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Giuseppe Bertinatti di Castellamonte

Discorso in morte di Paolo Pallia

(Trascrizione de: Discorso in Morte di Paolo Pallia – G. Bertinatti di Castellamonte – Biblioteca Reale di Torino - Manoscritto Misc. 103(34) – In “Allegati” )


Giuseppe Bertinatti
Questo documento meglio di altri riassume la vita del Patriota Paolo Pallia. Scritto nell'immediatezza della morte, risente del periodo di parziale censura del Pallia e della posizione filo-Giobertiana dello scrivente.
Nel corso degli anni è stato sicuramente la principale sorgente di informazioni utilizzata sia dal Bertolotti che dal Pola per le loro biografie del Pallia.
Il Bertinatti invia il suo manoscritto, presumibilmente a Cesare di Saluzzo, con la seguente lettera di accompagnamento:
Giuseppe Bertinatti

Eccellenza

 

Quanto onorevole e grato, altrettanto profondo trovai il giudizio dell’E.V. dato su quella scrittura, che io ebbi il piacere di partecipare. Io avvisava precisamente allo scopo, che dal giudizio suo, posso lusingarmi d’aver ottenuto. Effetto in me di varie sensazioni, e di prolungate meditazioni fu quel discorso. Io il componeva tra il dolore d’aver perduto un raro amico, il disdegno, che in me produssero le sue disgrazie, il compianto che in me eccitava quella tomba sulla quale volli stendere un velo. Volli dar forma progressiva al mio scritto, ed è in perciò, che accennai piuttosto le questioni anziché definirle, sollevai  punti di riflessione in vece di pronunziare decretorie sentenze, pensai di far nascere dubbi su quella cose, che altri ha di già al grado di certezza collocate.

Il genio di meditare leggendo era appunto quello, che poteva tornare gradito all’autore e questo genio con somma mia soddisfazione ho nell’E.V. incontrato. La dotta approvazione, che Ella ha dato a questo mio saggio mi rende ardito a corredare con apposite note quello scritto stesso, che l’E.V. ha letto. Degnisi per ora di conservare come dono la copia originale, che per mezzo dell’Amico intimo Cesare  a Lei trasmetto. Dal Cuore di due Cesari io non posso sperare che bontà ed indulgenza. Quando avrò rifatto il mio lavoro, e l’avrò a più intelligibile forma ridotto tornerò dell’E.V; e, prima di tornare con uno scritto all amano, verrò ad intendere in persona quella cose, che nella sua meditazione saranno all’E.V. più o meno conformi alla verità.

Accolga l’E.V. i sensi della mia gratificazione e della mia figliale divozione, mentre ho l’onore di dirmi

                                                                                                                                       Dev.mo e Obb.mo Servitore

                                                                                                                                   Avvocato Giuseppe Bertinatti

 

Torino 20. Febbraio 1838.


 

Di seguito Il testo integrale, trascritto dall'originale: 

 


 

In Morte

Dell’Avvocato Paolo Pallia

Discorso.


 


 

“ E tra i suoi falli alta virtude io vidi”

Silvio Pellico di Ugo Foscolo.



 

Chi lesse. E meditò sulle storie deve aver conosciuto come in quella epoche, che appellansi di transizione quando cioè l’antico ordine pare disfarsi, e nuovo sistema di idee e di cose introdursi spunti sempre fuori una razza di uomini, che sono l’espressione delle epoche stesse. Uomini estremi son questi, dotati per lo più d’alto ingegno, di incredibile attività bisognosi di movimento, di novità, di grandi emozioni, silibondi di gloria, chi per appagare la propria ambizione, chi per meritare la riconoscenza della patria od un nome presso la posterità. Uomini di tal fatta sono capaci di tutto intraprendere, e di tutto eseguire: Misurando i tempi coll’ardore delle loro persuasioni essi agognano cose ignote, e stupende; si rappresentano all’immaginativa quelle possibili siccome già esistenti vivono per anticipazione in quello stato, che si sono in idea formato, sognano rovesci, perturbazioni e scosse mondiali, non si sgomentano contro i pericoli, e facendosi di tutti gli ostacoli un affare di poco pregio essi provano una singolare voluttà nell’incontrarli. Terribili presso le monarchie, minacciosi in governo popolare, ardenti sotto antiche aristocrazie essi fanno crollare i Troni, scuotono dal torpore i popoli neghittosi, mettono a soqquadro le nazioni oligarchiche. Questi uomini benché tendenti allo stesso scopo tentano di raggiungerlo per via interamente diversa, gli uni vogliono tutto distruggere per  poscia tutto riedificare, gli altri cercano di  raccogliere quel bene, che ancor ravvisano nella patria decrepita, e su quello innestare un germe di futura prosperità. All’avvento della disgregazione si riconoscono quelli, racconsolasi questi col linguaggio della speranza ed agitandosi si gli uni, che gli altri, e questa loro agitazione volendo imprimere in chi li circonda ne avviene ben soventi, che od essi trascinano la patria a precipizio, o che un profondo cangiamento sociale coroni i loro meravigliosi conati.

Studiando le gesta di questi uomini di transizione si direbbe che il secolo in cui vissero si sia in essi personificato, che ne siano la fedele immagine, che la loro virtù, ed i loro vizii siano il punto culminante al quale pervenissero il secolo che muore e quello che risorge; dal loro cozzo deve dipendere il trionfo della verità.

A questi uomini benché pericolosi, e spesse volta infelici debbono i popoli tutti la loro parziale, o totale rigenerazione; son cotesti i principali fautori dell’incivilimento; dal loro maggiore, o minor numero si può giudicare della maggiore, o minor civiltà d’un paese determinato; senza di essi l’Europa sarebbe tuttora divisa in tante tribù erranti, ed il padre di famiglia, o l’anziano amministrerebbero ancora la giustizia sotto il più antico olmo della foresta.

L’umanità porti sempre su questi uomini un giudizio diametralmente opposto: chi li chiamò benefattori delle nazioni, chi corruttori del Secolo, gli uni videro in essi la virtù di Aristotele, gli altri l’empietà di Tiberio, io osservate le loro imprese non tanto dall’intenzione, che le determinò quanto dall’evento, che hanno sortito vennero loro con vario successo  aggiudicata una statua, od ignoto sepolcro, un alloro od un capestro, gli altari o le forche: vennero salutati colle acclamazioni, ed i plausi della patria provarono le maledizioni, e le miserie dell’esiglio.

La vita privata di questi singolari individui ci viene dalla storia tramandata sotto diversi colori;  Chi fu virtuoso sino all’eccesso, seppure v’ha in virtù eccelso, chi vizioso sino all’estremo, l bontà dell’animo, e la perversità del cuore, la santità e la depravazione, grandezza d’ingegno, grettezza di spirito coraggio spinto sino all’imprudenza timidità, che poté colla viltà confondersi, vastità d’idee, e di piani, strettezza di viste, e di concetti sono il distintivo loro carattere. Generosi od avari, orgogliosi, o modesti, creduli sino all’ignoranza, increduli contro la stessa evidenza tali furono questi uomini straordinari di cui si servì di secolo in secolo, il dito di Dio per iscuotere dai cardini il mondo, e per imprimere un moto continuo alle perfettibili generazioni.

I tempi torbidi produssero questi uomini: essi vissero nel torbido, e quando una serena aurora si fece ad illuminare un più tranquillo orizzonte essi dovettero scomparire dalla scena. Utili per un momento dato essi diventarono perniciosi un momento dopo portentosi stromenti lanciati dalla Provvidenza in mezzo alla Società per ricomporla e rinnovarla. Fatti per partecipare alla grandezza stessa della Divinità, o par posare sotto le ali del suo perdono.

Chi si richiama alla memoria quegli uomini, che sorsero sotto le Repubbliche greche, e quella di Roma, e quando essi caddero; le anime generose che suscitarono la libertà italiana nei secoli di mezzo, gli Eroi, che vissero ai tempi di Calvino, di Lutero, e di Arrigo Ottavo.

