_____________ Profilo d'Autore ___________
(Dall'Osservatorio Letterario, Anno
VI/VII - NN. 29/30 NOVEMBRE-DICEMBRE/GENNAIO-FEBBRAIO 2002/2003)
ANNA MARIA HÁBERMANN
Medico,
pianista, scrittrice, inventore
- di
Melinda Tamás-Tarr -
In un giorno
primaverile di quest'anno squillò il telefono della redazione. Dall'altra parte
del filo sentivo la voce energetica ma nello stesso tempo dolce e cortese della
dottoressa Anna Maria Hábermann. Mi chiese di poter inviarci il suo libro
intitolato «L'ultima lettera per Tibor» edito
nel mese d'ottobre del 2001 per la lettura e per un'eventuale recensione
[vedasi l'articolo sul fascicolo di NN. 27/28 2002, pp. 40-42]. Poi nel settembre
scorso un'altra telefonata per chiedermi di accettare l'incarico di presentare
una seconda volta questo libro il 30 ottobre scorso presso la prima libreria
caffè di Milano: Ticcun, assieme al giornalista Vittorio Mangili, inviato speciale Rai
nel 1956. Così ci siamo conosciute, prima telefonicamente, poi tramite
l'incontro personale.
Vorrei prima di tutto ringraziare l'Autrice anche tramite
queste righe per la stima dimostratami affidandomi il ruolo di relatore del suo
libro. Non nego di essere stata emozionata giacché durante i 19 anni di
residenza in Italia raramente mi sono lasciata coinvolgere pubblicamente - l'ho
fatto ultimamente prima di quest'occasione all'inizio di quest'anno, il 29
gennaio in occasione della presentazione del libro intitolato «La realtà sospesa» del ns. autore locale,
Marco Vaccari -, perché in verità non amo mettermi in mostra davanti ad un
pubblico ampio: qui, nel vostro paese che è divenuto ora anche il mio, ho
preferito e preferisco piuttosto restare dietro le quinte e, se possibile, anche più dietro...
perché rifuggo fra l'altro il fragore che diviene sempre più caotico in
tutte le sfere della nostra vita quotidiana. Questo mio modo di
lavorare e di esistere è
divenuto ormai con gli anni una mia forte abitudine…
Ho tuttavia accettato volentieri l'invito rivoltomi dall'Autrice perché
si tratta di un libro che mi ha colpito profondamente, dato che affronta un
argomento che riguarda la mia Patria d'origine, le mie radici, una parte della
storia degli Ungheresi a cui appartengo anch'io. Una parte di questa storia, di
cui però io ho soltanto conoscenze indirette - dato che allora
non avevo ancora compiuto tre anni - la vera storia che non coincideva con
quella ufficiale l'ho sentita sussurrare tramite frammentari racconti familiari che non erano indirizzati a
me, ma erano argomenti tra gli adulti. Adesso, a partire dal cambiamento del
regime pian piano si è cominciato a conoscere la vera storia tramite gli studi
più recenti ma ancora non è completamente rivelata tutta la verità.
Chi è Anna Maria Hábermann? Ho avuto l'occasione di conoscerla in due
splendidi giorni trascorsi a Milano, città in cui mi sono trovata la prima volta
nella mia vita. Ho avuto la fortuna e la gioia di conversare con lei ed anche
ascoltare il suo modo di suonare il pianoforte e di leggere poesie.
Scendendo dall'Eurostar alle 12 il 30 ottobre, alla Stazione
Centrale di Milano, l'ho incontrata faccia a faccia, ci siamo salutate
abbracciandoci e baciandoci, avendo l'impressione di essere amiche da lungo
tempo e da sempre. È una donna minuta,
esile che non dimostra la sua età
anagrafica, sembra ancora una ragazzina, è una creatura graziosa, dolcissima,
simpatica e sempre sorridente nonostante le varie tragiche esperienze della sua
esistenza. Di lei si può parlare soltanto in superlativi.
Nata nel marzo 1943 a Busto Arsizio da madre italiana e padre ungherese;
si forma alla scuola dei Maestri A Taborelli, A. Mozzati, G. F. Ghedini,
diplomandosi in pianoforte nel 1964 al Conservatorio «B. Marcello» di Venezia.
Si perfeziona, seguendo i corsi di interpretazione musicale con il M° R.
