OSSERVATORIO
*** Ferrara e l'Altrove ***
ANNO VII – NN. 31/32 MARZO-APRILE/MAGGIO-GIUGNO 2003 FERRARA
DIARIO DI LETTURA & PRESENTAZIONI
Galleria Letteraria & Culturale Ungherese:
Lirica ungherese
Dsida Jenő (1907-1938) |
|
CSOKONAI*
SÍRJÁNÁL «A Reményhez» című Csokonai-vers dallamára énekli másfélmillió zarándok Hol bolyong a lelked, szólj, Csokonai! Szólítnak a lelked bús rokonai, szólítnak, keresnek, hívnak epedőn, ődöngvén a keshedt ódon temetőn. Vén fejfák közt vánszorogva, Erdélyből jövén, vágyunk állni szívszorongva sírhalmod tövén, állni hajtott fővel mozdulatlanul, írott néma kővel szólni szótlanul. Megmozdul a szellő, porladt rokonok melléből lehellő, - zizeg a homok, zizegnek a lombok és amerre látsz, hajladozva bólog, reszket az
akác. Bú a szívben,
könny a szemben. Hirdeti a kő: Itt született
Debrecenben s itt pihent
meg ő, Hatvan
utca-végen fekhelye
vagyon, teste
régesrégen homok, dudva,
gyom. Minden
ismerősid rád támadtanak, rád dőltek az
ősi kollégyom-falak, zargatták a
költőt morc
professzorok, átkokat
üvöltött mindenegy
torok. Te meg mentél,
vándoroltál, száműzött
szegény s veled ment az
ősi oltár, veled ment a
fény. Bakony-erdőn
ágyat múzsakéz vetett s békötözte
lágyan sebhedt
szívedet. Ám a tiszta
hűség tovább
megmarad, mint a
keserűség s a kemény
harag. – Mint eb, kit a
gyatra gazda elzavart, fordul
alkonyatra, megtér, hazatart. Te is mentél
széllel szembe, árnyad egyre
nőtt, visszatértél
Debrecenbe a halál előtt, itt hulltál
romokba, mikor este lett s rejtéd hűs
homokba lázas testedet. Merre leng a
lelked? - szólj,
Csokonai! Szólítnak a lelked dúlt rokonai, űzöttek, bolyongók, megvert magyarok, kikre ordas gondok szája agyarog, sírodat, mint dús, nagy asztalt, ülik körbe, lásd: akit senki sem vígasztalt. adj vígasztalást! Etess meg ebéddel, adj hit-falatot, itass meg igéddel, bölcs magyar halott! Megelendül a szellő, szólva száll a szél, sírokból lehellő légáram beszél, leng, suhogva hajlik, borzong, merre látsz, tengerként morajlik, zsong ezer akác. Halk sírással felidézett hangok zengenek. Mily káprázat! Mily igézet! Végigrengenek a sírok idővert korhadt csonkjai, zúg a temetőkert, szól Csokonai: Halld beszédem imhol. Hazád az a föld akkor is, ha gyilkol és ha már megölt, és ha házad, ólad füstölgő romok s fut a föld alólad, mint futóhomok. füstölgő romok s fut a föld alólad, mint futóhomok. Nézd, Debrecen porhomokja futna szerteszét, de akácok marka fogja, tartja a kezét, ölelik, csittítják, izmos és kerek karjukkal szorítják szívós gyökerek. Halld: a tiszta hűség tovább megmarad, mint a keserűség, s a kemény harag. Míg a földön csúszol s napnyugtáig érsz, százszor elbúcsúzol, százszor visszatérsz. Lehet, földed úgy ereszt el, mint gaz mostoha, de ha egyszer belefekszel, nem dob ki soha, mikor ágyat vet majd s végkép befogad, szíjas gyökeret hajt csontod és fogad. Menj haza akácul s ha nyugonni tér tested és aláhull, légy te a gyökér, holtak itt is, ott is, több már el se fér, millió halott és milliárd gyökér. Vezekel az ősi vétek ősi föld alatt. Holt karokkal öleljétek, míg el nem szalad, szőjétek keményen újra át meg át s megkötött fövényen játszik unokád”. Elhallgat a szózat. Egy bozontos ág, egy fűszál se borzad. Méla némaság. Csak bent zsong a zsoltár: Hálánk csókjai illetnek, hogy szóltál, jó Csokonai! Vándorbotunk, régi jussunk, vígy a homokon! Induljunk, hogy hazajussunk! Ég veled, rokon! Béborult a hűs ég, hűs esője sír. Hazahív a hűség s otthonunk a sír. |
