OSSERVATORIO LETTERARIO

 

*** Ferrara e l'Altrove ***

 

ANNO VII – NN. 31/32    MARZO-APRILE/MAGGIO-GIUGNO 2003     FERRARA

 

 

 

DIARIO DI LETTURA & PRESENTAZIONI

Galleria Letteraria & Culturale Ungherese:

 

Lirica ungherese

 

Dsida  Jenő (1907-1938)

 

 

CSOKONAI* SÍRJÁNÁL

 

 

«A Reményhez» című Csokonai-vers

dallamára énekli másfélmillió zarándok

 

Hol bolyong a lelked,

szólj, Csokonai!

Szólítnak a lelked

bús rokonai,

szólítnak, keresnek,

hívnak epedőn,

ődöngvén a keshedt

ódon temetőn.

Vén fejfák közt vánszorogva,

Erdélyből jövén,

vágyunk állni szívszorongva

sírhalmod tövén,

állni hajtott fővel

mozdulatlanul,

írott néma kővel

szólni szótlanul.

 

Megmozdul a szellő,

porladt rokonok

melléből lehellő, -

zizeg a homok,

zizegnek a lombok

és amerre látsz,

hajladozva bólog,

reszket az akác.

Bú a szívben, könny a szemben.

Hirdeti a kő:

Itt született Debrecenben

s itt pihent meg ő,

Hatvan utca-végen

fekhelye vagyon,

teste régesrégen

homok, dudva, gyom.

 

Minden ismerősid

rád támadtanak,

rád dőltek az ősi

kollégyom-falak,

zargatták a költőt

morc professzorok,

átkokat üvöltött

mindenegy torok.

Te meg mentél, vándoroltál,

száműzött szegény

s veled ment az ősi oltár,

veled ment a fény.

Bakony-erdőn ágyat

múzsakéz vetett

s békötözte lágyan

sebhedt szívedet.

 

Ám a tiszta hűség

tovább megmarad,

mint a keserűség

s a kemény harag. –

Mint eb, kit a gyatra

gazda elzavart,

fordul alkonyatra,

megtér, hazatart.

Te is mentél széllel szembe,

 árnyad egyre nőtt,

visszatértél Debrecenbe

a halál előtt,

itt hulltál romokba,

mikor este lett

s rejtéd hűs homokba

lázas testedet.

 

Merre leng a lelked?

- szólj, Csokonai!

Szólítnak a lelked

dúlt rokonai,

űzöttek, bolyongók,

megvert magyarok,

kikre ordas gondok

szája agyarog,

sírodat, mint dús, nagy asztalt,

ülik körbe, lásd:

akit senki sem vígasztalt.

adj vígasztalást!

Etess meg ebéddel,

adj hit-falatot,

itass meg igéddel,

bölcs magyar halott!

 

Megelendül a szellő,

szólva száll a szél,

sírokból lehellő

légáram beszél,

leng, suhogva hajlik,

borzong, merre látsz,

tengerként morajlik,

zsong ezer akác.

Halk sírással felidézett

hangok zengenek.

Mily káprázat! Mily igézet!

Végigrengenek

a sírok idővert

korhadt csonkjai,

zúg a temetőkert,

szól Csokonai:

 

Halld beszédem imhol.

Hazád az a föld

akkor is, ha gyilkol

és ha már megölt,

és ha házad, ólad

füstölgő romok

s fut a föld alólad,

mint futóhomok.

füstölgő romok

s fut a föld alólad,

mint futóhomok.

Nézd, Debrecen porhomokja

futna szerteszét,

de akácok marka fogja,

tartja a kezét,

ölelik, csittítják,

izmos és kerek

karjukkal szorítják

szívós gyökerek.

 

Halld: a tiszta hűség

tovább megmarad,

mint a keserűség,

s a kemény harag.

Míg a földön csúszol

s napnyugtáig érsz,

százszor elbúcsúzol,

százszor visszatérsz.

Lehet, földed úgy ereszt el,

mint gaz mostoha,

de ha egyszer belefekszel,

nem dob ki soha,

mikor ágyat vet majd

s végkép befogad,

szíjas gyökeret hajt

csontod és fogad.

 

Menj haza akácul

s ha nyugonni tér

tested és aláhull,

légy te a gyökér,

holtak itt is, ott is,

több már el se fér,

millió halott és

milliárd gyökér.

Vezekel az ősi vétek

ősi föld alatt.

Holt karokkal öleljétek,

míg el nem szalad,

szőjétek keményen

újra át meg át

s megkötött fövényen

játszik unokád”.

 

Elhallgat a szózat.

Egy bozontos ág,

egy fűszál se borzad.

Méla némaság.

Csak bent zsong a zsoltár:

Hálánk csókjai

illetnek, hogy szóltál,

jó Csokonai!