Risaliti. Ha svolto attività concertistica come solista e in trio con il
violinista Bruno Moretti ed il violoncellista Carlo Milano. Contemporaneamente
intraprende gli studi in Medicina, laureandosi, nel 1969, con il massimo dei
voti all'Università di Siena in Medicina e Chirurgia. Ha seguito la scuola di
specialità in Anestesia. Nel 1976 con la tesi clinica «Studio sulle cause e la prevenzione delle
rachialgie» si specializza in Ortopedia e in Traumalotologia. Ha
lavorato quale assistente in Patologia Chirurgica e Propedeutica Clinica
all'Università di Milano presso l'Ospedale di Niguarda. Nel medesimo ospedale
ha svolto la sua opera come anestesista e successivamente come traumatologa.
Con la qualifica aiuto ortopedico lascia l'attività ospedaliera nel 1989 per
dedicarsi poi alla libera professione e alla ricerca, ponendo particolare
attenzione alle patologie connesse con l'attività musicale.
Cambiare vita a cinquant'anni è il sogno magari di molti, che
pochi l'azzardano, ed ancora di meno lo realizzano. Ci è riuscita invece la
Dr.ssa Anna Maria Hábermann trasformandosi da medico a inventore. Andando
quindi in pensione si è dedicata completamente alla sua grande passione, la
musica: pianista eccellente - cosa che ho personalmente potuto constatare e questo lo posso
affermare non da laica ma chi intende un po' di musica dato che anch'io ho
fatto degli studi pianistici sia in Ungheria che in Italia fino al 1997… -,
ella da allora ha alternato alle sue ore di studio al pianoforte la pratica
medica come libero professionista, dedicandosi in particolare alle patologie
dei musicisti. Così ha avuto modo di rendersi conto dell'esigenza dei pianisti
di trovare una postura più corretta per salvagurdare meglio la salute. Così ha
inventato la panca ergonomica, brevettata proprio nel suo cinquantesimo
compleanno e la sua invenzione è entrata in produzione con il nome di «Linea® dr. Hábermann»,
apprezzata e venduta in tutto il mondo.
Di conseguenza la dottoressa Hábermannn è spesso
invitata a convegni di musicisti per parlare di argomenti di medicina applicati
in campo musicale. La peculiarità
della panca ergonomica è nient'altro che un sedile regolabile inclinato. Grazie
all'adozione della meccanica a doppio pantografo, il piano di seduta della panca
è solidamente appoggiato su quattro punti, il che garantisce la stabilità e
l'eliminazione di cigolii o altri inconvenienti.
La
colonna vertebrale di chi suona uno strumento a tastiera è sottoposta a stress
statici e dinamici che coinvolgono tutte le strutture muscolo-tendine del
corpo. Per questo nei pianisti si creano frequentemente situazioni di tensione
nei distretti del collo, dei cingoli scapolari e della muscolatura
dorso-lombare, che potrebbero dare luogo a dolori provocati da fibromiositi.
Con l'uso della panca tradizionale, la posizione seduta avviene nella parte
anteriore del sedile, senza che il dorso sia convenientemente appoggiato. Il
sedile ergonomico invece fa sì che il peso del tronco si scarichi completamente
sulle tuberosità ischiatiche e sugli arti inferiori. La postura che l'esecutore
assume su questo sedile favorisce la libertà delle braccia e soprattutto la
loro forza di caduta libera sulla tastiera, oltre a ridurre tutte le curve
della colonna vertebrale e ad annullare le tensioni muscolari anche durante il
movimento dei piedi, che vengono a trovarsi nella posizione ottimale per l'uso
dei pedali. Questa postura è
indicata anche per i cantanti, i
suonatori di strumenti a fiato o per chi lavora tante ore col computer.
Ora dal medico e pianista passiamo alla scrittrice e poetessa. Dopo lunghe ricerche e
preparazione è nato il suo primo libro intitolato «L'ultima lettera per Tibor».
- Come è nato questo breve romanzo? Su questo interrogativo ecco le
rivelazioni dell'autrice stessa, così ricapitolando i fatti:
- Marzo 1984: morti i miei genitori, avevo rinvenuto nella cassaforte
documenti risalenti agli anni '38-'45; li avevo sfogliati senza attenzione e li
avevo riposti.
Dicembre '86: iniziai a disfarmi delle cose inutili e a fare una cernita
delle carte da conservare. Rilessi i documenti e mi resi conto all'improvviso
che ignoravo il passato. Mi pareva incredibile che mia madre e mio padre, con
cui avevo avuto uno splendido rapporto, non mi avessero confidato nulla. Perché
avevano taciuto?
- Che cosa ha deciso di fare? Ha avuto qualcuno a cui rivolgersi per
essere aiutata, per darsi una risposta?