SULLA TOMBA DI
CSOKONAI* Un milione mezzo di pellegrini la canta sulla melodia della poesia «Alla Speranza» di Csokonai Dove erra la tua anima, parenti della tua anima, Trascinandosi fra croci di legno, ai piedi del tuo sepolcro, stare a testa china immobili, con una muta pietra incisa parlare senza parole. Si muove un soffio di vento, un'aura dal grembo di parenti ridotti in polvere, - uno stormir di sabbia, uno stormir di fronde ovunque tu guardi, e l'acacia tremula che piegandosi annuisce. Tristezza nel cuore, lacrime agli occhi. Proclama la pietra: Qui a Debrecen nacque ed ebbe qui egli riposo, in fondo a via Hatvan trovasi il suo giaciglio, è il suo corpo da tempo remoto polvere, malerba, gramigna. Chi ti conosceva mura del collegio, la gola di ognuno. e dolcemente fasciò il ferito tuo cuore. E però la fedeltà pura padrone ha
scacciato via, torna indietro al tramonto, si gira e verso casa si dirige. Anche tu andasti contro corrente, tornasti a Debrecen e nascondesti nella fredda polvere Dove si aggira la tua anima? parenti della tua anima, azzannano, Si alza un soffio di vento, oscillano, frusciando si piegano, da un pianto sommesso. i monconi marciti Ecco, ascolta le mie parole. e la terra ti manca sotto i piedi Guarda! Le ceneri di Debrecen vorrebbero spargersi ovunque, ma il palmo delle
acacie le trattiene, e forti radici le abbracciano, le calmano e le stringono con possenti braccia aperte. Ascolta! La fedeltà pura resta intatta e la cruda rabbia. mille volte prenderai congedo una matrigna
malvagia, radici possenti metteranno le tue ossa e i tuoi denti. Vai a casa come fossi un'acacia e se a riposare torna e miliardi le radici. Sotto terra antica la vecchia colpa si espia. Di braccia inerti cingetelo A ciò ché non sfugga, di trame salde intessetelo vieppiù avanti e all'indietro e sulla rena fattavi presa gioca tuo nipote.”
Non di folto ramo, Né d'un filo d'erba i brividi. Mutismo malinconico. Dentro ronza il salterio. I baci della nostra gratitudine ti spettano per aver parlato buon Csokonai! Tu, nostro bordone, antico privilegio, portaci sulla sabbia! Partiamo per far ritorno a casa! Addio, fratello! Di nuvole fresche si è coperto il cielo, la fresca pioggia piange. La fedeltà ci chiama e casa nostra è la tomba. |
* Si pronuncia:
'cioconai' [N.d.R.] |
Traduzione © di Amedeo Di Francesco |
Confesso di provare un certo imbarazzo nel presentare in traduzione
questa poesia che è uno dei testi fondamentali del transilvanismo. Non è il
tema ad infastidire, quanto piuttosto l'inadeguatezza nel riferire
compiutamente l'apparato delle immagini e gli artifici linguistici di questo
testo semplice e grave, pensoso e sbarazzino, inesorabile ma non disperato. Si
accolga pertanto questa traduzione nel segno della irraggiungibilità della
perfezione e nell'attesa di una rilettura diversa. Anche perché vorrei che si
sapesse che l'incespicare della traduzione è talora volutamente ineluso, perché
mi propongo soprattutto come un lettore che non può non ansimare nella profonda
empatia che suscita la fruizione del testo originale¹.
Il tono del componimento è lieve, accorato, mai violento.
Anticipa la greve sinfonia dello Psalmus Hungaricus, ma non ne condivide
il disperato grido di rivolta. Csokonai, studente del Collegio protestante di
Debrecen, qui assurge a simbolo della situazione politica e storica ungherese.