Vándorbotunk, régi jussunk,

vígy a homokon!

Induljunk, hogy hazajussunk!

Ég veled, rokon!

Béborult a hűs ég,

hűs esője sír.

Hazahív a hűség

s otthonunk a sír.

 

 

SULLA TOMBA DI CSOKONAI*

 

Un milione mezzo di pellegrini la canta

sulla melodia della poesia «Alla Speranza» di Csokonai

 

Dove erra la tua anima,
   parla, Csokonai!
A te si rivolgono i tristi

parenti della tua anima,
e ti parlano, ti cercano,
   ti chiamano bramosi,
girovagando per l'antico
   cimitero
scalcinato,

Trascinandosi fra croci di legno,
   venendo di Transilvania,
vogliamo stare con il cuore angosciato

ai piedi del tuo sepolcro,

stare a testa china

immobili,

con una muta pietra incisa

parlare senza parole.

 

Si muove un soffio di vento,

un'aura dal grembo

di parenti ridotti in polvere, -

uno stormir di sabbia,

uno stormir di fronde

ovunque tu guardi,

e l'acacia tremula

che piegandosi annuisce.

Tristezza nel cuore, lacrime agli occhi.

Proclama la pietra:

Qui a Debrecen nacque

ed ebbe qui egli riposo,

in fondo a via Hatvan

trovasi il suo giaciglio,

č il suo corpo da tempo remoto

polvere, malerba, gramigna.

 

Chi ti conosceva
   ti ha aggredito,
su di te caddero le antiche

mura del collegio,
fecero tribolare il poeta
   arcigni professori,
maledizioni gridň

la gola di ognuno.
Te ne andasti per il mondo,
   tu povero esiliato,
e con te se n'andň l'antico altare,
   con te se n'andň la luce.
Nella foresta di Bakony un letto
   preparň a te la mano della musa

 

e dolcemente fasciň

il ferito tuo cuore.

 

E perň la fedeltŕ pura
   resta intatta,
come l'amarezza
   e la cruda rabbia. -
Come un cane, che il meschino

padrone  ha scacciato via,

torna indietro al tramonto,

si gira e verso casa si dirige.

Anche tu andasti contro corrente,
   la tua ombra crebbe sempre piů,

tornasti a Debrecen
   prima di morire,
qui cadesti in rovina,
   quando si fece sera

e nascondesti nella fredda polvere
    il tuo corpo
ardente.

 

Dove si aggira la tua anima?
   - parla, Csokonai!
Si rivolgono a te i tormentati

parenti della tua anima,
gli ungheresi perseguitati,
    errabondi, sconfitti,
che denti di famelici affanni

azzannano,
sulla tua tomba, come tavola imbandita,
si siedono intorno, guarda:
a chi non poté essere confortato
   tu devi dare conforto!
Falli cibare del tuo pasto,
   da' loro un pezzo di fede,
falli bere dalla tua parola,
   saggio ungherese defunto!

 

Si alza un soffio di vento,
   parla e ondeggia l'aura,
dalle tombe soffia il vento,
   una corrente d'aria parla,

oscillano, frusciando si piegano,
   tremano ovunque tu veda,
mormorano come il mare,
  
ronzano mille acacie.
Risuonano voci evocate

da un pianto sommesso.
Che suggestione! Quale incanto! Trepidano

i monconi marciti
   e putrefatti delle tombe,
mormora il cimitero,
parla Csokonai:

 

Ecco, ascolta le mie parole.
Quella terra č la tua patria
anche se ti assassina,
anche se
t'ha giŕ  ucciso;
anche quando la tua casa e il tuo ovile
sono rovine fumanti

e la terra ti manca sotto i piedi
come sabbie mobili.

Guarda! Le ceneri di Debrecen

vorrebbero spargersi ovunque,

 ma il palmo delle acacie le trattiene,
le prende per mano;

e forti radici

le abbracciano, le calmano

e le stringono con possenti

braccia aperte.

 

Ascolta! La fedeltŕ pura

resta intatta
come l'amarezza

e la cruda rabbia.
Sino a quando striscerai sulla terra,
sino al tramonto

mille volte prenderai congedo
e mille volte tornerai.
Forse la tua terra ti lascia andare come

 una matrigna malvagia,
ma se una volta vi entri dentro
non ti caccerŕ mai
e quando poi ti preparerŕ un letto
e ti accoglierŕ per sempre,

radici possenti metteranno

le tue ossa e i tuoi denti.

 

Vai a casa come fossi un'acacia

e se a riposare torna
il tuo corpo e si lascia cadere,
sii tu la radice,
perché i morti sono dappertutto
e non c'entrano piů,
milioni sono i morti

e miliardi le radici.

Sotto terra antica

la vecchia colpa si espia.