- Vi era un'unica persona che poteva aiutarmi… nel ponte di Sant'Abrogio
decisi all'improvviso di partire per Budapest dove viveva ancora la sorella di
papà: zia Inci [N.d.R.: si pronuncia: 'inzi']. L'avevo incontrata solo due
volte: la prima nel '56, anno della rivoluzione, quando per conoscerla ero
andata in Ungheria con mia madre. Papà si era rifiutato di venire giustificandosi
così: «Io là non ci torno perché è un paese di morti», poi, in seguito ad
un'occhiata della mamma e sorvolando sul mio «perché?», aveva soggiunto «la
cittadinanza italiana non mi protegge nella mia patria di origine perché le
autorità non hanno accettato il disconoscimento di quella ungherese e, se
volessero, potrebbero trattenermi». Accettai la spiegazione ma registrai le
frasi, come facevo quando non capivo bene qualcosa.
- Che cosa sapeva della sua famiglia?
- Sapevo pochissimo: eravamo apolidi - nonostante io fossi nata in
Italia come mia madre - e di noi si occupò il consolato svedese fino al 1951
quando ottenemmo la cittadinanza italiana.
- Ha ancora incontrato sua
zia?
- Una seconda volta vidi zia Inci nel '72 quando venne in Italia per tre
settimane. Eravamo due estranee: la lontananza e la lingua, un miscuglio di
francese, tedesco, inglese sufficiente solo ad intenderci, ci avevano impedito
di oltrepassare i convenevoli. Provavo un senso di colpa perché non riuscivo a
volerle bene come avrei dovuto.
- È ancora ritornata in Ungheria?
- Mi preparai al terzo incontro portandomi un dizionario di ungherese
che non servì a capire né a farmi capire. Arrivata a Budapest senza preavviso
scoprii che era ricoverata in ospedale: fu dimessa solo il giorno prima della
mia partenza. Andai a prenderla con un taxi e la condussi a casa. Nel
pomeriggio le chiesi finalmente quello che volevo sapere: «Dimmi la verità zia,
per caso noi siamo ebrei?» Stesa sul letto mi guardò di sotto in su, dubbiosa,
poi rispose: «Non per caso! Sì, noi siamo ebrei, noi, cioè tuo padre, io, i
nonni… insomma la nostra famiglia, ma tu no. Tu sei cattolica come tua madre ed
è bene che tu rimanga tale. L'antisemitismo è ciclico, mettitelo bene in testa.
Anche se oggi non si manifesta, serpeggia nell'inconscio collettivo; è sempre
stato così e sarà sempre così: non ci si può fidare, domani potrebbe esplodere
di nuovo e anche tu potresti esserne vittima. Meno sai di questa storia meglio
è.» Dopo una breve riflessione terminò dicendo: «Così comunque avevano deciso i
tuoi genitori. Dunque è inutile parlarne.»
- Sua zia non Le disse niente oltre ciò?
-Insistetti. Volevo, dovevo avere risposte: «ma allora perché hanno lasciato
quei documenti? Dimmi cosa è successo, tu sei la sola che può farlo!» Riuscii a
convincerla. Nel solito confuso cocktail linguistico cominciò a raccontare
quello che le veniva in mente ed un ricordo ne agganciava un altro, cosicché
facevo fatica a collegare gli avvenimenti ed a porli in ordine cronologico.
Parlò per ore e alla fine disse: «Adesso basta. L'argomento è chiuso e non lo
riaprirò, chiaro?» L'orrore e l'incredulità mi resero un pezzo di ghiaccio.
Tornai ancora a trovarla negli anni successivi, ma non volle dirmi altro. È
morta nel '92. Poco prima di spegnersi mi telefonò dicendo che era nascosta in
casa di un'amica perché i nazisti la stavano cercando per deportarla. Era
sconvolta e non ci fu mezzo di convincerla che non era vero.
- Che cosa ha fatto dopo questa rivelazione?
- L'anno scorso ho cercato la persona che l'aveva assistita negli ultimi
tempi per avere documenti e foto; mi ha riferito il commento della zia su quel
pomeriggio: «Mia nipote non ha capito niente di quello che le ho spiegato,
perché la sua reazione è stata di totale indifferenza.»
- ConoscendoLa tramite i nostri colloqui per me sembra un'accusa
ingiusta nei suoi confronti! Io La vedo diversamente… Altroché indifferenza!
- Indifferenza! Ero talmente sconvolta che avrebbero dovuto passare
quindici anni prima che riuscissi ad elaborare quella storia facendola divenire
parte della mia vita. Ancora oggi vado a tentoni. I documenti in mio possesso
sono parziali, le lettere sono scritte in una lingua che non conosco e che sto
faticosamente cercando di apprendere, i ricordi emergono nebulosi: ho iniziato
a collegare i frammenti, frasi, situazioni che non avevo compreso quando erano
avvenuti.