Se il perentorio pronome di seconda persona e i suoi suffissi derivati si
rivolgono all'Ungheria, i conoscenti sono i popoli più vicini che le si sono
rivoltati contro e le mura del collegio rappresentano i confini ormai inesistenti, violentati, di
un'Ungheria decisamente altra. Gli accigliati professori, incapaci di
comprendere uno studente geniale, sono i potenti della terra che al tavolo
della pace non sono riusciti a comprendere la realtà ungherese e quella
europea. E allora tutto un popolo, come Csokonai il poeta, ha dovuto scegliere
la via dell'esilio e la catarsi del pellegrinaggio. Soltanto la poesia riesce
in qualche modo ad alleviare la cocente ferita. La dimensione allegorica è sin
troppo evidente: però piace questa inaspettata identificazione delle sorti
d'Ungheria con la vicenda esistenziale del poeta illuminista. Questa
identificazione è inaspettata perché moderna, perché non appartenente alla
tradizionale geremiade sulla storia millenaria degli ungheresi. La modernità
consiste, a parer mio, in questa capacità di Dsida di riferire una situazione
nazionale all'individualità di uno studente sui generis. Il riferimento
alla poetica di Csokonai è moderno anche perché instaura un particolare
rapporto intertestuale che supera la dimensione letteraria, per divenire
intertestualità esistenziale, storica, filosofica, almeno nel senso della
condivisione di una comune esperienza del mondo. Csokonai, infatti, non una
volta e non a caso si ritrova al centro di percorsi intertestuali che arrivano
fino al post-modernismo di un altro poeta transilvano, Domokos Szilágyi, morto
suicida nel 1976. Ciò significa che quella di Csokonai è poesia antiretorica,
che esprime la situazione ungherese senza i falsi orpelli della tradizionale
fraseologia di un nazionalismo spesso vacuo e immotivato. L'ossimoro come
simbolo più autentico della situazione ungherese non è dato solo dall'antitesi
dell'ultimo verso, ma dall'intera ripetuta condizione antitetica che si ripete
in ogni verso, accentuata volutamente dal gioco ripetuto dall'allitterazione. E
tutto ciò in funzione di un tono profetico e concitato che – riferito alla
situazione contemporanea al poeta – non può non rivolgersi a tutti quegli
ungheresi che, allora e tuttora esiliati più o meno volontariamente, dopo il
'45 o dopo il '56, son rimasti comunque fedeli alla propria identità culturale.
E l'evidente ritmo spezzato della struttura ritmica dei versi è lì ad esprimere
il senso vistosamente onomatopeico di questa poesia che vuole essere una specie
di singhiozzo interiore.
¹ Cito e traduco da Dsida Jenő válogatott versei. [Poesie scelte di
Jenő Dsida], a cura di Zoltán Jékely e con prefazione di Balázs Lengyel, Budapest 1980, pp. 145-150. Ringrazio Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis per i loro utili e preziosi suggerimenti.
Amedeo Di Francesco*
* Prof. Amedeo Di Francesco è ordinario di Lingua e Letteratura Ungherese all'Università
di Napoli e Presidente dell'Associazione Internazionale di Studi Ungheresi. [N.d.R.]
Prosa ungherese
Piroska Csorba — Miskolc
(H)
V'È UN GRAN SILENZIO
L'hanno presa a braccia e portata fuori. Il cortile è
un lungo rettangolo piatto. Davanti casa c'è una panca pitturata di rosso cui
svolazzano sopra, fissati ad uno spago, dei pezzetti di carta. È stata
verniciata al mattino. Un po' più in là un tavolo di lamiera verde. Vi mettono
a sedere sopra la nonnina1). Non essendovi nulla contro cui
appoggiarsi, il corpo di lei è un po' inclinato da una parte. L'assicurano con
la mano sinistra al tubo di ferro che sostiene la pergola. Così, stretta al
ferro, sta seduta più sicura. Ha il dorso curvo, il collo lungo, solleva il
capo coperto da un fazzoletto nero. Le gambe le penzolano nel vuoto. Il tavolo
è alto, la nonna è minuta.
L'uva non ha ancora aperto i suoi pampini, il sole le
picchia proprio in faccia. Il viso della nonna è pallido come i germogli che in
cantina cominciano a crescere sulle patate. Da quel viso smorto il naso si leva
ossuto, affilato. La nonna ha di carne quel tanto che pudicamente ricopre
quello che lei diventerà tra non molto: le sue ossa. I suoi occhi sono uno
stanco mare d’un azzurro sieroso. Novantasette anni vi sono negli occhi della
nonna.
—Siedi qui! C'è il sole!— le parole giungono
articolate, ad alta voce, quel che vogliono significare deve essere sbrogliato.
È un compito ingrato. Non vi si affatica. Come fanno i bebè con le cose
infilate loro nelle manine lei stringe il tubo di ferro con la sinistra, la
destra è una macchia scialba sul nero grembiule.
