Djimba.

 
Nel 2003 ero per le strade di Milano, Corso Buenos Aires, nel fiume di gente che guarda le vetrine di lato senza fermarsi. Ero un indistinto signore con ventiquattrore e ombrello, in ottobre, in anticipo di mezzora sul colloquio di selezione. Volevo spendere bene anche quella frazione di tempo, perciò cominciai ad osservare tutto quello che mi sembrava caratteristico, tutto ciò da cui avrei potuto imparare qualcosa.

Scrutavo le facciate dei palazzotti… Mi dicevano molte cose sul carattere delle persone che li avevano eretti, sullo stile e sul gusto dei loro architetti, ma anche sull’accortezza delle maestranze. Ne percepivo tutta l’atmosfera, come se fossero ancora lì, cent’anni fa come adesso, davanti a me, a passarsi il secchio della calce e la sega per i mattoni, con le strade incerte e sporche di polvere, i cavalli e i carretti, i carpentieri con i disegni in mano, e i proprietari, con la bombetta e i baffoni alla Vittorio Emanuele.

Quell’angolo di periferia era la frontiera della città, dove si costruiva il nuovo, dove i proprietari costruttori sceglievano il meglio per la loro casa: marmi del trentino e di  Carrara, legni stagionati e scelti secondo le migliori indicazioni dei maestri del tempo, e le vernici, le migliori, le copali più pure e i colori macerati in Venezuela o in Germania. Le pietre restano, il tempo passa, le persone pure, e dopo cento anni e più, eccoci qui.

Quel palazzo di fronte con i leoni negli stucchi era del 1890, poco più o poco meno, mentre quello affianco era certamente più antico, me lo dichiaravano le finestre esageratamente strette, e decorate con archi e intarsi in pietra naturale, verde oliva e bianco, scuriti da due secoli almeno.

Le persone che l’avevano abitato, e più ancora quelli che lo abitavano ora, dovevano avere gusti raffinati. Potevo immaginare una signora in abiti semplici ma di buona fattura, intenta a pulire con molle attenzione la polvere dai ninnoli della vetrina del salotto, in stile novecento italiano, noce scuro e vetri sottili, riflessi sul verde.  Nell’aria, un leggero odore di bollito e di carta da parati umida.... 

Avevo percepito abbastanza... Avevo attraversato quelle case, senza passare dalle porte, ed ora ero di nuovo in strada fra la gente che continuava anonima e silenziosa la propria ritmica sequenza di passi, diretti esattamente dove dovevano andare.

Ero quasi fermo davanti ad un’edicola, un chiosco verde con le riviste appese anche fuori, con corde e mollette. Anche le edicole sono diverse da una città all’altra; dicono molto anche loro sui gusti della gente del posto, sulle loro esigenze. Mi soffermai  a scrutare ogni cosa, senza voler acquistare niente, finchè non si avvicinò un signore bassino, dalla pelle olivastra, gli occhi scuri e obliqui, ed un accento orientale.

-“Cosa cerca, signore?”

-“Sto dando un’occhiata, alle riviste di musica, magari...”

-“Sono lì, a destra… Quale rivista?”-

Ero infastidito. Non volevo comprare niente, volevo solo osservare. Solo osservare.

Mi allontanai e passai alla destra del marciapiede, e notai altri extracomunitari per strada. Ce n’erano di tutte le razze e di tutte le età. Cercai di elaborare una media statistica sulla presenza di extracomunitari rispetto al totale della gente per strada. Più avanti, tra le traverse, decine di insegne in arabo e in cinese, pakistani, iraniani, arabi, tunisini, marocchini, cinesi, giapponesi, filippini, congolesi, sudafricani, etiopi. Mi divertivo ad indovinarne la razza dai tratti somatici, per quanto non fossi un esperto. Ce n’erano tanti,  almeno quanti europei.

Mi passarono affianco una coppia di signori settantenni, con cappotto e cappello, distinti, nel passo lento e dignitoso,  che procedevano al ritmo molle della passeggiata, a braccetto, stretti come una coppietta di eterni innamorati. Rallentai perché ero curioso di sentire i loro discorsi; che cosa avevano da dirsi quei soggetti da ritratto d’altri tempi: una coppia di milanesi con i figli sistemati e una buona pensione da spendere nei negozi lì intorno. Ma non li capiì. Non era dialetto milanese, o un altro dialetto, sembrava slavo, o polacco.

D’un tratto mi sentiì cittadino del mondo. Avevo la sensazione di essere in un posto molto speciale, dove era possibile la convivenza di popoli e culture assai diverse, un posto aperto, in cui tutte le carte potevano essere rimescolate, dove i destini erano destinati a riformularsi. Un luogo di nessuno, dove erano possibili gli innesti di tutti i tipi, i confronti più esasperati, che poteva alimentare e soddisfare ogni curiosità e ogni bisogno di diventare.

Ma mentre pensavo a tutto questo, mi accorsi di qualche sguardo torvo, qualcuno malvestito e mal-lavato che mi odiava d’istinto, che regolava la mira del suo sguardo per potermi colpire nel modo migliore, senza rischiare. Sapevo per esperienza, che l’odio umano dipende dal risentimento accumulato, non importa chi sia stato a procurarlo. Quell’uomo odiava, ed odiava gli indistinti come me, con giacca, cravatta, borsa e soprabito, che camminavano senza tenere lo sguardo basso o schivo.

Ne notai qualcun altro, più avanti, nemico come l’altro.

La mia percezione dell’ambiente cambiò ancora: pensavo di essere capitato in un immenso porto franco, dove scendevano tutti insieme: i passeggeri, che si mischiavano agli scaricatori, poliziotti, tagliaborse, scippatori, venditori di panini e caffè, psicopatici senza speranza, bulli di quartiere e disperati.