- Potrebbe riportare qualche esempio a proposito?
- Ad esempio: la foto di mio fratello un giorno scomparve. Fu quando
volli sapere perché non viveva con noi. Anche i silenzi erano significativi: se
dopo una domanda non c'era risposta, sapevo di non dover più chiedere… Così
avevo cancellato dalla memoria tanti piccoli segnali che avrebbero dovuto farmi
riflettere.
- Così sono rimaste tante domande aperte, tanti dubbi… Ciò nonostante
poté avere qualche punto di riferimento… Oppure sbaglio?
- Mi ero illusa di avere riferimenti sicuri ma mi ero ingannata: avevo
eluso più meno coscientemente esperienze enigmatiche, sgradevoli o dissonanti
con il mio mondo. I miei punti fermi furono scardinati nello stesso tempo.
- Cioè, che cosa significa? Potrebbe gentilmente essere più esplicita?
- La sorella di papà viveva a Budapest quando i nazisti ungheresi, a
fine ottobre '44, radunarono gli ebrei in una fabbrica di mattoni e li
costrinsero ad una marcia forzata: dieci giorni all'addiaccio fino ad
Hegyeshalom; qui la sorella di mio padre fu caricata sui vagoni dai tedeschi; dopo
sei giorni di viaggio giunse a Rawensbrück, poi fu mandata a Lipsia schiava in
una fabbrica di armi, infine costretta alla ricostruzione di linee ferroviarie.
Scampata alla camera a gas e alla marcia della morte, dopo tre mesi di cammino
a piedi arrivò a Budapest, dove scoprì di essere l'unica sopravvissuta di tutta
la famiglia, escluso mio padre che viveva in Italia. Del marito, Ernő
Goldschmit, non aveva notizie già dal '39 quando non tornò dai lavori forzati
cui erano costretti gli ebrei ungheresi fra i diciotto e i quarant'anni. I
nonni invece vivevano a Csátalja, nella bassa pianura ricca di vigneti [N.d.R.
a nord-est da Mohács nell'Ungheria meridionale nella zona tra il Duna (Danubio)
e Tisza (Tibisco)]. Come tutti i «vidéki»,
abitanti delle campagne, furono deportati non appena il nazista Szálasi prese
il potere. Nonno Andor, ebreo laico colto ed integrato e nonna Málvin, la
moglie che lo aveva sempre assistito nella professione di medico, furono
strappati alla loro terra il 15 maggio del '44 da quegli stessi ungheresi che
avevano curato per cinquant'anni; così avvenne per i loro numerosi fratelli e
sorelle, zii e zie con figli e nipoti: nessuno tornò dai campi. Tamás, la cui
foto era scomparsa quando avevo cominciato a fare troppe domande, era mio fratello
per parte di padre. In seguito al «numerus clausus» [N.d.R.: numero chiuso]
legge discriminante che già dagli anni '20
imponeva un limite al numero di ebrei che potevano iscriversi all'università in
Ungheria, papà studiava medicina a Vienna, dove ancor prima della laurea, che
ottenne a soli ventitrè anni, si era sposato con una compagna di studi, Rózsi.
La famigliola non tornò in Ungheria dove un regime di destra aveva bollato mio
padre come indesiderabile perché trotskjista: vissero dapprima in Germania a
Trier, ad Aachen e nella Schwarzwalde, poi in Italia, nella stessa cittadina di
provincia dove sono nata e vissuta.
- È una cosa incredibile che Lei fino a queste scoperte non sapeva
niente di niente…
- Incredibile ma vero: dove tutti sapevano tutto di tutti, non avevo mai
sentito dire che mio padre fosse ebreo, né che per questo fosse stato
denunciato da un collega, né che fosse già stato sposato, né che avesse
divorziato. Tantomeno potevo immaginare che i miei parenti italiani conoscessero
l'altra famiglia…
Una cugina mi ha confessato candidamente solo
pochi mesi fa di aver giocato con mio fratello «era un bel bambino robusto e
vivace, con gli occhi verdi di tuo padre ma molto più allungati… ricordo anche
la prima moglie di tuo papà: era una donna molto bella, alta, elegante»…
- Perché no ne aveva mai parlato?
- Non lo sapeva. Forse le avevano raccomandato di non farlo…
Cinquant'anni di silenzi!