La bambina gioca nella sabbia.
Le parlano, le portano qualcosa. Le voci sono lontane,
non si distingue una parola dall'altra. Di esse la nonna non afferra nulla, non
volge neppure il viso nella direzione da cui provengono. Sente poi la chiusura
del cancello, qualcuno ancora grida qualcosa.
La Trabant va in moto. Accelerano, mollano la
frizione, partono. La bimba si gira, fa con la mano un cenno di saluto verso la
macchina, poi torna ad accovacciarsi. Prepara una palacsinta2) con la sabbia. La pasta della palacsinta non vuole amalgamarsi, la
impasta vanamente. Occorrerebbe un po' d'acqua.
L'acqua c'è. È là nel cestino, accanto al pane
imbottito di burro e miele avvolto nel tovagliolo. «In caso ti venisse fame o
avessi sete» avevano detto i genitori.
La pipì sa già farla da sola. E poi sola non è. Guarda verso la nonnina, sta seduta
sul tavolo, le due esili gambe come di cornacchia penzolano nell'aria.
—Nonnina!— grida la bimba —Metto l'acqua nella palacsinta!
Toglie il tappo dalla bottiglia e versa. Non riesce a centrare
il secchiello, la sabbia assetata assorbe l'acqua. La bimba scrolla la testa e
versa di nuovo. Sparge con la paletta la sabbia nel secchiello poi la rimescola con un dito.
L'assaggia più volte:
—Squisita, manca solo il sale!— e col movimento appreso
dalla mamma fa roteare il nulla fra le due dita.
Alla nonnina le gambe formicolano e si fanno pesanti,
come se la tirassero giù. Due formicolanti pesanti gambe trafitte da aghi. Gli
sparsi formicolii poi si dileguano, non sente più nulla, neppure la mano che
stringe obbediente il tubo di ferro. Il sole le copre il volto d'una luce
gialla. I suoi occhi galleggiano nel siero. Fa un bel caldo, un bel caldo
sacrosanto.
—Faccio una torta, una palacsinta e benzina— elenca la bimba e versa nei recipienti
l'acqua fino all'ultima goccia.. Con un bastoncino rimesta, amalgama,
capovolge, monta, appiccica. Se ne impiastriccia i calzini bianchi.
—Dipingo le calze! Dipingo le calze!— si mette a
piroettare davanti alla pergola —Sono belle le mie calze?
La nonnina tace. La bimba le strattona gonna:
—Guarda, sono belle le mie calze?— siccome da lassù in
alto non giunge alcun suono di voce dà un altro strattone alla gonna nera.
L’anziana donna perde l’equilibrio corporeo che sinora
aveva avuto, si piega con la schiena, ma la sua mano continua a tenere stretto
il tubo. La sente la voce. Fa un cenno col capo. Se parlano, si deve fare
cenno. È così di certo, va bene sicuramente. Loro lo sanno.
La bambina torna indietro di corsa, si sdraia nella
sabbia e vi si interra. Non ne restano ormai fuori che i piedi calzati dai
sandali, le mani e la testa. La sabbia è bella umida tuttavia lei suda. Le si
comincia ad imperlare la fronte. Ha sete.
Nel cielo il sole s’è portato più in là, esattamente
dietro al pollaio. È probabile che a soffocare i polli non sia neppure la
puzzola, ma il sole. S'avvicina gironzolando tutta zitta e s'arrampica da
dietro nello spiraglio, succhia il sangue alle galline. La bambina si spaventa,
comincia ad urlare. Scappa da sotto la sabbia, solleva la bottiglia. Vuota. Ha
usato l'acqua per cucinare. Solleva il fazzoletto, nel cestino ecco il pane col
miele. Acqua, niente. Corre verso la porta, si spinge in punta di piedi verso
la maniglia. L'hanno chiusa.
—Mamma! Mamma!— strilla. Poi le tornano in mente le
parole… «Facciamo ritorno tra non molto… fai la brava bimba…»
—Nonnina!— si solleva più che può in punta dei piedi
—Ho sete. Dammi da bere!
La nonnina volge il viso in direzione del sole. La
bambina le strattona con ambo le mani le gambe. Lei sente nuovamente delle
fitte nella pianta del piede, lungo la gamba. La sua mano si sposta incerta
nell'aria, non ritrova la posizione di prima, cade sulla gonna nera accanto
all'altra.