Di braccia inerti cingetelo

A ciň ché non sfugga,

di trame salde intessetelo

vieppiů avanti e all'indietro

e sulla rena fattavi presa

gioca tuo nipote.”


Si zittisce l'appello.

Non di folto ramo,

Né d'un filo d'erba i brividi.

Mutismo malinconico.

Dentro ronza il salterio.

I baci della nostra gratitudine

ti spettano per aver parlato

buon Csokonai!

Tu, nostro bordone, antico privilegio,

portaci sulla sabbia!

Partiamo per far ritorno a casa!

Addio, fratello!

Di nuvole fresche si č coperto il cielo,

la fresca pioggia piange.

La fedeltŕ ci chiama

e casa nostra č la tomba.

* Si pronuncia: 'cioconai' [N.d.R.]

Traduzione © di Amedeo Di Francesco

 

 

Confesso di provare un certo imbarazzo nel presentare in traduzione questa poesia che č uno dei testi fondamentali del transilvanismo. Non č il tema ad infastidire, quanto piuttosto l'inadeguatezza nel riferire compiutamente l'apparato delle immagini e gli artifici linguistici di questo testo semplice e grave, pensoso e sbarazzino, inesorabile ma non disperato. Si accolga pertanto questa traduzione nel segno della irraggiungibilitŕ della perfezione e nell'attesa di una rilettura diversa. Anche perché vorrei che si sapesse che l'incespicare della traduzione č talora volutamente ineluso, perché mi propongo soprattutto come un lettore che non puň non ansimare nella profonda empatia che suscita la fruizione del testo originaleą.

Il tono del componimento č lieve, accorato, mai violento. Anticipa la greve sinfonia dello Psalmus Hungaricus, ma non ne condivide il disperato grido di rivolta. Csokonai, studente del Collegio protestante di Debrecen, qui assurge a simbolo della situazione politica e storica ungherese. Se il perentorio pronome di seconda persona e i suoi suffissi derivati si rivolgono all'Ungheria, i conoscenti sono i popoli piů vicini che le si sono rivoltati contro e le mura del collegio rappresentano i confini  ormai inesistenti, violentati, di un'Ungheria decisamente altra. Gli accigliati professori, incapaci di comprendere uno studente geniale, sono i potenti della terra che al tavolo della pace non sono riusciti a comprendere la realtŕ ungherese e quella europea. E allora tutto un popolo, come Csokonai il poeta, ha dovuto scegliere la via dell'esilio e la catarsi del pellegrinaggio. Soltanto la poesia riesce in qualche modo ad alleviare la cocente ferita. La dimensione allegorica č sin troppo evidente: perň piace questa inaspettata identificazione delle sorti d'Ungheria con la vicenda esistenziale del poeta illuminista. Questa identificazione č inaspettata perché moderna, perché non appartenente alla tradizionale geremiade sulla storia millenaria degli ungheresi. La modernitŕ consiste, a parer mio, in questa capacitŕ di Dsida di riferire una situazione nazionale all'individualitŕ di uno studente sui generis. Il riferimento alla poetica di Csokonai č moderno anche perché instaura un particolare rapporto intertestuale che supera la dimensione letteraria, per divenire intertestualitŕ esistenziale, storica, filosofica, almeno nel senso della condivisione di una comune esperienza del mondo. Csokonai, infatti, non una volta e non a caso si ritrova al centro di percorsi intertestuali che arrivano fino al post-modernismo di un altro poeta transilvano, Domokos Szilágyi, morto suicida nel 1976. Ciň significa che quella di Csokonai č poesia antiretorica, che esprime la situazione ungherese senza i falsi orpelli della tradizionale fraseologia di un nazionalismo spesso vacuo e immotivato. L'ossimoro come simbolo piů autentico della situazione ungherese non č dato solo dall'antitesi dell'ultimo verso, ma dall'intera ripetuta condizione antitetica che si ripete in ogni verso, accentuata volutamente dal gioco ripetuto dall'allitterazione. E tutto ciň in funzione di un tono profetico e concitato che – riferito alla situazione contemporanea al poeta – non puň non rivolgersi a tutti quegli ungheresi che, allora e tuttora esiliati piů o meno volontariamente, dopo il '45 o dopo il '56, son rimasti comunque fedeli alla propria identitŕ culturale. E l'evidente ritmo spezzato della struttura ritmica dei versi č lě ad esprimere il senso vistosamente onomatopeico di questa poesia che vuole essere una specie di singhiozzo interiore.

 

ą Cito e traduco da Dsida Jenő válogatott versei. [Poesie scelte di Jenő Dsida], a cura di Zoltán Jékely e con prefazione di Balázs Lengyel, Budapest 1980, pp. 145-150. Ringrazio Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis per i loro utili e preziosi suggerimenti.