I cittadini coraggiosi, che sostennero le anglicane libertà nelle Isole Britanniche; i coloni magnanimi che protestando contro la Madre patria fondarono sul littorale transatlantico l’Americana Indipendenza, e per ultimo i troppo celebri personaggi, che si mostrarono nella memorabile insurrezione di Francia; chi medita sugli illustri secoli di Alessandro, di Cesare Augusto, di Teodorico di Carlo il grande, di Carlo Quinto, di Leone X, di Luigi XIV e di Napoleone troverà i diversi modelli di questi uomini di transizione, che chiamandosi Novatori e Rivoluzionarii.

Pigliando noi la penna in queste circostanze, non è già nostro intendimento né di fare la storia del secolo che corre, né di far profezie sull’avvenire sempre incerto, sempre dubbioso.

Noi lasciamo ai dotti questo grave incarico contenti come noi siamo di potere in questo secolo di luce esporre anche le nostre idee colla scorta delle loro luminose lezioni. Cercando nel passato esempi di moderazione, ed utili norme per evitare quei danni ai quali soggiacque la comunità nostra patria noi ci contenteremo di dare su di essa quegli scarsi, e vaghi cenni, che possano bastare alla spiegazione del soggetto, che imprendiamo a trattare. Niccolò Macchiavelli  descrivendo i terribili rivolgimenti sociali di cui parlano le storie e cercando di spiegare la causa, volle indicarla alla meditazione dei saggi  nel libro V. delle Storie di Firenze e se, dopo tre secoli di particolare esperienza, ancor non concordano i dotti sulle profonde pagine del Fiorentino Segretario, noi non volgiamo con temerario ardimento richiamare l’altrui attenzione su questo grave soggetto.

Volendo noi circoscrivere queste grevi riflessioni al bel paese che Appennini parte e l’mar circonda, e l’Alpi non possiamo dissimulare essere nostra intima persuasione trovarsi desso in una di quelle epoche, che di transizione chiamano. Un difetto di unità, e di idee generali, una smania di imitazione per le cose forestiere, una non curanza delle proprie, quel lodare continuo, che si fa della gloria antica, senza darsi briga di mostrare ai contemporanei la virtù antica.

Il costume nazionale quasi obliato per correr dietro a non so qual’altro di stile Gallico Inglese o Teutonico. Il poco rispetto, che si ha alle leggi stabilite, la facilità del dubbio sulla verità delle cose passate in giudizio. Le relazioni pubbliche, e private ridotte a calcolo o ad indifferenti cerimonie. Una letteratura bastarda, e pressoché senza scopo ove si eccettuino pochi uomini, e pochi scritti, che appartengono piuttosto all’avvenire, che non al presente. La morale pubblica senza l’aiuto di profonde, e solide convinzioni. La religione ridotta a fredde abitudini, e ad inintelligibile misticismo senza il conforto di radicate credenze. Un mal essere generale senza i necessari sforzi onde indagarne la origine ed avvisare al moto di sottrarsene. Un non poter sopportare con dignità il male, né con costanza il rimedio come scriveva Livio dei tempi suoi. Questo stato di cose, che or vedesi in Italia dimostra all’osservatore non superficiale siccome trovisi la penisola nostra in quel lungo e penoso travaglio, che accompagna le epoche da noi accennate.

Quanto abbiano fatto e facciano gli Italiani Principi onde provvedere saviamente ai bisogni del, e dirigerne il confuso movimento, e quanto abbiamo operato gli impazienti Novatori onde accelerarlo di troppo, il che mentre impediva le benefiche loro riforme partoriva per anco quelle desolanti reazioni che in comune deplorarono, ognuno può saperlo da altra penna, ne giova in questo scritto il ricordarlo.

Nel parlar che faremo in questo ragionamento di taluna di quelle cose, che la vivente generazione ha vedute, ed a sua posta giudicate noi non ci dissimuliamo a noi stessi le gravi difficoltà alle quali andiamo volontariamente all’incontro.

Se per una parte la rapidità colla quale gli avvenimenti s’incalzano li fa ben tosto passare sotto il dominio delle storia, per altro lato trovandosi nel passato il punto di partenza, che all’avvenire dirigge, il voler anzitempo parlare di cose non ancor definite potrà farci accagionare di soverchia temerità; e questa accusa ci pare tanto più ragionevole in quanto che essendo i giudizi storici naturalmente complessi è un far prova di leggerezza nel voler anticipare un giudizio quando tutti ancora non si hanno quegli elementi che a formare uno storico criterio concorrono. Ad ogni modo dovendo noi  scrivere d’un uomo, che di transizione crediamo la cui vita è in parte congiunta cogli avvenimenti del tempo in cui visse, o dovevemo lasciare questo soggetto, o non potevamo tacere degli avvenimenti medesimi, e delle cause, che portarono la prodigiosa sua attività a pigliar parte nelle cose politiche.

Per prevenire ogni meno retta interpretazione, che si viglia dare a questo nostro qualunque siasi discorso noi osserviamo, che a nostro credere chi dovrà scrivere sull’attuale secolo dovrà parimenti formarsi un nuovo criterio, siccome nuova noi giudichiamo la moderna società, nuovi i bisogni del giorno, nuove le odierne tendenze nuovo affatto il modo di soddisfarle. E se nel parlare del passato noi vogliam tenerci lontani  da coloro, che trovano nei fatti storici, la ragione, e la giustificazione dei fatti medesimi; noi non possiamo neppure dar la mano a coloro, che dominati da una specie di razionale fatalismo per la cieca fiducia, che essi hanno nei tempi, e nelle idee considerano nell’uomo un essere meramente passivo sotto la loro spontanea azione. Concorrendo  coi tempi, e colle idee, o, come altri volle chiamare, colla forza delle cose anche la libera, ed intelligente attività degli uomini, che possono questa forza dirigere, mortificare, accelerare, o ritirare, noi crediamo, che coll’accordare ai tempi, ed alle idee quanto loro vuolsi legittimamente concedere possansi poscia gli uomini a più scrupoloso, e diretto esame sottometta a norma delle intenzioni , e dell’istituto di vita coia quali agli avvenimenti parteciparono.

E se, nell’instabilità delle cose umane, processi circa la bontà assoluta, o relativa dei tempi, e delle idee, nel loro concetto generale ed astratto considerati, invece libertà di giudizio; noi pensiamo che gli uomini, sotto un punto di vista concreto e pratico osservati, debbansi dietro gli immutabili principii del giusto e dell’onesto a severo ed imparziale giudizio sottoporre. Colla volontà d’essere giusti noi intraprendiamo a scrivere; se questo scopo noi avremo raggiunto lo giudicherà il lettore.

Verso la metà dello scorso mese di Ottobre un lungo e mesto carteggio accompagnava un feretro. Profughi d?Italia, di Polonia e di altri stati al di là del Meno, che seguitavano la lugubre bara dicevano in vario idioma, che erano privi di patria, e che assembrati in terra straniera rendevano gli ultimi onori di triste fratellanza a chi patria più non poteva in terra sperare. Un ministro di Dio, che recitava sommessamente la preghiera dei morti dimostrava, che cattolico era, chi in paese non cattolico trovava sepoltura. Il dolore, ed il disinganno, che regnarono in quella funebre comitiva lo scorse il Cielo. Intanto una vittima delle rivoluzioni calava nella tomba, e poca terra copriva le ossa d’un giovane, che non aveva ancora compiuto il sesto lustro dell’età sua. Calde lagrime di amicizia onoravano quel tumulo, e quando le porte del cimitero di Losanna si chiusero su quelle spoglie mortali l’ultimo addio degli astanti aveva invocata l’eterna pace a Paolo Pallia.