La bambina corre piangendo verso la sabbia. In fondo
ad un secchiello c'è un pizzico d'acqua. Solleva il recipiente, beve da esso.
La bocca le si riempie di sabbia, comincia a sputacchiare. Corre di nuovo verso
il tavolo, strattona la gonna nera, le gambe coperte dalle calze nere, chiede
piagnucolando di bere. La nonnina fa cenni sempre più assidui. Qualcuno parla,
quindi occorre far cenni. A far cenni con la testa poi zittiscono sempre.
La bambina urla fuori di sé, picchia con ambedue i
pugni le ginocchia della nonnina, riesce a giungere giusto lì, all'orlo del
tavolo. Comincia poi a calciare, calcerebbe la nonnina, ma va a vuoto. Quando
le sue mani si stancano, lei torna
ad insabbiarsi. Ha già pure dimenticato perché piangeva, ma singhiozza,
piagnucola, ha tremiti in tutto il corpo. Si sdraia, si pone in testa il
cestino che conteneva il pane. Ecco che c'era e non c'è già più, la possono
pure cercare, ma lei non verrà più fuori.
In testa alla nonnina romba un gran autobus. Un
autobus come quello che passava davanti casa. Non davanti a questa casa, ma ad
un'altra. Là l'autobus adesso romba e non vuol saperne di fermarsi. Va a gran
velocità, sempre più veloce. Le procura vertigini. Le dieci dita della nonnina
stanno aggrappate alla gonna nera.
Non scorge nemmeno più il sole, anche la luce gialla
prende a vorticare. Che bello che l'autobus giri assieme a lei! Non è nemmeno
un autobus, si direbbe una giostra. Dapprima era seduta tra i tubi e si faceva
portare in giro torno torno . Ora sta seduta là in aria, dinanzi le sfuma
tutto, vola ad una velocità così tanto sbalorditiva.
L'aria le esercita pressione sul capo, sarebbe bello
volgerlo completamente da un lato, potrebbe essere una sensazione buona, piacevolmente dolce. Si abbandona allo
stimolo che le viene dal profondo, inclina la testa di lato e continua a volare
così. Non sente ormai più il rombo dell'autobus, aveva ben capito lei che non
era un autobus questo, ma una giostra. Gli altri sono dabbasso e guardano
all'insù. Lei non guarda da nessuna parte, il turbine le spinge la testa di
lato.
La testa della nonnina si china da un lato ancora un
po', il suo centro di gravità si sposta ed il corpo di lei s'inclina. Si
schianta a terra allato del tavolo. La superficie davanti casa era stata tutta
fatta per bene in cemento. Il che è bene, non si porta in casa né il fango né lo sporco.
Non la bocca, non gli organi interni della nonnina
bensì le sue ossa emettono una specie di suono. Le sue membra si contorcono
stranamente. I suoi pallidi occhi azzurri fissano verso l'alto stupiti.
Da sotto il cestino la bambina sente il rumore, crede
sia lo sbatacchiare dello sportello dell'auto.
—Non faccio capolino proprio per un bel niente!
Cercatemi pure!— pensa —Sono in collera con voi… Non sono da nessuna parte…
Cercatemi pure! Cer - ca - te - mi!—
scandisce sillabando. Mormora poi rivolta a sé stessa:
—Ho gli occhi di talco.
Emette un sospiro, le palpebre le si chiudono, s'è
addormentata.
V'è un gran silenzio. Il sole è sparito sul retro del
pollaio. Ora veramente succhia forse il sangue alle galline.
1) Preferiamo qui
tradurre «dédike», letteralmente «bisnonna», con il termine italiano «nonnina».
2) «Palacsinta» lasciata in lingua
originale nel testo, è un piatto molto noto in Ungheria, una specie di «crêpe» preparata
in diverse varianti. Si pronuncia: 'palacinta', coll'accento sulla prima
sillaba.
Traduzione di © Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis
Katalin Kéri (Kate
Carry) — Pécs (H)
ANNA E IL MARE
Per quanto le ragazze si pavoneggiassero, per quanto
si facessero belle e sorridessero con occhi maliziosi, sapevano tutte che nel
villaggio la più bella era Anna. Era una ragazza delicata, eterea, dai lunghi
capelli castano scuri e lo sguardo trasognato. Nel percorrere la via maestra il
suo fisico, il suo incedere, allietava finanche la vecchia strada polverosa. A
lei s'inchinavano le acacie e le margherite rimanevano stordite dal profumo di
lei. Le nubi erano stupefatte della sua bellezza e pure il ruscello iniziava
lieto a gorgogliare quando piano lei camminava sulla sua sponda.