 

Amedeo Di Francesco*

 

* Prof. Amedeo Di Francesco č ordinario di Lingua e Letteratura Ungherese all'Universitŕ di Napoli e Presidente dell'Associazione Internazionale di Studi Ungheresi. [N.d.R.]  

 

 

 

 

Prosa ungherese

 

Piroska Csorba Miskolc (H)

V'Č UN GRAN SILENZIO

 

   L'hanno presa a braccia e portata fuori. Il cortile č un lungo rettangolo piatto. Davanti casa c'č una panca pitturata di rosso cui svolazzano sopra, fissati ad uno spago, dei pezzetti di carta. Č stata verniciata al mattino. Un po' piů in lŕ un tavolo di lamiera verde. Vi mettono a sedere sopra la nonnina1). Non essendovi nulla contro cui appoggiarsi, il corpo di lei č un po' inclinato da una parte. L'assicurano con la mano sinistra al tubo di ferro che sostiene la pergola. Cosě, stretta al ferro, sta seduta piů sicura. Ha il dorso curvo, il collo lungo, solleva il capo coperto da un fazzoletto nero. Le gambe le penzolano nel vuoto. Il tavolo č alto, la nonna č minuta.

   L'uva non ha ancora aperto i suoi pampini, il sole le picchia proprio in faccia. Il viso della nonna č pallido come i germogli che in cantina cominciano a crescere sulle patate. Da quel viso smorto il naso si leva ossuto, affilato. La nonna ha di carne quel tanto che pudicamente ricopre quello che lei diventerŕ tra non molto: le sue ossa. I suoi occhi sono uno stanco mare d’un azzurro sieroso. Novantasette anni vi sono negli occhi della nonna.

   —Siedi qui! C'č il sole!— le parole giungono articolate, ad alta voce, quel che vogliono significare deve essere sbrogliato. Č un compito ingrato. Non vi si affatica. Come fanno i bebč con le cose infilate loro nelle manine lei stringe il tubo di ferro con la sinistra, la destra č una macchia scialba sul nero grembiule.

   La bambina gioca nella sabbia.

   Le parlano, le portano qualcosa. Le voci sono lontane, non si distingue una parola dall'altra. Di esse la nonna non afferra nulla, non volge neppure il viso nella direzione da cui provengono. Sente poi la chiusura del cancello, qualcuno ancora grida qualcosa.

   La Trabant va in moto. Accelerano, mollano la frizione, partono. La bimba si gira, fa con la mano un cenno di saluto verso la macchina, poi torna ad accovacciarsi. Prepara una palacsinta2) con la sabbia. La pasta della palacsinta non vuole amalgamarsi, la impasta vanamente. Occorrerebbe un po' d'acqua.

   L'acqua c'č. Č lŕ nel cestino, accanto al pane imbottito di burro e miele avvolto nel tovagliolo. «In caso ti venisse fame o avessi sete»  avevano detto i genitori. La pipě sa giŕ farla da sola. E poi sola non č. Guarda verso la nonnina, sta seduta sul tavolo, le due esili gambe come di cornacchia penzolano nell'aria.

   —Nonnina!— grida la bimba —Metto l'acqua nella palacsinta!

   Toglie il tappo dalla bottiglia e versa. Non riesce a centrare il secchiello, la sabbia assetata assorbe l'acqua. La bimba scrolla la testa e versa di nuovo. Sparge con la paletta la sabbia nel secchiello  poi la rimescola con un dito. L'assaggia piů volte:

   —Squisita, manca solo il sale!— e col movimento appreso dalla mamma fa roteare il nulla fra le due dita.

   Alla nonnina le gambe formicolano e si fanno pesanti, come se la tirassero giů. Due formicolanti pesanti gambe trafitte da aghi. Gli sparsi formicolii poi si dileguano, non sente piů nulla, neppure la mano che stringe obbediente il tubo di ferro. Il sole le copre il volto d'una luce gialla. I suoi occhi galleggiano nel siero. Fa un bel caldo, un bel caldo sacrosanto.

   —Faccio una torta, una palacsinta e benzina— elenca la bimba e versa nei recipienti l'acqua fino all'ultima goccia.. Con un bastoncino rimesta, amalgama, capovolge, monta, appiccica. Se ne impiastriccia i calzini bianchi.

   —Dipingo le calze! Dipingo le calze!— si mette a piroettare davanti alla pergola —Sono belle le mie calze?

   La nonnina tace. La bimba le strattona gonna:

   —Guarda, sono belle le mie calze?— siccome da lassů in alto non giunge alcun suono di voce dŕ un altro strattone alla gonna nera.

   L’anziana donna perde l’equilibrio corporeo che sinora aveva avuto, si piega con la schiena, ma la sua mano continua a tenere stretto il tubo. La sente la voce. Fa un cenno col capo. Se parlano, si deve fare cenno. Č cosě di certo, va bene sicuramente. Loro lo sanno.