I fogli pubblici annunziavano la morte di questo infelice Subalpino. Chi pianse l’esule, chi deplorò l’amico, chi onorò il giovane d’alto ingegno, e lamentò le perdute speranze, che in lui fondava la Patria. Il fato di Paolo Pallia venne udito dagli amici Italiani con profonda mestizia, e qualche represso sospiro partito dalla penisola rispose all’afflizione Elvetica. Il cordoglio, che provammo a questa infausta notizia noi soli il sappiamo; e se lagrime non abbiamo versate si è perché il cuor nostro, temprato da lunga mano al dolore non ci da neppure quest’innocente sfogo col quale, possiamo disacerbare le interne pene. Congiunti all’estinto per vincolo di patria, per comunione di studii, per particolari sventure, e per provata antica amicizia noi non sappiamo in miglior modo tributare alla sua mummia una condegna corona, quanto col tessere un funebre racconto sulla sua vita, toccare dè suoi studii, accennava dei suoi scritti e raccontare qual perdita tange la patria nell’immatura sua morte. L’affetto che a lui portammo  in vita non ci rese mai ricchi amministratori di tutte le azioni sue; ed il dolore, che ci accora pensando alla sua morte non farà velo al nostro giudizio sulla fredda sua tomba. Noi narreremo candidamente i fatti in faccia a coloro, che conobbero Paolo Pallia, il suo nome appartiene all’Iliade delle sciagure Italiche, gli imparziali Italiani il giudicheranno.

In Rivara nella Provincia del Canavese del marilegio di C.e Molinatti col medico Giuseppe Pallia traeva i suoi natali Paolo nostro nell’anno 1810 (sic!). Allevato dal Padre , che era stato uno tra i più zelanti propagatori delle idee oltremontane nel tempo del dominio Francese in Italia, era mestieri, che il figlio non si piegasse ad altra maniera di sentire tranne a quella, che a lui veniva col latte stesso instillata. Assecondavalo la madre nelle stesse opinioni come, quella, che divideva onninamente le idee del marito su questo punto, e cresciuto il comune lor figlio ai liberi pensamenti egli pigliava tra i domestici lari quelle mosse, che dovevano portarlo più tardi ad ispirarsi sulle ardite gesta di Rienzi, di Giovanni da Procida e di Masaniello.

Mandato a fare i suoi primi studii di latinità alla Rocca di Corio sotto l’Abate Castagneri, questo antico Professore di Belle lettere scopriva ben presto qual indole fosse la tenera pianticella, che veniva alle sue cure affidata. Conobbe nel giovane. Paolo un ingegno svegliatissimo, un’immaginazione smisurata, un cuore amorevole, e docilissimo. Giovani di tal fatta fa d’uopo diriggerli per la parte del cuore; presi per altro tale essi diventano caparbi o dissimulatori. L’eloquenza del cuore è quella sola; che deve venire fece loro adoperata e l’abate Castagneri ne aveva moltissima di questa eloquenza. Questo Parini redivivo, che aveva passata la sua vita in tempi calamitosi, e tra uomini infingardi ai quali non appose mai altro teoretici l’integrità della sua vita conosceva pur troppo quali destini siano riservati a coloro, che dominati da eccessivo immaginare, o da smodato sentire vanno a slanciarsi in mezzo alla società senza la necessaria guida di conveniente prudenza, e permette di buon ora pel suo giovane Paolo. Per anti venire ad ogni danno tentò il Prof.re Castagneri di ispirare al suo tenero alunno la vocazione allo stato ecclesiastico, e gli riuscì di fargli indossare l’abito chiericale.

Entrato Paolo nel Torinese Seminario ivi fece i suoi primi studii di filosofia, ed ottenuta una volta per sempre il più distinto posto tra i suoi condiscepoli, egli ebbe degli emuli, ma non seppe reggere all’idea, che altri il superassero. I suoi compagni non seppero mai distinguere se in lui fosse più ammirabile l’elevatezza della mente, o la bontà del cuore due qualità che egli in sommo grado possedeva. Terminati i filosofici studii applicavasi Paolo ai teologici, e questo incontentabile investigatore dell’intima ragione delle cose parve dapprima disgustarsi nella sterilità delle digressioni scolastiche. La sua mente era troppo vasta per potersi avvezzare alle sottili grettezze del medio evo. Per impiegare il tempo in maniera al suo gusto più confacente imprese paolo a studiare le lingue, e cominciò dalla Greca, e dall’Inglese, finechè giunto al 3° anno di Teologia epoca in cui dovevansi per lui intraprendere gli studii Ermeneutici, Critici, biblici giudicò quanto potessero tornargli opportuni gli studii filologici, e particolarmente le lingua Ebraica onde aver maggior facilità di fare emergere dal confronto del testo, e delle chiese la verità delle Divine Scritture, dichiarare i luoghi oscuri, e spandere nuova luce di quelli che ancor non essere da universale interpretazione accettati.

Rivolto l’animo allo studio della lingua ebraica fece si rapidi progressi nel corso di tre anni sotto la disciplina dell’Abate Peyron, da poter tradurre senza l’aiuto di lessici Al Tehinin ed il Torah Beiinin Uchetutin; e poiché conosceva egli si addentro la madre lingua; che era nata sulle sponde dell’Eufrate poteva di leggersi trascottere alle lingue affini la Siro Caldaica, e d’ Arabia; datosi in seguito nuovo animo, e pigliate le Grammatiche dello Schroeder, e di Sacì, egli se le imparò tutte, e due nello stesso anno in cui la Laurea Teologica gli veniva con Universale Plauso conferita.

Era Paolo nel quarto lustro dell’età sua quando già aveva percorso si lungo cammino, ed i suoi Precettori, che lo avevano sotto la loro direzione il giorno prima il desiderarono per amico nel giorno al Dottorato susseguente, e gli pronosticavano i più felici successi per l’avvenire.

Non potendo Paolo aspirare agli ordini Sacri per difettio d’età pensò di tirat partito dei suoi lumi col farsi accettare qual Regio Ripetitore di Filosofia a ciò particolarmente indotto dai consigli e dall’amicizia d’un giovane di rara semplicità, e di prodigioso ingegno L’Abate Vincenzo Gioberti. Ottenuta questa facoltà egli mettevasi all’esercizio, ed il continuava per tratto di tre anni. Vedevansi allora due giovani amici ambidue addetti allo stato Ecclesiastico esporre ai loro uditori con rigorosa analisi il metodo filosofico del profondo contemplatore di Koninsberga, le nuove Teoriche di Tommaso Reid, e di Dugald Steward, il Neoplatonismo di Victor Cousin. Mettevansi in voga per essi in quegli anni i Sistemi di Fichte, di Schelling e di St. Simon, e di Jacobi, ed adottando progressivamente il fare di Bruker, di Buhle, di Degrando e di Danniron ingenerarono nell’animo di chi li ascoltava tanto ardore di studio, e tanta curiosità di investigazioni, da in breve tempo questo stesso ardore penetrava anche fra costoro, che più non erano a regolari studii obbligati. L’invidia, e la calunnia cominciarono allora contro i due giovani amici, e da quel punto essi segnarono l’anticipata loro prosecuzione. Vollero essi spingere troppo oltre le generalità filosofiche procedendo per sintesi, e discorrendo ai varii suoi rami la religione, la morale e la Politica nel che mostrarono di non conoscere bastantemente lo stato attuale delle cognizioni in Italia. I loro accusatori temettero che chi si dilettava di speculazioni metafisiche potesse per avventura diventare uomo di pratica, nel che cedettero, che non si dovesse impunentemente tollerare nella poetica d’Italia quanto viene praticato nella fredda Germania. Chi scriverà la storia di questo secolo dirà sino a qual punto fossero fondati gli errori degli uni, ed i timori degli altri nell’atto in cui scriviamo noi facciam voto perché il perdono, la riconciliazione, e la speranza siano nel cuore di tutti gli Italiani perché nel rispetto alla idee divergenti trovisi un nuovo motivo di vicendevole fratellanza.

L’uomo sarà in ogni tempo riottoso sotto il peso d’una ingiustizia benché egli abbiala provocata, ma la calunnia, che colpisce l’innocente solleva un sentimento di profondo sdegno nell’intimo della coscienza quando le persecuzioni vengano in giovane età, e da un cuor generoso sopportate esse danno all’anima una tal tempra di irritabilità, e di fierezza, che più non si scompagnano per tutta la vita, e se sono desse dirette contro la parte intellettiva dell’uomo, e quando questa non è ancora con la parte operativa maritata possono le sudeffare spingere piuttosto l’uomo alla violenza, od al sacrificio della propria vita anziché correggere il lato difettivo d’un errore unicamente razionale. Tale fu pur troppo l’effetto dei dardi contro i due giovani filosofanti lanciati. L’uno, e l’altro non erano accessibili a corruzione non sapevansi piegare alla forza, né si lasciavano dominare da una ambizione. Il solo mezzo di come vincerli era quello del cuore, e della ragione, e chi prese a perseguitarli potrà invocare la propria buona fede a sua difesa, ma non conobbe certamente quella via delicata, ed unica colla quale si può esercitare la più sicura influenza sull’intelletto diriggendosi con nobile insinuazione ai sentimenti affettivi dell’animo.

