambito di tale caratterizzazione generale, il nostro costituì un punto nevralgico di particolare rilievo, poiché qui giungeva, da occidente, il tratto della via una volta Carraria, poi della Giudaica, che abbiamo visto lambire il fronte interno alla città del convento di Sant’Agostino e che costituiva la spina dorsale di questa parte del quartiere meridionale e suo collegamento con l’area della porta di Mare; qui anche giungeva la bretella di collegamento, l’attuale via Antonio Mazza, con la strada Maestra, oggi dei Mercanti, di importanza strategica per i traffici dell’area almeno fin quando, forse nella seconda metà del Trecento o nel secolo successivo, come vedremo, il proseguimento della via della Giudaica, oggi Masuccio Salernitano, non avrà sbocco, verso oriente, all’interno dell’ampliamento urbano dell’area di Portanova.

Attualmente il largo conserva la struttura medievale soltanto nei lati orientale e settentrionale, mentre il meridionale presenta la sistemazione di inizio Ottocento, quando, abbattute le mura, fu aperto lo sbocco verso il mare ristrutturando ampiamente le case già de Vicariis e Barrile, e l’occidentale soffre della discutibile ricostruzione postbellica. Da quest’ultimo lato, prima dei bombardamenti del secondo conflitto mondiale, si sviluppava, coprendo l’intera piazza Sant’Agostino, un denso tessuto urbano percorso da un reticolo di vicoli e anditi coperti, rapportabile a quello fortunatamente ancora osservabile ai Barbuti; all’angolo formato da due di tali vicoli insisteva la chiesa parrocchiale dei Santi XII Apostoli, che compare nella documentazione giunta fino a noi fin dal dicembre 1084.

Il largo Dogana Regia fu denominato nel Cinquecento largo di Giovancola o della Dogana. La prima denominazione la dovette al fatto che su di esso prospettavano, come accennato, case di Giovanni Nicola de Vicariis; la seconda, ovviamente, alla presenza degli uffici doganali. Questi erano posti al suo angolo sud-occidentale e si caratterizzavano per essere raggiunti da un arco che cavalcava la via immediatamente prima del suo sbocco. Presso questo arco vi era l’ingresso di una chiesa incorporata nei locali stessi della dogana: si trattava di San Salvatore de Fundaco, detta anche de Dogana, che, naturalmente, nulla aveva in comune con San Salvatore de Drapparia, come da più autori sostenuto, e che compare nelle fonti giunte fino a noi nel marzo 1268, essendo già caratterizzata dalla presenza dell’arco, sul quale erano suoi edifici. Questa struttura ancora esisteva prima dei citati bombardamenti del secondo conflitto mondiale, poiché nel 1923 fu osservata da Michele de Angelis, che credette di poter riconoscere nelle vestigia della chiesa, che sopravvivevano nella seconda bottega dall’angolo nord-occidente del palazzo allora Trucillo, anch’esso distrutto dagli eventi bellici e sostituito dall’edificio che vediamo immediatamente ad oriente della via Giuseppe Vigorito, residui di quella Santa Maria de Domno che egli sperava di individuare onde, partendo dal suo sito, tracciare l’andamento delle mura meridionali della città.        

 

L’area di Santa Maria de Domno

 

La chiesa di Santa Maria de Domno fu edificata per iniziativa della principessa Sichelgaita, consorte del principe Giovanni II di Lamberto, regnante in Salerno fra il 983 e il 999, nel quartiere Inter murum et muricinum, su un terreno che era stato della badia di San Benedetto e che le era pervenuto nel 986. Alcuni documenti custoditi dall’Archivio della badia di Cava, completandosi a vicenda, permettono una ricostruzione di estremo interesse, per gli elementi urbanistici che pongono in evidenza, del suo sito e delle adiacenze. Essa, naturalmente disposta sull’asse est-ovest come tutti gli edifici di culto dell’epoca, aveva occupato solo parte dell’area disponibile sull’asse longitudinale, per cui si era creato uno spiazzo fra il suo ingresso e il limite occidentale del suolo; aveva tre absidi che, verso oriente, si protendevano in un terreno del conte Guaimario detto Imperato, a sua volta confinante con altro terreno del principe Giovanni. Sia la chiesa che la proprietà del conte misuravano sull’asse latitudinale trentasei piedi, pari a circa undici metri e venti centimetri, ed erano addossate con i loro lati meridionali al muricino, mentre erano delimitate verso settentrione dalla via Carraria, detta anche della Giudaica, oltre la quale, ad una distanza di trentuno piedi, pari a circa nove metri e sessantaquattro centimetri, correva l’altra cortina difensiva, l’antica, detta il muro, in sostituzione della quale, come abbiamo visto, il muricino era stato edificato.

L’importanza di queste informazioni non poteva sfuggire a Michele de Angelis, essendo evidente che, individuata l’ubicazione della chiesa, la disposizione degli elementi urbanistici recuperati sulla topografia novecentesca della città avrebbe evidenziato non solo le altezze latitudinali del muro e del muricino, ma anche un punto oltre il quale, verso oriente, cercare il limite della Salerno longobarda, elemento di grande importanza in relazione allo stato allora raggiunto dalla conoscenza della storia urbanistica cittadina. Come abbiamo visto, in tale ansia di ricerca, egli credette di individuare strutture residue di Santa Maria de Domno in quelle che invece lo erano di San Salvatore de Dogana. Dovevano passare oltre settanta anni prima che lo studio di un documento reperito casualmente presso l’Archivio di Stato di Salerno dimostrasse l’infondatezza della sua convinzione e permettesse l’individuazione del sito e di un residuo significativo della chiesa. Si tratta di una perizia commissionata dal tribunale civile di Salerno ed espletata il 4 gennaio 1862 dall’architetto Michele Santoro a seguito di una lite giudiziaria vertente fra due privati entrati in possesso delle strutture della chiesa dopo la sua sconsacrazione. Il dato immediatamente evidente è che l’architetto descrive il sito di Santa Maria de Domno come posto lungo la strada che dal largo Dogana Regia conduce all’altro di Portanova. La perizia è corredata da una pianta dalla quale, oltre che dalla descrizione dei luoghi, si ricava una serie di importanti elementi: la chiesa conservava l’accesso da occidente, tramite quello che l’architetto definisce un compreso coverto, ossia un portico, sotto il quale si apriva sia la sua porta che l’ingresso alle vicine e sovrastanti case; anche la parte absidale era sovrastata da costruzioni; il campanile era all’angolo nord-orientale dell’aula e sporgeva verso la strada dall’allineamento della costruzione.

Lungo il lato meridionale della via Masuccio Salernitano, ossia la strada che dal largo Dogana Regia conduce all’altro di Portanova, oggi si nota un edificio che si compone di due elementi architettonicamente distinti: il primo, consistente in tre piani superiori e quattro locali terranei contrassegnati dai numeri civici dal 63 al 69, allineato al fronte delle costruzioni contigue verso oriente; il secondo, consistente nella sola tromba delle scale con il portoncino contrassegnato dal numero civico 71, allineato, con avanzamento rispetto al primo di circa un metro, al fronte del palazzo contiguo verso occidente. Questo secondo elemento è il campanile di Santa Maria de Domno e il portone del palazzo posto al suo lato occidentale, aperto nella tompagnatura di un ampio arco, il cui piedritto sinistro aderisce al campanile stesso, rappresenta l’accesso al compreso coverto osservato dall’architetto Santoro attraverso il quale si accedeva all’ingresso della chiesa e alle vicine e sovrastanti case. Verso oriente l’edificio si incastra sotto l’ala occidentale del palazzo adiacente, che occupa qualche metro della sua area superiore: siamo nella zona absidale di Santa Maria de Domno, che conosciamo già sovrastata da costruzioni nel 1862.

La pianta dell’architetto Santoro è corredata da una scala in palmi napoletani, utilizzando la quale si procedette, all’epoca del ritrovamento del documento, a due misurazioni della chiesa nel senso della larghezza: la prima dal fronte lungo la strada, escluso il ringrosso del campanile, alla faccia interna del muro meridionale; la seconda della sola aula. Nel primo caso si rilevarono quarantaquattro palmi, nel secondo quarantuno e quattro decimi, salvo, naturalmente, piccoli errori possibili sia nella realizzazione della pianta o della scala che nella loro utilizzazione. Attribuendo a ciascun palmo il valore stabilito con la legge del 6 aprile 1840, ossia cm. 26,455, si ebbero, rispettivamente, undici metri e sessantaquattro centimetri e poco più di dieci metri e novantacinque centimetri, valori il primo leggermente superiore, il secondo leggermente inferiore a quegli undici metri e venti centimetri che, come abbiamo visto, si ricavano da uno dei documenti dell’epoca della sua fondazione quale larghezza del terreno sul quale fu edificata; tanto permise di concludere che la chiesa occupò completamente questa dimensione dell’area disponibile e che, salvo ringrossi dei muri dovuti ad opere di consolidamento, non subì interventi radicali nel corso dei suoi oltre ottocentosettanta anni di esistenza.

All’epoca della fondazione di Santa Maria de Domno, a ridosso delle sue absidi, si apriva nel muricino una posterola analoga a quelle che abbiamo visto nell’area ove sorgerà il convento di Sant’Agostino; successivamente ne fu aperta un’altra in corrispondenza del suo atrio. Entrambe permettevano l’accesso a terreni, anche pervenuti nella disponibilità della chiesa, posti all’esterno della difesa longobarda, sui quali fu edificato, sul finire degli anni cinquanta dell’XI secolo, un complesso abitativo. La necessità di proteggere questa nuova parte del tessuto urbano portò all’edificazione di un secondo muricino, per cui in quest’area si ebbe il primo protendersi della città verso il mare dalla linea difensiva di Arechi o dei suoi immediati successori, poi sopravanzato dal fronte del convento agostiniano. All’esterno di questo secondo muricino fu edificata un’altra chiesa: San Nicola de Mare. 

 

L’area di Santa Maria di Portanova

 

La chiesa oggi nota come del Santissimo Crocifisso, in quanto ospita la parrocchia omonima già istituita nella chiesa del monastero di San Benedetto, è l’antica sede dell’altra parrocchia di Santa Maria della Neve, detta anche di Portanova, che, prima della soppressione avvenuta fra il 1618 e il 1626, estendeva il proprio territorio oltre le mura orientali, fino al corso dell’Irno. La sua prima notizia giunta fino a noi è del febbraio 1140, quando Romoaldo, figlio del conte Landone, ne dona all’arcivescovo parte del patronato.

Adiacente al lato meridionale della chiesa insisteva il monastero delle clarisse di Santa Maria della Pietà, poi detto della Piantanova, del quale la prima notizia giunta fino a noi è del 7 giugno 1450, quando Caterina Damiano, monaca sagrista di San Giorgio, lo nomina nel proprio testamento. Nel corso della visita pastorale del 17 maggio 1574 prese corpo il progetto, forse già nell’aria da qualche tempo, di annettere la chiesa parrocchiale al monastero nell’ambito della riqualificazione di quest’ultimo; ma tanto non avrà una rapida attuazione, poiché la chiesa è visitata ancora quale sede parrocchiale fra il 1575 e il 1598. Soltanto il 14 dicembre 1604 troviamo la parrocchia ospitata presso San Pietro in Vinculis, trasferita dalla chiesa di Santa Maria della Neve che fu concessa al monastero edificando, come si precisa nel 1613. Nel 1618 il cappellano di San Pietro in Vinculis, interrogato sulle entrate della chiesa, dichiara che il monastero di Santa Maria della Pietà paga otto ducati annui per la concessione della chiesa anticamente parrocchiale. Il 15 aprile 1622 l’arcivescovo Lucio Sanseverino dispone che le clarisse del Santa Maria della Pietà, nel corso dei lavori ospitate presso il Santa Maria Monialium, ritornino nella propria sede ampliata e restaurata. Il monastero è soppresso nel 1866. I locali sono adibiti in parte ad abitazioni private, in parte a sede del brefotrofio provinciale; la chiesa rimane nella disponibilità del comune che, con istrumento del 12 agosto 1878, la cederà, quale sede provvisoria, al parroco del Santissimo Crocifisso sfrattato dallo stesso comune, poco meno di dieci anni prima, con ordinanza del 7 ottobre 1868, dalla chiesa dell’ex monastero di San Benedetto che era stata consegnata all’amministrazione militare.

Il documento del febbraio 1140 che abbiamo visto costituire la prima citazione di Santa Maria della Neve contiene un elemento di notevole importanza nella precisazione che la chiesa, ancorché fosse detta di Portanova, era sita presso la porta di Elino. Questa porta della città longobarda, anticamente detta di San Fortunato, fu ritenuta da Michele de Angelis ubicabile ad oriente della badia di San Benedetto, lungo la via omonima, a seguito di un equivoco in cui incorse identificando una chiesa di San Michele edificata prima del 984 dai coniugi Guido e Aloara con quella del monastero sotto lo stesso titolo che attualmente vediamo a occidente della stessa badia di San Benedetto. In realtà, la porta di Elino, che diversi autori hanno immaginato nei luoghi più astrusi, da via Roberto il Guiscardo all’attuale rione Mutilati, era molto semplicemente allo sbocco orientale del principale asse di attraversamento cittadino, appunto la via che conduceva alla Porta di Elino, poi via Maestra, attualmente, come abbiamo già visto, dei Mercanti. Naturalmente, essa si apriva ove il muro cittadino incrociava la strada e ciò avveniva, essendo Santa Maria della Neve interna alla città, oltre questa chiesa, come conferma un documento del gennaio 1291 che descrive l’area a meridione di Santa Maria di Portanova, detta alle Mollicelle, ove ancora non insisteva il monastero di Santa Maria della Pietà, e la dice chiusa verso oriente dalle mura.

La porta di Elino smise di essere così denominata, molto probabilmente a causa di una radicale ricostruzione, intorno al 1117; successivamente sarà indicata prima come la porta anticamente detta di Elino, poi come la porta Nova.   

 

La piazza Sedile di Portanova

 

La piazza attualmente denominata Sedile di Portanova con una licenza toponomastica, poiché qui il Seggio dei nobili di Porta Nova non vi fu mai, rimase per lungo tempo uno spazio extra moenia nel quale perveniva, dal sagrato del convento di San Pietro in Camerellis, dopo aver scavalcato il basso corso del torrente Rafastia, la via della Marina.

La linea difensiva del muricino, che abbiamo lasciato a valle di Santa Maria de Domno, nel punto ove svoltava verso settentrione per raggiungere la porta posta a cavallo della via dei Mercanti incontrava la torre detta del Russo. Nei pressi di questa, adiacente alla faccia meridionale della cortina, vi era uno di quei luoghi pii, dei quali esempi abbiamo visto in Sant’Angelo e in San Nicola de Mare, che punteggiavano l’esterno delle difese cittadine allo scopo evidente di impetrare protezione su di esse: si trattava della chiesa di Santa Croce, che compare nella documentazione giunta fino a noi fra il 1093 e il 1166. Ancora nei pressi della stessa torre, ma aderente alla faccia esterna del muro che saliva verso lo sbocco della via dei Mercanti, è documentata, dal 1097, una ulteriore ricerca di protezione: il monastero di San Clemente, il cui sito, però, dovette apparire troppo esposto a possibili incursioni o alle intemperanze del mare, all’epoca vicinissimo, poiché, successivamente al 1139, fu trasferito nei pressi della porta Rotense.

Superato lo sbocco della via dei Mercanti, il muro orientale della città incontrava i fortilizi disposti al meridione della badia di San Benedetto. Su questo angolo, ove attualmente vediamo il Castel Nuovo di San Benedetto, ossia la sede del museo provinciale, i normanni edificarono il Castello di Terracena. Il riconoscimento di resti di questa famosa costruzione negli edifici dalle tarsie policrome che si vedono alla traversa San Giovanni è fatto relativamente recente; infatti, Carlo Carucci, nel 1922, nel chiedersi ove fosse il suo sito, benché lo cercasse a valle dei complessi di San Benedetto e di San Michele, non pare, alla luce di quanto scrisse, rimanesse particolarmente colpito da quelle strutture e andò ad identificare l’area che cercava, poiché ben conosceva i documenti che dicono che del Castello di Terracena non rimase che il nudo suolo, con quella ove, poi, i monaci di San benedetto, che quel suolo avevano ricevuto in dono, edificarono il loro Castel Nuovo, evidentemente così detto in opposizione al precedente che era sorto nello stesso luogo.

Sostanzialmente, salvo gli scavalcamenti del muricino che abbiamo visto nelle aree di Santa Maria de Domno e di Sant’Agostino e qualche episodio analogo verificatosi in altre realtà, ad esempio al meridione delle Fornelle, l’impianto murario longobardo pervenne invariato alla seconda metà del Trecento, quando si progettò un ampliamento al settentrione della porta Rotense, intorno al sito del convento di San Domenico. Forse nella stessa occasione, o nel corso del secolo successivo, un progetto analogo fu realizzato nell’area di Portanova, includendo nell’ambito urbano il grosso isolato cresciuto dal meridione dei fortilizi di San Benedetto al tratto orizzontale della via della Marina prima del suo sbocco nella parte meridionale della piazza. Nei primi anni del Cinquecento la chiesa di San Pietro in Vinculis, che di tale isolato fa parte, risulta fra le mura; agli stessi anni la seconda porta Nova, che era stata creata appunto per annettere l’area alla città, già veniva definita antica, mentre la terza dallo stesso nome era operante.

 

Le porte cittadine dette “Nova”

 

Abbiamo visto come la città ebbe una prima porta Nova rinominando quella di Elino. La seconda e la terza furono legate all’inclusione nell’ambito urbano, che abbiamo anche visto, dell’isolato del quale è parte la chiesa di San Pietro in Vinculis, poiché nella realizzazione di questo ampliamento vi furono due fasi caratterizzate da diverse posizioni dell’accesso alla città.

Nella prima, la porta fu edificata circa alla metà della strada, stretta fra un torrione costruito al suo meridione e lo stesso isolato che si intendeva includere nell’ambito urbano, forse senza che si ritenesse necessario chiuderlo a oriente da una cortina, ma utilizzando il fronte delle costruzioni, allo stesso modo che in altre parti del perimetro cittadino, come difesa. Questa seconda porta Nova, come accennato, al suo apparire nella documentazione, nel 1517, è già definita antica. Ma se è probabile che fu ritenuto sufficiente alla difesa verso oriente lo stesso fronte dell’isolato, certamente perché questa seconda porta Nova avesse un senso fu necessario far correre un muro fra il torrione posto al suo meridione e la torre del Russo, che costituiva l’elemento angolare della difesa di origine longobarda. In tale muro, allo sbocco attuale della via Portanova sulla via Roma, fu aperta un’altra porta, che fu detta di San Sebastiano, per il fatto che al suo esterno immediatamente sorse la solita chiesa protettiva sotto quel titolo; successivamente fu denominata degli Angeli, poiché su di essa fu edificata una cappella con l’effige di Santa Maria degli Angeli.

Nella seconda fase, probabilmente perché rivelatasi precaria la soluzione adottata, una muraglia fu fatta correre a occidente dell’attuale piazza Flavio Gioia, e un bastione ad “elle” con terrapieno fu posto a spezzare la linearità della strada; la porta fu aperta verso settentrione, stretta fra la cortina e il bastione, intorno al quale la via della Marina fu fatta girare in senso antiorario.

Il 20 dicembre 1753 il governo della città, a seguito di una supplica da parte di un gruppo di cittadini, che lamentava i molti inconvenienti di traffico che a causa di quel percorso contorto si verificavano nel tempo della fiera, in quello della vendemmia, del raccolto e quando la porta veniva impegnata dal corteo reale che, attraversando la città, si portava alla caccia in Persano, deliberò la demolizione del terrapieno e di parte della torre, affinché si edificasse una nuova porta simmetrica alla via, che è quella, la quarta detta Nova, che ancora oggi vediamo.

 

Bibliografia:

  • V. de Simone, L’identificazione della via che conduceva alla porta di Elino, in «Rassegna Storica Salernitana», 17, 1992, pp. 257-266.

  • V. de Simone, Nuove acquisizioni sulla chiesa medievale di Santa Maria de Domno in Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 28, 1997, pp. 7-21.

  • V. de Simone, Il sito del castello di Terracena in Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 32, 1999, pp. 9-21.

  • C. Carucci, La provincia di Salerno dai tempi più remoti al tramonto della fortuna normanna, 1922, p. 292. La parte relativa al castello di Terracena di questo lavoro fu pubblicata anche come Il palazzo principesco normanno di Salerno, in «Archivio Storico della Provincia di Salerno», III, 1922, pp. 211-216.