   La bambina torna indietro di corsa, si sdraia nella sabbia e vi si interra. Non ne restano ormai fuori che i piedi calzati dai sandali, le mani e la testa. La sabbia č bella umida tuttavia lei suda. Le si comincia ad imperlare la fronte. Ha sete.

   Nel cielo il sole s’č portato piů in lŕ, esattamente dietro al pollaio. Č probabile che a soffocare i polli non sia neppure la puzzola, ma il sole. S'avvicina gironzolando tutta zitta e s'arrampica da dietro nello spiraglio, succhia il sangue alle galline. La bambina si spaventa, comincia ad urlare. Scappa da sotto la sabbia, solleva la bottiglia. Vuota. Ha usato l'acqua per cucinare. Solleva il fazzoletto, nel cestino ecco il pane col miele. Acqua, niente. Corre verso la porta, si spinge in punta di piedi verso la maniglia. L'hanno chiusa.

   —Mamma! Mamma!— strilla. Poi le tornano in mente le parole… «Facciamo ritorno tra non molto… fai la brava bimba…»

   —Nonnina!— si solleva piů che puň in punta dei piedi —Ho sete. Dammi da bere!

   La nonnina volge il viso in direzione del sole. La bambina le strattona con ambo le mani le gambe. Lei sente nuovamente delle fitte nella pianta del piede, lungo la gamba. La sua mano si sposta incerta nell'aria, non ritrova la posizione di prima, cade sulla gonna nera accanto all'altra.

   La bambina corre piangendo verso la sabbia. In fondo ad un secchiello c'č un pizzico d'acqua. Solleva il recipiente, beve da esso. La bocca le si riempie di sabbia, comincia a sputacchiare. Corre di nuovo verso il tavolo, strattona la gonna nera, le gambe coperte dalle calze nere, chiede piagnucolando di bere. La nonnina fa cenni sempre piů assidui. Qualcuno parla, quindi occorre far cenni. A far cenni con la testa poi zittiscono sempre.

   La bambina urla fuori di sé, picchia con ambedue i pugni le ginocchia della nonnina, riesce a giungere giusto lě, all'orlo del tavolo. Comincia poi a calciare, calcerebbe la nonnina, ma va a vuoto. Quando le sue mani si stancano, lei torna  ad insabbiarsi. Ha giŕ pure dimenticato perché piangeva, ma singhiozza, piagnucola, ha tremiti in tutto il corpo. Si sdraia, si pone in testa il cestino che conteneva il pane. Ecco che c'era e non c'č giŕ piů, la possono pure cercare, ma lei non verrŕ piů fuori.

   In testa alla nonnina romba un gran autobus. Un autobus come quello che passava davanti casa. Non davanti a questa casa, ma ad un'altra. Lŕ l'autobus adesso romba e non vuol saperne di fermarsi. Va a gran velocitŕ, sempre piů veloce. Le procura vertigini. Le dieci dita della nonnina stanno aggrappate alla gonna nera.

   Non scorge nemmeno piů il sole, anche la luce gialla prende a vorticare. Che bello che l'autobus giri assieme a lei! Non č nemmeno un autobus, si direbbe una giostra. Dapprima era seduta tra i tubi e si faceva portare in giro torno torno . Ora sta seduta lŕ in aria, dinanzi le sfuma tutto, vola ad una velocitŕ cosě tanto sbalorditiva.

   L'aria le esercita pressione sul capo, sarebbe bello volgerlo completamente da un lato, potrebbe essere una sensazione buona,  piacevolmente dolce. Si abbandona allo stimolo che le viene dal profondo, inclina la testa di lato e continua a volare cosě. Non sente ormai piů il rombo dell'autobus, aveva ben capito lei che non era un autobus questo, ma una giostra. Gli altri sono dabbasso e guardano all'insů. Lei non guarda da nessuna parte, il turbine le spinge la testa di lato.

   La testa della nonnina si china da un lato ancora un po', il suo centro di gravitŕ si sposta ed il corpo di lei s'inclina. Si schianta a terra allato del tavolo. La superficie davanti casa era stata tutta fatta per bene in cemento. Il che č bene, non si porta in  casa né il fango né lo sporco.

   Non la bocca, non gli organi interni della nonnina bensě le sue ossa emettono una specie di suono. Le sue membra si contorcono stranamente. I suoi pallidi occhi azzurri fissano verso l'alto stupiti.

   Da sotto il cestino la bambina sente il rumore, crede sia lo sbatacchiare dello sportello dell'auto.

   —Non faccio capolino proprio per un bel niente! Cercatemi pure!— pensa —Sono in collera con voi… Non sono da nessuna parte… Cercatemi pure!  Cer - ca - te - mi!— scandisce sillabando. Mormora poi rivolta a sé stessa:

   —Ho gli occhi di talco.