Separatisi i due compagni onde non dare nuovo motivo di accuse L’uno continuò come Socrate a predicare la virtù e la scienza a coloro, che il seguitavano, ed accadde a lui quel che accadde a Socrate, che non tutti i suoi discepoli hanno saputo conoscere né giustamente apprezzare. Pallia ritira vasi nel suo borgo natio. La morte del Padre, il conseguente mal sesto dè suoi affari l’obbligarono ad accettare la carica di maestro di scuola in Rivara: e quel giovane, che aveva colte tante palme universitarie, che poteva leggere in originale la Bibbia, ed Omero, l’Alcorano e Shakespeare; Virgilio  eTacito; colui ch esponeva dapprima i sistemi di Pitagora, delle Scuola Eleatica, della Tirrenica e dell’Alessandrina, chi faceva con dotta analisi il critico confronto  dello Spiritualismo col sensismo, del misticismo coll’eccletismo era ridotto in ignoto angolo della terra a mostrare il Donato ai fanciulli. Bene ha meritato Paolo Pallia con questa sua generosa azione poiché il dovere, e la riconoscenza di figlio dovevano prevalere agli onori d’una cattedra, alle glorie Accademiche, ed ai sollazzi d’una Capitale. La solitudine di Rivara venne da Paolo destinata a nuovi studii. Ripigliò egli il suo prediletto Cicerone per istudiare la maschia eloquenza del foro, e studiò Giustiniano onde farla servire alla difesa dei comuni diritti. Trascorsi due anni in Rivara tornò Paolo a Torino e veniva creato Dottore in Leggi. Doppio serto ornava quel giovane ciglio già solcato dalle cure, e consolava il suo animo già piagato da precoci ingiustizie.

Era l’anno 1832 quando l’Avvocato Paolo tornava alle sue Torinesi domestichezze. Le tre giornate di Luglio avvenute in Francia avevano scossi gli animi, e risvegliato in tutta l’Europa le ricordanze del 1789. Le spiegazioni date da Perrico, e da Dupin a quella rivolta non andavano a sangue degli Italiani Novatori, Dupin e Perrico parlavano particolarmente alla Francia, ed ai Francesi. Intanto la Polonia scosso il giogo della Russia si governava per mezzo d’un Senato Nazionale. Bologna inalberava il vessillo tricolore. Gravi tumilti procedevano in Romagna. Ancona voleva imitare le città Anseatiche. Il Duca di Modena avendo dato lo sfratto per paura di sommosse popolari tornava sul trono appoggiato dalle bajonette Tedesche. In mezzo a questo generale trambusto gli animi erano irrequieti i governi sospettosi la società pareva sfasciarsi. I profughi Italiani al di là delle Alpi eccitavano gli spiriti alle rivoluzioni. Un mal concepito, ed incendiario giornale di cui non si potrà mai abbastanza deplorare il danno, che ha prodotto facevasi organo dei sentimenti liberi, ce dovevano dominare, ed estendersi per tutta l’Italia. Una folla di giovani dicervellati e temerari credutisi per singolare illusione del tempo chiamata ad assumere in mano la somma delle cose, e venuti in pensiero, che una sommossa progettata da una mano di fuoriusciti, ed istigata dallo straniero protetta all’interno dalle politiche associazioni fosse possibile ad eseguire, ed utile quand’anche eseguita sognò la Nazionalità Italiana. In questo grandioso errore cadde l’Avvocato pallia, e come quello che imprimeva i moti del suo infuocato cuore a tutto quanto lo eccitava adoperarsi a liberare l’Italia dai Barbari, come egli appellava i Tedeschi, che in parte la posseggono. Pallia era potentissimo logico, ed entrato una volta in una questione, sposata appena una causa egli non la lasciava più, ed era tale da spingerla sino alle più rimote conseguenze. Fatale a tutti, ed a lui fu quel delirio; ma Paolo era convinto, che così dovessero andare le cose, e la sua coscienza gli faceva una violenta legge di avvisare ai mezzi onde far nascere una Rivoluzione in Italia. Quali mezzi egli abbia usati noi l’ignoriamo. Questo sappiam noi bene, che la sua mente era incessantemente travagliata da questo torbido ed insistente pensiero.

Giunto egli a quell’età in cui ogni cuore gentile può apprezzare la bellezza, ed invaghirsene massime se a virtù va congiunta amò Paolo, chi questi pregi possedeva. Ma quando credette, che il tempo era vicino in cui doveva egli tradurre in pratica le sue politiche astrazioni prese nobilmente commiato da quella cara persona alla quale se poteva costare una lagrima quel suo abbandono, doveva risparmiare delle maggiori l’ardita impresa alla quale stavasi preparando. Con questa risoluzione provò Paolo sentire egli quanto venne appositamente descritto dall’esimio Poeta:

“Rieda al primo di laude sospiro,
Dà suoi lacci questi alma fremente;
Della Patria l’affetto possente,
Gli altri affetti costringa a tacer”

(Nicola Vaccai-Luigi Toccagni: Marco Visconti - 1838 - Dramma - Giornata Terza - n.d.r.)

 Pensava il Pallia alla patria, e questo pensiero era si fisso in lui, che la sua salute stessa veniva deteriorando al segno, che gli fu mestieri di farsi cavar sangue per frenare, come egli diceva, la sua troppa energia. Le avesse letti gli scritti di Esquirol, e di Bronsvais in vece della Giovane Italia il rimedio non gli sarebbe venuto meno. Un uomo sospinto al punto in cui Paolo era deve necessariamente essere imprudente e le imprudenze costavano care in  quel momento. Il Governo Piemontese aveva nel 1831 con generosi atti di clemenza tentato di guadagnare gli animi dei Novatori, e trovato questo mezzo insufficiente vedevasi esso nella stringente circostanza di usare dell’alto rigore delle leggi al primo moto, che potesse farlo dubitare, che la pubblica quiete venisse perturbata. Nasceva sgraziatamente simile congiuntura. Le arrestazioni cominciarono, furono creati tribunali misti per conoscere dei delitti politici, e le palle soldatesche rompevano il capo ai relatori imprudenti dell’Italiana Nazionalità. Pallia indicato come sospetto di partecipazione ai progetti rivoluzionarii veniva dalla Polizia particolarmente invigilato. Avvertito perché si sottraesse alle perquisizioni domiciliari, che in allora facevansi egli persisteva a starsene in Torino; finchè pregato, e scongiurato da tutti i buoni di andarsene lontano dalla Capitale, e dimostratogli, che il suo soggiorno in patria era per lui pieno di pericoli fermò finalmente in animo di riparare in luogo sicuro.  Percorse con incredibile celerità la terra del Canavese, ed appena giunto dalla Riva Sinistra della Dora Baltea cadde ammalato. Cinque cavate di sangue fattegli in casa d’un amico dove ricevette cordiale ospitalità il misero in istato di poter guadagnare dopo quindici giorni la Valle d’Aosta e di portarsi con diverso abito sulle cima delle Alpi Pennine. Un buon Prete, che capitava su quelle alture conosciutolo per un fuggiasco glia dava ricovero; e senza investigare se fosse Giudeo o Gentile, Greco o Barbaro commiserò lo sventurato, e nell’imitare il suo Divino Maestro mentre il muniva con evangelica carità d’un egregia somma di danaro affidavalo ad alcuni Alpigiani perché lo accompagnassero sino ai confini dello Stato.

Toccata da Paolo la terra del Vallese, ed incontrati altri compagni d’infortunio ivi soggiornò qualche tempo, finché tirato dagli inviti, e dalle preghiere di più incauti fantasticanti andò a Ginevra.

Quando la madre di Paolo ebbe certa notizia di tutte le sciagure del proprio figlio, e della positiva sua emigrazione in Elvezia colpita dessa da parziale paralisia cadde in quella lunga, e dolorosa malattia, che doveva portarla al sepolcro siccome la portò dopo alcuni anni.