  • G. Crisci, Salerno Sacra, 2a edizione a cura di V. de Simone, G. Rescigno, F. Manzione, D. De Mattia, 2001. Per Sant’Agostino, III, pp. 104-111; per Santi XII Apostoli, I, pp. 64-65; per San Salvatore de Fundaco o de Dogana, I, pp. 73-74; per Santa Maria de Domno, I, pp. 66-71; per Santa Maria della Neve detta di Portanova, I, pp. 158-159; per Santa Maria della Pietà, III, pp. 118-122; per San Clemente, III, pp. 55-56; per Santa Maria degli Angeli, I, pp. 74-75.

  

 

 

 

 

 

Il quartiere meridionale da Palazzo Sant’Agostino all’Annunziata

 

Il largo di Sant’Agostino

 

La trasformazione del convento di Sant’Agostino nel palazzo omonimo, realizzata allo scopo di dare una sede all’Intendenza, comportò, all’inizio dell’Ottocento, dopo la demolizione delle mura, l’apertura dell’attuale via Giuseppe Vigorito e del tratto terminale verso il mare della via Duomo. Precedentemente, quest’ultima, la via che cala dall’Arcivescovato, secondo una denominazione settecentesca, si concludeva nel largo di Sant’Agostino, del quale sopravvive soltanto la parte occidentale, all’ingresso del vicolo Giudaica, mentre quella orientale, che insisteva davanti alla chiesa del complesso agostiniano, è divenuta irrilevante, essendo scomparsa la strada verso oriente di cui costituiva l’imbocco.

Il prospetto meridionale di questo largo era costituito, oltre che dalla facciata della chiesa di Sant’Agostino, da un edificio con botteghe dello stesso convento e dell’oratorio di Sant’Antonio di Padova, cui seguiva, prospettando sulla parte oggi superstite, la facciata di quest’ultima chiesa, sede di una confraternita costituita della nobiltà cittadina, da cui la denominazione comunemente nota di Sant’Antonio dei Nobili, che troviamo operante nel 1515 e che si assumeva l’onere dell’assistenza ai condannati a morte e della loro sepoltura. L’apertura della strada, con la demolizione di quanto posto fra le due chiese, compromise la stabilità del muro orientale di quella di Sant’Antonio, per la qual cosa fu necessario voltare due archi sulla strada, urtanti fra il muro compromesso e quello occidentale di Sant’Agostino, archi che saranno demoliti nel 1842 in occasione della ricostruzione della sede della confraternita, con il palazzo annesso, ove la vediamo tuttora.

Il largo fu oggetto, sul finire del Quattrocento, di una controversa fra gli agostiniani e le monache di San Giorgio che ne rivendicavano il possesso. La lite giudiziaria fu risolta, il 24 agosto 1492, da Marino di Santo Mango, regio portolano di Salerno, con una sentenza che ne riconosceva la pertinenza al monastero di San Giorgio, salvo il passaggio viario; sul largo le monache eserciteranno diritti ancora sul finire dell’età moderna, esigendo fitti dai venditori e dalle venditrici di frutta, verdura, vasi di creta e altro che vi ponevano le loro mercanzie.

Questi diritti del monastero derivavano dalla contiguità del largo con le case di sua proprietà che vi prospettavano da settentrione, ad entrambi i lati della via dell’Arcivescovato. La prima  notizia relativa all’area di quelle poste ad oriente della strada è contestuale alla prima citazione della comunità monastica, databile fra il settembre 718 e l’agosto 719, quando il duca di Benevento Romoaldo II donava alla badessa Agata una casa con una corticella e un canneto già di Anastasio, posta suburbanam, ossia all’esterno del muro cittadino verso il mare; naturalmente, poiché siamo antecedentemente all’edificazione del muricino, l’antemurale che abbiamo visto diffusamente nel corso della passeggiata da Palazzo Sant’Agostino a Portanova, il muro citato è quello antico che, proveniente grosso modo dal lato settentrionale dell’attuale largo Dogana Regia, chiudeva a meridione sia la città che lo stesso monastero, essendo stato questi edificato, come altri luoghi di culto, aderente alla faccia interna della difesa.

 

L’area di Santa Lucia de Giudaica

 

L’attuale vicolo Giudaica, che si percorre per raggiungere dal largo di Sant’Agostino l’area di Santa Lucia de Giudaica, dal Cinquecento alla metà del Settecento fu detto la via delle Chianche, poiché in esso si affacciavano le botteghe ove si esercitava la macellazione; nel Medioevo era stato detto anche la ruga Nova, in alternativa alla più classica denominazione di Giudaica, che in modo generico si riferiva all’intero asso viario che percorreva l’Inter murum et muricinum, ossia la striscia di terreno annessa alla città con la costruzione dell’antemurale longobardo.

Questa denominazione di ruga Nova entrò fra gli appellativi della chiesa di Santa Lucia, che compare con il titolo attuale soltanto con le relazioni delle visite pastorali, la prima del 4 giugno 1515, ma è più antica di almeno quattro secoli e mezzo, essendo citata con il titolo di Santa Maria e con gli appellativi de Mare, de Ruganova, de Giudaica, fin dal marzo 1072, quando se ne precisa anche il sito inter murum et muricinum. In effetti, analogamente a Santa Maria de Domno, essa era stata edificata aderente alla faccia interna del muricino, che in quest’area non fu scavalcato verso il mare del tessuto urbano con la conseguente costruzione di un secondo antemurale, come abbiamo visto avvenire nell’area di quella chiesa nel corso della passeggiata da Palazzo Sant’Agostino a Portanova, ma sottoposto ad una consistente revisione soltanto agli anni settanta del Cinquecento, quando furono costruite nuove muraglie e aperta una strada che le lambiva, detta, appunto, delle Muraglie, che dal largo della chiesa di Santa Lucia raggiungeva la zona absidale della Santissima Annunziata, sul tracciato del marciapiede oggi a monte della via Roma. Questi lavori causarono dei danni alla parrocchia di Santa Lucia, che si vide sottrarre un cortile e demolire delle botteghe e un magazzino per l’apertura della strada e diroccare parte delle strutture della chiesa stessa per l’edificazione delle nuove difese; tali danni, valutati in almeno centocinquantasette ducati dal perito Scipione Caracciolo, a seguito del ricorso del parroco al Consiglio Collaterale saranno rimborsati per centododici ducati dall’amministrazione cittadina e per cinquantasei dalle Regie strade.

Il fatto che il titolo di Santa Lucia compaia soltanto nel Cinquecento ha fatto ritenere ad alcuni autori, che non sono riusciti a recuperare nella documentazione giunta fino a noi il collegamento fra la nostra chiesa e il titolo di Santa Maria con gli appellativi de Mare, de Ruganova, de Giudaica, che la sua antichità non andasse più in là del Quattrocento; qualcuno ha addirittura affermato che la chiesa un tempo fu la maggiore sinagoga urbana, il che, oltre ad essere una enormità come affermazione, induce a ritenere che in città esistesse più di un tempio ebraico, fatto assolutamente non documentato.

L’area di Santa Lucia fu al centro di vivaci attività commerciali e artigiane, sia per la già ricordata presenza dei macelli e la vicinanza alla via della porta di Mare, ove, alla pietra del Pesce, si svolgeva il mercato del pescato, che per la presenza della Panatica, della via dei Barbieri, ove questi artigiani concentravano la loro attività, e di alcune locande, fra le quali quella delle Chianche, posta a settentrione del vicolo oggi Giudaica, forse la stessa che compare già al 1336, certamente operante dai primi del Cinquecento alla seconda metà del Settecento. Accanto a queste attività, nell’area se ne svolgeva un’altra non propriamente lecita, almeno secondo il comune senso della morale pubblica attuale: quella del prostibulo.

 

L’antica corte

 

Quando il principe Arechi decise il trasferimento della capitale dei propri domini da Benevento a Salerno, ovviamente, si pose il problema di fornire la propria corte di una sede adeguata. La scelta cadde su un’area particolarmente adatta allo scopo per sue caratteristiche peculiari: era al centro, sull’asse longitudinale, dell’allora conformazione della città; permetteva la vista verso il mare; disponeva di solide strutture murarie in gran parte facilmente riutilizzabili. Se Arechi si pose anche il problema, ma non lo sapremo mai, dell’impatto ambientale insito nell’inserimento del palazzo che immaginava in quel contesto, la cosa dovette apparirgli, o la rese, ininfluente, poiché, di fatto, ritagliò in quel tessuto cittadino un grosso quadrilatero limitato da quattro elementi urbanistici preesistenti: la vecchia cortina difensiva proveniente dal meridione del monastero di San Giorgio a sud; la clausura occidentale dello stesso monastero a oriente; il proseguimento dell’attuale via dei Mercanti, oggi rappresentato dal vicolo Adelberga, a nord; la via della porta di Mare a occidente.  

Il palazzo fu costruito sull’asse nord-sud, dal lato meridionale della cappella palatina, oggi San Pietro a Corte, della quale mantenne l’ampiezza sull’asse est-ovest, al muro cittadino, dal quale si protese verso il mare, nell’Inter murum et muricinum, forse utilizzando quale sostegno una antica torre. A occidente e ad oriente dell’immobile furono create due corti fra di loro collegate da più passaggi lasciati sotto il corpo dell’edificio: la prima, nella quale è documentata una gradinata che possiamo immaginare, con buone probabilità di essere nel vero, costituisse l’accesso primario alla residenza principesca, si estendeva dal fronte occidentale dell’edificio alla via della porta di Mare; la seconda, la maggiore, dal fronte orientale raggiungeva la clausura del monastero di San Giorgio.

In questa corte maggiore, presumibilmente lungo i lati meridionale e orientale, furono posti caserme, uffici, magazzini, scuderie e quant’altro potesse reputarsi utile tenere nelle vicinanze del Palazzo. Con la caduta del principato longobardo e il trasferimento del centro del potere a Castel Terracena, le corti del complesso arechiano furono concesse come suolo edificatorio dai vincitori normanni e vennero coperte da immobili, fino ad assurgere, in particolare quella orientale, a nuovo quartiere cittadino con la denominazione di Corte Dominica, poi Antica Corte.

Naturalmente, perché fosse possibile agli amministratori della res publica dei successori dei principi longobardi lottizzare l’area fu necessaria la creazione di strade che venissero a circoscrivere gli isolati. Avviene così che, se nel 1138 un terreno è detto genericamente confinante da tutti i lati con la Corte Dominica, nel 1170 compaiono due strade quali confini di una casa posta nella stessa Corte, vicino al vecchio palazzo; ma è con il Duecento che i passaggi sotto l’edificio arechiano, ormai dotati di sbocchi aperti verso la via della porta di Mare, e il reticolo tracciato nella corte orientale assumono connotazione soprattutto in relazione alle arti che si esercitano nelle botteghe su di essi prospicienti. Compaiono così, fra le altre denominazioni, il loco Sutorum, ove esercitavano i sarti, identificabile con l’innesto dell’attuale via Arechi II sull’asse Dogana Vecchia–Mercanti; la ruga Corbiseriorum e la ruga Ferrariorum, con le botteghe dei fabbricanti di ceste e dei fabbri, identificabili nel tratto orientale dell’attuale via Dogana Vecchia, poiché il suo arco terminale vicino la chiesa di San Salvatore de Drapparia sarà detto Corbiseriorum alias deli Ferrari ancora nella seconda metà del Cinquecento; la ruga Speciariorum, sotto gli archi del vecchio palazzo, ossia la parte orientale dell’attuale via Giovanni da Procida, che ancora alla metà del Settecento sarà detta degli Speziali, così come l’arco che la conclude all’innesto sulla via Arechi II.

L’urbanizzazione della parte orientale della Corte Dominica si completa nel 1423 con l’edificazione, a spese di Pacilio Turdo, e l’erezione canonica databile al 24 maggio di quell’anno, della chiesa di San Salvatore de Drapparia a ridosso del fronte dell’ex palazzo principesco. Nel settembre 1582 sarà avviata la ricostruzione dalle fondamenta della chiesa, che sarà completata sul finire del 1584; essa, intrapresa sopratutto per ampliare il luogo di culto, comporterà l’acquisizione da parte della confraternita dei sarti, che nel 1535 vi troviamo operante, di due botteghe limitrofe alla costruzione originaria. Questa chiesa è comunemente identificata dagli storiografi salernitani con San Salvatore de Fundaco o de Dogana che, invece, come abbiamo visto nel corso della passeggiata da Palazzo Sant’Agostino a Portanova, era sita al largo Dogana Regia. L’equivoco nasce dal fatto che San Salvatore de Fundaco è detta, in un documento dell’archivio della badia di Cava, posta vicino ad archi, il che ha fatto pensare all’arco detto di Arechi, vicino al quale San Salvatore de Drapparia è sita; ma tale documento ci informa anche che una casa posta vicino alla chiesa confinava con la via della Giudaica, il che esclude immediatamente l’area dell’Antica Corte, ove vediamo San Salvatore de Drapparia, e ci porta a quella lungo le mura meridionali della città, fra il limite orientale della stessa e la chiesa di Santa Lucia. A parziale giustificazione dell’equivoco è da notarsi che nell’area di San Salvatore de Drapparia compare il toponimo Dogana Vecchia; ma esso non si riferisce agli uffici doganali posti a ridosso di San Salvatore de Fundaco, ma alla Dogana dei Grani, denominazione data fra Cinquecento e Settecento alla strada che dall’arco di Arechi porta al largo Sedile del Campo.

 

 Il largo Sedile del Campo

 

Salerno ebbe una conformazione urbanistica fortemente condizionata dalla natura declive del terreno, che raramente permise la creazione di piazze, e dal concetto che i longobardi ebbero della struttura di una città, fortemente utilitaristica e, quindi, con l’eccezione, nel caso specifico di Salerno, dell’area palazziale, aliena a concessioni di spazio per motivi di rappresentanza. Di fatto, esclusi i campitelli disseminati fra i fitti reticoli di vicoli, prima dell’inclusione fra le mura dell’area di Portanova, la città ebbe quale unico spazio aperto rilevante per estensione il Campo, che mai, però, ebbe la connotazione di centro del comune, in quanto mancante sia dei palazzi del potere religioso che di quelli del potere politico, con l’eccezione del Seggio dei nobili, posto all’estremità dell’isolato fra le attuali vie Giovanni da Procida e Pandolfina Fasanella.

Il Campo fu il centro del tessuto urbano compreso fra l’asse viario della porta di Mare e la porta occidentale posta all’estremità della via Portacatena, entrambe aperte verso le aree di attracco dei trasporti marittimi. Qui giungevano due delle principali arterie cittadine: la Dogana dei Grani, attualmente via Dogana Vecchia, ove si esercitava il commercio dei cereali e sulla quale, fin dal 1578, è documentato il palazzo di Città, sull’area ove ancora vediamo, naturalmente sottoposto a ricostruzioni e adattamenti, il Municipio Vecchio; e la via degli Speziali, attualmente Giovanni da Procida, ove, oltre le aromatarie che ne determinavano il toponimo, trovavano sede alcuni studi notarili, le Curie, anche se queste in maggiore concentrazione erano poste nella parte della strada oltre l’incrocio con la via della porta di Mare, tratto che al Settecento avrà perso la denominazione originaria per essere detta, appunto, la via delle Curie.

Gli elementi che determinano l’aspetto attuale del Campo compaiono nella documentazione giunta fino a noi nel corso del Cinquecento, per cui possiamo ben dire che, salvo le ovvie ricostruzioni, l’impianto e la ripartizione fra gli spazi vuoti e gli ingombri immobiliari sono rimasti immutati da circa cinque secoli.

Il lato settentrionale del largo è costituito dalle case che al 1546 troviamo in possesso della famiglia Solimele nella persona di Marcello e che in parte perverranno, ai primi del Seicento, al reverendo d. Giovanni Francesco, vescovo di Acerno; al 1580 erano descritte come prospettanti verso la chiesa di Sant’Andrea, al di sopra della fontana del Campo. Confinanti con Casa Solimele ed estese nell’isolato prospettante verso meridione sulla Dogana dei Grani tramite la copertura sull’attuale vicoletto Municipio Vecchio, al 1513 sono documentate case di Andrea Ruggi che, vendute nel 1518 ai de Grisignano, in parte troviamo in possesso dei del Grotto al 1558; nel 1576 si vende un magazzino posto lungo il lato settentrionale della Dogana dei Grani, il terzo venendo dalla fontana del Campo, sotto le case di Aurelia Vitale, vedova di Bartolomeo del Grotto.

L’estremità prospettante verso il Campo dell’edificio successivo verso meridione al 1517 la troviamo costituita da case dei de Alfano per acquisto da Francesco de Ruggiero; l’anno successivo sono dette prospettanti sulla ruga deli Spiciali; nel 1546 sono dette dirimpetto le case dei de Grisignano, che abbiamo visto nell’isolato a settentrione, e la fontana del Campo. Questa è la più antica citazione giunta fino a noi di questo elemento caratterizzante il largo, anteriore di circa un secolo e mezzo a quella del 1692 citata come prima da qualche storiografo cittadino.

L’isolato successivo verso meridione, come accennato, era costituito, nella parte prospettante sul largo, dal Seggio dei nobili del Campo; esso compare nella documentazione giunta fino a noi nel 1520, in quanto confinante con una casa che i fratelli Nicola e Giacomo de Ruggiero vendono a Marino Faracca. Pervenuta ai Naccarella ai primi degli anni novanta del Cinquecento, al 1627 la casa ex de Ruggiero risulta prospettante sulla copertura del Seggio.

Lungo il lato meridionale del Campo vediamo l’imponente facciata di Palazzo Genovese, realizzato intorno alla metà del Settecento da Matteo, barone di Monte Corvino, sul sito di più immobili del convento di Santa Maria di Porto Salvo, del monastero di San Michele Arcangelo, dei Sagrestani della Cattedrale, di Emmanuele Marotta. Precedentemente l’area era stata impegnata, fra le altre, da case degli Sciabica che al 1567 troviamo in possesso di Antonio Maria Ruggi; pervenute ai de Giudice, saranno vendute nel 1621 a Tommaso Pinto, per poi pervenire a Fabrizio.

Considerando la fontana un elemento inserito a posteriori, il limite occidentale del Campo possiamo riconoscerlo nel corso della Lama, attuali via Porta Rateprandi e vicolo delle Colonne. La Lama, o Lavina, era un corso d’acqua a regime torrentizio, uno dei tanti che, provenienti dalle molte sorgenti una volta esistenti alle pendici del colle sul quale vediamo il castello, attraversavano la città correndo verso il mare. Essa dette l’appellativo a tre chiese parrocchiali: Santa Maria de Lama, che vediamo lungo i gradoni che da essa sono denominati; Sant’Andrea de Lama o de Lavina, che vediamo appena alle spalle della fontana; San Pietro de Lama o delle Femmine, una volta esistente appena all’interno delle Fornelle, lungo il lato settentrionale dell’attuale vicolo degli Amalfitani.

Il basso corso della Lama, oggi rappresentato dal citato vicolo delle Colonne, compare nella documentazione giunta fino a noi nel 1120 in relazione ad una casa posta al suo occidente, confinante a settentrione con la strada che percorreva l’Inter murum et muricinum, identificabile in quest’area con l’attuale vicolo Guaiferio. Ritroviamo, quindi, questo elemento caratterizzante il quartiere meridionale che avevamo lasciato al meridione del palazzo arechiano, il che ci porta ad uno dei maggiori equivoci esistenti sulla storia topografica della città. 