   Emette un sospiro, le palpebre le si chiudono, s'č addormentata.

   V'č un gran silenzio. Il sole č sparito sul retro del pollaio. Ora veramente succhia forse il sangue alle galline.

 

1) Preferiamo qui tradurre «dédike», letteralmente «bisnonna», con il termine italiano «nonnina».

2) «Palacsinta» lasciata in lingua originale nel testo, č un piatto molto noto in Ungheria, una specie di «crępe» preparata in diverse varianti. Si pronuncia: 'palacinta', coll'accento sulla prima sillaba.

 

Traduzione di ©  Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis

 

 

Katalin Kéri (Kate Carry)Pécs (H)

ANNA E IL MARE

 

   Per quanto le ragazze si pavoneggiassero, per quanto si facessero belle e sorridessero con occhi maliziosi, sapevano tutte che nel villaggio la piů bella era Anna. Era una ragazza delicata, eterea, dai lunghi capelli castano scuri e lo sguardo trasognato. Nel percorrere la via maestra il suo fisico, il suo incedere, allietava finanche la vecchia strada polverosa. A lei s'inchinavano le acacie e le margherite rimanevano stordite dal profumo di lei. Le nubi erano stupefatte della sua bellezza e pure il ruscello iniziava lieto a gorgogliare quando piano lei camminava sulla sua sponda.

   —A chi appartiene, Anna, il tuo cuore? Chi č che tu ami?— sospiravano i salici, ma la ragazza si limitava a sorridere. Libero era il suo cuore, spensierato e gaio come gli uccelli.

   Le piaceva star sola. Se ne stava spesso seduta in riva all'acqua, il bordo della gonna raccolto alle ginocchia, e sognava stupendi paesi lontani. In vita sua s'era allontanata dal proprio paese due sole volte, avrebbe perň voluto tanto viaggiare. Era stata una volta con la madre nella grande cittŕ vicina ed un'altra volta, invece, nell'attiguo villaggio per i funerali del bisnonno. Sua aspirazione era vedere il gran mondo, viaggiare su enormi bastimenti dondolanti come li aveva visti sui libri.

   —Cosa faresti tu poi al mare, figlia mia?— le chiese una volta il padre dagli occhi tristi.

   —Come che cosa? Starei a guardare l'acqua, proverei a toccare le onde che s'increspano ed ascolterei il canto del mare— rispose Anna, e a sentir ciň anche suo padre sorrise.

   —L'acqua la puoi guardare anche qui, al limite del nostro villaggio, non occorre che per questo tu lasci la tua terra natale— rispose, e la ragazza cosě aveva fatto.

   Ogni pomeriggio, terminate le faccende intorno a casa, lavato anche l'ultimo piatto di terracotta, si dava con le mani una ravviata ai capelli e piroettando lasciava la cucina.

   —An-na, An-na— ticchettava l'orologio da parete e pure i tacchi delle scarpe picchiettavano il suo nome.

   —Anna va al ruscello— dicevano l'un l'altra le vecchie che dopo pranzo si ritiravano a riposare sotto gli alberi sul ciglio della strada.

   Ogni sabato sera,  in riva al ruscello, c'era sempre una gran festa da ballo. Ragazzi e ragazze che bene conoscevano anche Anna giungevano anche dai villaggi vicini. Le ragazze osservavano invidiose il suo magnifico aspetto, la sua epidermide vellutata, ogni sua movenza, mentre invece i ragazzi cercavano di starle accanto costantemente.

   —Anna, bellissima Anna, vieni a ballare con noi!— la supplicavano, ripetutamente la invitavano, ma la ragazza scrollava il capo solamente. Non amava danzare con qualcuno se non da sola quando nessuno la vedeva. Preferiva guardare gli altri, la loro turbinosa sfrenata allegria senza perň mai aggregarsi a loro.

   —Fra un po'— rispondeva sempre sorridente, ma il tempo che gli altri andassero e tornassero e lei giŕ s'era fatta di nebbia. Quando la musica si levava piů alta e sotto i piedi dei danzanti l'erba si faceva rovente Anna s'allontanava silenziosa a passi lenti dalla radura sita lungo la riva ed andava solitaria a camminare avanti e indietro presso il ruscello.

   —Adoro questa tranquillitŕ profonda— mormorava alle esili canne non riuscendo mai ad essere sazia dei colori dell'estate…

   Venne poi l'autunno che matura uva dolce come miele, l'incantevole autunno che dondola bacche rosse. Venne presto poi anche l'inverno ed Anna si stendeva sulle spalle il lungo scialle a frange per andare al ruscello. Uno spesso strato di ghiaccio copriva l'acqua e gli alberi privi di foglie si stagliavano come orfani.

   —Cric-crac, cric-crac—scricchiolavano gli stivaletti e nessuno si recava nel bosco eccezion fatta che la ragazza.

