OSSERVATORIO LETTERARIO

 

*** Ferrara e l'Altrove ***

 

ANNO VII – NN. 31/32    MARZO-APRILE/MAGGIO-GIUGNO 2003     FERRARA

 

 

RICEVIAMO - PUBBLICHIAMO:

 

Da signor Roberto Ruspanti riceviamo e pubblichiamo le seguenti lettere (e-mail: martedì 14 gennaio 2003 14.37; giovedì 16 gennaio 2003 12.14):

 

 

«Gent.ma Melinda Tamás-Tarr,

 

ho avuto casualmente fra le mani il Periodico "Osservatorio letterario", da Lei tanto abilmente diretto e - a quanto vedo - altrettanto abilmente redatto - praticamente per intero - da Lei. La ringrazio per avervi inserito (nel numero 27/28, LUGLIO-AGOSTO/SETTEMBRE-OTTOBRE, ANNO VI, pp. 39-40) le prime quattro strofe della mia traduzione del poema petőfiano "János vitéz" precedute da un estratto della mia introduzione che l'accompagna.

Mi sorprende però il fatto che il tutto venga inserito fra le "RECENSIONI", laddove di una recensione (che avrei molto gradito) alla mia traduzione non v'è alcuna traccia, fatta eccezione per quella postilla maliziosa, preceduta da un asterisco e inserita a pie' dei versi citati, che suona molto peggio di una critica negativa, assumendo il sapore di una condanna: * "Il Traduttore italiano - in tutta l'opera - ha ricorso largamente ai tradimenti...".

 

Tisztelt asszonyom - ahogy mondják a magyarok - "kikérem magamnak"!

Sì, cara signora, protesto nel modo più fermo!

 

Perché, se c'è stata una cosa, che più di tutte, ho voluto evitare nella mia traduzione del poema petőfiano, costatami quasi cinque mesi di duro e approfondito lavoro, è stata proprio l'infedeltà: intesa questa non solo come banale infedeltà al testo, ma anche e, soprattutto, come infedeltà allo spirito dell'opera originale petőfiana.

La sfido pubblicamente ad elencarmi tutti i "numerosissimi" (largamente...) tradimenti di cui Lei parla nella sua maliziosa postilla! La sfido a darmene e a darne conto ai suoi lettori!

A meno che con il termine "tradimenti" Lei non intendesse dire una mancata riproduzione speculare della versificazione dodecasillabica originaria del poema ungherese (impossibile da mantenere se non si vuole... tradirne il testo). Per quanto riguarda il metro italiano da me adottato per la traduzione - il doppio settenario o verso martelliano (l'unico che rende anche musicalmente il ritmo del verso originale ungherese) - io stesso ho precisato che in alcuni punti mi sono preso la libertà di usare le assonanze e/o le consonanze, al posto della rima baciata pura, per non appesantire e banalizzare il poema, soprattutto dal punto di vista lessicale, mettendo ironicamente le mani avanti col dire che "anche Petőfi ne fa largo uso nell'originale".

Detto questo, non capisco di quali "tradimenti" avrei fatto "largamente" uso...

Aspetto cortesemente una sua garbata risposta, edotta e, possibilmente, corroborata da esempi pratici.

Altrimenti... delle scuse o un chiarimento da parte Sua.

 

Con la speranza che questa mia trovi spazio in un prossimo numero del Periodico da Lei diretto, Le invio i miei più cordiali, anche se amichevolmente e bonariamente indispettiti, saluti.

 

Suo,

Roberto Ruspanti»

 

 

«Gent.ma Melinda Tamás-Tarr,

 

La ringrazio per la pronta risposta. La lunghezza della Sua lettera di spiegazioni con le quali - a proposito della noterella incriminata (che io continuo a definire maliziosa) - Lei esprime il Suo pensiero sull'arte del tradurre, rafforza in me la convinzione che la mia garbata, ma indispettita protesta nei Suoi confronti era motivata e giusta. Difatti, a Lei sono servite ben 131 righe (circa) per esplicitare (solo in parte) quanto quella noterella nascondeva.