 

Le tre chiese di Sant’Andrea e la porta di Rateprando

 

Salerno ebbe tre luoghi di culto sotto il titolo di Sant’Andrea: il primo in Orto Magno, a settentrione della chiesa di San Gregorio; il secondo in Plaio Montis, a settentrione dell’attuale largo Abate Conforti, ove, nella cortina longobarda che in parte ancora vediamo calare dal castello, si apriva la porta di Rateprando; il terzo, unico superstite, oltre il corso della Lama. La storia che conosciamo del primo, che era una dipendenza del vescovato di Pesto, si snoda fra il 970 e i primi decenni del Trecento. Gli altri due, la chiesa di Sant’Andrea de Lama e il monastero di Sant’Andrea sito a settentrione della porta di Rateprando, furono accomunati dal fatto di trovarsi, al 1091, in parte pertinenti a Guaimario di Giffoni, figlio del duca Guidone, che nell’ottobre di quell’anno ne donò alla badia di Cava la parte di patronato già in possesso del padre e della madre. Per un equivoco in cui incorse Michele de Angelis, la chiesa e il monastero donati da Guaimario di Giffoni furono ritenuti un solo luogo di culto, per la qual cosa si ritenne che la porta di Rateprando fosse a meridione della chiesa di Sant’Andrea de Lama e poiché nel luogo esiste un arco lo si ritenne erede della porta. Naturalmente così non è; intanto perché studi recenti hanno portato all’individuazione della porta di Rateprando al settentrione del largo Abate Conforti, poi perché, come abbiamo visto, il muricino, in cui secondo Michele de Angelis la porta si apriva, correva ad almeno una decina di metri a meridione del vicolo Guaiferio. C’è da aggiungere che la prima edizione di Salerno Sacra portò nuova confusione al caso, poiché, oltre ad attribuire a Sant’Andrea de Lavina il sito sopra la porta di Rateprando, la identificò anche con Sant’Andrea in Orto Magno.

L’equivoco in cui incorse Michele de Angelis, spostando verso settentrione sia l’antemurale che il muro antico, che egli ritenne corresse al di sopra della chiesa, lo indusse in un secondo errore: la convinzione che parte del Campo e il rione delle Fornelle, l’antico Veterensium o Vico Santa Trofimena, rimanessero esterni alle difese cittadine prima dell’ampliamento longobardo che costituì l’Inter murum et muricinum. Naturalmente così non è, in quanto la doppia difesa verso il mare non solo è documentata al meridione del Campo, ma anche nell’area ove molto più tardi sorgerà la chiesa della Santissima Annunziata.        

 

Gli ospedali e la chiesa della Santissima Annunziata

 

Il titolo della Santissima Annunziata compare nella documentazione giunta fino a noi il 10 maggio 1330, ma si tratta di una chiesa sita extra moenia, sull’area che sarà, poi, del convento di San Francesco da Paola. Infatti, nel 1731, nella relazione di una visita pastorale, si legge che fuori le mura della città e la porta Busanola, poi detta della Catena, per la quale si va verso Napoli, anticamente vi era una chiesa dell’Annunziata, detta anche di San Bernardo; poi, per renderla più splendida e per maggiore comodità, circa alla fine del Quattrocento, fu eretta una nuova chiesa fra le mura, vicino detta porta, a spese della città, e l’antica, per la munificenza del principe di Salerno, nel 1516 (all’epoca deteneva il titolo Ferdinando Sanseverino) fu donata ai religiosi minori di San Francesco da Paola. Questa chiesa trasferita in città, perciò detta l’Annunziata Nuova, crollerà per un alluvione nel 1627; sarà ricostruita sullo stesso sito ed è quella che vediamo tuttora, fortunatamente salva da un altro alluvione, quello del 1954.

Il 15 ottobre 1372, nell’atto esecutivo del testamento di Cobella Dardano, vedova del giudice Filippo Scattaretica, si intravede, per la prima volta, che dalla Santissima Annunziata dipendeva l’ospedale cittadino; infatti, la testatrice lascia vari legati, uno dei quali a favore dell’hospitalerio Sancte Marie Adnunciate. Il 14 aprile 1614 i governanti della città stipulano un contratto con il padre provinciale della congregazione di San Giovanni di Dio, detta dei benfratelli, con il quale, per maggiore servizio e gloria di Dio e beneficio dei poveri ammalati, affidano l’ospedale dell’Annunziata Nuova a quella congregazione. Il 23 aprile 1620, con un ulteriore atto stipulato fra il sindaco e il priore del convento-ospedale, la città trasferisce ai benfratelli la proprietà di una casa affinché, demolitala, si costruisca sul suo sito, a spese dei padri, una chiesa ad uso dell’ospedale, ma con la porta principale alla strada, in modo che il pubblico possa frequentarla liberamente; essa è la chiesa di San Giovanni di Dio che attualmente vediamo dirimpetto la Santissima Annunziata. Passato ai benfratelli, l’ospedale smetterà, almeno ufficialmente, la sua intitolazione dell’Annunziata per assumere quella di San Biagio.

Prima dell’ospedale della Santissima Annunziata la città aveva avuto quello istituito da Matteo d’Aiello, vice cancelliere del Regno, presso la chiesa di San Giovanni de Busanola, a lui allo scopo ceduta dal figlio arcivescovo Nicola nel 1183 in cambio di Santa Maria in Vico Santa Trofimena, detta anche de Cita o de Cancellariis, da egli stesso fondata presso le sue case, lungo il lato settentrionale della via oggi Portacatena. Questo primo ospedale, il cui sito è da riconoscersi a ridosso del complesso di Santa Maria di Porto Salvo, attuale chiesa di Sant’Anna al Porto e caserma dei carabinieri al largo dei Pioppi, passerà in gestione all’ordine di Malta e sarà ricordato per l’ultima volta nel 1336.

Intorno alla Santissima Annunziata e agli ospedali altri equivoci sono nati da carenze di ricerca delle fonti in occasione della pubblicazione della prima edizione di Salerno Sacra. Si ritenne che la chiesa fosse sorta sul sito di Santa Maria in Vico Santa Trofimena, che invece ancora compare nelle fonti ben oltre l’epoca di edificazione dell’Annunziata; che l’ospedale affidato ai benfratelli fosse lo stesso che quello fondato da Matteo d’Aiello; che lo stesso ospedale assumesse il titolo di San Biagio dal fatto di aver incorporato la chiesa di San Biagio de Busanola. In realtà, per quanto riguarda gli ospedali, ci troviamo soltanto in presenza di una serie del tutto casuale di assonanze che interessarono le due istituzioni. Quello ex dell’Annunziata si chiamò di San Giovanni di Dio soltanto perché così era denominata la congregazione alla quale venne affidato nel 1614, quindi non c’entra il fatto che quello di Matteo d’Aiello fu istituito presso una chiesa di San Giovanni; esso assunse il titolo di San Biagio in onore di tale santo taumaturgo particolarmente venerato dagli ospedalieri, non certo in ricordo di una chiesa che, oltre a non essere nelle sue vicinanze e nemmeno in quelle dell’istituzione di Matteo d’Aiello, all’epoca era scomparsa da secoli. 

 

Bibliografia:

  • V. de Simone, La «forma urbis» prelongobarda e altre questioni di topografia salernitana, in «Rassegna Storica Salernitana», 19, 1993, pp. 191-207.

  • V. de Simone, La topografia antica e medievale di Salerno, in «Storia di Salerno», I, 2000, pp. 81-86.

  • G. Crisci, Salerno Sacra, 2a edizione a cura di V. de Simone, G. Rescigno, F. Manzione, D. De Mattia, 2001. Per Sant’Agostino, III, pp. 104-111; per Sant’Antonio dei Nobili, I, pp. 105-106; per San Giorgio, III, pp. 2-7; per Santa Lucia de Giudaica, I, pp. 99-102; per San Salvatore de Drapparia, I, pp. 103-105; per San Salvatore de Fundaco o de Dogana, I, pp. 73-74; per Sant’Andrea de Orto Magno, I, pp. 57-58; per Sant’Andrea de Lavina, I, pp. 75-79; per Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando, III, p. 64; per San Francesco da Paola, III, pp. 127-132; per la Santissima Annunziata Nuova o Maggiore, I, pp. 107-109; per il convento-ospedale di San Giovanni di Dio, III, pp. 154-160; per Santa Maria de Cancellariis, I, pp. 119-120.

  

 

 

 

 

 

Al limite del Plaio Montis: dalla porta Nocerina alla porta Rotense

 

Premessa

 

La città di Salerno nasce nel 194 a.C., in applicazione della legge Atinia di tre anni prima, con la deduzione di una colonia di cittadini romani, in oram maritimam, ad castrum Salerni, ossia sul mare, nei pressi del campo militare sorto a presidio dei sentieri che permettevano l’accesso alla piana di Nuceria Alfaterna forse già dal 268 a.C., quando erano stati deportati i ribelli picenti nell’agro che, dalla loro permanenza, prenderà la denominazione di picentino. Sul tracciato di uno di tali percorsi si svolgerà la via Popilia che, correndo in medio Salerno, raggiungerà Reggio di Calabria; essa, nel tratto a Nuceriam Salernum usque, sarà riattata prima dal cesare Marco Antonio Gordiano (238), poi da Giuliano l’Apostata (361-363), come testimoniato dalle iscrizioni incise su una colonnina miliare rinvenuta nel 1841 al largo Abate Conforti.

La presenza di questa colonnina miliare, il fatto che nel 1879 fu rinvenuto un tratto di una strada giudicata romana fra l’innesto della via dei Canali e i gradoni Madonna della Lama, a circa un metro di profondità rispetto all’attuale selciato della via Torquato Tasso, il fatto che al febbraio 934 compare nella documentazione giunta fino a noi la porta Nucerina aperta all’estremità occidentale della stessa strada, ci dicono che essa fu l’erede di uno di quei sentieri al controllo dei quali era stato posto il castrum e la parte in medio Salerno della via Popilia.

 

La porta Nocerina e il muro settentrionale della città vecchia

 

Nel 1924 Michele de Angelis ritenne di poter riconoscere la porta Nocerina nella copertura terminale verso occidente della via Torquato Tasso, ove si esce alla Spinosa. In realtà, l’andamento delle mura occidentali della città al meridione del complesso di San Nicola de la Palma, attuale conservatorio statale di musica, rimane, a causa del limitato numero di documenti che ad esse si riferiscono, difficilmente leggibile; e se è accettabile la tesi dello stesso de Angelis secondo la quale la cortina, al meridione di quei luoghi, seguisse i terrazzamenti attuali verso oriente, è impossibile accettare l’ipotesi che ciò avvenisse fino allo sbocco della via Torquato Tasso. Tanto perché al novembre 1058 è documentato un terreno posto in Plaio Montis, vicino l’acqua detta Palma, in forma di trapezio rettangolo avente il lato obliquo, posto ad occidente, costituito dal muro della città; ove accogliessimo l’ipotesi di de Angelis, evidentemente tale terreno non troverebbe una collocazione, poiché al meridione di San Nicola de la Palma non esisterebbe nessun tratto di difesa con siffatta inclinazione, mentre un muro con tale caratteristica esiste all’esterno dell’andamento ipotizzato dallo stesso autore. Esso si diparte dai terrazzamenti di cui sopra, ove si osserva un accenno di merlatura, e corre costituendo il limite sud-orientale di un canalone che evidentemente fu il corso di un torrente, forse la stessa acqua de la Palma, poiché verso di esso il muro presenta evidenti tracce di usura per scorrimento di liquido. Se questo muro fu il lato obliquo del terreno trapezoidale documentato al novembre 1058, dalla sua estremità, puntando verso il sito ove attualmente vediamo la chiesa della Santissima Annunziata, dovette dipartirsi la cortina occidentale, descritta nella documentazione giunta fino a noi come corrente lungo il corso del torrente Fusandola, e la porta Nocerina dovette aprirsi ove essa intersecava la strada.   

Questo terreno trapezoidale ebbe anche una seconda caratteristica di estremo interesse: la sua base inferiore era costituita da un secondo muro che il notaio longobardo cita come il muro distrutto che fu della città vecchia. L’esistenza di questa cortina disposta sull’asse est-ovest smentisce quanti hanno ritenuto e ancora ritengono, fra storiografi e addetti ai lavori, che la città ebbe mura romane o bizantine calanti dal castello e quindi assumesse la caratteristica forma triangolare già in epoca prelongobarda. In realtà, la città che trovò Arechi quando decise di trasferirvi la capitale dei propri domini, quella che per il notaio che scriveva nel 1058 era la città vecchia, aveva un muro settentrionale che costituirà la base dell’ampliamento del Plaio Montis, realizzato dallo stesso principe o dai suoi immediati successori con la costruzione della lunga cortina che ancora vediamo ascendere il colle Bonadies dall’occidente dell’ex orfanotrofio Umberto I e girarne il cocuzzolo per discendere a oriente del complesso di Montevergine, che creerà una delle tre aree (le altre due saranno il Corpus, intorno al monastero di San Benedetto, e l’Inter murum et muricinum, lungo il lato della città vecchia verso il mare, dal meridione del sito oggi della Santissima Annunziata al meridione del luogo ove vediamo il Santissimo Crocifisso) dette la nuova città salernitana.

Intorno alla locuzione nella nuova città salernitana, intus nobam salernitanam civitatem, molto si è discusso, poiché uno storiografo cavense, il canonico Senatore, sul finire dell’Ottocento ritenne che essa si riferisse al fatto che Salerno fosse stata edificata originariamente nell’area di Vietri sul Mare, il locus Veteri, per essere, poi, trasferita ove oggi la vediamo, andando a costituire una città detta nuova in opposizione alla prima. Naturalmente così non è, intanto perché il centro storico di Salerno continua a restituire elementi urbanistici di epoca romana che testimoniano essere stata sempre qui la città, poi perché i quattordici documenti custoditi presso l’archivio della badia di Cava che riportano la nostra locuzione o sue varianti, che tanto accesero la fantasia del buon canonico, si riferiscono esclusivamente a immobili posti nelle tre aree sopra menzionate. Infatti, dodici sono relativi al Plaio Montis, in particolare al monastero di San Massimo, ad un terreno posto al settentrione della porta Nocerina, alla chiesa di Sant’Angelo de Plaio Montis, ad un terreno posto al meridione della via lungo la quale correva la fistola pubblica, attuale via Trotula de Ruggiero; uno al settentrione di San Benedetto, nel Corpus; uno al meridione della porta di Elino, nell’inter murum et muricinum.    

Fra i dodici documenti relativi al Plaio Montis, al momento ci interessano quello che tratta del terreno posto al di sopra della porta Nocerina e quello che tratta del terreno posto al di sotto della via lungo la quale correva la fistola pubblica. Il primo, del febbraio 934 con riferimento al marzo 880, precedendo la citazione del muro distrutto del 1058, conferma che al di sopra dell’asse costituito dalle vie Torquato Tasso e Spinosa si era nella nuova città; il secondo, dell’aprile 855, ci da la possibilità di una maggiore precisione nell’individuare l’area nella quale idealmente tracciare questo limite meridionale del Plaio Montis, poiché ci permette di individuarla fra lo stesso asse e la via Trotula de Ruggiero.  

 

Il largo Scuola Medica Salernitana

 

Il largo Scuola Medica Salernitana, come generalmente tutti i campitelli cittadini, questi spazi che aprivano il tessuto urbano costituito essenzialmente da reticoli di vicoli, rappresentò un’area di svincolo sulla direttrice costituita dall’asse viario oggi rappresentato dalle vie Trotula de Ruggiero e Porta San Nicola, che collegava la stessa porta San Nicola, detta anche de la Palma, sotto l’ex orfanotrofio, con la porta Rotense, che vedremo al limite orientale del largo oggi Abate Conforti. Da qui si dipartiva verso oriente la via di San Lorenzo, che raggiungeva quel monastero; e verso occidente la via di San Martino, che penetrava nel cuore del Coriariis, ove si svolgeva principalmente l’attività della concia delle pelli e dove insistettero, fra  l’anno Mille e la fine del Cinquecento, la chiesa parrocchiale di San Salvatore e l’altra chiesa di San Martino, dette entrambe de Plaio Montis o, appunto, de Coriariis.

Il nome attuale del largo, già presente nella toponomastica cittadina, fu confermato nel 1932 dalla commissione per la revisione dei nomi delle strade della città che sostenne essere già in uso dal XVII secolo. In realtà, un documento del 1753 rinvenuto recentemente da Giuseppe Rescigno nel corso delle ricerche intraprese per la realizzazione del suo più recente lavoro, ha permesso di riconoscere il luogo detto la Scola salernitana in un sito posto fuori dalle mura occidentali della città, lungo il corso del torrente Fusandola, alla località detta nel Settecento e ancora oggi Canalone. Allo stato attuale delle nostre conoscenze è difficile dire se tale sito, che alla data del documento in oggetto era una proprietà privata, fosse stato precedentemente una delle diverse sedi che molto probabilmente la scuola medica ebbe nel corso dei secoli o semplicemente un suo bene immobiliare. Naturalmente, ove quella fosse stata effettivamente una sede della scuola, ciò non esclude che altra sede o altra sua proprietà possa essere stata al nostro largo, ma al momento non è conosciuta documentazione che lo attesti.

L’aspetto attuale del largo prese forma essenzialmente nel corso del primo ventennio del Seicento. L’edificio che lo chiude verso settentrione, detto la Glorietta, passato rapidamente fra più proprietari nell’ultimo quarto del Cinquecento, fu acquistato e ristrutturato agli inizi del secolo successivo da Giovanni Battista Cavaselice. Egli, in quegli stessi anni, ottenne la concessione enfiteutica di stanze poste sulle stalle del convento di Santa Maria delle Grazie e di uno spazio vuoto a quelle adiacente, ove edificò un altro immobile, costituendo un complesso, successivamente rimaneggiato, oggi rappresentato dall’edificio che vediamo al meridione del largo. Infine acquisì la proprietà di un giardino già della famiglia Coduto, anch’esso passato a vari proprietari, e dell’area ad esso adiacente, costituita da un altro giardino della chiesa parrocchiale di San Salvatore e dal rudere della stessa chiesa, ormai da parecchio tempo sconsacrata. Sui due giardini e sul sito della chiesa edificò un altro immobile, che è quello che vediamo chiudere il largo ad occidente.

Sul finire degli anni venti del Seicento, dunque, Giovanni Battista Cavaselice deteneva la proprietà degli immobili prospettanti sul largo da tre dei quattro lati. Nel secolo che seguirà, di tale patrimonio ai Cavaselice non rimarrà nulla, poiché la Glorietta passerà alla famiglia Candia, l’immobile al meridione del largo ritornerà nella disponibilità del convento di Santa Maria delle Grazie e quello all’occidente perverrà in possesso dei padri carmelitani, che lo utilizzeranno come residenza estiva, quando lasciavano il convento all’attuale rione Carmine per sottrarsi alla malaria causata dalle paludi all’epoca lì esistenti, da cui la denominazione di Ospizio del Carmine.          

Il grosso isolato all’oriente del largo e lungo il lato settentrione della medievale via della Fistola, attualmente Trotula de Ruggiero, fu molto frazionato dal punto di vista proprietario fra Cinquecento e Settecento, caratterizzandosi essenzialmente per la presenza nella parte orientale della chiesa parrocchiale di San Salvatore de Plaio Montis, citata nella documentazione giunta fino a noi dal novembre 1022 e sconsacrata nel 1613. Questo luogo di culto è stato oggetto di uno dei tanti equivoci ricorrenti sull’urbanistica cittadina da parte di qualche storiografo salernitano che ha ritenuto non solo di poterlo identificare con una chiesa sotto lo stesso titolo che il vescovo Bernaldo avrebbe fatto costruire intorno all’853, ma anche di poterla considerare antesignana della chiesa di Santa Sofia e, quindi, di poterla porre nell’area che molto più tardi sarà occupata della chiesa dei gesuiti, all’attuale largo Abate Conforti. In realtà, della chiesa fatta costruire dal vescovo Bernaldo nulla sappiamo, tanto meno il sito, poiché nessun documento notarile la cita ed è conosciuta soltanto da un fugace accenno del Chronicon salernitanum; mentre San Salvatore de Plaio Montis, detta anche de Coriariis, oltre ad essere qui, nell’area ove esercitavano i conciatori, non certamente sull’area poi della chiesa del Gesù, ove, per altro, come vedremo, non era nemmeno Santa Sofia, esistette, come accennato, fino al 1613, quindi per lungo tempo in contemporanea con la stessa Santa Sofia, fondata prima del 1026 e dismessa agli anni trenta del Seicento.         