   Venne poi  una gelida mattina di gennaio da un particolare timbro di rumori. Una neve soda e compatta aveva ammantato il giardino ed Anna non se l'era sentita di alzarsi dal letto bello caldo.

   —Sei malata, tesoro mio?— le aveva chiesto teneramente la madre mentre nel grosso paiolo di latta stagnata continuava a bollire il fragrante decotto di tiglio.

   —Non vedrň giammai il mare — sospirava Anna ed enormi febbrili rosse rose le infioravano il viso.

   —Ma si, ragazza mia, come no— aveva piagnucolato il padre che nel suo vecchio cappello avrebbe portato alla sua unica figliola anche l'intera acqua del mare.

   —Questa č l'epidemia— aveva perplesso detto il medico quando aveva udito la tosse della ragazza ed silenziosamente aveva richiuso la porta alle sue spalle.

   Anna aveva chiuso gli occhi. Ormai non vedeva la stanza, non udiva la voce dei genitori e nemmeno il vento che fuori ululava. Avvertiva un'enorme calore e vedeva un prato cosparso di fiori blu e viola pallido. Correva, quasi volava, ed i petali dei fiori le turbinavano intorno. Era giunta all'improvviso in riva ad una gran distesa d'acqua. Sotto i raggi del sole l'azzurro dell'acqua luccicava e scintillava dappertutto a perdita d'occhio.

   —Č dunque questo il mare?— si era chiesta strabiliata la ragazza immergendo nell'acqua ambedue le mani. Aveva lasciato defluire tra le sue dita le gocce fresche, l'acqua era fine e scivolosa, carezzevole e d'un profumo particolare. S'era rimboccato l'orlo della gonna ed a passi lenti s'era fatta sempre piů addentro. Intorno a lei si rincorrevano bianche schiume increspate ed aveva la sensazione di non aver bisogno di respirare, che anche senza i suoi polmoni si sarebbero fatti leggeri come schiuma.

   —Anna!! Anna! An…— s'erano uditi da qualche parte lontana richiami sempre piů fiochi e pur avendo la ragazza guardato invano verso la riva non aveva scorto nessuno. Aveva anzi visto ch'era sparita pure la riva e tutt'intorno gorgogliava soltanto il mare portentoso.

   —Chi ha chiamato?— aveva chiesto e s'era per un attimo fermata nell'acqua che le arriva alle ginocchia. Il vento le si era insinuato nei capelli ad abbracciarne ogni filo.

   —Sei stato tu?— aveva sorriso Anna al vento, ma aveva questi falsamente dato in un riso fragoroso. Argentee gocce d'acqua azzurra s'erano sollevate dal mare ed avevano cinto la stupenda ragazza.

   —Chi č che tu ami, Anna? A chi appartiene il tuo cuore?— avevano sussurrato nelle orecchie ad Anna le onde. —Vieni, seguici, il re dei mari t'attende…—

   La ragazza s'era inoltrata nell'acqua sempre piů. Era felice. Non pensava ormai piů al piccolo ruscello, non ricordava i salici ed i dolci fiori. Andava, andava fino a sentire il suo cuore lieve come una minuscola bollicina volteggiante dentro un arcobaleno…

 

   Per quanto le ragazze si pavoneggino, per quanto si facciano belle e sorridano con occhi maliziosi, sanno tutte che una volta era vissuta al villaggio una ragazza di nome Anna di cui narrano i vecchi di non averne mai vista una piů bella.  Non era restata in vita neppure 17 anni. Dicono fosse una ragazza particolare, che conversava con i fiori e con gli alberi, che con la mano carezzava sempre l'acqua del ruscello. I suoi genitori ricordano che aveva parlato del mare fino agli ultimi suoi istanti.

   —A chi appartiene il tuo cuore? Dicci, Anna, chi č che tu ami?— continuano a chiedere da allora anche i bianchi tulipani graziosamente inclinati senza avere piů risposta.

 

Traduzione © di  Melinda Tamás-Tarr e  Mario De Bartolomeis

 

 

Melinda Tamás-Tarr — Ferrara

FIABA DELLA SERA: DOV'ERA, DOVE NON ERA…

I TRE DESIDERI

 

   Al di lŕ degli Oceani c'era una volta un uomo molto povero come il topo del tempio. Egli aveva anche una moglie. L'uomo povero e la moglie erano giovani, si amavano ma a causa della povertŕ spesso litigavano.

  Una sera la moglie accese il fuoco. Voleva preparare una buona cena per suo marito. L'acqua non bolliva ancora quando l'uomo entrň a casa e le disse con gran gioia:

 «Eh, se tu sapessi…» e l'abbracciň sorridendo misteriosamente.