Stanziando Pallia in paese straniero trovavasi a bazzicare con coloro, che l’avevano messo sulla via della rivolta, ed aggiungendo in questa guisa furore a furore, fuoco a fuoco egli diventava frenetico, e non sapeva capire come la fiaccola rivoluzionaria ancor non ardesse, e incendiasse tutta l’Italica terra. Nel soggiorno di Ginevra egli continuava questo misero sogno! I disastri dell’esiglio avevano aggravato il suo stato morale, e fisico, imperiose circostanze dovevano portarlo a pensare alla propria sussistenza.

Correvano nell’anno 1834 per le mani di tutti gli amatori di Novità le Parole d’un Credente recente opera dell’Abate Francesco La:Mennais nella quale le tumultuanti passioni d’Europa avendo incontrato una terribile eco, ognuno era invitato a leggerla a giudicarla. Efficace dessa per altezza di immagini, e di stile, spaventosa per le atroci pitture di sangue, che contiene; creduta con ottimo giudizio ispirata da un angelo di luce, e mandata fuori da un Demone tenebroso, come quella, che coll’insinuante persuasiva dell’amor degli uomini può contagiare gli animi, istigare i popoli e trasportargli al vicendevole loro sterminio, era naturale, che il delirante Paolo rapito dalla forma profetica, ed evangelica di questo scritto, sciupare per allora di giudicarne il fondo, e la sostanza, si impadronisse con furioso trasporto di quanto quel Macchiavellico Prete aveva dettato, e se lo facesse suo. Così egli fece. Tolto in mano questo misterioso libro il voltava Paolo in lingua Italiana con tanta onestà di stile, e precisione di concetti, che ti pare leggendo questa traduzione di aver sott’occhio il libro di Isaia trasportato nell’idioma Toscano da Giovanni Diodati.

Il capo dove è descritto l’esule vince, a nostro credere, lo stesso originale per splendore d’idee, e per gravità di lingua. Pallia descriveva quello stato, che per la prima volta provava! Collo stampare la sua traduzione trovò Paolo il mezzo di poter discretamente vivere pel tratto di qualche mese.

La Svizzera era in quell’anno il convegno di tutti gli emigrati, l’emporio di tutte le idee il centro di tutte le trame. Tanti giovani senza patria, tante speranze deluse tante fortune perdute, tanti disastri tollerati non potevano ingenerare un quieto vivere, e far rispettare la generosa ospitalità, che la Repubblica ai fuoriusciti accordava essendo essi Rivoluzionari ad ogni costo, e piuttosto volevano morire ad ogni costo. Il generale Ramorino veniva da essi accarezzato, ed indicato come colui, che poteva mandar ad effetto la loro politiche mire. La fama che egli erasi acquistato in Polonia, la sua perizia nell’arte della guerra, la sua buona volontà nel tentar nuove imprese il rendevano accetto a questi infuriati demagoghi, ed il progetto di penetrare in Italia per mezzo della Savoia venne nelle loro forsennate conventicole deliberato. Facevasi Pallia ad arringare i congiurati, ed era uno dei primi all’impresa; e quegli uomini di diverse nazioni resi dall’esiglio, e dal continuo loro mulinare allo stato di pressoché totale insensibilità furono ridotti a mandar lagrime appena udita la patetica, e vibrata sua orazione. Attraversarono i congiurati il Lemano e portavasi di notte tempo verso la Savoia. Il loro successo è noto a tutti; l’insensatezza di questa risoluzione fruttò scredito degli istigatori, e di chi aveva lor data fede, costò la vita a taluno, e rese odiosa la causa per la quale avevano voluto combattere. Tornarono i disingannati Profughi in Ginevra, e collo sdegno del disappunto mirarono il sinistro viso dell’Elvetica Popolazione. Intanto l’Austria, e la Sardegna appoggiate in queste faccende dal credito della Francia protestavano contro la Svizzera per la violata neutralità del suo territorio, ed in nome del diritto delle Genti, e delle pacifiche loro relazioni, chiedevano l’espulsione di quella bordaglia, che a null’altro intendeva, che a propagare il fuoco delle Rivoluzioni in tutta l’Europa. Pallia dotto oratore pregò i membri del Senato onde difendere la perduta sua causa, ed invano il diritto d’asilo per se, e pei suoi compagni si presentò al loro cospetto; egli parlò con molta eloquenza, ma la Dieta dovette por parte ai principi dell’antica Repubblicana prudenza e dar qualche soddisfazione alle minacciose note Diplomatiche. Narrasi che Pallia scrivesse allora una relazione manoscritta della Spedizione di Savoia, atri pensa alla penna d’un profugo del 1821 questa scrittura Pallia non avendone mai fatto cenno come di cosa sua noi non possiamo pronunziare alcun che di certo su quel ignoto dettato.

Il pessimo risultato della spedizione di Savoia, il danno che a Pallia derivava coll’aver manifestamente portate le armi contro la patria coll’esser incorso nella pena ai perdicelli riservata ove avesse osato di rientrarvi, la sorveglianza alla quale veniva assoggettato rimanendo in Ginevra il determinarono ad abbandonare questa città, e di portarsi in Losanna. La più tempestosa epoca della vita di Paolo fu appunto la dimora di Losanna. Se ivi trovò il paese ospitale, trovò ingiusti, ed ingiusti quelli stessi, che lo avevano trascinato ad immischiarsi nelle cose politiche. Se incontrò Mecenati, che il protesse coll’offrire a lui i mezzi di onorato vivere in compenso delle lezioni di lingua, e di filosofia, che loro dava, fuvvi chi disse essergli quel danaro da impura sorgente derivato. Se accagionava dapprima la sua patria di violento ostracismo, più mite egli diventava verso di essa quando con qualche buono mandato ai confini vide frammista una turba di gente ingiuriosa guasta da mala educazione, e dai vizii tra la quale è miniera inesausta di calunniatori, di traditori eterni guasta menti del sociale edifizio.

A questo segno venne Paolo spinto dal suo politico fanatismo. Il non aver saputo frenare per tempo il soverchio bollore della sua gioventù; il presumere troppo di se egli, che in ogni altra cosa modestamente sentiva; un esame incompleto degli uomini, e dei veri bisogni d’Italia avevano travolto il suo giudizio, e fatto dare nel falso. Specchiatosi egli né suoi bei tempi credette alla possibilità di farli nuovamente risorgere, come se dovessero le nazioni essere sempre grandi nella stessa maniera. Noverati gli atti di eroico coraggio, e di civili sacrifizii, dei quali è abbondante l’Italiana Storia formossi egli una religione di sacrifizii senza troppo investigare da ragionevole, ed utile fosse la causa, che al sacrificio il portava. Così egli educatosi accusava l’altrui codardia e chiamava vituperevole timidità, quel che era consiglio di oculata prudenza; e nell’esagerar, che faceva i mali della patria dava egli carico all’odierna generazione di quel male stesso, che a lui derivò dalle generazioni, che l’hanno preceduta. Dietro questa fatale opinione egli volle con colpevole audacia moncar col ferro e nella prima metà del secolo quell’italico nodo, che non col ferro, ne fors’anco al suo tramonto non vedeva troncato.

Grave torto ebbe Paolo in questi tentativi; e se l’infelicità sua poté espiare una parte, noi non possiamo scusarnelo dalla reità, che incontrò non tanto per aver sognato di opporsi ad una straniera dominazione, quanto per aver rivolte le armi contro il suo natio paese. Lodatore come Paolo era di Procida non ne aveva l’accorgimento, né gli appoggi né favorevole la condizione dei tempi; e quando questa cose non gli fossero mancate egli doveva fremere all’Idea dei Regni Siciliani. Encomiatore di Masaniello non trovava in patria né conclusioni, né ritorsioni, né sacrifizii, che potessero giustificare, e farlo prorompere in quella sua politica rabbia. Imitatore di Rienzi egli doveva conoscere i funesti effetti della poesia quando viene in affari di governo adoperata.