 

L’area di San Massimo

 

Nell’861 moriva il principe Ademario, secondo e ultimo esponente della seconda dinastia dei regnanti longobardi di Salerno; riuscì a succedergli il conte Guaiferio, figlio di Dauferio detto il Balbo o il Muto. Egli regnerà fino all’880 e sarà ricordato nella storia urbanistica di questa città per aver fondato il monastero di San Massimo, che risulta già edificato al giugno 865, nella parte nuova della città, vicino casa mia, come dichiarava lo stesso Guaiferio nel novembre 868. Questa affermazione ha fatto ritenere a schiere di storiografi cittadini che egli avesse edificato in Plaio Montis un nuovo palazzo principesco, abbandonando quello realizzato da Arechi nel cuore della città; qualcuno si è spinto anche a considerare la chiesa di San Massimo come una nuova cappella palatina in sostituzione di San Pietro a Corte. Naturalmente così non è, intanto perché il sacro palazzo del potere continuerà ad essere quello di Arechi fino alla edificazione normanna del castello di Terracena, poi perché mai San Massimo è citata come cappella palatina, infine perché Guaiferio risulta già dimorante nel Plaio Montis, in una casa che aveva acquistato dal nipote conte Dauferio, nell’853, quindi ben prima di divenire principe. Il monastero di San Massimo, dunque, non fu edificato presso un nuovo palazzo principesco, ma vicino all’abitazione privata dell’ex conte Guaiferio. Come accennato, una serie di nove documenti custoditi presso l’archivio della badia di Cava indica il complesso di San Massimo come posto nella nuova città, il che ci dice che il muro  settentrionale della città antica correva quasi rettilineo da un punto fra le estremità occidentali delle attuali vie Torquato Tasso e Trotula de Ruggiero e l’oriente, intersecando ad un certo punto quest’ultima strada prima di giungere sotto il monastero e la casa di Guaiferio.

Fra il settembre 1085 e l’agosto 1094, almeno per quanto si evince dalla documentazione giunta fino a noi, attraverso una serie di donazioni da parte dei molti soggetti che nel corso del tempo avevano acquisito parti del suo patronato, il complesso di San Massimo pervenne in possesso della badia di Cava, che nel 1664 lo venderà a Bartolomeo de Mauro.  

L’area di San Massimo che vediamo oggi, ossia quella sulla quale insiste il palazzo omonimo, ampiamente ristrutturato e ampliato prima dai de Mauro, poi dai Parrilli, rimane difficilmente riconducibile sia a quella esistente nel corso del principato di Guaiferio che a quella osservabile nel corso del Medioevo. Ciò che è certo è che la chiesa aveva, naturalmente a occidente secondo l’uso longobardo, l’atrio e il campanile che troviamo citati nel giugno 1087 in relazione ad un diritto di sepoltura e, ovviamente, verso oriente l’abside, dietro al quale, fra l’area propriamente dell’edificio di culto e beni che lo stesso principe Guaiferio gli aveva assegnato quale dotazione, correva un muro; ma aveva anche un atrio meridionale, ove vi era un arco sotto il quale era dipinto il volto della Vergine Maria, ai piedi del quale, nel giugno 1103 viene concessa ai coniugi Pietro, figlio di Pietro, e Gemma, figlia di Pietro, la facoltà di costruire una tomba; verso settentrione, invece, confinava con un andito oltre il quale erano siti altri suoi beni. È appena il caso di rilevare che la chiesa che appare da questa documentazione nulla ha in comune con la cappella che attualmente si vede all’interno di Palazzo San Massimo, nella quale comunemente si suole riconoscere la chiesa longobarda, se non per il fatto, forse, di insistere sul suo sito ampliato all’atrio meridionale.

 

Il monastero di Santa Sofia

 

La data di fondazione del monastero di Santa Sofia è stata variamente indicata dagli storiografi cittadini, poiché alcuni lo ritennero edificato dal principe Guaiferio, regnante dall’861 all’880, lo stesso che edificò San Massimo, altri lo ritennero esistente al 907 seguendo qualche errata datazione di documenti dell’archivio della badia di Cava. Entrambe le ipotesi denunciano approssimazione di conoscenza delle discipline accessorie alla storia cittadina, nella fattispecie le genealogie delle famiglie principesche e la datazione della documentazione, poiché se nel primo caso non è possibile confondere il principe Guaiferio, che come abbiamo visto trattando di San Massimo era figlio di Dauferio detto il Balbo o il Muto, con il conte Guaiferio figlio di Guaiferio, nel secondo non è possibile che sedicenti esperti ed addetti ai lavori non riconoscano evidenti errori di datazione delle pergamene cavensi riportati nei primi otto volumi del Codex Diplomaticus Cavensis.

Il fondatore di Santa Sofia risulta già morto nell’ottobre 1026, quando il suo cugino Raidolfo agisce insieme a Musando, abate dello stesso Santa Sofia, in relazione all’amministrazione di beni che erano stati comuni fra i due cugini e che al momento erano comuni fra il superstite Raidolfo e il monastero, essendo questi erede del suo stesso fondatore. Nel dicembre 1058 i conti Guaimario e Giovanni, figli del conte Guaimario, si incontrano con Moscato, abate di Santa Sofia, il quale presenta un atto privato senza data relativo ad una convenzione intervenuta fra lui, in rappresentanza del monastero, e i detti fratelli con la quale erano state consensualmente divise le terre e le case che furono del conte Guaiferio, figlio di Guaiferio, ossia il fondatore del monastero, delle quali tre parti competevano al monastero stesso e una parte a Guaimario e Giovanni quali eredi di Gemma, loro zia paterna, che fu moglie dello stesso conte Guaiferio. Le parti assegnate al monastero si articolavano in due immobili: il primo, costituito dalla maggior parte dell’ex residenza del conte Guaiferio, dal fronte settentrionale del monastero, scavalcando la strada con l’arco che ancora vediamo, si estendeva, ma senza raggiungerla, verso la via di San Massimo, confinando a oriente con una corte e un andito, a settentrione con il residuo della stessa ex residenza che sarà assegnato a Guaimario e Giovanni, a occidente con beni di altri; il secondo, costituito da una terra con una casa parte in legno e parte in muratura, confinava a settentrione con la strada, a occidente con beni del conte Castelmanno, a oriente con un andito, a meridione con beni di altri. Anche la parte assegnata ai conti Guaimario e Giovanni si articolava in due immobili: il primo, costituito dal residuo dell’ex residenza del conte Guaiferio, prospettava verso settentrione sulla via di San Massimo; il secondo, costituito da una terra con casa in muratura, era posto a settentrione del primo, oltre la strada, confinando a oriente con la terra del fabbro Raidolfo.

In pratica, i beni pervenuti al Santa Sofia andavano a saldarsi, al settentrione della via oggi Trotula de Ruggiero, con gli edifici del San Massimo che, come abbiamo visto, fra il settembre 1085 e l’agosto 1094 pervengono in possesso della badia di Cava. Nell’agosto 1100 Giovanni, figlio di Pandolfo, a sua volta figlio del principe Guaimario III, nel palazzo arcivescovile di Salerno, alla presenza di papa Pasquale II, dichiara che al detto suo genitore e alla madre Teodora, figlia di Gregorio console e duca dei romani, spettava il patronato del Santa Sofia che la stessa Teodora aveva fatto restaurare e ampliare; e poiché tale patronato era a lui pervenuto, desidera donarlo alla badia di Cava. Negli anni immediatamente successivi, con alcuni acquisizioni, la stessa badia intraprende una propria espansione edilizia verso oriente, coronandola nel maggio 1130, quando acquista la parte delle ex case del conte Guaiferio che era stata assegnata ai nipoti della moglie. Questa massiccia presenza dei monaci cavensi nell’area sarà ridimensionata nel 1575, quando, il 10 dicembre, un breve apostolico di papa Gregorio XIII sottrae loro il Santa Sofia, nel quale ormai da circa due secoli e mezzo si erano portate le monache una volta dimoranti fuori dalle mura, nel monastero di San Liberatore. Soppresso il sodalizio femminile per effetto della riforma di Sisto V del 1589, nel 1590 i locali saranno ceduti ai padri gesuiti.

Nel corso della sua lunga storia, il Santa Sofia ebbe una piccola chiesa interna posta alla estremità occidentale dell’area che oggi gli vediamo ingombrare, ove, nell’XI secolo, una piccola corte si apriva fra l’edificio monastico e le propaggini meridionali delle case del suo fondatore. Tale chiesa, naturalmente, non poteva soddisfare il concetto gesuitico di luogo di culto, per la qual cosa, fin dal 1596, quei padri acquistarono da Zenobia Santomango e dal figlio Matteo Rascica una casa con giardino posta a meridione del complesso, sull’area della quale edificheranno, ma circa un quarantennio dopo, la loro chiesa del Gesù che, sotto il titolo ottocentesco della Santissima Addolorata, vediamo costituire il prospetto occidentale del largo Abate Conforti. È appena il caso di rilevare la risibilità della pretesa di qualche addetto ai lavori di voler scavare sotto la chiesa gesuitica alla ricerca dell’antica Santa Sofia o addirittura di San Salvatore de Coriariis.       

 

La prima porta Rotense e la porta di Rateprando

 

Il muro settentrionale della città antica, nella sua corsa dal settentrione della porta Nocerina verso oriente, passato sotto il sito poi del complesso di San Massimo, si arrestava all’altezza dell’attuale via Santa Maria della Mercede, ove formava un gomito rafforzato da un torre prima di scendere lungo la stessa strada verso il capo della via oggi delle Botteghelle. Qui, all’uscita dalla città verso il gastaldato di Rota, poi stato feudale di San Severino, si apriva la prima porta Rotense, che scomparirà in epoca angioina, quando, in esecuzione di un progetto già ideato dal marito Luigi di Taranto, la regina Giovanna farà realizzare un ampliamento dell’area urbana che, includendo fra le mura il convento di San Domenico, porterà la porta a ridosso del luogo ove oggi vediamo la chiesa di San Sebastiano del Monte dei Morti.

Sulla base costituita da questo muro, come abbiamo intravisto, i longobardi crearono uno dei loro ampliamenti, quello del Plaio Montis, edificando una lunga cortina, in parte giunta fino a noi, dal lato occidentale del terreno trapezoidale che abbiamo visto a settentrione della porta Nocerina al cocuzzolo del colle Bonadies, ove insisteva una antico posto di osservazione, e da questi alla torre sul gomito dello stesso muro all’altezza dell’attuale via Santa Maria della Mercede. Qui, poco a settentrione della torre, addossato alla nuova difesa come era consuetudine, sorse un luogo di culto attraverso il cui titolare, sant’Andrea, impetrare la protezione divina sulla nuova opera; fra esso e la torre fu aperta una porta che sarà detta di Rateprando.

 Questa chiesa costituiva il terzo luogo di culto cittadino sotto il titolo di Sant’Andrea, dopo quello in Orto Magno, a settentrione della chiesa di San Gregorio, e l’altro che ancora vediamo, unico superstite, alle spalle della fontana di largo Campo. La storia che conosciamo del primo, che era una dipendenza del vescovato di Pesto, si snoda fra il 970 e i primi decenni del Trecento. Gli altri due, la chiesa di Sant’Andrea de Lama o de Lavina e il monastero di Sant’Andrea sito a settentrione della porta di Rateprando, furono accomunati dal fatto di trovarsi, al 1091, in parte pertinenti a Guaimario di Giffoni, figlio del duca Guidone, che nell’ottobre di quell’anno ne donò alla badia di Cava la parte di patronato già in possesso del padre e della madre. Per un equivoco in cui incorse Michele de Angelis, la chiesa e il monastero donati da Guaimario di Giffoni furono ritenuti un solo luogo di culto, per la qual cosa si ritenne che la porta di Rateprando fosse a meridione della chiesa di Sant’Andrea de Lama e poiché nel luogo esiste un arco lo si ritenne erede della porta. C’è da aggiungere che la prima edizione di Salerno Sacra portò nuova confusione al caso, poiché, oltre ad attribuire a Sant’Andrea de Lavina il sito sopra la porta di Rateprando, la identificò anche con Sant’Andrea in Orto Magno.

 

Bibliografia:

  • M. de Angelis, La via Popilia «in medio Salerno», in «Rassegna Storica Salernitana», 1938, pp. 267-282.

  • V. de Simone, La «forma urbis» prelongobarda e altre questioni di topografia salernitana, in «Rassegna Storica Salernitana», 19, 1993, pp. 191-207.

  • V. de Simone, La topografia antica e medievale di Salerno, in «Storia di Salerno», I, 2000, pp. 81-86.

  • I. Gallo, Vetus e nova civitas nella Salerno medievale, in «Rassegna Storica Salernitana», 36, 2001, pp. 155-156.

  • V. de Simone, La «nuova città salernitana», in «Rassegna Storica Salernitana», 37, 2002, pp. 267-273.

  • G. Crisci, Salerno Sacra, 2a edizione a cura di V. de Simone, G. Rescigno, F. Manzione, D. De Mattia, 2001. Per San Salvatore de Plaio Montis, I, pp. 126-128; per San Martino de Coriariis, I, pp. 133-134; per Sant’Angelo de Plaio Montis, I, pp. 132-133; per San Massimo, III, pp. 19-25; per Santa Sofia, III, pp. 43-47; per San Domenico, trattato sotto il titolo di Santa Maria della Porta, III, pp. 98-103; per San Sebastiano dei Morti, I, p. 152; per Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando, III, p. 64; per Sant’Andrea de Orto Magno, I, pp. 57-58; per Sant’Andrea de Lavina, I, pp. 75-79.

  • G. Rescigno, Salerno nel Settecento: famiglie e territorio, 2005.

  • V. de Simone, Il luogo detto «Scola salernitana», in «Rassegna Storica Salernitana» 43, 2005, pp. 265-269.

  • V. de Simone, Il quartiere meridionale da Palazzo Sant’Agostino all’Annunziata, in «Visitiamo la città», 2004-2005. Per maggiori dettagli sugli equivoci circa le chiese di Sant’Andrea, pp. 42-43.

  

 

 

 

 

 

Gli ampliamenti della città verso oriente: dalla porta Rotense alla porta Nova

 

 Il largo Abate Conforti

 

L’attuale largo Abate Conforti tradizionalmente è indicato come lo spazio che costituì il Foro della Salerno romana. In realtà è difficile stabilire se ciò fu vero, poiché se a favore depongono i rinvenimenti archeologici ottocenteschi, a sfavore interviene la constatazione di una eccessiva vicinanza ad una delle porte cittadine, quella detta in epoca longobarda Rotense, in quanto aperta sulla strada per il gastaldato di Rota, poi stato feudale di San Severino, che, come abbiamo visto nella parte conclusiva della passeggiata Al limite del Plaio Montis: dalla porta Nocerina alla porta Rotense, condotta il 5 marzo scorso nell’ambito del programma 2005-2006, si apriva al suo limite orientale, fra il piede della via Santa Maria della Mercede e il capo della via delle Botteghelle.

In ogni caso, il largo che oggi vediamo, anche se era esistito come spazio pubblico della città romana, al 1026 risulta ingombro di case e della chiesa di San Grammazio, dedicata al vescovo salernitano di tale nome, tradizionalmente ritenuto santo, le cui reliquie erano custodite sotto il suo altare. Una lapide rinvenuta con esse il 29 marzo 1670 ne farebbe risalire la morte al 25 gennaio 490, all’età di 41 anni. Forse il suo carisma fu tale che non trascorse molto tempo prima che si diffondesse un culto a lui dedicato; forse l’edificazione della chiesa in suo onore si potrebbe far risalire addirittura al VI secolo. Il 12 ottobre 1067 papa Alessandro II, nella bolla indirizzata all’arcivescovo Alfano I, cita la chiesa di San Grammazio che era stata donata da Maldefrido e Adelferio all’episcopio salernitano insieme alle case ad essa adiacenti. Nel 1575 tali case risultano concesse in enfiteusi perpetua al notaio Andrea Scolase; in esse, il 4 settembre 1581, in corso di visita pastorale, si nota l’esistenza di una finestrella con vista nella chiesa; il canonico don Matteo de Urso, che le abita insieme ad uno zio cieco e zoppo, dichiara che a questi fu concessa la grazia, sua vita durante, di poter utilizzare tale finestrella per ascoltare il servizio divino, non essendo in grado di accedere alla chiesa; tale grazia viene confermata. Il 3 maggio 1592, probabilmente a seguito del decesso dello zio del canonico, sarà ordinato di murare la detta finestrella.

Nel 1590 giungono a Salerno i gesuiti che prendono possesso dell’ex monastero di Santa Sofia. Immediatamente considerano insufficiente, relativamente ai loro canoni di luogo di culto, la piccola chiesa interna al complesso, per cui determinano di edificarne una nuova di imponente architettura. Allo scopo, acquistano, nel 1596, da Zenobia Santomango e dal figlio Matteo Rascica un complesso di case con giardino posto a meridione dell’ex monastero; su quest’area edificheranno la loro chiesa del Gesù che, sotto il titolo ottocentesco della Santissima Addolorata, ancora vediamo costituire il prospetto occidentale del largo. Nel 1613 acquisiscono, per donazione del loro confratello padre Bernardino Scolase, le case a ridosso della chiesa di San Grammazio, per cui fin dall’epoca dovette prendere corpo il loro progetto di creare un ampio spiazzo davanti alla loro chiesa in fase di edificazione demolendo quanto ne ostacolava la vista. Molto probabilmente non mancarono di far sentire la loro esigenza al governo cittadino e a monsignor Carafa, poiché il 29 marzo 1670, in corso di visita pastorale, l’arcivescovo, su sollecitazione pubblica del sindaco Matteo del Pezzo, decreta la sconsacrazione della chiesa parrocchiale di San Grammazio con il pretesto di averla trovata angusta, umida e indecente. L’immobile è apprezzato da due regi tavolari per 60 ducati e, per tale somma è venduta ai gesuiti, che ne prendono possesso e la demoliscono. Il 24 giugno successivo alcuni cittadini ricorrono alla Santa Sede sostenendo che la demolizione della parrocchiale era avvenuta non perché l’immobile fosse fatiscente e irrecuperabile, ma perché i gesuiti avevano fatto pressione per creare uno spiazzo davanti al loro imponente “Gesù”; si sostiene anche che la chiesa demolita era antichissima, quindi portatrice di un intrinseco valore storico.

Se vi fu censura da parte della Santa Sede all’operato dell’arcivescovo non sappiamo. Certo è che il 21 ottobre 1692 si sottopone a visita pastorale la nuova chiesa parrocchiale di San Grammazio, ricostruita di fronte all’antica, lungo il lato meridionale del largo, oggi riconoscibile, ridotta ad uso profano, nel civico 13. In quello stesso anno il parroco don Salvatore Pastore, nella relazione compilata per lo Stato delle chiese, ricorda la vicenda addossandone la responsabilità ai gesuiti e lamentando una spesa di 250 ducati per l’edificazione del nuovo luogo di culto a fronte dei 60 versati dagli stessi gesuiti per l’acquisto dell’antico. Una piccola rivincita la parrocchia di San Grammazio la otterrà il 5 ottobre 1807, quando, espulsi dal Regno i carmelitani, che dal 1778 avevano sostituito i gesuiti nell’ex Santa Sofia, la sede parrocchiale si trasferirà nella vicina chiesa monumentale prima del Gesù poi del Carmine Nuovo; il 28 marzo 1844 la parrocchia sarà definitivamente soppressa e il territorio annesso all’altra sotto il titolo di San Domenico, avente sede nella chiesa del convento soppresso di Santa Maria della Porta. Il 24 ottobre 1846 la chiesa è resa ai gesuiti a seguito della loro riammissione nel Regno; la loro nuova permanenza in città si protrae, fra alterne vicende, fino all’abolizione garibaldina della compagnia del 1860. L’11 maggio 1868 la chiesa sarà concessa alla confraternita della Santissima Addolorata, dalla quale il titolo che tuttora conserva.  

 

Dalla prima alla seconda porta Rotense

 

Nella parte conclusiva della passeggiata Al limite del Plaio Montis: dalla porta Nocerina alla porta Rotense abbiamo visto, e sopra ricordato, come nel muro della città antica che calava lungo le attuali salita Montevergine e via Santa Maria della Mercede, fra il piede di quest’ultima e il capo della via delle Botteghelle, si aprisse la prima porta Rotense. Al suo meridione, il muro svoltava verso oriente disponendosi poco discosto della strada, dalla quale lo separava una lunga e stretta striscia di terreno, in parte costituita da appezzamenti anche con botteghe, in parte impegnata da un numero non precisabile di torri, una delle quali, la più vicina alla porta, nel marzo 1078 troviamo pertinente al conte Salerno, così come di sua pertinenza era il terreno ad essa contiguo. Nella stessa area, forse attigua alla stessa o ad un’altra torre, ma all’interno della città, vi erano case di Landolfo di Santo Mango che, come si rileva il 7 settembre 1305, in danno della regia curia, aveva rotto il muro cittadino e occupato la torre costruendovi una camera ed aprendovi una finestra; è da presumersi che l’amministrazione cittadina e la stessa regia curia non riuscissero più a farsi rendere il maltolto, poiché la famiglia Santo Mango, divenute inutili quelle difese dopo l’ampliamento angioino che vedremo, ampliò le case fino al limite della strada incorporando la torre, che risulterà ancora esistente il 30 ottobre 1556, fino all’edificazione di un grosso complesso che raggiungerà verso meridione il muro dell’atrio del duomo.