- Proprio per questo motivo è particolarmente
impressionante leggere la sua lirica intitolata «Ad un'ombra», scritta a quattordici anni dopo un sogno,
solo nell'86 apprese che nel '44 suo fratello Tamás, che viveva in Ungheria e
di cui non sapeva nulla, fu deportato assieme alla nonna materna ed i nonni
paterni [Vedasi pp. 3-4 di questo fascicolo.]… Ha qualche ulteriore
informazione, notizia su suo fratello Tamás?
- Ecco le poche notizie che ho su Tamás Hábermann: nato nel '28 o nel
'29; dopo il divorzio dei genitori era tornato in Ungheria con la madre ed era
stato affidato alla nonna materna. Dal '35 viveva a Baja, dove frequentava il
ginnasio. Fu catturato nel mese di maggio 1944 e deportato insieme alla nonna;
aveva quindici anni ma ne dimostrava di più. Non si sa in quale campo sia
finito né quale sia stata la sua sorte: da quel momento si persero le sue
tracce e mio padre, che l'aveva visto l'ultima volta nel '38, non ebbe più
notizie malgrado le ricerche.
…vorrei sapere se qualcuno ricorda di averlo
incontrato…
- È un dramma, una tragedia familiare purtroppo tra le tante di quel
periodo. Leggendo il suo libro ho sentito che fosse dietro una vera e tragica
storia personale di famiglia, non soltanto un semplice frutto della fantasia di
scrittrice scritta su basi storiche… Potrebbe parlare delle circostanze della
nascita del suo libro?
- Quattro anni fa, in casa di amici,
sfogliavo distrattamente una rivista che non conoscevo. Un trafiletto attrasse
la mia attenzione: per il tal giorno nel tal posto si convocavano i «Figli
della Shoah». Non ne avevo mai sentito parlare Chiesi di che si trattasse.
Quando seppi che riuniva chi aveva subìto direttamente o indirettamente la
persecuzione nazista, presi nota della data e del luogo decisa ad andarci, e
quel giorno mi misi in viaggio. Arrivata a Milano Marittima entrai in un hotel
che pullulava di gente sconosciuta. Mi sentivo il classico pesce fuor d'acqua:
non chiesi informazioni e nessuno mi domandò chi fossi né cosa volessi, non
sapevo nulla di ebraismo e non avevo idea di come sarei stata accolta da quella
comunità. Vagai da una conferenza all'altra osservando usanze ed ascoltando
problematiche ignote finché approdai in una saletta dove si discutevano bilanci
e programmi. Mi parve rassicurante: mi intrufolai in punta di piedi e sedetti
nell'ultima fila… All'ora di pranzo segui la marea vociante che confluiva verso
un buffet rigorosamente kosher: la gente vi si affollava intorno scambiando
saluti, richiami e presentazioni. Nessun viso familiare in quella gran
confusione… «Cosa faccio in questo posto?» mi chiedevo e lottavo contro il
desiderio di andarmene. Ma ero arrivata fin lì perché avevo un problema e, se
volevo risolverlo, dovevo restare… Seduta al tavolo di quell'hotel, avendo da
un lato Paolo Ruggero Jenna che leggeva il rivoltante tema di un neonazista e
dall'altro Daniel Vogelmann che lo commentava con rassegnata ironia, pensavo a
questo quando dissi: «non so se ho diritto di far parte dei figli della Shoah,
ma se vi raccontassi la mia storia, forse potreste…» Era il 1998. Diventammo
amici. L'anno successivo ci trovammo con altri figli della Shoah per due giorni
che trascorremmo a parlare di noi sotto la guida di una psicologa, Dina Wardi.
Rientrata a casa iniziai a scrivere. Da quel sentimento confuso, spesso
antitetico, difficile da analizzare, mutevole, sfuggente che mi aveva trascinato
a Milano Marittima, dal desiderio di raccontarlo e nello stesso tempo di
testimoniare, è nato un libro: «L'ultima
lettera per Tibor». L'ho dedicato a mio padre, in memoria di mio
fratello Tamás e dei miei nonni Andor e Málvin. Le poche pagine dedicate alla
Shoah, essenziali per delineare il carattere di Tibor, il protagonista, sono
ispirate alla storia della mia famiglia. Sono trascorsi ormai quattro anni da quando ho bussato alla
porta, lottando fra rifiuto dell'identità e ricerca di identificazione, fra
dubbi laceranti ed improvvise certezze. Non sono ancora arrivata a vedere
nitidamente la verità e non so se mai riuscirò a chiarire tanti punti, ma
sonono contenta di aver cercato il mio posto fra i figli della Shoah… [N.d.R.:
Questa storia raccontata l'ha pubblicata
sulla loro rivista intitolata «Per
non dimenticare» sul N. 6 del gennaio 2002, pp. 21-22.]