Per finirla Paolo con questo stato di incertezze, di dubbi, e di violenze si rivolge a provetti amici, e nel far tesoro dei loro consigli deliberò di portarsi nella Capitale delle Francia. Ottenuto in Losanna un passaporto col finto nome di Pietro Alliotti recossi direttamente in Parigi. Colà Pallia costretto ad invocare la responsabilità di Victor Cousin, già da lui per letteraria corrispondenza conosciuto, onde ottenere dal Prefetto di Polizia il così detto permis da sigourn si trovò in grado di meglio conoscere cosa fossero  le rivoluzioni, ed i rivoluzionarii; e non poteva conoscerlo con maggior efficacia, quanto osservando nel centro stesso della sommossa. Conobbe Paolo in pratica come si possano operare rivoluzioni senza violenza, e come dentro i limiti della legalità, e di quanto possono i tempi comportare il far la guerra ai pregiudizii col diffondere i lumi sia una vera rivoluzione, che ogni privato cittadino può fare. Imparò, che tutte le rivoluzioni politiche non si sono fatte, né si faranno in avventura a mano armata; e poiché lo scopo ultimo d’ogni rivolta tende ad abolire un vecchio sistema di cose col sostituirne un nuovo e più appropriato, Giuseppe II e Robespierre, Leopoldo e Marat possono tutti chiamarsi Rivoluzionarii, e quanto al fine, che si sono proposti, e quanto ai risultati, che hanno ottenuti. Se non che la memoria dei due Principi Filosofi, e Legislatori sarà eternamente benedetta dall’Austria, e dalla Toscana, quella dei due Francesi tribuni sarà maledetta, benché venga accettato quel bene, che la sanguinaria loro mano produsse.

Rivolgendo quindi paolo il pensiero alla diletta sua patria conchiuse; che il maggior bene di essa dipende essenzialmente dai suoi Principi; e che nello stato attuale delle cose, il volerlo altrimenti promuovere, sarebbe lo stesso, che il voler aggiungere una nuova pagina alle sciagurate sue vicende, ed esporla forse anche a perdere la propria autonomia col farla passare sotto il domino dello straniero. Richiamante in questa guisa a nuovo esame le sue opinioni, ed il suo operato vide Paolo, che il suo cuore generoso dietro il fallace raggio delle pure teorie l’aveva fatto varcare i confini del vero, e del reale; e convintosi, che i soli studii filosofici non sono sufficienti onde trattare con sicurezza le faccende degli stati, risolse di voler tener broncio alla politica.

L’ospitalità che la Francia a Pallia concedeva, i sussidii, che in qualità di proscritto gli venivano dal Governo accordati, il portano a rendersene degno col non prendere ulterior parte a quelle altre rivolte, che si potessero nell’interiore del paese macchinare. Provò Pallia così operando che egli sapeva dipanare le utopie delle cose possibili che conosceva quanto egli dovesse a questa grande nazione quanto doveva a se stesso, e che la probità politica non era l’ultima tra le virtù sociali, che egli possedesse. E quando fu ben bene persuaso, che egli non era fatto per maneggiare un arme così pericolosa come è la Politica, per conoscere i varii suoi lati, e gli intricati raggiri tornò ad occuparsi di studio.

Per veder modo di supplire alle largizioni, che si davano ai rifuggiti cascò Paolo di insegnare per mezzo di private lezioni la lingua latina al quanto trasandata nella pubblica istruzione perché combattente del Sistema Utilitario, che esercitò una straordinaria influenza anche sulle lettere. Pervenne Paolo dopo alcuni mesi di ricerche a trovar qualche allievo ed assicuratasi in tal modo una onesta carriera potè nuovamente riassumere il suo favorito studio della filologia. Datosi perciò alla lingua Persiana sotto disciplina di Silvestro di Sacì, e ripigliati gli autori arabi, andò ad udirne il commento al Collegio di Francia, e la letteratura, la filosofia, e gli studii solidi formarono da quel giorno l’esclusiva sua passione. Rivedeva le opere di S. Agostino, e di S.Giovanni Crisostomo, che stavansi pubblicando per cura dei fratelli Gaume Editori, e noi volumi già stampati sotto la direzione sua facilmente si scorge con quale discernimento, ed accuratezza egli abbia confrontati i diversi manoscritti, e provveduto alla genuinità, ed integrità del testo. Dalle prefazioni che appose si vede come egli sapesse di buona latinità, e dalla lettura del testo e delle note appare chiaramente, che l’esule Piemontese non erasi separato dall’ortodosso opinare, e non aveva obliate le discipline teologiche.

Il guadagno, che Pallia ricavava dal contratto coi fratelli Gaume fatto portollo a pensare, che si potesse con nuovo commentario sull’erudita opera del Vescovo d’Ippona Della Città di Dio provvedere ai bisogni degli studii storici medesimi, e dell’attuale letteratura raccoglieva a tal uopo numerosi materiali nelle varie Biblioteche di Parigi, ed avrebbe condotto a termine il cominciato lavoro se le lettere orientali non l’avessero maggiormente allettato. E veramente chi considera quanta potenza abbia sull’uomo il far poetico degli Orientali non troverà meraviglia di sorta, che un giovane come Pallia abbia potuto innamorarsene.

Possedeva egli il sicuro mezzo di gustarlo più davvicino potendo attingere al fonte stesso da cui quelle ispirate poesie dimanavano. Erano note a Paolo, e le scritture originali degli autori, e le chiose letterarie di quei Dotti, che le avevano dichiarate. Giudicava Paolo dell’ebraica società dalle profonde e leggiadre lezioni di Roberto Lowith dette al Collegio d’Oxford, alle quali egli aggiungeva le ingegnose osservazioni della nuovissima opera si I. Salvador sulle istituzioni di Mosè, e del popolo Ebreo. Delle cose d’Arabia Paolo parlava colla scorta della Crestomanzia di Silvestro di Sacì. Le sublimi poesie dettate dai vati Ebrei esulanti a Babilonia erano in paricolar modo sentite da lui, che trovavasi pellegrinando in terra non sua; e noi , che il vedemmo talvolta tutto preoccupato da questa grandi, e patetiche idee ravvisammo in lui l’immagine di quel Veggente, che nel voler lenire l’interno cordoglio orava a Dio, ed appendeva la malinconica sua cetra ai dimessi rami d’un salice!

Soggetto di dotte ricerche, e di filosofici studii è L’Arabia per chi si metta ad eseminarla principalmente dal punto in cui le lettere greche vi penetrarono sino alla cacciata dei Mori dalle Spagne. Una serie di Prosatori, e di Poeti sono il retaggio dell’Araba Nazione resa si formidabile dalle armi dei due Maometti, e di Solimano. La storia dei capi di tribù, dei Califfi e dei Sultani non è priva di quei meravigliosi, e svariati avvenimenti, che scuotono l’immaginazione, e parlano al cuore. Chi conobbe Paolo potrà soltanto dire qual pascolo trovasse la sua poetica fantasia in queste curiose investigazioni.

Chi invaghito della moderna civiltà arrivata sulle sponde dell’Oceano Europeo vuol rimontarne all’origine attraverso i quaranta secoli pei quali passò quando partiva dal centro della antica Asia; chi ammirando gli stupendi vantaggi dal Cristianesimo apportati alle Nazioni che lo abbracciarono vorrà risalire a quei colti dai quali egli tolse in imprestito il simbolico velo, ed il misterioso linguaggio col quale le sue rivelate verità vennero ravvolte; chi richiamando a nuovo esame la storia amerà conoscere le varie emigrazioni dei popoli, le loro guerre, e le loro politiche vicende, ed il qual modo governassero o venissero governati; Chi penetrato dalle bellezze dell’Occidentale letteratura vorrà sapere come innestata dessa sull’orientale pigliasse poscia nuova forma a seconda dei tempi, delle idee, del clima, e delle nazioni, che l’hanno coltivata troverà negli studii critico-filosofici il più sicuro stromento col quale avventurarsi possa in questo profondo Pelago dello scibile umano.