Nella porzione di territorio extra moenia compreso nell’angolo formato dalla murazione calante lungo le attuali salita Montevergine e via Santa Maria della Mercede e quella che abbiamo appena visto si estendeva il Suburbio settentrionale, detto anche la Palearea, nel quale troviamo eretto, al 1255, il monastero delle monache penitenti di Santa Maria Maddalena, l’attualmente detto Montevergine per aver ospitato dagli anni novanta del Cinquecento al 1653 i monaci di quella congregazione. Il complesso era stato edificato adiacente alla faccia esterna del muro longobardo, ma l’ingresso era stato aperto dall’interno della città, trasformando un tratto di quel muro, come è possibile osservare tuttora, nel prospetto dell’edificio; tecnicamente, in tal modo, la costruzione era intervenuta come un ampliamento di fatto dell’area urbana, poiché le sue mura esterne erano venute a costituirsi quale nuovo limite della città. Nella stessa area è documentata, al 1259, la chiesa di San Paolo de Palearea che nel 1272 è concessa, con gli orti e altre terre adiacenti, ai domenicani per l’edificazione del loro convento. Il 30 luglio 1364 la regina Giovanna, confermando quanto era stato nella volontà del defunto marito Ludovico, comunemente noto come Luigi di Taranto, ordina che il monastero dei predicatori domenicani, che intanto aveva assunto il titolo di Santa Maria della Porta, sia incluso fra le mura delle città e lasciato illeso da qualunque demolizione che si potesse ipotizzare sotto il pretesto di più efficaci fortificazioni.

La nuova muraglia, dunque, partendo dal corpo del monastero di Santa Maria Maddalena, fu fatta girare intorno al convento domenicano per giungere a ridosso del luogo oggi della chiesa di San Sebastiano del Monte dei Morti, ove fu aperta le seconda porta Rotense, e proseguire fino a saldarsi alla murazione antica, osservabile fino alle improvvide demolizioni novecentesche lungo il lato orientale della via attualmente Bastioni.          

 

Il seminario e la chiesa di San Giovanni delle Capre

 

Lungo il lato occidentale della via attualmente Bastioni, dei Santi Manghi nel Cinquecento, insisteva una delle meno conosciute fra le chiesa parrocchiali cittadine, quella di San Giovanni delle Capre. Essa compare nella documentazione giunta fino a noi soltanto nel 1473, per scomparire, quale ente autonomo, nel 1536, essendo unita all’altra parrocchiale di Santa Maria de Orto Magno e poi, insieme a questa, a San Giovanni de Cannabariis.

Nell’area ad essa adiacente, subito dopo il concilio tridentino, in applicazione del decreto della XXII sezione (15 luglio 1563) De reformatione, è fondato il seminario ad opera dell’arcivescovo Gaspare Cervantes, successore di monsignor Seripando morto proprio a Trento il 17 marzo 1563. Il 18 marzo 1613, nel quadro della ristrutturazione di questo primitivo seminario disposta dal cardinale Lucio Sanseverino, si ordina di demolire la chiesa di San Giovanni delle Capre, intanto utilizzata, con il titolo di Santa Caterina, quale cappella per i seminaristi, e di edificare sulla stessa area un nuovo immobile, che troveremo ultimato nel 1616, sotto lo stesso titolo. Nel 1630 si rileva che nella nuova Santa Caterina c’è una bellissima icona.

Nel 1723, fin dal suo ingresso in diocesi, l’arcivescovo Paolo de Vilana Perlas avverte la necessità della realizzazione di un nuovo immobile per il seminario, progettando anche la creazione di uno spiazzo davanti alla nuova facciata, l’attuale largo Plebiscito, precedentemente ingombro da un giardino; ma vedrà solo l’inizio dell’opera. Neppure il suo successore, Fabrizio de Capua, ne vede la conclusione. Sarà monsignor Casimiro Rossi a portarli a termine nel 1742, predisponendo anche lo spazio per erigere una nuova cappella interna, onde evitare che i seminaristi siano costretti ad uscire all’aperto, sopratutto in inverno, per raggiungere quella di Santa Caterina; il 20 luglio 1750, essendosi realizzata la nuova opera, la vecchia cappella è venduta, con il suolo libero che la circonda, alla confraternita sotto il titolo della Beata Vergine dei Sette Dolori, poi detta, più semplicemente, della Santissima Addolorata. Con la concessione dell’11 maggio 1868, che abbiamo visto trattando del largo Abate Conforti, alla stessa confraternita della chiesa già del Gesù, poi del Carmine Nuovo, il sito dell’antica San Giovanni delle Capre, poi Santa Caterina, quindi Santissima Addolorata, è abbandonato. L’immobile sarà demolito per la costruzione dell’ex casa del clero, attualmente occupata da varie attività diocesane.

Intanto, nel 1832, l’arcivescovo Michelangelo Lupoli, sopraelevando parte del secondo, aveva munito di un altro piano il seminario; ne aveva restaurato l’atrio; ne aveva rinnovato la facciata e su di essa aveva posto un’iscrizione con il suo stemma.

 

Il Corpus e la badia di San Benedetto

 

L’attuale rione Mutilati, alle spalle del complesso di San Benedetto, l’altopiano della Torretta nella terminologia dei primi del Novecento, era detto dai longobardi il Corpus. Esso costituiva uno degli ampliamenti che i longobardi stessi avevano posto in essere lungo le mura antiche per racchiudere aree che, come abbiamo visto nel corso della passeggiata Al limite del Plaio Montis: dalla porta Nocerina alla porta Rotense, definiranno la città nuova. Prima degli interventi di Arechi e, forse, dei suoi successori, il muro cittadino che abbiamo visto correre lungo il lato settentrionale della via dei Bastioni svoltava verso il mare ove oggi vediamo un piccolo arco cavalcare la via Raffaele Capone, per andare ad intersecare la via dei Mercanti appena ad oriente del luogo ove più tardi sorgerà la chiesa di Santa Maria della Neve, attualmente del Santissimo Crocifisso. Al luogo di svolta di questo muro antico i longobardi innestarono la cortina che ancora vediamo correre lungo il margine settentrionale del rione Mutilati e che, circoscrivendolo anche lungo i lati orientale, alla sommità della scarpata sul torrente Rafastia, e meridionale, sotto San Benedetto, si ricongiungeva al tracciato antico dove oggi vediamo il Museo archeologico.

È evidente, nella creazione di questo Corpus fortificato incombente sulla depressione costituita dalla piana nella quale l’attuale via dei Mercanti usciva dalla città attraverso la porta anticamente detta di San Fortunato, in epoca longobarda di Elino, un lucido progetto difensivo il cui impatto nei confronti dello stato dei luoghi preesistente è difficilmente valutabile. La problematica riguarda la fondazione di San Benedetto, ovvero se la realizzazione del Corpus intervenne a racchiudere fra le mura cittadine il monastero già esistente o se l’edificazione di questi venne ad arricchire la fortificazione di un luogo di culto con finalità protettive sul nuovo limite urbano. Alcuni autori pongono la fondazione della futura badia fra il 694 e il 725, per cui dobbiamo crederla originariamente extra moenia; altri la ipotizzano edificata dal principe Arechi (750-787), quindi contestualmente al Corpus, o nel 793, quindi da Grimoaldo I, che anche sarebbe intervenuto sulle fortificazioni incombenti sul corso del torrente Rafastia. In realtà, al di là di episodi più o meno fantasiosi e di una ulteriore ipotesi che vuole il cenobio esistente all’803, la certezza che abbiamo è la citazione da parte di un documento notarile del settembre 868 di una strada che attraversava il Corpus correndo a settentrione di San Benedetto. Nel corso dei tempi questa strada, citata anche nell’882, sarà ridimensionata a semplice via vicinale fra i poderi della badia, poiché questa acquisirà il possesso di tutti i terreni oggi costituenti il rione Mutilati.

Nel 1412 i monaci di San Benedetto ospitano la regina Margherita di Durazzo nel loro Castelnuovo, oggi sede del Museo archeologico; il 14 gennaio 1534 il soggiorno dell’illustre dama sarà ricordato nell’atto con il quale i benedettini affittano al confratello Costabile della badia di Cava alcuni ambienti del loro palazzo, fra i quali la camera della regina, avente il prospetto verso meridione. Questo edificio, prima citato come il Castelnuovo, quindi come il Palazzo badiale di San Benedetto, era intervenuto a ridisegnare la parte del Corpus a ridosso del suo muro meridionale, poiché contestualmente era stato creato, fra esso e la chiesa abbaziale, un atrio che molto più tardi sarà tagliato per l’apertura dell’attuale via san Benedetto. La sua denominazione primitiva faceva riferimento all’utilizzo precedente dell’area, pervenuta ai monaci fra il 1251 e il 1261 per donazione di papa Alessandro IV: su di essa, infatti, aveva insistito il castello di Terracena, in opposizione al quale quello benedettino era definito nuovo.                      

 

Il castello di Terracena

 

Come sopra accennato, dopo gli interventi longobardi, il muro orientale della città proveniente dalla torre angolare alla Marina, superato lo sbocco della via dei Mercanti, incontrava i fortilizi disposti al meridione della badia di San Benedetto. Su questo angolo Roberto il Guiscardo, come racconta Amato di Montecassino, fece edificare il castello di Terracena, al duplice scopo, pare, di rafforzare quelle difese che si erano dimostrate vulnerabili proprio agli attacchi normanni e di fornire i nuovi sovrani di un palazzo del potere diverso da quello longobardo. La sua esistenza fu breve, se raffrontata a quella di edifici consimili, avendo avuto termine, in circostanze che rimangono misteriose, fra il maggio 1251, data della sua ultima citazione, e il 1261, anno della morte di papa Alessandro IV che, come anche sopra abbiamo visto, per diritti anch’essi oscuri, donò ai monaci di San Benedetto il suolo sul quale era stato edificato.  

Il 28 maggio 1301 Carlo II d’Angiò esortava lo stratigoto di Salerno ad adoperarsi affinché tornasse nel possesso della regia curia il luogo e la terra ove il castello di Terracena fu edificato e a non permettere che vi si edificasse alcunché di nuovo. Alla luce di quest’ultimo documento, quello relativo alla donazione pontificia, registrato in Napoli in quello stesso 1301 pur riferendosi ad un avvenimento lontano oltre un quarantennio, assume una connotazione particolare, inducendo a ritenere che esso fu parte di una successiva corrispondenza intercorsa sull’argomento fra lo stratigoto e Carlo II. Purtroppo non è giunta fino a noi un’altra corrispondenza, che sarebbe stata illuminante sulle reali condizioni fisiche e giuridiche dell’edificio normanno o della sua area di risulta, corrispondenza forse intercorsa fra il giustiziere di Principato e Carlo I, a seguito della disposizione con la quale il Re, il 20 aprile 1277, individuava i soggetti tenuti alle riparazioni della Torre Maggiore e del castello di Terracena. In ogni caso, l’esortazione di Carlo II non sortì effetti poiché, nei secoli successivi, le dinastie regnanti, e conseguentemente i loro feudatari, non avranno residenze in Salerno oltre la Torre Maggiore sul cocuzzolo del colle; mentre i monaci avranno il loro Castelnuovo di San Benedetto.

Il vezzo di voler riconoscere residui dell’edificio normanno negli edifici dalle tarsie policrome che si osservano alla traversa San Giovanni è fatto relativamente recente; infatti, Carlo Carucci, nel 1922, nel chiedersi ove fosse il suo sito, benché lo cercasse a valle dei complessi di San Benedetto e di San Michele, non pare, alla luce di quanto scrisse, rimanesse particolarmente colpito da quelle strutture e andò ad identificare l’area che cercava con quella del Castelnuovo.

In effetti, alla traversa San Giovanni si osservano due immobili collegati da una coppia di terrazzi-cavalcavia sovrapposti che nulla ci dicono circa l’epoca in cui il collegamento fu realizzato. I due edifici non presentano unità di tipologia costruttiva, essendo l’utilizzo delle finestrature difforme, non in asse e non allo stesso livello, la qual cosa accentua l’impressione di posteriorità del detto collegamento; le decorazioni a tarsie, almeno a giudicare dalle poche visibili sul manufatto occidentale, presentano più elementi di similitudine che di unità stilistica che possa far pensare ad una continuità costruttiva fra le due parti. L’edificio orientale, che presenta una estensione di decorazioni maggiore, in realtà non è che un sottile fabbricato che male suggerisce di aver contenuto sale o appartamenti regali; ad esso fu addossata da settentrione una costruzione posteriore che venne solo artificiosamente a chiudere la piccola corte e che certamente non fece parte di alcun quadrilatero coevo alla posa in opera delle tarsie. La traversa fra i due edifici non ebbe, come sostenuto da alcuni autori, la funzione di collegamento fra due corti interne ad un’area palaziata, in quanto, uscendo da essa verso meridione, si nota, adiacente a quello che dovrebbe essere stato, in tale ipotesi, il fronte interno alla seconda corte dell’edificio orientale, una costruzione con porta metallica: si tratta del sito della chiesa parrocchiale di San Giovanni de Cannabariis, lì esistente, in area pubblica, almeno dal gennaio 1131, epoca della sua prima citazione giunta fino a noi, ai bombardamenti del secondo conflitto mondiale che la distrussero.  

Alla traversa San Giovanni, dunque, ci troviamo non in presenza di residui della reggia normanna, di impossibile esistenza, non essendo rimasta di essa che il nudo suolo, ma di una edilizia privata che, lungi dall’essere sminuita da questa non appartenenza, testimonia (altro esempio Palazzo Fruscione) della capacità culturale ed economica di soggetti diversi dalle dinastie regnanti e dalle gerarchie ecclesiastiche di munirsi di residenze di pregio.

 

Le quattro porte cittadine dette “Nova”

 

Un documento del febbraio 1140, che costituisce la prima citazione della chiesa di Santa Maria della Neve, attualmente del Santissimo Crocifisso come sopra accennato, contiene un elemento di notevole importanza nella precisazione che tale chiesa era sita presso la porta di Elino. Questa porta della città longobarda, anticamente detta di San Fortunato come anche abbiamo visto, fu ritenuta da Michele de Angelis ubicabile ad oriente della badia di San Benedetto, lungo la via omonima, a seguito di un equivoco in cui incorse identificando una chiesa di San Michele edificata prima del 984 dai coniugi Guido e Aloara con quella del monastero sotto lo stesso titolo che attualmente vediamo a occidente della stessa badia di San Benedetto. In realtà, la porta di Elino, che diversi autori hanno immaginato nei luoghi più astrusi, da via Roberto il Guiscardo all’attuale rione Mutilati, era molto semplicemente allo sbocco orientale del principale asse di attraversamento cittadino, appunto la via che conduceva alla Porta di Elino, poi via Maestra, attualmente dei Mercanti. Naturalmente, essa si apriva ove il muro cittadino intersecava la strada e ciò avveniva, essendo Santa Maria della Neve interna alla città, oltre questa chiesa, come conferma un documento del gennaio 1291 che descrive l’area al suo meridione, dove si diceva alle Mollicelle, e la dice chiusa verso oriente dalle mura. La porta di Elino smise di essere così denominata, molto probabilmente a causa di una radicale ricostruzione, intorno al 1117; successivamente sarà indicata prima come la porta anticamente detta di Elino, poi come la porta Nova.   

A questa prima porta Nova seguirono una seconda e una terza legate all’inclusione nell’ambito urbano dell’isolato del quale è parte la chiesa di San Pietro in Vinculis, poiché nella realizzazione di questo ampliamento, l’ultimo che interessò il lato orientale della città dopo quelli che abbiamo visto, ossia il longobardo del Corpus e l’angioino che determinò il sito della seconda porta Rotense, vi furono due fasi caratterizzate da diverse posizioni dell’accesso alla città. Nella prima, la porta fu edificata circa alla metà della strada, stretta fra un torrione costruito al suo meridione e lo stesso isolato che si intendeva includere nell’ambito urbano, forse senza che si ritenesse necessario chiuderlo a oriente da una cortina, ma utilizzando il fronte delle costruzioni, allo stesso modo che in altre parti del perimetro cittadino, come difesa. Questa seconda porta Nova, al suo apparire nella documentazione, nel 1517, è già definita antica. Ma se è probabile che fu ritenuto sufficiente alla difesa verso oriente lo stesso fronte dell’isolato, certamente perché questa seconda porta Nova avesse un senso fu necessario far correre un muro fra il torrione posto al suo meridione e la torre detta del Russo, che costituiva l’elemento angolare della difesa di origine longobarda. In tale muro, allo sbocco attuale della via Portanova sulla via Roma, fu aperta un’altra porta, che fu detta di San Sebastiano, per il fatto che al suo esterno sorse una chiesa sotto quel titolo; successivamente fu denominata degli Angeli, poiché su di essa fu edificata una cappella con l’effige di Santa Maria degli Angeli. Nella seconda fase, probabilmente perché rivelatasi precaria la soluzione adottata, una muraglia fu fatta correre a occidente dell’attuale piazza Flavio Gioia, e un bastione ad “elle” con terrapieno fu posto a spezzare la linearità della strada; la porta fu aperta verso settentrione, stretta fra la cortina e il bastione, intorno al quale la via della Marina fu fatta girare in senso antiorario.

Il 20 dicembre 1753 il governo della città, a seguito di una supplica da parte di un gruppo di cittadini, che lamentava i molti inconvenienti di traffico che a causa di quel percorso contorto si verificavano nel tempo della fiera, in quello della vendemmia, del raccolto e quando la porta veniva impegnata dal corteo reale che, attraversando la città, si portava alla caccia in Persano, deliberò la demolizione del terrapieno e di parte della torre, affinché si edificasse una nuova porta simmetrica alla via, che è quella, la quarta detta Nova, che ancora oggi vediamo.

 

Bibliografia:

  • V. de Simone, La «forma urbis» prelongobarda e altre questioni di topografia salernitana, in «Rassegna Storica Salernitana», 19, 1993, pp. 191-207.

  • V. de Simone, La topografia antica e medievale di Salerno, in «Storia di Salerno», I, 2000, pp. 81-86.

  • V. de Simone, Il sito del castello di Terracena in Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 32, 1999, pp. 9-21.

  • C. Carucci, La provincia di Salerno dai tempi più remoti al tramonto della fortuna normanna, 1922, p. 292. La parte relativa al castello di Terracena di questo lavoro fu pubblicata anche come Il palazzo principesco normanno di Salerno, in «Archivio Storico della Provincia di Salerno», III, 1922, pp. 211-216.

  • G. Crisci, Salerno Sacra, 2a edizione a cura di V. de Simone, G. Rescigno, F. Manzione, D. De Mattia, 2001. Per San Grammazio, I, pp. 146-151; per la Casa religiosa dei gesuiti, III, pp. 143-153; per Santa Maria Maddalena, pp. 88-98; per San Domenico, trattato sotto il titolo di Santa Maria della Porta, III, pp. 98-103; per San Giovanni delle Capre, I, pp. 56-57; per San Benedetto, III, pp. 7-19.

  

 

 

 

 

 

La via dei Canali

  

L’assetto dei luoghi fino agli inizi del Settecento

 

Nel 1879, come abbiamo visto nel corso della passeggiata Al limite del Plaio Montis: dalla porta Nocerina alla porta Rotense, fu rinvenuto un tratto di una strada che fu giudicata romana fra l’innesto della via dei Canali e i gradoni Madonna della Lama, a circa un metro di profondità rispetto all’attuale selciato della via Torquato Tasso.