Durante l'attesa dell'appuntamento alla libreria caffè Tikkun, tra
racconti di esperienze di vita del passato e del presente, ho avuto la fortuna di
ascoltare anche alcuni stupendi brani suonati a memoria sul pianoforte dalla
pianista Anna Maria Hábermann di Beethoven, Mozart, Brahms, Schumann,
Tsajkovskij. La mattina successiva, durante la colazione, prima della
passeggiata turistica milanese e poi prima della separazione ho avuto un altro
privilegio: quello di ascoltare -
lette da lei stessa - le sue liriche scritte sui quaderni negli anni
Cinquanta da ragazzina, poi quelle create recentemente, dato che da poco ha
ripreso scrivere poesie.
Ringrazio nuovamente per la deliziosa ospitalità riservatami e colgo
l'occasione per riportare una sua lirica
tra le tante ascoltate:
quando
un nodo alla gola
quando
resiste al pianto
quando
la mano amica
quando
lascia la tua mano
quando
un volto svanisce
quando
nella memoria lontano
quando
il tempo finisce
quando
una lettera invano
quando
attendere sempre
quando
la speranza tramuta
quando
ferisce l'inganno
quando
il dolore dell'addio
quando
spegne il sole
quando
l'assenza
quando
la vita
quando
quando
(gennaio 2002)
Foto © di Melinda
Tamás-Tarr/Osservatorio Letterario
ECO D'OTTOBRE…
Anna
Maria Hábermann e Vittorio Mangili
Il 30 ottobre scorso, dopo
l'introduzione della dottoressa Anna Maria Hábermann ho avuto l'onore di
presentare il suo libro
intitolato «L'ultima lettera
per Tibor» (Ed. Giuntina, Firenze, 2001, pp. 126, € 10,33) presentato
dal ns. fascicolo dell'edizione precedente, presso la prima libreria caffè di Milano: Ticcun, assieme al
giornalista Vittorio Mangili, inviato speciale Rai nel 1956.
Ero così emozionata che non ho
praticamente detto niente secondo lo schema dei miei appunti, ma ho parlato a
braccio delle mie esperienze familiari dirette ed indirette che riguardavano il
periodo della seconda guerra mondiale e della rivoluzione del '56 e degli anni
successivi.
Mi si permetta di
continuare i miei pensieri con le parole di Joseph Conrad. Egli così si esprimeva: «Il compito che
mi spetta e che cerco di assolvere è di riuscire, col potere della parola
scritta, a farvi udire, a farvi sentire… di riuscire, soprattutto, a farvi
vedere.»
Chi decide di mettersi a scrivere di solito lo fa perché ha qualcosa da
dire. L'affermazione sembra banale o un luogo ormai comune mentre merita invece
di essere presa sul serio, anche in considerazione del fatto che è già stata fatta da Francis Scott
Fitzgerald il quale sosteneva che «Non si scrive perché si vuol dire qualcosa;
si scrive perché si ha qualcosa da dire». Cosa rappresenta l'espressione
«abbiamo da dire»? Nient'altro che il contenuto del testo, l'espressione dei
nostri pensieri, quello quindi che si definisce «il tema dello scrittore».
I temi della narrativa riguardano, tradizionalmente, i
vari aspetti della condizione umana. Amore e morte, religione e giustizia,
origini e destino, sofferenza e aspirazione alla felicità sono le principali
tematiche tratte dall'esperienza umana che, nelle varie forme, costituiscono da
sempre spunti di riflessione per
scrivere. I filosofi, sin dagli albori della civiltà, hanno analizzato queste
tematiche fondamentali e le hanno discusse in saggi e trattati.
Avere un tema da trattare è patrimonio di tutti. Quello
che cambia è il modo di esporlo.
C'è una cosa molto importante quanto riguarda lo scrivere: chi scrive
deve coinvolgere il lettore suscitando una reazione emotiva.
- Gli strumenti universali dello scrittore per creare un corpo narrativo
sono i personaggi e la trama.
- È importante un inizio efficace:
con l'incipit è bene interessare,
coinvolgere e stimolare subito il lettore.
E questo libro di Anna
Maria Hábermann corrisponde a queste pretese teoriche e le appena citate
principali tematiche dell'esperienza umana sono gli ingredienti di questo
volume.
Ci troviamo di fronte ad un breve romanzo di una delicata storia d'amore
che drammaticamente s'intreccia con la Rivoluzione ungherese del 1956 scoppiata
il 23 ottobre e soffocata il 4 novembre sotto i colpi dell'intervento militare
e politico orchestrato dall'allora Unione Sovietica la cui azione era stata
pienamente approvata dagli dirigenti cinesi dell'epoca e dai paesi a regime
comunista confinanti con l'Ungheria.