Lungi da me la presunzione di aver realizzato la più bella traduzione - in assoluto - del "János vitéz" (e neppure la migliore che fosse a me possibile: Lei sa meglio di me che, a cose fatte, il traduttore - o l'autore - non è mai pienamente soddisfatto dell'opera da lui realizzata e vi trova sempre difetti o possibili alternative, che nell'opera d'autore non possono più essere prese in considerazione: una poesia o un romanzo già scritti, una volta pubblicati, non possono più essere modificati neppure dall'autore), tuttavia ciò che Le contesto è la FORMA (la noterella telegrafica a pie' di testo) con cui, senza alcuna spiegazione (ai lettori, in primis, e al traduttore, cioè a me) Lei ha condensato il Suo pensiero critico sulla mia traduzione dando al lettore un'impressione univoca di condanna. Ribadisco infatti che la noterella in questione, nella forma con cui Lei la presenta ai lettori, ha tutto il sapore di una condanna della traduzione stessa, proprio perché lei "gioca" con il Suo privilegio di essere di madre lingua ungherese, accreditando presso chi la legge (la noterella) la convinzione che la traduzione non sia valida. Premesso che so perfettamente che tutte le traduzioni sono dei necessari ed inevitabili tradimenti (formali e contenutistici: lessico, metrica, struttura rimica e via dicendo: legga, in proposito, il mio saggio "Del tradurre", in "Ambra", Rivista di Italianistica, N. 1, anno I, dicembre 2000, Szombathely, pp. 202-217), evidentemente il bravissimo drammaturgo Miklós Hubay (giudice di madrelingua magiara sicuramente affidabi-le), affermando - a proposito della mia traduzione - che "Petőfi szelleme megszállt téged, amikor fordìtottad a 'János vitéz'-t" [«Lo spirito di Petőfi ti ha impadronito quando hai tradotto il 'Giovanni il Prode'» N.d.R.], deve aver preso lucciole per lanterne, essendo la mia traduzione largamente piena di tradimenti "lessicali".

Kedves [N.d.R.: 'Gentile'] signora Melinda, lungi da me la presunzione di essere il miglior possibile traduttore italiano di Petőfi, ma Lei stessa deve convenire che la "fedeltà assoluta", anche quella "lessicale", di cui Lei si vanta nell'esempio addotto delle prime quattro strofe del poema petőfiano da Lei tradotte e poste a confronto con la mia versione, nella traduzione poetica NON ESISTE, neppure - mi scuserà da parte sua... Potrei contestarLe parola per parola la Sua traduzione, ovvero il lessico di cui si serve, ma non è questo il punto: in una versione poetica ciò che conta è la "poeticità" della resa, cioè, in definitiva: la poesia! Provi ad essere "lessicalmente fedele" ad una lirica del grande Ady! O, viceversa, "musicalmente fedele (metrica)": in entrambi i casi la versione italiana sarà manchevole... Se poi prova a restare, nel contempo, "lessicalmente e musicalmente" fedele e ci riesce, probabilmente Lei diverrà la più brava traduttrice della storia della traduzione della poesia magiara in lingua italiana!

Le faccio un esempio - tratto sempre dal "mio" Giovanni il Prode - invitandola a trovare soluzioni alternative "lessicali" valide che - però! - mantengano il senso e il sapore della poesia:

 

Hej csinálom-adta! meleg egy nap volt ez,

Heggyé emelkedett már a török holttest.

De a basa még él mennykő nagy hasával,

S Kukoricza Jancsit célozza vasával.

 

Ehi, per dindirindina, se fu caldo quel giorno!

S'innalzò un monte di morti coi Turchi tolti di torno!

Ma il pascià era ancor vivo con la sua immensa pancia:

punta Gianni Pannocchia e su di lui si lancia.

 

Per concludere, al posto della "noterella", avrei preferito una Sua critica sulla resa poetica del mio "Giovanni il Prode", avrei preferito sapere che cosa ne pensa - ad esempio - del titolo, del nome "Gianni Pannocchia", della metrica, del linguaggio usato (ad es.: ragazza per fanciulla), delle soluzioni poetiche adottate in alcuni dei passaggi più famosi del poema o per descrivere le figure e i paesaggi tipicamente magiari in esso presenti, ecc., e - perché no? - leggere una Sua critica, magari corroborata da esempi, alla quale poter rispondere punto per punto. Lei, invece, mi ha messo di fronte al fatto compiuto di una "noterella", a mio giudizio - ripeto - molto maliziosa, che dice in modo formalmente ambiguo molto di più (e, soprattutto, molto di peggio) di quello che Lei stessa si è sentita in dovere di dirmi nella Sua lettera (e-mail) esplicativa.

 

Bene. Detto questo, le polemiche letterarie siano le benvenute in questa società illetterata nella quale viviamo! E complimenti ancora una volta per la Sua attività, per la Sua rivista e, particolarmente, per l'abilità con cui si serve degli strumenti informatici (verso i quali io, invece, sono praticamente analfabeta). Se poi ha il tempo di dare un'occhiata alla mia attività di saggista e di traduttore (qualora non la conoscesse), può vedere il catalogo della Rubbettino, la casa editrice con cui collaboro ormai da circa nove anni. Vi troverà anche il mio romanzo d'ambientazione ungherese "Quel treno per Budapest" (recentemente uscito), che vuol essere, da parte mia, un omaggio al coraggioso popolo magiaro, all'Ungheria e alla sua cultura.

 

Cordiali saluti

Roberto Ruspanti

 

PS.: Della Sua rivista ho avuto cognizione casualmente nel Petőfi Irodalmi Múzeum di Budapest, città dove mi trovo in questi giorni.»

 

N.d.R.: Noi non commentiamo ma lasciamo i Lettori che conoscono l'ungherese e l'italiano leggendo le traduzioni del signor Ruspanti di trarre le proprie conclusioni.

 

 

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