—A chi appartiene, Anna, il tuo cuore? Chi è che tu
ami?— sospiravano i salici, ma la ragazza si limitava a sorridere. Libero era
il suo cuore, spensierato e gaio come gli uccelli.
Le piaceva star sola. Se ne stava spesso seduta in
riva all'acqua, il bordo della gonna raccolto alle ginocchia, e sognava
stupendi paesi lontani. In vita sua s'era allontanata dal proprio paese due sole
volte, avrebbe però voluto tanto viaggiare. Era stata una volta con la madre
nella grande città vicina ed un'altra volta, invece, nell'attiguo villaggio per
i funerali del bisnonno. Sua aspirazione era vedere il gran mondo, viaggiare su
enormi bastimenti dondolanti come li aveva visti sui libri.
—Cosa faresti tu poi al mare, figlia mia?— le chiese
una volta il padre dagli occhi tristi.
—Come che cosa? Starei a guardare l'acqua, proverei a
toccare le onde che s'increspano ed ascolterei il canto del mare— rispose Anna,
e a sentir ciò anche suo padre sorrise.
—L'acqua la puoi guardare anche qui, al limite del
nostro villaggio, non occorre che per questo tu lasci la tua terra natale—
rispose, e la ragazza così aveva fatto.
Ogni pomeriggio, terminate le faccende intorno a casa,
lavato anche l'ultimo piatto di terracotta, si dava con le mani una ravviata ai
capelli e piroettando lasciava la cucina.
—An-na, An-na— ticchettava l'orologio da parete e pure
i tacchi delle scarpe picchiettavano il suo nome.
—Anna va al ruscello— dicevano l'un l'altra le vecchie
che dopo pranzo si ritiravano a riposare sotto gli alberi sul ciglio della
strada.
Ogni sabato sera, in riva al ruscello, c'era sempre una gran festa da ballo.
Ragazzi e ragazze che bene conoscevano anche Anna giungevano anche dai villaggi
vicini. Le ragazze osservavano invidiose il suo magnifico aspetto, la sua
epidermide vellutata, ogni sua movenza, mentre invece i ragazzi cercavano di
starle accanto costantemente.
—Anna, bellissima Anna, vieni a ballare con noi!— la
supplicavano, ripetutamente la invitavano, ma la ragazza scrollava il capo
solamente. Non amava danzare con qualcuno se non da sola quando nessuno la
vedeva. Preferiva guardare gli altri, la loro turbinosa sfrenata allegria senza
però mai aggregarsi a loro.
—Fra un po'— rispondeva sempre sorridente, ma il tempo
che gli altri andassero e tornassero e lei già s'era fatta di nebbia. Quando la
musica si levava più alta e sotto i piedi dei danzanti l'erba si faceva rovente
Anna s'allontanava silenziosa a passi lenti dalla radura sita lungo la riva ed
andava solitaria a camminare avanti e indietro presso il ruscello.
—Adoro questa tranquillità profonda— mormorava alle
esili canne non riuscendo mai ad essere sazia dei colori dell'estate…
Venne poi l'autunno che matura uva dolce come miele,
l'incantevole autunno che dondola bacche rosse. Venne presto poi anche
l'inverno ed Anna si stendeva sulle spalle il lungo scialle a frange per andare
al ruscello. Uno spesso strato di ghiaccio copriva l'acqua e gli alberi privi
di foglie si stagliavano come orfani.
—Cric-crac, cric-crac—scricchiolavano gli stivaletti e
nessuno si recava nel bosco eccezion fatta che la ragazza.
Venne poi
una gelida mattina di gennaio da un particolare timbro di rumori. Una
neve soda e compatta aveva ammantato il giardino ed Anna non se l'era sentita
di alzarsi dal letto bello caldo.
—Sei malata, tesoro mio?— le aveva chiesto teneramente
la madre mentre nel grosso paiolo di latta stagnata continuava a bollire il
fragrante decotto di tiglio.
—Non vedrò giammai il mare — sospirava Anna ed enormi
febbrili rosse rose le infioravano il viso.
—Ma si, ragazza mia, come no— aveva piagnucolato il
padre che nel suo vecchio cappello avrebbe portato alla sua unica figliola anche
l'intera acqua del mare.