Al capitolo introduttivo veniamo subito a conoscenza del vero
palcoscenico storico, il quale è: la terra magiara.
Filo conduttore del racconto è l'ultima lettera che la protagonista
Chiara scrisse nel 1956 a Tibor, il giovane ungherese di cui era innamorata. La
lettera mai giunta a destinazione -
fenomeno non raro fino alla fine degli anni Ottanta! -, sarà restituita
a Chiara da un messo dell'ambasciata ungherese solo dodici anni dopo.
Rileggendola, la protagonista femminile rivive il passato e trascina noi
lettori in un'atmosfera veramente carica di tensione che, attraverso una
progressiva introduzione al clima politico dell'epoca, sfocerà nell'appena
citata rivoluzione.
Tramite i loro incontri e le lettere diventiamo testimoni della nascita
di un grande amore tra due giovani di diverse nazionalità: una donna italiana ed un uomo ungherese,
incontratisi nella Grecia estiva che costituisce un ottimo sfondo romantico
della loro storia d'amore, di tre giorni trascorsi insieme spensieratamente in
contrapposizione alle tragedie vissute da Tibor. Attraverso la loro stupenda e
delicata storia d'amore che è carica di nobili sentimenti e profondi pensieri,
con i loro colloqui spirituali orali ed epistolari si scoprono alcune tragiche
realtà dell'intera storia umana. Infatti durante i tre giorni trascorsi in compagnia, Tibor rivela le sue sofferenze che lo tormentano
continuamente, aprendo così davanti ai nostri occhi una pagina nera tra le
tante della nostra storia. Così possiamo conoscere alcune abitudini, tradizioni
e tragedie oltre che della sua
famiglia anche delle tante famiglie ebraiche nel periodo della seconda guerra
mondiale.
(Qui fra parentesi accenno che
è vero, l'ebraismo e
l'identità ebraica erano ancora un tabù, intorno al 1975 come - come del resto fino al cambiamento
del regime di 13 anni fa i fatti veri della rivoluzione ungherese del '56 -, ed
i lager venivano citati in primo luogo come le prigioni dei comunisti. Ci si
aspettava che, scrivendo di questo argomento, lo si facesse in tono lamentoso, quasi
chiedendo giustizia al creato e alla civiltà. Era obbligatorio sottolineare
l'unicità degli eventi, mantenere una certa distanza, ideologizzare i fatti...
Non si tolleravano né una libera opinione né una concezione originale,
soprattutto non si tollerava la verità. La cortina di menzogne che copriva ogni
cosa è veramente paradossale. Noi, invece in quegli anni abbiamo studiato poi
insegnato che era l'opera dei tedeschi. Adesso però si scopre che i lager
furono realtà sia dei tedeschi che dei russi…I tedeschi portarono via gli
ebrei, ma anche coloro che li nascondevano o aiutavano, mentre i russi prima di
tutto tutti quei cittadini ungheresi che hanno avuto cognome tedesco
considerandoli tutti tedeschi relegandoli nei lager del «robot», cioè dei
lavori sforzati, poi dopo senza distinzione catturarono tutti ovunque...
Tramite il racconto di Tibor il lettore viene informato non soltanto delle
atrocità dei tedeschi, ma anche dei russi allora chiamati sovietici e
filosovietici…)
Dopo la separazione di Chiara e Tibor, tramite la loro
corrispondenza ci troviamo in mezzo alla rivoluzione ungherese. In un crescendo
ritmato dalle trasmissioni radiofoniche che contro l'occupazione sovietica
invocano l'aiuto dell'Occidente al popolo magiaro si giunge alla fuga da
Budapest di Chiara che aveva cercato di raggiungere Tibor.
Tra parole d'amore, angosce, dubbi d'amore scopriamo la personalità di
Tibor che si dedica completamente ad una grande causa: alla lotta per la
libertà della sua nazione che lo rende più duro e spiritualmente forse anche
più distante da Chiara: l'amore per una giusta causa, per la patria non lascia
tempo per i sentimenti personali.
Il vero protagonista, Tibor, salvo qualche incontro con Chiara, compare
nel libro attraverso le parole degli amici. Per Chiara, che lo raggiunge nei
giorni bollenti della Rivoluzione e che vive rinchiusa in una cantina
soccorrendo i feriti, lui è irraggiungibile. Lei partirà senza rivederlo e
senza sapere quale sorte egli abbia avuto. Lascerà la lettera ed un diario ad
Erzsi (diminutivo dell'Erzsébet, corrispondente ad Elisabetta), zia di Tibor,
sperando che egli un giorno possa leggerli. «Sarà ancora vivo?» è la domanda
che serpeggia dalla prima fino all'ultima pagina…
Tutte le parole, sia quelle che riguardano gli avvenimenti storici che
quelle dei loro sentimenti penetrano fino al fondo dell'anima.