Recentemente, questa identificazione è stata messa in forte dubbio attraverso un ragionamento secondo il quale, essendo il piano di frequentazione delle terme romane venute alla luce sotto San Pietro a Corte molto più in profondità del metro circa riscontrato per essa, tale strada non può essere stata romana. Si tratta di un ragionamento molto semplicistico che non tiene in alcun conto né le caratteristiche morfologiche dei luoghi, né altre evidenze. Oggi, fra la via Torquato Tasso e il piano delle Fornelle osserviamo un dislivello, la Ripa Maior dei documenti longobardi, che originariamente, man mano attenuandosi come avviene anche oggi, dovette procedere verso oriente almeno fino all’altezza dell’attuale via delle Botteghelle. Gli smottamenti che interessarono l’area dei Canali, presumibilmente diversi e distribuiti in un arco certamente non breve di tempo, vennero a colmare tale dislivello, innalzando il livello del suolo di svariati metri a ridosso delle opere murarie al settentrione delle terme, poiché contro di esse si arrestarono costituendo strati successivi; ma è ovvio che lo spessore dei materiali trascinati non poté che scemare nella direzione opposta a quella di scivolamento, per cui non è irreale la tesi che sul gradino costituito dal livello della strada si depositassero solamente piccoli strati alluvionali. Conferma di tanto ci viene dal ritrovamento della colonnina miliare relativa alla via Popilia del 1841 al largo Abate Conforti, che anche abbiamo visto nel corso della passeggiata Al limite del Plaio Montis: dalla porta Nocerina alla porta Rotense, e dal recupero di altri reperti romani allo stesso largo, certamente non ottenuti con scavi nell’ordine delle decine di metri.

Fino agli inizi del Settecento, la via dei Canali presentava, dal suo innesto sull’attuale via Torquato Tasso allo sbocco meridionale attraverso la porta di Mare, una larghezza omogenea, ossia non esisteva il largo che oggi vediamo davanti all’edificio e alla chiesa del conservatorio della Santissima Annunziata Minore. Questo spazio e quello sul quale attualmente insistono gli stessi conservatorio e chiesa, nonché l’altra chiesa sconsacrata e ridotta a circolo ricreativo di San Matteo Piccolo, era impegnato da un grosso complesso abitativo costituito da più proprietà (Casa Prignano, Casa Farao, Casa Leone e altre), alcune documentate fin dal Cinquecento, e dall’ospizio dei pezzenti e dei poveri viandanti soggetto alla badia di San Pietro a Corte attraverso la dipendente Sant’Antonio di Vienne, che ne occupava l’estremità meridionale. In questo complesso era inserita la prima chiesa di San Matteo Piccolo, della quale quella sopra citata, come vedremo, è una ricostruzione; questa chiesa, di cui la prima notizia giunta fino a noi è soltanto del 4 luglio 1269, si estendeva dalla strada verso occidente, ove oggi ne osserviamo l’abside altomedievale, testimone di una sua lunga preesistenza rispetto alla prima citazione, sotto il fronte del conservatorio.

Il ritrovamento di questa abside negli anni ottanta del Novecento innescò una singolare gara di attribuzione fra i soliti esperti, per cui ci fu chi la ritenne una prima San Grammazio, senza considerare che essa non è nemmeno nel territorio che fu di quella parrocchiale; chi, addirittura, l’antica Santa Sofia che, caso stranissimo, sarebbe sorta distaccata dall’edificio monastico al quale era pertinente. Naturalmente, questi sedicenti esperti scrivevano, come troppo spesso avviene fra gli storiografi cittadini, senza aver prima esercitato l’arte del leggere; ove l’avessero fatto nei confronti della documentazione inerente la fondazione del conservatorio, che di seguito vedremo, avrebbero scoperto che quell’abside insiste sul luogo ove insistette la prima San Matteo Piccolo, per cui, a meno di sovrapposizioni di più chiese sotto titoli diversi al momento non documentate, non può che appartenere allo stesso luogo di culto.

Sul lato opposto della strada, il complesso che vediamo concludersi con la chiesa dei Santi Crispino e Crispiniano agli inizi del Settecento era costituito essenzialmente dal palazzo dei Lembo, patrizi salernitani, e dall’immobile che nel 1748 Giuseppe Mogavero venderà a Matteo Guida. Precedentemente, l’area era stata impegnata da proprietà di altre importanti famiglie cittadine: i Correale, gli Orofino, i Manganario.

La citata chiesa dei Santi Crispino e Crispiniano, che anche aveva proprietà nello stesso complesso e che oggi vediamo nella veste conferitale con l’ampliamento del 1682, compare nella documentazione giunta fino a noi il 1° giugno 1515, ma certamente vanta una consistente preesistenza, essendo noti i suoi titoli antichi di Santa Maria della Pietà e di Santa Maria Piccola dei Calzolari, per essere la sede della confraternita di quegli artigiani.                    

 

Il conservatorio e la chiesa della Santissima Annunziata Minore

 

Il conservatorio delle povere figliole vergini e oneste sotto il titolo della Santissima Annunziata fu istituito ufficialmente con atto del 30 maggio 1698 in sostituzione del Santa Maria della Mercede, trasformato in monastero di clausura, che a sua volta aveva sostituito quello sotto il titolo di Santa Caterina, già ospitato in case adiacenti alla chiesa parrocchiale dei Santi XII Apostoli; ma si arriverà fino al 5 settembre 1713 prima che i deputati alla nuova opera assistenziale riescano, per difficoltà connesse ai rapporti con le monache del Santa Maria della Mercede, che all’atto della trasformazione in clausura di quello si erano impegnate a comprare un immobile nel quale istituire il nuovo conservatorio, ad entrare in possesso della casa già del fu Giovanni Lelio Prignano. Questa sarà soltanto la prima di diverse acquisizioni che porteranno gli stessi deputati e il governo cittadino a disporre di una vasta area sulla quale edificare non solo il nuovo complesso con la sua chiesa, ma anche creare il largo davanti ad esso.

Il 19 febbraio 1715 si acquista la casa di Sebastiano Leone; il 12 agosto 1720, l’ospizio dei pezzenti e dei poveri viandanti, con alcune botteghe di sotto e una rimessa, insieme ad una casa dell’oratorio di Gesù e Maria, con un giardino e la tribuna posta dietro la chiesa di Sant’Antonio Abate, per potervi ricostruire la chiesa parrocchiale di San Matteo Piccolo, che andava demolita in quanto ingombrava la parte alta del largo progettato; il 17 marzo 1723, un’altra casa, posta alle spalle del conservatorio erigendo, del convento di Santa Maria della Porta; l’11 marzo 1732, ancora una casa dei signori Farao.

Nel 1752 la fabbrica della chiesa si avvia a conclusione: il 26 giugno si stipula il contratto di appalto per la realizzazione degli stucchi. Il 29 maggio 1758 la si benedice e la si apre al culto sotto il titolo della Santissima Annunziata, cui seguirà l’appellativo di Minore per distinguerla dall’altra Santissima Annunziata di via Porta Catena.    

 

La cappella palatina di San Pietro a Corte

 

La chiesa nota per buona parte del Novecento come di Santo Stefano, per essere la sede della confraternita omonima, fu edificata, fra il 758 e il 787, sotto il titolo dei santi Pietro e Paolo, da Arechi II, prima duca, poi principe di Benevento, all’estremità settentrionale della sua reggia, allo scopo di fungere da cappella palatina. Il Chronicon salernitanum attribuisce al principe Guaimario II, regnante fra il 900 e il 946, l’aggiunta di un campanile di meravigliosa bellezza, anche se esiguo.

La caduta del principato longobardo non mutò lo status della cappella, poiché essa continuò a rientrare nel patrimonio delle varie dinastie succedutesi nel tempo, per la qual cosa le furono conferiti una serie di patronati su altri luoghi di culto: le chiese cittadine di Sant’Antonio di Vienne, oggi Santa Rita, che vediamo accanto alla ricostruita San Matteo Piccolo; la prima San Matteo Piccolo; Sant’Angelo de Marronibus, oggi scomparsa, alle Fornelle; il monastero di San Michele Arcangelo; le chiese extraurbane di Santa Maria di Ogliara e quella di San Clemente di Pellezzano; e ancora Santa Maria delle Marche di Giffoni, San Leone di Terravecchia, San Salvatore di Torchiati. Il possesso del diritto di nomina dei sacerdoti addetti a tali chiese e quello di conferma dell’elezione della badessa del San Michele Arcangelo, nel corso del tempo, venne a configurarsi come la costituzione di una vera e propria diocesi nella diocesi, con la pretesa da parte degli abati di San Pietro a Corte di indire proprie visite pastorali, con la sottrazione di fatto agli arcivescovi salernitani del controllo sui luoghi di culto di loro patronato. Con l’arcivescovo Filippo (1286-1298) abbiamo i primi tentativi, di cui notizia è giunta fino a noi, della Curia salernitana di sottomettere alla propria giurisdizione la regia cappella, il che indusse il rettore dell’epoca ad appellarsi a Carlo Martello, nella sua qualità di principe di Salerno, che con lettera datata da Napoli il 30 gennaio 1294 invita lo stratigoto della città ad intervenire convenientemente in difesa delle prerogative regie, esortando l’arcivescovo a desistere da ogni turbativa dello status quo.

Il 2 ottobre 1505 Ferdinando il Cattolico dona al nobile napoletano Troiano Mormile e ai suoi eredi il patronato a lui stesso e ai suoi predecessori spettante sulla badia di San Pietro a Corte, con facoltà di nominarvi l’abate o rettore e con tutti i diritti su cappelle, benefici, grancie, possessioni e ogni altra appartenenza alla stessa. Successivamente il Mormile chiede alla Santa Sede il riconoscimento di tale donazione, il che avviene il 13 novembre 1525 da parte di Clemente VII; il 1° marzo 1529 ottiene anche un diploma di conferma da parte di Carlo V.

Il 5 dicembre 1553 l’abate dell’ex cappella palatina, Gabriele Sanchez, emana un editto che consentirà al suo vicario generale di sottoporre a visita pastorale la badia e le sue dipendenze. L’8 febbraio seguente la visita inizia dalla stessa San Pietro a Corte, ove si osserva, sull’altare maggiore, l’icona in legno con in mezzo la figura della Madonna, su un lato quelle di san Ciro e di san Giovanni, sull’altro quelle di san Pietro e di san Paolo. Questa visita pastorale, che proseguirà nei confronti di tutte le dipendenze della badia, è certamente anomala, in quanto non condotta dalle gerarchie diocesane ma dal vicario di un abate, sia pure con potere di conferimento delle bolle di nomina dei cappellani delle chiese soggette. Essa giunge in sede vacante della diocesi di Salerno, essendo morto l’arcivescovo Ludovico de Torres il 13 agosto 1553 e giungendo in sede i1 successore Girolamo Seripando soltanto il 23 settembre 1554. Non sappiamo se la circostanza dette coraggio all’abate per un atto di forza nell’affermazione di diritti che certamente presumeva di possedere; in realtà, non sappiamo nemmeno se il fatto fu eccezionale, come può apparirci, o rientrante in una prassi, ancorché anomala, almeno dal nostro punto di vista. Nella valutazione della vicenda non è da sottovalutare il fatto che il vicario generale dell’abate era un canonico della Cattedrale, quindi egli stesso un esponente di quella gerarchia diocesana contro la quale, soprattutto in sede vacante, l’atto dell’abate, se atto ostile fu, appare rivolto; è da credere che difficilmente egli si sarebbe esposto se la procedura adottata non fosse stata ortodossa. Certo è che se atto di rottura fu esso appare rientrato nel 1567, quando San Pietro a Corte viene essa stessa sottoposta a visita pastorale nell’ambito del programma predisposto dall’arcivescovo Cervantes.

Il 22 novembre 1593 l’arcivescovo Mario Bolognini proclama un editto contro coloro che non parteciparono al sinodo; fra essi è l’abate di San Pietro a Corte. Questi si appella al nunzio apostolico di Napoli sostenendo di non essere tenuto a partecipare ai sinodi se non di carattere provinciale, ossia vanta il diritto di essere considerato alla stregua di un vescovo. Il 2 luglio 1595 è l’abate a protestare per le molestie che gli arreca la Curia arcivescovile nell’esercizio dei diritti già goduti dai suoi predecessori; in particolare lamenta di aver subito molestie nel conferimento del semplice beneficio rurale sine cura di San Leone di Terravecchia e per un altro beneficio su un terreno nel casale di Coperchia. L’arcivescovo espone le proprie ragioni e l’episodio si conclude con una esortazione da parte del Cappellano Maggiore all’abate ad evitare scandali.

Intanto si estingue la linea maschile della famiglia Mormile, per cui il patronato passa alle famiglie Pignatelli e Sanfelice, eredi di Lucrezia e Laura Mormile, che si accordano sull’alternanza nella nomina dell’abate; il che si conferma nella relazione della visita pastorale del 1659. Nel 1692 si ritorna sul problema rappresentato da una porta che mette in comunicazione la chiesa col palazzo badiale, ove abitano laici; la questione era stata sollevata già nel 1654 e si aveva ordinato di murarla; ora si ripete l’ordine concedendo due mesi di tempo. Nel 1699, forse convinti, dalle ragioni dell’abate o di suoi rappresentanti, forse per spirito di quieto vivere, la porta è dichiarata tolleratum. Nel 1725 risultano addetti alla cura della chiesa abbaziale il primo cappellano, con l’obbligo di due messe alla settimana; il secondo cappellano, parroco di San Matteo Piccolo, con una messa; il terzo cappellano, parroco di Sant’Angelo de Marronibus, con una messa; il quarto cappellano, beneficiato del semplice beneficio di Sant’Elena, con una messa; inoltre, per devozione dell’abate Pignatelli, si celebrano altre tre messe la settimana.  Nel 1727 risulta che la chiesa abbaziale di San Pietro a Corte è soggetta alla giurisdizione, alla visita e alla correzione della Curia arcivescovile; l’abate beneficiato, come minor collatore, ha facoltà di spedire le bolle ad alcune parrocchie, previo concorso e lettere significatorie della Curia arcivescovile, e conferire alcuni semplici benefici di libera collazione senza osservare le regole di cancelleria.

Il 12 dicembre 1741 una concordia circa aspetti giurisdizionali inerenti il patronato di San Pietro a Corte interviene fra l’arcivescovo Casimiro Rossi e l’abate don Giuseppe Pignatelli. Oltre un settantennio dopo, il 9 dicembre 1817, essa è messa in discussione dall’arcivescovo Pinto, che si rivolge al ministro degli Affari Ecclesiastici di Napoli con un esposto circa il patronato del duca di Montecalvo don Giuseppe Pignatelli, dichiarando che non intende affatto consentire all’ultima concordia intervenuta fra il suo predecessore monsignor Rossi e l’abate Pignatelli, ritenendo quella provvisoria, durante la loro vita, e anche lesiva dei diritti episcopali.

Il 30 maggio 1818 l’arcivescovo Pinto lamenta ancora abusi da parte dell’abate scrivendo: Reputo cosa mostruosa ch’egli nelle parrocchie nelle quali vanta il patronato, per mezzo del suo vicario osi visitarle e nello stesso tempo vada a ricevere l’obbedienza dei preti. Il 15 giugno il ministro inoltra una richiesta di spiegazioni al duca Giuseppe Pignatelli; ma il Re, il 9 febbraio 1819, forse pur con le perplessità del ministro, conferma il diritto di patronato così come era stato riportato nel registri della Curia del Cappellano Maggiore il 7 luglio 1730.

La lunga diatriba, dopo altre sollecitazioni da parte dell’arcivescovo Lupoli, successore di monsignor Pinto, si conclude il 10 dicembre 1842, quando il Re ordina di dichiarare la badia di San Pietro a Corte nell’assoluta giurisdizione degli arcivescovi salernitani, restando alla famiglia Pignatelli il solo diritto di patronato. Con la legislazione in materia ecclesiastica del Regno d’Italia del 1867, non essendo la badia compresa fra gli enti ritenuti indispensabili alla Chiesa e meritevoli di conservazione, viene soppressa con tutti gli effetti in ordine all’abolizione. Nel 1881 i principi Pignatelli vendono l’immobile alla confraternita dell’Immacolata Concezione, estintasi la quale, la chiesa passa, nel 1938, all’altra confraternita di Santo Stefano.

 

Gli ambienti ipogei e la cappella di Sant’Anna

 

L’edificazione di San Pietro a Corte era avvenuta impostandola su parte delle strutture murarie di un complesso termale romano, all’epoca di Arechi II già riutilizzato quale chiesa paleocristiana e sepolcreto. Divenuti ipogei alla cappella palatina, questi ambienti furono tenuti in massima considerazione sia dai principi longobardi che dai loro successori, poiché essi, e certamente gli stessi abati quando il centro del potere si allontanò dalla città, li arricchirono delle immagini sacre che tuttora osserviamo. L’8 febbraio 1554, nel corso della visita pastorale indetta dall’abate Gabriele Sanchez alla badia e alle sue dipendenze, si accede anche a tali ambienti, ove era stato istituito un beneficio sotto il titolo di Sant’Elena e dove si osservano certi santi dipinti, ancorché al presente nce sta lo cellaro. Nel 1559 compare nella documentazione una bottega del beneficio di Sant’Elena che nel 1579 e nel 1629 sarà detta posta davanti alla gradinata di San Pietro a Corte. Il 20 luglio 1573 è dato incarico a un mastro muratore di eseguire alcuni lavori nella badia, fra cui murare la porta di Sant’Elena verso la strada riducendola a finestra, aprire un nuovo accesso dal cortile, demolire l’altare. Nel 1725, risulta beneficiato del semplice beneficio di Sant’Elena il quarto cappellano di San Pietro a Corte, con l’obbligo della celebrazione di una messa alla settimana.

Adiacente al muro settentrionale di San Pietro a Corte e a quello orientale del suo campanile fu edificata una cappella sotto il titolo di Santa Maria delle Grazie, eretta canonicamente con licenza della Curia arcivescovile del 23 aprile 1638. Nel 1643 è detta mantenuta aperta al culto ex elemosinis. Nel 1645, oltre quello di Santa Maria delle Grazie, vi si trova un altro altare dedicato a Sant’Anna; nel 1659 ne risulta aggiunto ancora uno sotto il titolo di San Gaetano. Nel 1665 è detta la Madonnella; nel 1692 compare sotto i1 titolo di Sant’Anna, detta la Figurella; nel 1773, vi risulta eretta una confraternita. Il 6 settembre 1775 Matteo del Pezzo, patrizio salernitano, che possedeva un piccolo edificio addossato alla faccia occidentale del campanile di San Pietro a Corte, dona alla confraternita un ambiente posto sotto lo stesso campanile, annesso al suo cellaro, affinché se ne possa ricavarne una piccola sagrestia. La cappella sarà ridotta ad uso profano con il trasferimento della confraternita presso la chiesa del convento soppresso di Santa Maria di Porto Salvo che, appunto per tale trasferimento, assumerà il titolo attuale di Sant’Anna al Porto.

 

Il vecchio Palazzo comunale

 

Di fronte alla gradinata di San Pietro a Corte vediamo un piccolo isolato compreso fra la via Dogana Vecchia, a meridione, la Dogana dei Grani della documentazione fra Cinquecento e Settecento, e il vicoletto Municipio Vecchio. Si tratta, appunto, del vecchio Palazzo comunale, operante prima dell’edificazione dell’attuale sede dell’amministrazione cittadina alla via Roma.

Il palazzo appare in questo sito con un decreto del governo cittadino del 3 dicembre 1578 con il quale si dispone di munire l’edificio di un orologio della stessa grandezza di quello di San Nicola de la Palma, da commissionarsi a mastro Cesare Marra di Cicerale del Cilento e da realizzarsi per la metà del gennaio successivo. La descrizione del sito di un piccolo magazzino del comune nel 1583 ci permettere di conoscere che l’edificio aveva una gradinata verso il largo di Sant’Antonio Abate, attualmente di San Pietro a Corte.

Il 27 giugno 1629 cinque mastri suonatori di ciaramelle di Campobasso si impegnano a suonare nella cappella di Santa Maria dell’Avocata, edificata nel palazzo di Città, nell’ottava di Pasqua, fra il vespro del venerdì e quello della domenica; con bolla arcivescovile del 18 aprile 1630 nella cappella è canonicamente eretta la confraternita dei magazzinieri dei grani. Nella seconda metà dell’Ottocento il palazzo è interessato da un’ampia ristrutturazione, che gli conferisce l’aspetto attuale, resa possibile anche dall’esproprio della cappella.              