—Questa è l'epidemia— aveva perplesso detto il medico
quando aveva udito la tosse della ragazza ed silenziosamente aveva richiuso la
porta alle sue spalle.
Anna aveva chiuso gli occhi. Ormai non vedeva la
stanza, non udiva la voce dei genitori e nemmeno il vento che fuori ululava.
Avvertiva un'enorme calore e vedeva un prato cosparso di fiori blu e viola
pallido. Correva, quasi volava, ed i petali dei fiori le turbinavano intorno.
Era giunta all'improvviso in riva ad una gran distesa d'acqua. Sotto i raggi
del sole l'azzurro dell'acqua luccicava e scintillava dappertutto a perdita
d'occhio.
—È dunque questo il mare?— si era chiesta strabiliata
la ragazza immergendo nell'acqua ambedue le mani. Aveva lasciato defluire tra
le sue dita le gocce fresche, l'acqua era fine e scivolosa, carezzevole e d'un
profumo particolare. S'era rimboccato l'orlo della gonna ed a passi lenti s'era
fatta sempre più addentro. Intorno a lei si rincorrevano bianche schiume
increspate ed aveva la sensazione di non aver bisogno di respirare, che anche
senza i suoi polmoni si sarebbero fatti leggeri come schiuma.
—Anna!! Anna! An…— s'erano uditi da qualche parte
lontana richiami sempre più fiochi e pur avendo la ragazza guardato invano
verso la riva non aveva scorto nessuno. Aveva anzi visto ch'era sparita pure la
riva e tutt'intorno gorgogliava soltanto il mare portentoso.
—Chi ha chiamato?— aveva chiesto e s'era per un attimo
fermata nell'acqua che le arriva alle ginocchia. Il vento le si era insinuato
nei capelli ad abbracciarne ogni filo.
—Sei stato tu?— aveva sorriso Anna al vento, ma aveva
questi falsamente dato in un riso fragoroso. Argentee gocce d'acqua azzurra
s'erano sollevate dal mare ed avevano cinto la stupenda ragazza.
—Chi è che tu ami, Anna? A chi appartiene il tuo
cuore?— avevano sussurrato nelle orecchie ad Anna le onde. —Vieni, seguici, il
re dei mari t'attende…—
La ragazza s'era inoltrata nell'acqua sempre più. Era
felice. Non pensava ormai più al piccolo ruscello, non ricordava i salici ed i
dolci fiori. Andava, andava fino a sentire il suo cuore lieve come una
minuscola bollicina volteggiante dentro un arcobaleno…
Per quanto le ragazze si pavoneggino, per quanto si
facciano belle e sorridano con occhi maliziosi, sanno tutte che una volta era
vissuta al villaggio una ragazza di nome Anna di cui narrano i vecchi di non
averne mai vista una più bella.
Non era restata in vita neppure 17 anni. Dicono fosse una ragazza particolare,
che conversava con i fiori e con gli alberi, che con la mano carezzava sempre
l'acqua del ruscello. I suoi genitori ricordano che aveva parlato del mare fino
agli ultimi suoi istanti.
—A chi appartiene il tuo cuore? Dicci, Anna, chi è che
tu ami?— continuano a chiedere da allora anche i bianchi tulipani graziosamente
inclinati senza avere più risposta.
Traduzione © di Melinda Tamás-Tarr e
Mario De Bartolomeis
Melinda Tamás-Tarr — Ferrara
FIABA DELLA SERA: DOV'ERA, DOVE NON ERA…
I TRE DESIDERI
Al di là degli Oceani c'era una volta un uomo molto
povero come il topo del tempio. Egli aveva anche una moglie. L'uomo povero e la
moglie erano giovani, si amavano ma a causa della povertà spesso litigavano.
Una sera la moglie accese il fuoco. Voleva preparare una buona cena per
suo marito. L'acqua non bolliva ancora quando l'uomo entrò a casa e le disse
con gran gioia:
«Eh, se tu sapessi…» e l'abbracciò sorridendo
misteriosamente.
La moglie s'incuriosì e chiese impazientemente:
«Caro maritino, non mi fate morire dalla curiosità, mi dite
che cosa è successo?»
«Che cosa è successo? Cara mogliettina, non saremo più
poveri! Da ora in poi avremo tutto quello che desidereremo!»
«Non scherzate con me! O forse voi avete trovato un tesoro?!»