Mancava poco al mio appuntamento e tornai indietro, con addosso ancora il fastidio di quegli sguardi criminali dietro la nuca.

Ripresi a scorrere verso i marciapiedi più affollati, insieme a tutte le altre storie ambulanti, diverse, eppure simili alla mia.

Così, passo dopo passo, arrivai dove dovevo.

Al secondo piano di un palazzo del 1793.  Suonai un campanello di quelli che si vedono ancora solo nei film in bianco e nero degli anni cinquanta: un bottoncino di ottone fissato con due viti nel muro e collegato con un filo piatto scoperto, vecchio di decenni, inchiodato alla parete. Il soffitto molto alto, con le volte a stella, decorate con stucchi colorati e dorati. Si aprì la porta in legno massiccio, molto venato, forse di rovere, o di castagno. Sorrise una bella ragazza di ventisei, ventisette anni, Paola, che era la selezionatrice con cui avevo già parlato al telefono diverse volte da Taranto, prima di decidermi di salire su per il colloquio e per l’eventuale firma del contratto.

Aveva un accento milanese, occhi nocciola, capelli quasi biondi naturali, un maglione melangè grigio che lasciava intuire la morbidezza delle sue forme proporzionate, un tono di voce calmo e suadente, cortese, in parte formale... Denti regolari e grandi, respiro calmo, un sorriso quasi soddisfatto, un anellino e nessun piercing, neanche orecchini, il taglio dei capelli semplice e perciò elegante, la fronte alta e le spalle dritte, pantaloni di costine di velluto bordeaux scuro, che le descrivevano le gambe come ogni maschio vorrebbe fossero fatte le gambe delle donne.

Ci sedemmo alla sua scrivania. Nella sua stanza c’erano altre tre colleghe, impegnate con le loro carte, i telefoni… Paola risguardò il mio curriculum, fece delle domande, parlammo dell’azienda per cui avrei dovuto lavorare, parlammo anche di altre cose. Dopo circa un’ora di piacevole conversazione, lei finì di stilare una mia scheda, corredata delle nuove informazioni che gli avevo fornito.

Poi si fermò per dei secondi. Mi fissò negli occhi e quando fu sicura della mia attenzione mi chiese:- “Ma lei vorrebbe lavorare qui, a Milano?… Noi abbiamo altre aziende che richiedono un profilo come il suo, con ottimi compensi, sa? Davvero ottimi… Per lavorare qui, però… Sarebbe disposto a trasferirsi?”-

Provavo sempre una sensazione precisa quando affrontavo momenti critici come quelli, quando cioè gli eventi potevano dirottare per sempre il timone della mia vita: una sensazione tra il silenzio e il vuoto, un debole formicolio dietro la nuca, e una certa tensione muscolare dal collo fino giù alla schiena.

Era uno di quei momenti. Ma agii come sempre, decidendo sempre in fretta, quasi senza pensarci… In testa, come il vuoto assoluto nello Zen.

Mille possibili interpretazioni a posteriori, ma nessuna veramente spiegabile, in quel momento.

L’idea di vivere integrato in quella città, in alternativa a quella di vivere nei posti che conoscevo bene, in un ambiente che avevo imparato a decifrare… L’idea di una carriera appagante, di una vita con maggiori opportunità, contrapposta alla routine ancorché totalmente insicura, delle mie parti…

Quanto pesava tutto questo, rispetto ad altro? Per esempio, che fosse semplicemente pigrizia? Oppure la troppa paura di scombinare la mia famiglia: mia moglie e i miei figli?

Oppure, come mi piace pensare più spesso,  e, più semplicemente, l’onda degli spiriti che da sempre mi accompagnano, avevano sospinto le mie vele sulla rotta di casa… Si, ecco, era la più probabile...

-“Preferisco l’incarico di agente, per Puglia e Basilicata, grazie.” – Risposi.

E Paola corresse il suo sorriso con una piccola piega in giù sulla sinistra, dicendo:”Va bene. Eh! Il sole, il mare che avete… Io ho degli amici che hanno i parenti in Puglia, sa? Ogni estate spariscono, vanno giù, e tornano felici come una pasqua, abbronzatissimi… Deve essere una fortuna vivere lì, no?”.

Non fui scontato nel risponderle, anzi, le dissi che invece avrei preferito salire su, non per il clima, ma forse proprio per le opportunità di vita che il nord offre, ma che al momento avevo altre priorità.

Dopo il colloquio con l’azienda e la firma del contratto, avevo il problema di come trascorrere il tempo che mi separava dal vagonlit delle ventitré, che avrei preso per ritrovarmi l’indomani mattina alle dieci a Taranto.

Era un buon contratto, l’inizio di una nuova interessante attività, ma ero deconcentrato, svogliato, diviso dai ripensamenti, dall’ennesimo calcio alle opportunità. Pensavo a questo mentre costeggiavo la recinzione di una piccola villetta pubblica a verde, dove entrai.

Era un pomeriggio ombroso, come la mattinata del resto, e aprii il libro tascabile dell’andata, una lettura professionale:”Come comporre amichevolmente le controversie in famiglia e nel lavoro”. Seduto su una panchina di quel piccolo parco ben tenuto e recintato, lessi meccanicamente altre venti pagine, poi preferii guardare intorno a me la gente che entrava lì.

Tanti passeggini, tanti bimbi italiani e tante baby-sitter evidentemente non-italiane, qualche anziano, pochi ragazzini del posto. Tra loro, un giovane nero, che tirava preciso col pallone; parlava un  italiano corretto, seppure un tantino bagnato nell’accento milanese. Chissà... Sarebbe diventato un campione? Si chiamava Djimba.