 

La corte occidentale del palazzo di Arechi

 

Quando il principe Arechi decise il trasferimento della capitale dei propri domini da Benevento a Salerno, ovviamente, si pose il problema di fornire la propria corte di una sede adeguata. La scelta cadde su un’area particolarmente adatta allo scopo per sue caratteristiche peculiari: era al centro, sull’asse longitudinale, dell’allora conformazione della città; permetteva la vista verso il mare; disponeva di solide strutture murarie in gran parte facilmente riutilizzabili. Se Arechi si pose anche il problema, ma non lo sapremo mai, dell’impatto ambientale insito nell’inserimento del palazzo che immaginava in quel contesto, la cosa dovette apparirgli, o la rese, ininfluente, poiché, di fatto, ritagliò in quel tessuto cittadino un grosso quadrilatero limitato da quattro elementi urbanistici preesistenti: la vecchia cortina difensiva proveniente dal meridione del monastero di San Giorgio a sud; la clausura occidentale dello stesso monastero a oriente; la via della porta di Mare a occidente; una strada, oggi rappresentata dal vicolo Adelberga, a nord. Lungo quest’ultimo fronte, però, l’area palaziale non raggiungeva la via, ma da essa era separata da una lunga e stretta striscia di terreno nella quale si protendeva una torre, forse non unica lungo la recinzione dell’area palazziale, documentata al novembre 1179. 

Il palazzo fu costruito sull’asse nord-sud, dal lato meridionale della cappella palatina, della quale mantenne l’ampiezza sull’asse est-ovest, al muro cittadino, dal quale brevemente si protese verso il mare. A oriente e ad occidente dell’immobile furono create due corti fra di loro collegate da più passaggi lasciati sotto il corpo dell’edificio: la prima, la maggiore, dal fronte orientale dell’edificio alla clausura del monastero di San Giorgio; la seconda dal fronte occidentale alla via della porta di Mare. Con la caduta del principato longobardo e il trasferimento del centro del potere a Castel Terracena, queste corti saranno concesse come suolo edificatorio dai vincitori normanni, fino ad assurgere, in particolare quella orientale, a nuovo quartiere cittadino con la denominazione di Corte Dominica, poi Antica Corte.

Mentre per la corte orientale non è giunta fino a noi documentazione che ci permetta di conoscerne l’aspetto nel corso dell’esistenza del principato longobardo, per cui possiamo solo ipotizzare che in essa trovassero collocazione caserme, uffici, magazzini, scuderie e quant’altro potesse reputarsi utile tenere nelle vicinanze del palazzo, per quella occidentale disponiamo di una serie di atti notarili che ci permettono di conoscerne non solo l’aspetto, per grandi linee, ma anche la dimensione fra il fronte del palazzo e la via della porta di Mare. Un primo documento, collocabile fra l’ottobre 974 e il dicembre 977, ci informa che la parte settentrionale di questa corte era costituita dal giardino della residenza principesca; nel luglio 1193, nel pieno dell’urbanizzazione di cui sopra, è venduta alla badia di Cava una casa con bottega sita nel luogo ove fu il giardino dominico, vicino al sacro palazzo.

Altri quattro atti ci permettono di intravedere ancora due aspetti della costruzione arechiana. Tre di essi, il primo datato agosto 1126, gli altri dicembre dello stesso anno, sono relativi a un terreno demaniale, posto in Corte Dominica; dai loro contesti risulta che tale terreno era compreso fra la via della porta di Mare e il prospetto del vecchio palazzo e che lungo i suoi lati settentrionale e meridionale si misuravano quarantotto piedi; dalla qual cosa, attribuendo a ciascun piede la misura teorica di trentaquattro centimetri, abbiamo che la via della porta di Mare distava dal fronte del palazzo arechiano, almeno in corrispondenza di questo terreno di cui, per altro, non è possibile stabilire l’altezza latitudinale, poco più di sedici metri. Il quarto documento, dell’ottobre 1149, è relativo ad una bottega con due solai superiori, posta nei pressi della porta di Mare, avente quale confine occidentale la strada che a tale porta conduceva e che, verso settentrione, passava davanti alle scale del sacro palazzo; dalla qual cosa possiamo immaginare, con buone probabilità di essere nel vero, che l’accesso primario alla residenza principesca avvenisse da questo lato.

Naturalmente, perché fosse possibile la lottizzazione dell’area fu necessaria la trasformazione in strade dei passaggi sotto l’edificio arechiano e munirli di sbocchi verso la via della porta di Mare, strade che assumeranno connotazione soprattutto in relazione alle arti che si esercitano nelle botteghe su di esse prospicienti. Compaiono, così, la ruga Corbiseriorum o Ferrariorum, con le botteghe dei fabbricanti di ceste e dei fabbri, identificabile nel tratto orientale dell’attuale via Dogana Vecchia, poiché il suo arco terminale vicino la chiesa di San Salvatore de Drapparia sarà detto Corbiseriorum alias deli Ferrari ancora nella seconda metà del Cinquecento; e la ruga Speciariorum, ossia la parte orientale dell’attuale via Giovanni da Procida, che ancora alla metà del Settecento sarà detta degli Speziali, così come l’arco che la conclude all’innesto sulla via Arechi II.

Sulla parte all’estremità meridionale della corte occidentale del palazzo di Arechi, demolito forse l’ultimo tratto dell’antico muro cittadino, si svilupperà l’area commerciale più vivace della città, con una moltitudine di piccole botteghe in continua evoluzione fra Cinquecento e Ottocento: quella Piazza, la Chiazza, ove si svolgerà essenzialmente il commercio del pescato.

                                                          

Bibliografia:

  • G. Crisci, Salerno Sacra, 2a edizione a cura di V. de Simone, G. Rescigno, F. Manzione, D. De Mattia, 2001. Per il conservatorio della Santissima Annunziata Minore, III, pp. 173-174; per San Matteo Piccolo, I, pp. 82-85; per San Pietro a Corte, I, pp. 88-96; per Sant’Antonio di Vienne e l’ospizio da essa dipendente, I, pp. 96-98; per Santi Crispino e Crispiniano, I, pp. 98-99; per Sant’Anna, I, pp. 98-99.

  

 

 

 

 

 

Gli acquedotti del diavolo e le mura al Rione Mutilati

 

 

Premessa

Gli acquedotti volgarmente detti del diavolo, argomento primo di questa passeggiata, interagiscono, come vedremo, con le mura longobarde che furono costruite da Arechi II o dai suoi immediati successori intorno al rione attualmente detto Mutilati. Si trattava di uno dei tre ampliamenti urbani, gli altri due furono il Plaio Montis e l’Inter murum et muricinum, che gli stessi principi realizzarono al duplice scopo di estendere l’abitato con queste aree che furono indicate come nuova città e di creare più consone difese lungo i fianchi del colle Bonadies, verso il mare e verso oriente.
Allo scopo di una più approfondita conoscenza dello stato delle mura prearechiane e delle dinamiche che nel tempo interessarono le difese orientali della città, la nostra passeggiata prende la connotazione di una percorso di avvicinamento ai Ponti del diavolo partendo da uno dei luoghi simbolo dell’urbanistica cittadina: la piazza Abate Conforti.

 

Gli ampliamenti della citta' verso oriente

 

L’attuale piazza Abate Conforti tradizionalmente è indicato come lo spazio che costituì il Foro della Salerno romana. In realtà è difficile stabilire se ciò fu vero, poiché se a favore depongono i rinvenimenti archeologici ottocenteschi, a sfavore interviene la constatazione di una eccessiva vicinanza ad una delle porte cittadine, quella detta in epoca longobarda Rotense, in quanto posta sulla strada per il gastaldato di Rota, poi stato feudale di San Severino, che si apriva al suo limite orientale, nel muro della città prearechiana che calava lungo l’attuale via Santa Maria della Mercede, fra il piede di quest’ultima e il capo della via delle Botteghelle.
Al meridione della porta, il muro svoltava verso oriente disponendosi poco discosto della strada, dalla quale lo separava una lunga e stretta striscia di terreno, in parte costituita da appezzamenti anche con botteghe, in parte impegnata da un numero non precisabile di torri, una delle quali, la più vicina alla porta, nel marzo 1078 troviamo pertinente al conte Salerno, così come di sua pertinenza era il terreno ad essa contiguo. Nella stessa area, forse attigua alla stessa o ad un’altra torre, ma all’interno della città, vi erano case di Landolfo di Santo Mango che, come si rileva il 7 settembre 1305, in danno della regia curia, aveva rotto il muro cittadino e occupato la torre costruendovi una camera ed aprendovi una finestra; è da presumersi che l’amministrazione cittadina e la stessa regia curia non riuscissero più a farsi rendere il maltolto, poiché la famiglia Santo Mango, divenute inutili quelle difese dopo l’ampliamento angioino che vedremo, ampliò le case fino al limite della strada incorporando la torre, che risulterà ancora esistente il 30 ottobre 1556, fino all’edificazione di un grosso complesso che raggiungerà verso meridione il muro dell’atrio del duomo.
Nella porzione di territorio extra moenia compreso nell’angolo formato dalla murazione calante lungo le attuali salita Montevergine e via Santa Maria della Mercede e quella che abbiamo appena visto si estendeva il Suburbio settentrionale, detto anche la Palearea, nel quale troviamo eretto, al 1255, il monastero delle monache penitenti di Santa Maria Maddalena, l’attualmente detto Montevergine per aver ospitato dagli anni novanta del Cinquecento al 1653 i monaci di quella congregazione. Il complesso era stato edificato adiacente alla faccia esterna del muro longobardo, ma l’ingresso era stato aperto dall’interno della città, trasformando un tratto di quel muro, come è possibile osservare tuttora, nel prospetto dell’edificio; tecnicamente, in tal modo, la costruzione era intervenuta come un ampliamento di fatto dell’area urbana, poiché le sue mura esterne erano venute a costituirsi quale nuovo limite della città. Nella stessa area è documentata, al 1259, la chiesa di San Paolo de Palearea che nel 1272 è concessa, con gli orti e altre terre adiacenti, ai domenicani per l’edificazione del loro convento. Il 30 luglio 1364 la regina Giovanna, confermando quanto era stato nella volontà del defunto marito Ludovico, comunemente noto come Luigi di Taranto, ordina che il monastero dei predicatori domenicani, che intanto aveva assunto il titolo di Santa Maria della Porta, sia incluso fra le mura delle città e lasciato illeso da qualunque demolizione che si potesse ipotizzare sotto il pretesto di più efficaci fortificazioni.
La nuova muraglia, dunque, partendo dal corpo del monastero di Santa Maria Maddalena, fu fatta girare intorno al convento domenicano per giungere a ridosso del luogo oggi della chiesa di San Sebastiano del Monte dei Morti, ove fu aperta la seconda porta Rotense, e proseguire fino a saldarsi alla murazione prearechiana, osservabile fino alle improvvide demolizioni novecentesche lungo il lato orientale della via attualmente Bastioni.
 

Il Corpus e la badia di San Benedetto

 

Prima degli interventi di Arechi II o dai suoi immediati successori, il muro cittadino che abbiamo visto correre lungo il lato settentrionale della via Bastioni, superata una torre la cui pianta ancora si intravede in quella dell’edificio accosto alla copertura sul gomito fra la stessa via Bastioni e via Sant’Alferio, svoltava verso il mare ove oggi vediamo un piccolo arco cavalcare la via Raffaele Capone, per andare ad intersecare la via dei Mercanti appena ad oriente del luogo ove più tardi sorgerà la chiesa di Santa Maria della Neve, attualmente del Santissimo Crocifisso. Al luogo di svolta di questo muro antico i longobardi innestarono la cortina che ancora vediamo correre lungo il margine settentrionale del rione Mutilati e che, circoscrivendolo anche lungo i lati orientale, alla sommità della scarpata sull'avvallamento del torrente Rafastia, e meridionale, sotto San Benedetto, si ricongiungeva al tracciato antico dove oggi vediamo il Museo archeologico. Nasceva in tale modo quello che i longobardi chiameranno il Corpus.
Nell’economia degli ampliamenti longobardi, come accennato, si perseguì il duplice scopo del rafforzamento delle difese e dell’acquisizione alla città di nuovo spazio da urbanizzare; questo secondo scopo se fu intensivamente realizzato nell’Inter murum et muricinum, con la creazione della Giudaica, e sebbene con una minore densità, stante il predominio di aree a giardino, nel Plaio Montis, possiamo dire che non ebbe fortuna, o più probabilmente non si perseguì, nel Corpus, poiché l’area rimase agricola al servizio della badia di San Benedetto con la servitù del passaggio per scopi militari verso le fortificazioni innestate in cima all’angolo fra le attuali vie Velia e San Benedetto e sul versante delle mura prospiciente il tratto meno scosceso dell’Arci, ossia l'avvallamento costituito dal letto del torrente Sant'Eremita.
È evidente, nella creazione di questo Corpus fortificato incombente sulla depressione costituita dalla piana nella quale l’attuale via dei Mercanti usciva dalla città attraverso la porta anticamente detta di San Fortunato, in epoca longobarda di Elino, un lucido progetto difensivo il cui impatto nei confronti dello stato dei luoghi preesistente è difficilmente valutabile. La problematica riguarda la fondazione di San Benedetto, ovvero se la realizzazione del Corpus intervenne a racchiudere fra le mura cittadine il monastero già esistente o se l’edificazione di questi venne ad arricchire il complesso fortificato di un luogo di culto con finalità protettive sul nuovo limite urbano. Alcuni autori pongono la fondazione della futura badia fra il 694 e il 725, per cui dobbiamo crederla originariamente extra moenia; altri la ipotizzano edificata dal principe Arechi (750-787), quindi contestualmente al Corpus, o nel 793, quindi da Grimoaldo I, che anche sarebbe intervenuto sulle fortificazioni incombenti sul corso del Sant'Eremita. In realtà, al di là di episodi più o meno fantasiosi e di una ulteriore ipotesi che vuole il cenobio esistente all’803, la certezza che abbiamo è la citazione da parte di un documento notarile del settembre 868 di una strada che attraversava il Corpus correndo a settentrione di San Benedetto. Nel corso dei tempi questa strada, citata anche nell’882, sarà ridimensionata a semplice via vicinale fra i poderi della badia, poiché questa acquisirà, come accennato, il possesso di tutti i terreni oggi costituenti il rione Mutilati.
Nel 1412 i monaci di San Benedetto ospitano la regina Margherita di Durazzo nel loro Castelnuovo, oggi sede del Museo archeologico; il 14 gennaio 1534 il soggiorno dell’illustre dama sarà ricordato nell’atto con il quale i benedettini affittano al confratello Costabile della badia di Cava alcuni ambienti del loro palazzo, fra i quali la camera della regina, avente il prospetto verso meridione. Questo edificio, prima citato come il Castelnuovo, quindi come il Palazzo badiale di San Benedetto, era intervenuto a ridisegnare la parte del Corpus a ridosso del suo muro meridionale, poiché contestualmente era stato creato, fra esso e la chiesa abbaziale, un atrio che molto più tardi sarà tagliato per l’apertura dell’attuale via san Benedetto. La sua denominazione primitiva faceva riferimento all’utilizzo precedente dell’area, pervenuta ai monaci fra il 1251 e il 1261 per donazione di papa Alessandro IV: su di essa, infatti, aveva insistito il castello di Terracena, in opposizione al quale quello benedettino era definito nuovo.

 

Interazione fra l'acquedotto alto e le mura
 

All’angolo nord-orientale del Corpus giungevano due acquedotti, dei quali poveri monconi sopravvivono alle devastazioni perpetrate dalle amministrazioni che hanno retto questa città negli anni della crescita urbanistica disordinata seguita al secondo conflitto mondiale.
Del minore in altezza, il meno antico, per un tratto addossato al maggiore, poco rimane da considerare circa la sua provenienza, perduta sotto l'urbanizzazione dell'area a meridione dell'attuale via Michele Vernieri, mentre la sua destinazione era il monastero di San Benedetto, come ci dice un inventario dei beni di quel cenobio del
6 febbraio 1544. Del più alto, che è quello che qui particolarmente considereremo, la direzione di provenienza la si intuisce portandosi lungo il lato meridionale della stessa via Michele Vernieri, ove, dall’interno di via Matteo Incagliati, fa capolino il suo moncone preceduto da una torretta di diramazione. Nella sua corsa miracolosamente incolume fra i fabbricati compie due deviazioni, la prima verso occidente, la seconda per recuperare la direzione originale, probabili espedienti per il rallentamento della corsa dell’acqua, prima di interrompersi al Trincerone, ove già fu tagliato e ricostruito per la realizzazione della sottostante linea ferroviaria. Ripresa la corsa, anche qui miracolosamente incolume fra le case, compie ancora due deviazioni, la prima più ampia, la seconda a novanta gradi, per presentarsi all’attraversamento su via Arce.
L’impatto con il Corpus avviene su quello che fu l’angolo delle mura, di cui è superstite in tutta la sua altezza un piccolo tronco del braccio settentrionale, mentre l’orientale è scomparso sotto la cortina di edifici prospicienti su via Velia. È questo il punto ove iniziava l’interazione dell’acquedotto con le mura, poiché, di fatto, l’acqua continuava la sua corsa in cima alle difese, dirigendosi lungo quella orientale verso la fortificazione posta all’angolo sud-orientale del Corpus, in cima all’innesto fra le attuali vie Velia e San Benedetto, e lungo quella settentrionale verso occidente, per raggiungere la maggiore fortificazione del Corpus che miracolosamente ancora possiamo osservare entrando nella recinzione di un condominio. Deviando, poi, fra occidente e meridione, muraglia ed acqua raggiungevano la torre accosto all’innesto fra le attuali vie dei Bastioni e Sant’Alferio che prima abbiamo visto. Una pianta all’Archivio di Stato di Salerno mostra come al 1862 l’acqua ancora correva sulle mura, andando ad alimentare una peschiera lungo la difesa orientale, a mezza strada fra l’innesto dell’acquedotto e la fortificazione in cima all’angolo fra le attuali vie Velia e San Benedetto, a altre due nell’area della grande fortificazione settentrionale [* Si veda nota].
Il complesso mura-fortificazioni-acquedotto rappresenta un considerevole esempio, credo unico in Italia per tipologia, delle tecniche costruttive longobarde che, pur in regresso per qualità delle masse murarie rispetto alle grandi opere civili e militari romane, raggiunsero notevoli risultati. Gli Archi del diavolo, che stupirono suggerendo leggende, e le altissime pareti della Cappella Palatina, altro manufatto unico in Italia nella sua qualità di resto di una residenza principesca longobarda, rimangono a testimoniare il tempo in cui questa città fu la maggiore nel meridione italiano.

 

* Nicola Vernieri fa notare che Ersilio Castelluccio (Rassegna Storica Salernitana - Anno XI, n° 1-4, Gennaio-Dicembre 1950), che ebbe modo di visionare gli antichi acquedotti, ci informa che ancora nel 1950 questi funzionavano. Infatti annotò che un arco in legno, con speco, sorpassava la via San Gregorio VII, collegando l'innesto nord-est dell'acquedotto alto con la murazione, la quale proseguiva, oltre la strada, dirigendosi verso ovest e fungendo, anche, da sostegno per lo speco dell'acquedotto, fino a raggiungere il fortilizio con torretta, definito nel 1935 dall'ing. Michele de Angelis conserva dell'acqua, per ancora proseguire verso le cisterne, sempre ad ovest. La denominazione Altopiano della Torretta per definire l'attuale Rione Mutilati, almeno da quello che io sin'ora sono riuscito a studiare, era di uso corrente almeno dagli anni venti del XX secolo. Tale denominazione viene usata sia dal citato De Angelis, sia dall'ing. Armando Schiavo che pure ebbe a scrivere della zona e degli antichi acquedotti.

 

  

 

 

 

 

 

Villa Carrara a Pastena

 

 

Il contesto ambientale di Pastena nel Settecento

Il casale della Pastina, ancora ai primi dell’Ottocento, quando molto al di là da venire era la novecentesca esplosione demografica e la conseguente urbanizzazione con la collaterale adozione delle più ristrette denominazioni di Torrione, Mercatello, Mariconda, Fuorni, eccetera, estendeva il proprio toponimo dall’Irno al Picentino e dal mare alle colline di Giovi costituendo parte economicamente rilevante della Foria, ossia dell’area prevalentemente a vocazione agricola che comprendeva, oltre la stessa Pastena, le frazioni di Salerno attualmente dette collinari e quello che oggi è il comune di Pellezzano.
In questo notevole territorio piccoli insediamenti si erano costituiti intorno alle chiese, prima patronali poi parrocchiali, citate fin del Medioevo: San Felice in Felline (936), Sant’Eustachio Martire (985), Santa Croce (1177), Santa Margherita (1232), San Nicola de Pumpulo e Santa Maria a Mare, entrambe nel 1309. La dislocazione stesse di queste sedi per la cura delle anime, tutte comprese fra le pendici del colle Bellaria, che i salernitani preferiscono chiamare Mazzo della signora, e il luogo detto Locubie, quello che oggi chiamiamo Mercatello, mostra la naturale tendenza della esigua popolazione a concentrarsi nella parte occidentale dell’area, più prossima alla città, mentre la parte orientale, ove significativamente una curazia distaccata da Sant’Eustachio sarà istituita a San Leonardo soltanto nel 1904, rimaneva pressoché disabitata, anche per la presenza degli acquitrini delle terre risaie, attuale zona industriale, principalmente pertinenti ai monasteri femminili cittadini e alla curia arcivescovile.
Accanto a possedimenti di questi e di altri enti religiosi, diverse famiglie del patriziato salernitano (l’attuale toponimo Mariconda ne ricorda una) possedevano vaste tenute agricole con annesse ville padronali, per lo più prospettanti lungo la strada, spesso notevoli per estensione e opulenza degli ambienti. In questo ambito, ma in un contesto meno isolato, fu inserita Villa Carrara, che se da un verso si aggiungeva alle similari residenze già presenti nella vastità del casale, da altro se ne distaccava per tipologia, risultando, con il suo parco che giungeva al mare, mera residenza estiva, priva di collegamento ad aree poste a coltura.