«E come! Ascoltami pure! Stavo tornando a casa dalla foresta
quando ho visto qualcosa di strano al centro della strada. Mi sono avvicinato
per vedere meglio. Sai che cosa era? Una piccola carrozza intrappolata nel
fango. Davanti ad essa c'erano quattro
cani neri come la notte che cercavano di tirarla fuori ma non c'era niente da
fare. Nella carrozza sedeva una bellissima signora, ma tanto bella che non ho
visto mai una bellezza simile nella mia vita! Sicuramente era una fata!
Soltanto le fate possono essere così belle… Ella mi ha detto: “Gentile signore,
aiutami a venir fuori da questo fango! Ti assicuro che non te ne pentirai!” Ho
subito pensato che non sarebbe stato male se ella avesse potuto aiutarci,
perché siamo proprio molto poveri. Così ho liberato i cani e la carrozza dal
fango. Dopo mi ha domandato: “Sei sposato?... Siete ricchi?” Io le ho risposto
di avere una moglie, ma siamo tanto poveri quanto il topo del tempio. Lei mi ha
risposto: “Allora ti aiuterò. Chiedi a tua moglie di desiderare tre cose, tutti
e tre i suoi desideri saranno esauditi.” Appena finì di dirmi queste cose, è
svanita nel nulla in un attimo: era più veloce del vento. Ho guardato intorno,
ma non ho più visto né lei, né la piccola carrozza con i quattro cani.
«E voi le avete creduto? Forse vi ha preso in giro!»
«Lo vedremo. Provalo! Desidera qualcosa, mia dolce mogliettina!»
«Magari se avessimo una bella salsiccia! Potremmo prepararla
subito sulla brace.»
Appena accennò a questo desiderio, ascoltate che miracolo!
Dal camino scese un grande tegame e dentro c'era una salsiccia enorme! Era
talmente grande che con essa tranquillamente avrebbero potuto accerchiare il
giardino!
«Vedi che avevo ragione?» chiese il giovane uomo «Ma adesso è ora che desideriamo qualcosa di
più intelligente. Magari due manzi, due cavalli e un maiale…»
Nel frattempo il giovane uomo prese la sua pipa per caricarla
con quel poco tabacco che gli era ancora rimasto. Cercò di prendere una piccola
brace, ma fece un movimento sbagliato e il tegame con la salsiccia si rovesciò.
«Oh, la salsiccia! Che fate voi? Magari si fosse attaccata al
vostro naso!» gridò la moglie dalla disperazione mentre voleva salvarla dalla
morsa del fuoco. Ma non riuscì e la lunghissima salsiccia era già attaccata al
naso del marito.
«Vedi, vedi sciocchina, il secondo desiderio è già sprecato!
Stacchiamola!»
La moglie si sforzò ma non riuscì a toglierla e disse:
«Eh, non c'è niente da fare, dovremo tagliarla. Potremo
tagliare un po' anche dal vostro naso, non sarebbe un gran problema!»
«Per carità, ci mancherebbe altro! Nemmeno per sogno!»
«Se no, allora voi dovete girare fino alla morte con questa
salsiccia attaccata al naso!»
«Non pensarlo neanche! Io non girerò così tra la gente! Sai, moglie,
abbiamo ancora il terzo desiderio… Chiedi che la salsiccia si stacchi dal mio
naso e ritorni al tegame!»
«E allora? Non possiamo più avere né il manzo, né il cavallo,
né il maiale!»
«Lo stesso, moglie mia, con questi baffi di salsiccia non
posso girare! Esprimi presto il desiderio che la salsiccia torni finalmente nel
tegame!»
La moglie non ebbe altra scelta, fu costretta a chiederlo.
Trovandola di nuovo nel tegame la lavarono, l'arrosolarono e poi la consumarono
con grande appetito fino all'ultimo boccone. Mentre mangiavano fecero la pace e
non litigarono più. Lavorarono diligentemente e col tempo con il frutto della
loro fatica, ebbero anche manzi, cavalli e maiali. Vissero felici lavorando
onestamente e risparmiando quattrini.*
Illustrazione ©
di Melinda Tamás-Tarr
* Versione riveduta, quella precedente già pubblicata nel volume:
"Da padre a figlio» di Melinda Tamás-Tarr Bonani, C.Q.L.N., Ferrara, 1997
Traduzione/elaborazione © di Melinda Tamás-Tarr
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