Il Giovane Pallia, che aveva già lette le opere di Edoardo Gibbon, di Huren, di Savigni, ed aveva in gran perta consultati gli scritti di Davide Michachy di Rosenmuller di Paulus Eiechorne e Bavero, di Volney, Champollion che conosceva l’arte critica di G. Clerico le nuove opere di Matter. E doveva sentirsi trasportato agli studii suddetti dallo stesso entusiasmo col quale rivolgevasi altra volta alle cose politiche. Durava in lui lo stesso ardore, la stessa attitudine, se non che il soggetto sul quale andavasi oramai dirigendo era diverso. Nell’uno egli non aveva, che a vincere quelle difficoltà, che le vetuste semitiche lingue, ed i monumenti che a noi le tramandarono appresentano ai loro cultori, ed in queste difficoltà la ferrea volontà di che continuamente diceva:

Vien dietro a me, e lascia star le genti
Sta come torre ferma, che non crolla
Giammai la cima per variar di venti

Poteva ripromettersi qualche vittoria. Nell’altro egli doveva cimentarsi contro tutti quegli ostacoli, che vengono incontrati da chi si mette nell’immediato contatto cogli uomini non più seduti sui libri, ma osservati in società col solito loro corredo dell’ignoranza, della malafede, e di tutte quelle brutte passioni, che fecero l’argomento delle Satire di Giovenale, dello Stoicismo di Montaigne, dei Sogni di Rosseau, della disperazione di Byron, ed in queste prove l’ingenuo cuore di paolo spesse volte lo aveva ingannato. Simili inganni avrebbero viemmargiormente sviluppata in lui quella naturale malinconia, che Aristotele osservò essere comune a tutti gli uomini di genio; e questa tendenza avrebbe degenerato in una  nera misantropia se un grato rimedio non fosse venuto per tempo a preserverarnelo. Tal rimedio trovollo Paolo nella stretta amicizia, he egli contrasse coi più insigni Orientalisti della Francia, e dell’Europa, e nell’onore, che venengli fatto coll’essere nominato a membro della Società Asiatica di Parigi.

Mueller mandato dal Re di Baviera per consultare i varii manoscritti della Reale Biblioteca di Parigi. Zinkaissen Professore di Lipsia, ed autore della nuova Storia sulla Grecia, Il Polacco casimiraki, l’ellenista Fixe, Il Portoghese Dubecesc Bibliotecario del Re dei Francesi Chiostratore del Poema Persiano di Tabasi intitolato a Lord Clarence, ed altri Francesi e Tedeschi il cui nome ancor non molto suona furono gli intimi amici di Pallia, e quelli, che di concerto coi proprii Professori lo spronarono a seguitare con forte lena lo studio delle cose d’Oriente. Quando il giovane alunno si vide portato a tanta altezza, e si trovò collega dè suoi quattro Professori Peyron, Sacì, Letronne, Quatromere ne volle loro provare se fosse degno di sedere seco loro all’Asiatica Accademia. I Discorsi, che ivi tenne, le memorie, che lesse nelle varie tornate della Società provano se Pallia meritasse di appartenervi.

Venuta all’Avvocato Accursio l’idea, essere buona speculazione quella di fondare in Parigi un giornale italiano con questo titolo, si rivolse a Pallia perché volesse egli pure concorrere nel suo divisamento coll’essere uno tra i collaboratori corrispose Paolo all’invito col pubblicare in esso Giornale la sua prima memoria sulle traduzioni Arabiche di Aristotele. Dalla lettura di questo sue scritto è facile il conoscere come il Giovane Orientalista avesse studiate le opere del filosofo di Stagira, amasse la filosofia greca e se ne fosse addentrato, e come note a lui fossero le sue vicende ad esecuzione il progetto già da lui concepito di farne la storia coll’ajuto della filologia, che con tanto interesse coltivava.

Rendeva omaggio a questi suoi successi l’eruditissimo Guglielmo Libri Professore alla Sorbona quando dava incarico a Pallia, mediante larga ricompensa, di tradurre per suo conto alcune scritture Arabiche sull’Algebra, e sulle scienze esatte delle quali egli doveva far uso nella desiderata sua opera: Histoire des Sciences Mathématiques en Italie di cui già venne pubblicato il primo volume nel 1836.

Victor Cousin invitava Pallia a comporre qualche memoria profferendosi esso medesimo di leggerla all’Istituto di Francia. Scusavasi dapprima Paolo dicendolgi: non conoscere egli abbastanza la lingua francese per poter iscrivere in quell’idioma, e diceva il vero, perché Pallia giudicava la lingua e la nazione Francese in un modo tutto proprio, e singolare. Poeta come egli era, trovavasi in Francia in quell’epoca appunto in cui coll’Alleanza Inglese essendosi anche introdotte con maggior larghezza le sue idee sul commercio, sulla ricchezza, e sul Governo Rappresentativo dovevano sempre più i Francesi far divorzio colle cose di pura immaginazione per appigliarsi alle cose utili, e positive; Un poeta non doveva essere buon giudice in queste faccende Italiane Paolo timeva di corrompere il suo gusto per la lingua di Dante, e di Boccaccio addimesticandosi soverchiamente col linguaggio di Molière, e di Racine. In questo timore dimostrava il buon Pallia non aver egli ancora obliate le gare degli Accademici della Crusca le lezioni dell’Abate Cesari, gli Scritti di Monti, e di Perticari; Parteggiare con Carlo Botta ed aver parte attiva nelle incruente guerre di Cesarotti, e di Napione, e non essere per lui con positivo trattato definite le ostilità dei Classici e dei Romantici.

L’errevole invito di Victor Cousin doveva per altro scuotere Pallia dal suo peritare, e quel lavoro, che gli venne addimandato egli componeva un anno dopo, ed era letto dal Filosofo Francese al cospetto del più rinomato consesso di scienziati Europei.

L’esule, l’Orientalista, il Poeta, l’Italiano scorgensi a chiare note nella bellissima trattazione, che Pallia fece del Poema Arabico di Scianfara. Un eroe come questo Scianfara non poteva non incontrare un ammiratore nell’infelice Paolo. L’Autore, ed il traduttore dovevano venire a simpatia. Scianfara Ben Ascs al Azdì capo di tribù figlio del deserto racconta le sue scigurate vicende in questo Poema. Adirato egli contro quegli della sua tribù per oltraggio, che gli avevano fatto annunzia loro la volontà di abbandonarli; perché ama meglio di vivere colle fiere, che starsi in compagnia di gente ciarliera, ingiuriosa, e vendicatrice .

A lui bastano tre compagni:  un cuore ardito, una spada luccicante ed un buon arco. Scianfara dopo aver dette le male qualità, che egli non ha, espone come egli sa tollerare la fame, e si paragona ad un lupo affamato, che non però si smarrisce e fa tal descrizione di lupi rabbiosi per fame che non trovano da compier la bramosa lor veglia, che solo un Nomade del deserto può farla.

Dichiara Scianfara la sua abilità a correre, la non curanza degli agi della vita, la malignità di quelli, che lo invidiavano, la costanza dell’animo suo nelle cose prospere ed avverse, le imprese notturne a danno dei suoi nemici, e come ei sa esporre al sole cocente la nuda sua pelle intraprendere lunghi faticosi, e non tentati viaggi. Dataci la tessitura del poema esclama pallia di Scianfara, e di altri Arabi Poeti: Tali erano questi uomini ferocemente virtuosi, ed alteramente rassegnati ad ogni necessità della natura! Il povero Pallia descriveva se stesso Christiano nell’Ere anteriore all’Islamismo!

Chi crede che i Sepolcri di Ugo Foscolo bastino a meritargli l’immortalità troverà nella traduzione di Scianfara un breve saggio di quanto potesse sperare l’Italia dell’ingengo di Pallia. A coloro cui  sono necessarii grossi volumi in foglio per giudicare del merito di chi li scrisse Paolo potrai rimanere ignoto senza ingiuria. Sacì, e Letronne trovarono questa traduzione conforme al testo,  e molto ben condotta. Carlo Botta ne lodò la purgatezza dello stile, e la forza del verso sciolto. Tommaseo abbraccerà nel compagno d’infortunio l’amico di lettere.