I Carrara patrizi di Montecorvino e di Salerno

Quelli che fra Medioevo e rivoluzione francese erano detti stati non erano altro che grossi feudi, sottoposti ad un signore o compresi nel demanio regio, a loro volta suddivisi in altri feudi, casali e suffeudi, in un complesso sistema di scatole cinesi e di interdipendenze.
Montecorvino era uno si essi, comprendendo un territorio vastissimo, dal mare alle porte della città di Acerno e dalla riva sinistra del Picentino al territorio dell’altra città di Eboli, sull’area oggi distribuita fra i comuni di Montecorvino Rovella, Montecorvino Pugliano, Bellizzi, Battipaglia e Pontecagnano Faiano. Quest’ultima località, Faiano, era a sua volta un feudo, i cui baroni erano gli abati pro-tempore di San Benedetto di Salerno, per cui spesso si discusse se rientrasse nello stato di Montecorvino, tesi maggioritaria, o dovesse considerarsi parte del territorio salernitano.
Già possedimento della mensa arcivescovile di Salerno, Montecorvino fu, nel 1460, da Ferdinando I, proclamato regio stato demaniale a seguito dell’improvvido atteggiamento dell’arcivescovo Nicola Piscicelli (il secondo di tale nome a reggere la Chiesa salernitana) che, nei convulsi avvenimenti legati allo scontro per la successione ad Alfonso I, quando parve avere il sopravvento Giovanni d’Angiò ad egli si sottopose. Naturalmente, il prevalere poi di Ferdinando non poteva che portare, come minimo, alla confisca dei beni feudali della mensa. Si trattò di un avvenimento traumatico per la Chiesa salernitana che, nonostante, come vedremo, lo stato passasse più volte di mano, ancora nell’Ottocento, a feudalità ormai defunta, faceva appellare i propri arcivescovi utili signori di Montecorvino.
Poco più di un trentennio dopo quel 1460, il 24 giugno 1494, al termine di un processo avviato fin dal 1472, Alfonso II rimpinguò lo scarno patriziato dello stato separando dal ceto popolare ventitre famiglie, fra le quali i Carrara, nelle persone di Geronimo Antonio e Giacomo. Si costituiva così una salda élite locale che, sempre più solidale attraverso intensi scambi matrimoniali, quando vedrà minacciati i propri interessi primari, legati all’utilizzo dei terreni del demanio feudale della piana di Battipaglia con i feudi rustici di Fosso e Verdesca per l’allevamento, in particolare dei bufali, non esiterà ad intraprendere, come vedremo, una disputa pluridecennale con il regio fisco.
Questi Carrara, in realtà, proprio al ceto popolare non appartenevano, poiché altri non erano che un ramo dei da Carrara, signori del feudo omonimo nel padovano già da prima del Mille, che nel 1318 erano riusciti a costituire una loro signoria su Padova stessa. Barcamenandosi abilmente fra impero, repubblica di Venezia, Santa Sede e i vari potentati lombardo-veneti, con alleanze matrimoniali e qualche faida familiare, erano riusciti a tenere il potere fino alla resa dei conti con la città lagunare intervenuta fra il 1405 e il 1435 con una vera e propria strage di propri membri. Rifugiatisi i superstiti fra Firenze e il regno di Napoli, ove alcuni furono al servizio di Ladislao, come abbiamo visto, impossibile dire attraverso quali eventi, due di essi li ritroviamo in Montecorvino, ove i loro discendenti saranno fra i protagonisti di eventi che avranno avvio il 21 luglio 1572.
In quel giorno, con privilegio di Filippo II, inopinatamente intervenne la vendita feudale di Montecorvino a favore di Nicolò Grimaldi, che già aveva acquistato Eboli, divenendone duca, e Salerno, divenendone principe. Il 17 agosto seguente, l’università avviò la causa di prelazione, primo atto della lunga vicenda relativa allo status del feudo, che si concluse il 9 aprile 1590 con l’istrumento di riscatto, che costava ai cittadini di Montecorvino un versamento al fisco di 18.000 ducati, che era la somma a suo tempo versata dal Grimaldi e che, quindi, gli veniva resa.
Ma, nonostante l’università avesse acquistato i diritti feudali su se stessa, con estrema disinvoltura, Sua Maestà Cattolica, il 26 agosto 1638, in dispregio di ogni ragione, vendeva ancora, per 48.392 ducati, ciò per cui il fisco ne aveva già incassato 18.000. L’acquirente era d. Giulio Pignatelli, principe di Noja, i cui eredi, il 23 agosto 1719, alienarono lo stato a favore di d. Nicolò Ippolito Revertera, duca della Salandra, che a sua volta, il 9 novembre 1737, lo rivendette a d. Girolamo Maria Pignatelli, principe di Marsiconuovo, per il prezzo di 48.750 ducati; questi, il 27 giugno 1744, procedette ad una nuova vendita a favore di Matteo Genovese, per il prezzo di 60.000 ducati.
Nel corso del possesso Pignatelli-Revertera-Pignatelli, Montecorvino aveva tenuto lo status di principato; con il passaggio al Genovese, che diventava nobile nell’occasione, fu ridotto a baronia. Pervenuto attraverso il figlio d. Domenico al nipote d. Mariano il 16 agosto 1779, poiché questi deteneva personalmente il titolo di marchese per eredità della zia d. Teresa de Ippolito, Montecorvino, suo malgrado, si vide decorata del nuovo status.
Contro le vendite del feudo del 1638, del 1719 e del 1744 furono istituiti tre distinti giudizi, cui si accompagnarono alcune richieste individuali di prelazione e una lunga serie di ricorsi e suppliche, nelle quali l’università attaccava di nullità le vendite in quanto tali, stante il privilegio del demanio ottenuto per titolo oneroso. Nella ultrasecolare vicenda, che si concluderà favorevolmente soltanto nel 1791, i Carrara furono sempre fortemente impegnati: nel 1720 con Geronimo, che offrì senza fortuna l’intero prezzo pagato dal duca della Salandra; nel 1745 con Giacomo Antonio; nel 1772 con una nuova istanza avviata da Domenico, poi ripetuta nel 1777. Il 13 luglio 1783, prendeva avvio l’ultimo atto della vicenda: la costituzione di dodici cittadini, che saranno detti demanisti, fra i quali Diego Carrara, che riusciranno, come accennato, a sottrarre lo stato al possesso feudale di Mariano Genovese.
Intanto, fin dalla metà del Seicento, un ramo della casata si era portato in Salerno con Giacomo Antonio, il cui nipote Domenico Maria il 17 gennaio 1734 otterrà l’aggregazione al sedile del Campo con il conseguente status di patrizio salernitano. Alla metà di quello stesso secolo i Carrara possiederanno il palazzo in città, nella parrocchia di San Gregorio Magno, nello spiazzo a oriente della chiesa, e la villa di Pastena.

 

Gli stemmi che ornano la villa

 

Il prospetto di Villa Carrara presenta due elementi architettonici distinti: l’uno costituito da un alto zoccolo sormontato da due logge sovrapposte, l’altro da una facciata verticale con portone e finestrone neogotico. La sua caratteristica singolare, nell’ambito delle architetture residenziali cittadine, è la presenza sull’intero prospetto di una serie di ventisette stemmi ceramici, fra i quali due sono più volte ripetuti e un terzo è presente in due esemplari, per cui la serie si riduce a diciassette insegne araldiche. Esse rappresentano una sorta di illustrazione per simboli della storia genealogica della famiglia, poiché, oltre che ai Carrara stessi (quelle ripetute più volte) si riferiscono a famiglie che con i Carrara ebbero legami matrimoniali, sia nella fase padovana che in quella montecorvino-salernitana.
Gli stemmi sono disposti in due fasce lungo le balaustre delle logge, racchiusi in cornici di stucco, rettangolari quelle in corrispondenza dei piedritti degli archi, ovali quelle in corrispondenza degli archi stessi; e in due serie di cinque, disposte in quadrilatero con uno in centro, sulla facciata verticale. Nelle serie lungo le balaustre, in particolare l’inferiore, si notano alcune cornici vuote dovute a perdite di altri stemmi verificatesi nel lungo periodo in cui la villa rimase in abbandono dopo la donazione (1953) dell’ultimo Carrara a favore dell’Ordine di Malta.

Lungo le balaustre delle logge, gli stemmi racchiusi nelle cornici rettangolari sono due ripetuti alternativamente. Il primo (d’argento, allo scheletro di carro a quattro ruote di rosso; col capo d’argento cucito, all’aquila di nero col volo spiegato coronata d’oro) è un riferimento leggermente difforme allo stemma d’origine della casata, che non presenta negli esempi superstiti in Padova alcuna aquila, con l’eccezione di due miniature in un codice seicentesco della Biblioteca civica, che, riproducendo il blasone di Marsilio da Carrara, signore di Padova 1324-1338, presentano un’aquila nera in campo argento, ma non nel capo, bensì nel cuore dello stemma. Il secondo (d’azzurro, alle tre ruote ordinate in fascia sopra tre stelle di sei raggi ugualmente ordinate, il tutto d’oro; col capo d’argento, all’aquila di nero col volo spiegato coronata d’oro) è lo stemma adottato dal ramo della casata stabilitasi a Montecorvino e poi portatasi in Salerno. Questi compare nell’Enciclopedia Storico Nobiliare italiana dello Spreti (1928-1936), ma con due varianti: le stelle sono di cinque raggi e il capo è quello classico dell’impero, ossia: d’oro, all’aquila di nero coronata del campo. Una ulteriore variante si osserva nell’Elenco Storico della Nobiltà italiana (Ordine di Malta, 1960) ove il capo ritorna ad essere d’argento, ma le stelle sono di otto raggi.

Nelle cornici ovali della balaustra superiore si osservano quattro stemmi, essendo una vuota. Il primo (d’argento, all’aquila di nero coronata d’oro) rimane non attribuito, ma è evidente il suo richiamo al particolare nel blasone che abbiamo visto di Marsilio e l’origine da esso del capo negli stemmi di casata più volte ripetuti sulla villa. Il secondo (troncato d’azzurro e d’oro; all’aquila troncata, d’argento nel 1°, di rosso nel 2°) è lo stemma dei da Polenta, signori di Ravenna (la famiglia della dantesca Francesca da Rimini), cui appartenne Costanza, che sposò Jacopo II, signore di Padova 1345-1350. Il terzo (d’argento, alla croce patente di rosso, accostata da quattro aquile di nero; caricato di uno scudetto inquartato: in 1° e 4° di Boemia, in 2° e 3° di Gonzaga antico) è lo stemma dei Corradi da Gonzaga, comunemente noti semplicemente come Gonzaga, signori di Mantova, cui appartennero Maria, che sposò Obizzo (+ circa 1300) e Alda, che sposò (1397) Francesco III, pretendente signore di Padova 1388-1406. Il quarto (inquartato: il 1° e il 4° di rosso, all’aquila d’argento coronata, rostrata e membrata, con le ali caricate ciascuna da un semicerchio convesso movente dal petto e trifogliato all’infuori, il tutto d’oro; il 2° e il 3° d’oro, alle due torri cimate di una torricella coperta, il tutto di rosso; caricato di uno scudetto partito d’argento e di verde, con la bordatura partita dell’uno nell’altro) è lo stemma dei Buzzacarini, patrizi di Padova, cui appartenne Fina, che sposò (1345) Francesco I detto il Vecchio, signore di Padova 1350-1388.

Lungo la balaustra della loggia inferiore, gli stemmi superstiti della casata appaiono disposti in modo illogico, probabilmente il terzo e il quarto riposizionati scorrettamente nel corso del restauro che interessò l'immobile negli anni novanta del Novecento. Nelle cornici ovali si osservano soltanto due scudi. Il primo (di rosso, alla scala d’argento di cinque gradini riempiti d’azzurro) è lo stemma dei Gradenigo, patrizi di Venezia, cui appartenne Elisabetta, figlia del doge Pietro, che, in un momento di pacificazione fra Padova e la repubblica lagunare, sposò Jacopo I, signore di Padova 1320-1324. Il secondo (troncato d’oro e d’azzurro; il 1° all’aquila di nero, il 2° alle onde d’oro) è lo stemma dei de Augustino, patrizi di Montecorvino, cui appartenne Aurelia, che sposò (circa 1580) Giovanni Geronimo Carrara. La famiglia de Augustino era stata aggregata al patriziato di Montecorvino contemporaneamente ai Carrara; il padre di Aurelia era stato il giurista Pontano, del quale oggi osserviamo il tumolo sepolcrale lungo il lato settentrionale dell’atrio della cattedrale di San Matteo (quello comunemente detto di Agostino Pontano, mentre è, appunto, di Pontano de Augustino), ove ritroviamo il loro stemma; fratello di Aurelia fu Geronimo, anch’egli giurista, che a Salerno fondò un collegio per lo studio della giurisprudenza, detto, appunto, degli Augustini, ospitato sul finire del Cinquecento nell’edificio che oggi chiamiamo Palazzo Martuscelli.

La presenza dello stemma dei de Augustino accanto a quello dei Gradenigo (illogicamente, visto il lungo arco temporale che divide l’interazione di queste casate con i Carrara) sembrerebbe testimoniare, anche in questo caso, riposizionamenti casuali su questa balaustra inferiore della villa, ove certamente vi furono altre insegne araldiche purtroppo andate perdute. Ma, indipendentemente da tanto, gli stemmi posti su questa parte dell’edificio creano non poche perplessità anche per l’effettivo riscontro nella genealogia dei da Carrara, ossia degli antenati padovani della casata, delle famiglie cui si riferiscono. In realtà, Elisabetta Gradenigo e il marito Jacopo II non furono nella stessa linea genealogica che annoverò i mariti delle signore da Polenta, Gonzaga e Buzzacarini, per cui i Carrara di Montecorvino e poi di Salerno se discesero dalla prima non potettero discendere dalle seconde e viceversa.

Sulla facciata verticale di Villa Carrara, come accennato, sono presenti dieci stemmi raggruppati in due serie di cinque, l’una a sinistra del finestrone gotico, l’atra a destra. Si tratta di insegne tutte relative alla fase meridionale della storia genealogica dei Carrara che, a differenza di quelle sulle balaustre, seguono una rigorosa successione temporale, anche se non nel modo che potremmo aspettarci; ossia la sequenza si sviluppa non all’interno dei gruppi, ma per righe che coinvolgono entrambe le serie scavalcando il finestrone.

Il primo stemma della riga in alto (d’azzurro, al cavaliere al naturale sulla campagna di verde, accompagnato nei cantoni del capo da due stelle d’oro di sei raggi) è dei Cavaliero, altra famiglia aggregata al patriziato di Montecorvino contemporaneamente ai Carrara. Di esso sulla facciata ne appare anche un secondo esemplare, esattamente l’ultimo in assoluto, ma mentre per questi, come vedremo, è stato possibile identificare il matrimonio cui si riferisce, ciò non è stato possibile per il primo. Il secondo della stessa riga (d’azzurro, alle due spade d’argento manicate d’oro in decusse, con le punte in basso, accostate in capo e ai lati da tre stelle di sei raggi anche d’oro) è dei Denza (o d’Enza), patrizi di Montecorvino, anch’essi aggregati a quel patriziato contemporaneamente ai Carrara, cui appartenne Angela, che sposò (1659) Giacomo Antonio.

 

 

 

 

Sul prosieguo della riga, oltre il finestrone, si osserva lo stemma dei Primicile Carafa, baroni di Cicerale, cui appartenne Anna, che sposò (circa 1690) Geronimo Maria; si tratta di una versione composita dell’arma, che vede, inquartate con riferimenti ad altre famiglie, l’insegna dei Primicile (d’azzurro, all’aquila bicefala su tre colli, sormontata da tre stelle in fascia di sei raggi, il tutto d’oro) nel 1° quarto e quella dei Carafa della Spina (di rosso, a tre fasce d’argento, con la spina di verde in banda) nel 4° quarto. Bisogna dire che quest’ultimo quarto è realizzato in modo scorretto, poiché si presenta d’argento a tre fasce di rosso, invece che di rosso a tre fasce d’argento; anche il 1° quarto non è del tutto corretto, poiché in genere lo stemma Primicile porta i colli di verde, non d’oro. L’ultimo stemma della riga (di rosso, alle mazze d’arma d’argento in decusse, legate da una catena dello stesso) è dei Venuti, nobili capuani, cui appartenne Anna Maria, che sposò (circa 1715) Domenico Maria, dal 1734 primo patrizio di Salerno della famiglia.

 

 

 

 

 

Sulla riga centrale gli stemmi sono soltanto due: l’uno a sinistra del finestrone, l’altro a destra. Il primo (d’azzurro, alla torre d’argento aperta del campo, sormontata da un lambello di rosso di quattro pendenti intervallati da tre gigli d’argento) è dei Naccenna, cui appartenne Cecilia, che sposò (circa 1745) Giacomo Antonio. Il secondo (d’azzurro, alla torre d’argento aperta del campo, sormontata da una torretta, coronata e accostata da due leoni controrampanti il tutto d’oro; col capo d’azzurro cucito, all’aquila bicefala d’oro col volo spiegato) è dei de Frisia, cui appartenne Maria, che sposò (1778) un altro Domenico Maria.

Nella terza riga si riconosce lo stemma dei Cedronio, marchesi di Rocca d'Evandro, cui appartenne Vittoria, che sposò (1802) Giacomo Maria; si tratta anche in questo caso di una versione composita, ove l’insegna originaria della casata (d’argento, al cedro di verde sradicato e fruttato di tre pezzi d’oro) è relegata nel cantone sinistro per chi guarda. Segue (d’oro, alle tre bande d’azzurro) lo stemma dei di Sangro, principi di Fondi, cui appartenne Eleonora, che sposò (1826) un terzo Domenico Maria; si tratta dell’arma anche dei di Sangro principi di Sansevero e di Castelgrande, patroni della famosa cappella in Napoli fatta edificare da Raimondo, il principe maledetto, passato alla storia per i suoi studi di alchimia e, fra l’altro, per le cosiddette macchine anatomiche che riproducono l’intero apparato circolatorio umano.

Sulla stessa riga, oltre il finestrone (d’oro, al pino sulla pianura erbosa con il tronco accollato da una serpe coronata del campo, il tutto al naturale) è posto lo stemma dei Pedicini di Corsano, marchesi di Luogosano, cui appartenne Caterina, che sposò (1856) Giacomo, che fu ammesso nel 1852 nella Regia Guardia del Corpo. Lo stemma della casata è accollato all’aquila imperiale per concessione del 1536 di Carlo V a favore dei fratelli Giacomo, Giovanni (da cui discenderà Caterina) e Pietro Pedicini. L’ultimo stemma è ancora dei Cavaliero e si riferisce al matrimonio (1884) di Maria Antonia, sorella di Lorenzo, che sarà sindaco di Salerno fra il 1903 e il 1910, con Girolamo.

Saranno i loro figli Domenico Maria, quarto di tale nome, e Gustavo Maria, entrambi cavalieri di Malta ed entrambi senza eredi, a voler lasciare in evidenza sulla facciata della loro villa di campagna memoria della loro storia genealogica. Moriranno entrambi nel 1953, prima Gustavo, poi Domenico, lasciando ogni loro bene, quindi anche Villa Carrara, all’Ordine di Malta.

 

 

Un momento della visita a Villa Carrara. Altre immagini: VILLA CARRARA 13 novembre 2011 LA LEZIONE DI ARALDICA