   La moglie s'incuriosě e chiese impazientemente:

 «Caro maritino, non mi fate morire dalla curiositŕ, mi dite che cosa č successo?»

 «Che cosa č successo? Cara mogliettina, non saremo piů poveri! Da ora in poi avremo tutto quello che desidereremo!»

 «Non scherzate con me! O forse voi avete trovato un tesoro?!»

 «E come! Ascoltami pure! Stavo tornando a casa dalla foresta quando ho visto qualcosa di strano al centro della strada. Mi sono avvicinato per vedere meglio. Sai che cosa era? Una piccola carrozza intrappolata nel fango. Davanti ad  essa c'erano quattro cani neri come la notte che cercavano di tirarla fuori ma non c'era niente da fare. Nella carrozza sedeva una bellissima signora, ma tanto bella che non ho visto mai una bellezza simile nella mia vita! Sicuramente era una fata! Soltanto le fate possono essere cosě belle… Ella mi ha detto: “Gentile signore, aiutami a venir fuori da questo fango! Ti assicuro che non te ne pentirai!” Ho subito pensato che non sarebbe stato male se ella avesse potuto aiutarci, perché siamo proprio molto poveri. Cosě ho liberato i cani e la carrozza dal fango. Dopo mi ha domandato: “Sei sposato?... Siete ricchi?” Io le ho risposto di avere una moglie, ma siamo tanto poveri quanto il topo del tempio. Lei mi ha risposto: “Allora ti aiuterň. Chiedi a tua moglie di desiderare tre cose, tutti e tre i suoi desideri saranno esauditi.” Appena fině di dirmi queste cose, č svanita nel nulla in un attimo: era piů veloce del vento. Ho guardato intorno, ma non ho piů visto né lei, né la piccola carrozza con i quattro cani.

   «E voi le avete creduto? Forse vi ha preso in giro!»

  «Lo vedremo. Provalo! Desidera qualcosa, mia dolce mogliettina!»

 «Magari se avessimo una bella salsiccia! Potremmo prepararla subito sulla brace.»

 Appena accennň a questo desiderio, ascoltate che miracolo! Dal camino scese un grande tegame e dentro c'era una salsiccia enorme! Era talmente grande che con essa tranquillamente avrebbero potuto accerchiare il giardino!

 «Vedi che avevo ragione?» chiese  il giovane uomo «Ma adesso č ora che desideriamo qualcosa di piů intelligente. Magari due manzi, due cavalli e un maiale…»

 Nel frattempo il giovane uomo prese la sua pipa per caricarla con quel poco tabacco che gli era ancora rimasto. Cercň di prendere una piccola brace, ma fece un movimento sbagliato e il tegame con la salsiccia si rovesciň.

 «Oh, la salsiccia! Che fate voi? Magari si fosse attaccata al vostro naso!» gridň la moglie dalla disperazione mentre voleva salvarla dalla morsa del fuoco. Ma non riuscě e la lunghissima salsiccia era giŕ attaccata al naso del marito.

 «Vedi, vedi sciocchina, il secondo desiderio č giŕ sprecato! Stacchiamola!»

   La moglie si sforzň  ma non riuscě a toglierla e disse:

 «Eh, non c'č niente da fare, dovremo tagliarla. Potremo tagliare un po' anche dal vostro naso, non sarebbe un gran problema!»

 «Per caritŕ, ci mancherebbe altro! Nemmeno per sogno!»

 «Se no, allora voi dovete girare fino alla morte con questa salsiccia attaccata al naso!»

 «Non pensarlo neanche! Io non girerň cosě tra la gente! Sai, moglie, abbiamo ancora il terzo desiderio… Chiedi che la salsiccia si stacchi dal mio naso e ritorni al tegame!»

 «E allora? Non possiamo piů avere né il manzo, né il cavallo, né il maiale!»

 «Lo stesso, moglie mia, con questi baffi di salsiccia non posso girare! Esprimi presto il desiderio che la salsiccia torni finalmente nel tegame!»

 La moglie non ebbe altra scelta, fu costretta a chiederlo. Trovandola di nuovo nel tegame la lavarono, l'arrosolarono e poi la consumarono con grande appetito fino all'ultimo boccone. Mentre mangiavano fecero la pace e non litigarono piů. Lavorarono diligentemente e col tempo con il frutto della loro fatica, ebbero anche manzi, cavalli e maiali. Vissero felici lavorando onestamente e risparmiando quattrini.*

 

Illustrazione ©  di  Melinda Tamás-Tarr

 

* Versione riveduta, quella precedente giŕ pubblicata nel volume: "Da padre a figlio» di Melinda Tamás-Tarr Bonani, C.Q.L.N., Ferrara, 1997

 

Traduzione/elaborazione © di Melinda Tamás-Tarr

 

HOME.NET - ARCHIVIO-DGL - ARCHIVIO-DGL1

 

HOME