Questa traduzione stampata in Parigi forma un articolo del citato Italiano. Questi saggi letterari mentre portavano Sacì e Letronne ad animarlo onde volgarizzare nuovi manoscritti Arabi, o Persiani di maggior polso, attiravano sopra di Paolo l’ammirazione d’un Patrizio Italiano, illustre per natali, resosi più illustre per coltura d’ingegno, e per l’operosa dignità colla quale sopportò la fortuna dell’esiglio. Raccomandatogli Pallia da un Cristiano e filantropo suo Professore venne offerendogli il nobile gentiluomo colla nota sua liberalità il necessario danaro per la stampa di qualunque lavoro egli volesse intraprendere. Resiliva Paolo di consesso coi fratelli Gaume dal contratto seco loro formato, e datosi interamente agli studii Orientali propone vasi fra due anni all’avvenire di dare alla luce, corredato coi suoi commenti, non so qual altro Arabico Autore.

Veniva paolo occupando il suo tempo coll’assistere alla scuole, col portarsi all’Accademia, od alle Biblioteche Nazionali, oppure lavorando solitamente nel suo modesto gabinetto. Non dimenticava egli gli amici suoi, siccome coli, che sapeva nella soavità dell’amicizia dar riposo alla stanca sua mente e pigliava nuovo vigore agli indefessi suoi studii. Carlo Botta salutava in lui uno fra i luminari dell’ultima emigrazione. Guglielmo Libri lodava la severità dè suoi costumi. I buoni rendevano omaggio alle sue virtù. I maligni, che osarono calunniare la costanza del suo animo imeritavano di venir confutati col silenzio delle sepolture.

Accingevasi Paolo a raccogliere nuovi, e più durevoli allori quando una lettera pervenutagli dal Piemonte gli annunziò la morte della propria Genitrice. Questa notizia era stata a noi data in modo di dubbio dal giovane studente di Medicina G. Macario. Noi credemmo di nuovamente riscrivere in Italia prima di comunicarlo a Paolo. Mentre noi aspettavamo, che la notizia ci venisse confermata, o smentita Paolo stesso recava a noi questa fatale certezza. Quel che facessero gli amici tutti onde consolarlo in si duro momento noi sappaimo descrivere; Il favore, che Paolo a tutti chiedeva era quello di non proferire al suo cospetto il nome della perduta sua madre. Tal maniera noi coi dovevamo usare con lui anche quando ella ancora viveva. L’aveva Paolo scolpita troppo addentro nel cuore per non aver bisogno di pronunziarne molto spesso il nome, e per non sentirselo pronunziare da altri in si disperata congiuntura. Sapevasi lo sventurato Paolo quanto a lei fosse costato l’aver dati i giorni ad un proscritto; Sentiva egli cose con profonda amarezza quanto avesse sofferto dalla lontananza di sì tenera madre, quale annunzio a lui fosse quella lacrimevole tomba! Per trovar tregua col dolore tornava Paolo allo studio, come unico modo di addormentare l’interno affanno, che laceravagli il cuore. Caduto infermo dopo qualche mese, e dopo aver temporeggiato col male per qualche settimana andò finalmente pel medico. Il Dottore Robecchi riconobbe immediatamente come i disastri, le privazioni, i prolissi studii, e le cure dell’animo avessero esaurita la sua vitalità, e determinata in lui una ftisi pulmonare. Consultato a mutar clima egli lasciava dolente quelle rive ospitali e quegli amici, che più non doveva rivedere. Portatosi nuovamente in Losanna onde offrire più vicina stanza alla propria Sorella, che doveva trasportarsi dal Piemonte a visitarlo, ivi pose l’ultimo suo domicilio. Ivi trovò che venne a consolarlo, e ad offrirgli volenteroso il suo tetto per veder modo di disisanarlo. Tutto egli ricusò, ed avuta una camera in pubblico albergo si pose in letto dal quale egli parlava agli officiosi suoi amici con eroica impassibilità del suo male, e dell’imminente sua morte.

In letto egli giacendo verso il declinar del giorno per incuria d’un famiglio si appiccava il fuoco alla casa da Paolo abitata. Avvertito egli dallo schiamazzo, e dallo straordinario chiarore alzò la rauca seca voce, chiamando soccorso e già stava per balzar dal letto quando ravviluppato dalla Suora, e dall’infermiera nelle proprie lenzuola venne frettolosamente portato in mezzo al cortile per sottrarsi tutti dalle fiamme, che imperversavano. Un vetturale il conduceva nello stesso istante a più lontano albergo. Quindici giorni dopo Paolo Pallia cessava di vivere.

La morte della madre aveva accelerato quella del figlio, le sventure di lui avevano scavato la tomba all’infelice madre, che doveva rivederlo nel soggiorno dell’immortalità.

Mesto ben spesso e solo quando ripenso a questo sventurato mio amico, alla varia sua fortuna, ai singolari avvenimenti della sua vita; a quanto egli confidavamo in quelle intime consuetudini, che son diventate si rare; quando ricordo le sue notti vegliate, le sue dotte elucubrazioni, quante carte vergasse, quanto meditasse, quali cognizioni già avesse ricavate dallo studio, e quante intendesse di ricavarne, quali progetti egli facesse pel suo avvenire, e per illustrare coi frutti del suo ingegno la pur sempre cara sua patria, e qual sicuro fondamento egli avesse nel suo progettare mi sembra, che si possano le sue speranze paragonare a quelle d’una vergine innocente, ed infelice, che ha sopportati con straordinaria costanza tutti i disagi d’un amor contrastato, e che muore sul limitare del tempio quel giorno stesso in cui la sospirata mano di sposo doveva por fine al suo lungo dolorare! La vita di Paolo fu quella d’un fiore destinato ad ornare un altare, e che il mattino in cui doveva far bella mostra di se fu trovato avvizzito sul gambo perché tocco da brina intempestiva, o languido e scolorito perché reciso dalla ruvida mano d’un villico, e confuso coll’erba, che lo assiepava! Boyle, e Pascal in giovane età morirono ma colle loro opere i nomi loro furon resi immortali. Pallia paragonabile al primo per acutezza d’ingegno, al secondo per integrità di vita non avrà forse fama presso la tarda posterità.

Riposa amico mio su quella terra. Che ti accolse fuggitivo, t’accordò quei soccorsi, che più non poteva operare, e largamente confortò quell’angiolo, che volato dalle paterne soglie per alleviare il peso d’è suoi mali raccolse sul moribondo letto l’estremo tuo sospiro. La tua vita fu quella del Saggio che specchiatosi nell’eterno, metafisico vero volle ad esso immolare tutte le fuggevoli, e presentance necessità. Coll’ingegno di questo secolo, tu non eri o Paolo né di questa età né di questo secolo. Le tue sventure, e la tua costanza, che ti meritarono l’ammirazione di chi seguitò la tua parte, e furongli di ben triste lezione renderanno indulgente verso la tua memoria, che non ebbe con te comuni le idee. E se nel lamentare la tua morte io volli raccontare le tue virtù, queste io cercherò d’imitare nell’increscioso cammino della vita, che ancor mi rimane a percorrere. E mentre il mio pensiero già ti vede tornato a Colui, che scrutando i cuori perdona i falli, io depongo sulla solitaria tua fosse quel carme col quale si separava Bassville dell’esangue sua spoglia:

Dormi Paolo in pace, o di mie pene
Caro compagno infin, che del gran die
L’orrido squillo a risvegliar ti viene.
Lieve intanto la terra, e dolci, e pie
Ti sian l’aure le piogge, e a te non dica
Parole il passeggier scortesi, e rie.
Oltre il rogo non vive ira nemica.
E nell’ospite suolo ov’io ti lasso
Giuste son l’alme, e la pietade è antica!

 Fu l’Avvocato Pallia di statura piuttosto alta, di fronte larga, e spiccata di portamento grave, e maestoso. Aveva occhi scintillanti capelli ricci e nerissimi. La sua fisionomia era energica il suo passo celere e concitato, i suoi modi pronti e vivacissimi. Aveva testa diritta, barba sotto la giogaia, fare dignitoso, ed aggraziato. La sventura il rendeva fiero, lo studio il faceva contemplativo l’amicizia il trovò sempre cordiale, ed affabile. L’emigrazione perdette in lui un modello di probità e di rassegnazione, le scienza orientali lamentarono un indefesso loro cultore, gli amici deplorarono un fido compagno, l’Italia una delle future sue glorie.

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