Alla fine, i fatti concreti della rivoluzione sono raccontati sulle
pagine del diario di Chiara. È un
libro molto interessante e bello, si consiglia di leggerlo perché aiuta il
Lettore a diventare più ricco di emozioni e di conoscenze di un pezzo della
storia d'Ungheria che viene ancora ignorata da gran parte degli Italiani… È un
altro pregio di questo volumetto che gli avvenimenti comunque sono presentati con
una giusta misura, con una giusta obiettività che però non esclude alcune
annotazioni emotive esprimendo severi giudizi, condanne morali sia verso tutte
le atrocità ed ingiustizie che verso i grandi poteri dell'Occidente di allora
per il mancato intervento in risposta alla disperata richiesta d'aiuto del
popolo magiaro: l'attenzione - come si fa riferimento anche in questo libro -
dell'opinione pubblica internazionale fu distratta dagli avvenimenti ungheresi
dell'autunno del 1956 dalla crisi del canale di Suez, ma non si trovò comunque
nessuna grande potenza occidentale ansiosa di intervenire.
In conclusione ribadisco il bilancio della rivoluzione soffocata nel
sangue: 46.000 morti in cinque mesi, 75.000 deportati in Russia, di cui 8.000
non sono mai ritornati. 228 esecuzioni a cura del governo Kádár, tornato a
bordo dei furgoni dei sovietici e da loro imposto… Oltre ad un imprecisato
numero di scomparsi, dal novembre del 1956 si erano dati alla macchia circa
25.000 ungheresi mentre tra il
1960 ed il 1963 circa 36.000 ungheresi risultavano ancora essere deportati in
Unione Sovietica...
Questo libro mi invita anche a riflettere e trarre alcune conclusioni ad
es.: La guerra, la violenza, l'oppressione non risolvono mai niente, non
portano niente di buono. La diversità deve essere vissuta come una ricchezza
culturale e personale, come un allargamento di visione di vita e di prospettive
più larghe e non come fonte dell'odio ed inimicizia, ma per la pace! E questo
argomento ora purtroppo è più attuale che mai…
Dopo la mia relazione abbiamo assistito prima all'interessantissimo
intervento sulle esperienze personali di cronista del giornalista Vittorio
Mangili e poi abbiamo visto il film documentario girato da lui per la RAI in
quei giorni tragici della rivoluzione magiara. Quelle pellicole erano state miracolosamente salvate e portate fuori dall'Ungheria. Il
giornalista per 30 anni non ha potuto mettere piede in Ungheria altrimenti
avrebbe
rischiato l'arresto immediato.
I venti sono scambiati, ed anche il regime:
Vittorio Mangili quest'autunno ha ricevuto l'alto riconoscimento dal Presidente
della Repubblica d'Ungheria.
Al termine dell'incontro il Console Generale Géza Raffai del Consolato Generale (sulla foto) della Repubblica d'Ungheria a Milano ha
contribuito con alcune parole alla conclusione della serata, come un adeguato
accordo finale per l'occasione.
Terminata la serata di
presentazione, ho chiesto ad Anna Maria Hábermann di scrivermi una dedica sulla
prima pagina del suo libro che ho letto tutto d'un fiato, in ricordo della nostra conoscenza, di questa
serata, della bella amicizia appena nata, delle ore milanesi trascorse insieme
come due vere sorelle per tanti aspetti comuni; lei italiana ed ungherese di
religione cattolica ed ebrea, io ungherese di nascita di doppia cittadinanza e di credo cattolico: «A Melinda attraverso Janus Pannonius è nata
un'amicizia che durerà perché siamo… come due gocce d'acqua: sempre con un
sorriso anche attraverso le lacrime. Con affetto, Annamaria Hábermann…»
Dal
23 ottobre all'11 novembre abbiamo vissuto il 46° anniversario di quei tragici
giorni, oggi considerati ufficialmente «rivoluzione e guerra per la libertà»
come quella del 1848… Questa presentazione è stata anche un'ottima opportunità
per una, sua degna commemorazione...
(Foto © di
Melinda Tamás-Tarr/Osservatorio Letterario)
[M.T.T.]
© Dr.
Bonaniné Tamás-Tarr Melinda