Giustizia: intervista a Rita Bernardini; le carceri scoppiano, è piena emergenza Notizie Radicali, 31 maggio 2011 L’On. Rita Bernardini, deputato radicale, è la “globe trotter” delle carceri italiane. In questi giorni, poi, ha continue richieste da detenuti, parenti di detenuti, associazioni di volontari impegnati sul territorio, rappresentanze di agenti di custodia. E lei si muove come una trottola: stamane a Rebibbia (Roma), l’altro ieri a l’Ucciardone (Palermo), Noto e Siracusa. Domenica sarà a Rieti, la settimana prossima a Spoleto e Padova. Su quel che accade, cioè migliaia di detenuti in sciopero della fame, non fa sconti e giri di parole: “Siamo di fronte ad uno Stato illegale, delinquente e recidivo”. On. Bernardini, sono parole grosse…. Lo so, ma è il minimo che si possa dire: i maltrattamenti e le torture fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno, va avanti così da anni. C’è stata una breve pausa, ma risale all’indulto, da allora è stato sempre peggio. Gli ultimi dati sono un triste record per la storia della Repubblica: oltre 68mila detenuti a fronte di 44mila posti regolamentari. Poi ci sarebbe molto da dire su come vengono calcolati quei 44mila posti. A Catania, per esempio, ho potuto verificare che c’è un’intera sezione chiusa, ma non per questo si dice che c’è meno capienza… Un passo indietro, che succede nelle carceri? Succede che migliaia di detenuti, in decine di carceri, da settimane rifiutano il vitto e fanno la “battitura”, cioè protestano picchiando le stoviglie sulle sbarre. Un rumore infernale, per denunciare l’inferno in cui vivono. Tutto è partito da Marco Pannella che 39 giorni fa ha iniziato uno sciopero della fame per lanciare un messaggio chiaro: l’unica soluzione al sovraffollamento e all’illegalità delle carceri italiane è un’amnistia. Altre strade non se ne vedono. Anche i famigliari dei detenuti stanno aderendo “a turno” a questa forma di protesta non violenta: sono in sciopero della fame 305 parenti di detenuti del carcere di Fuorni a Salerno, 121 a Rebibbia, 142 a Poggioreale, 67 a Velletri. In totale ne abbiamo contati 832. Cosa ha potuto osservare girando in questi giorni le carceri d’Italia? Sto rilevando un fenomeno grave e preoccupante. È in corso uno “sfollamento” dagli istituti del Nord a quelli del Sud; è un fatto che riguarda soprattutto i detenuti extracomunitari. Ho incontrato gente veramente abbandonata. A parte le difficoltà ovvie di essere stranieri perdono completamente ogni contatto, non hanno avvocati con cui poter parlare, molti non conoscono nemmeno la loro posizione giudiziaria. Sono lì, in galera, e non sanno cosa li aspetta, vivono sospesi, ignorando cosa potrà succedergli. Poi c’è la questione, gravissima, degli agenti di custodia. Cioè? Siamo di fronte a organici palesemente sottodimensionati, una carenza che si estende ad educatori e psicologi. In particolare, però, sono gli agenti a vivere situazioni al limite della sopportazione. A Siracusa, ad esempio, ho visto un solo agente per 150 detenuti, uno solo per una intera sezione; il risultato è che a malapena si riescono a garantire le ore d’aria; per il resto tutto il giorno in cella a non fare nulla. Del resto, il numero di suicidi fra il personale penitenziario non è mai stato così alto. Insomma, non si ammazzano solo i detenuti. C’è altro da dire? Tra le altre cose, c’è una sua interpellanza in Parlamento sulla situazione sanitaria del carcere di Opera, ai bordi di Milano. Qualche risposta? Martedì prossimo (31 maggio, ndr.), dovrebbe venire in aula un rappresentante del ministro Alfano a rispondere. Il punto è che al carcere di Opera si è data la patente di centro clinico senza che sia davvero tale. Ho potuto verificare con i miei occhi che ci sono persone con gravi patologie, magari costretti a letto per 24 ore, senza cure adeguate. Un tema che la Direzione del carcere ha presente, ma su cui può fare ben poco. Non è un caso che anche ad Opera ci siano 605 detenuti in sciopero della fame, da una settimana. Giustizia: intervista a Marco Pannella; le ragioni di un Satyagraha di Gian Mario Gilio Confronti, 31 maggio 2011 Quali sono i motivi che la spingono a un nuovo sciopero della fame? “Innanzitutto vorrei partire da alcune premesse. Nel 1978, per paura della nostra campagna e dei referendum che avevamo proposto, il Parlamento fece passare la legge 194 sull’aborto e noi radicali votammo contro per via dei suoi aspetti statalisti che prevedevano solamente la la sanità pubblica e obiettori di coscienza interni. Poi la chiusura dei ghetti manicomiali, sempre nello stesso anno. Anche in questo caso venne approvata una legge e votammo contro, ma non perché non l’approvassimo. Erano iniziative nostre, ma il Parlamento per evitare che si potessero approvare tramite referendum, preferiva farle approvare per legge modificandone però alcuni impianti per noi dirimenti. Per ben cinque volte, per impedire la tenuta dei referendum (la legge definiva che non ci potessero essere nello stesso anno referendum ed elezioni politiche), si sono concluse le legislature in modo anticipato. Ma, passate le elezioni, avveniva che le leggi venissero approvate prima di andare al voto referendario, dunque approvate ma in modo meno radicalmente chiaro di come noi avremmo voluto. Tuttavia riuscimmo a far ottenere il nuovo diritto di famiglia, a parte il fatto creativo che ebbe il divorzio…l’aborto venne approvato da Dc e Pci e come dicevo, noi votammo contro, proprio perché per noi era fondamentale affidare al popolo, con il referendum, la decisione su un tema così importante. Poi ricordo il voto ai diciottenni…ormai l’obiettivo referendario comporta sempre più la difesa giuridica del referendum stesso. Altrimenti si parla di piccoli plebisciti, proprio per come è avvenuto per la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, che vide un impegno massiccio per l’astensione (che nel 2005 fece mancare il quorum e quindi fallire il referendum), invece di poter decidere per un sì o per un no. Per venire alla domanda, il mio Satyagraha ha molti obiettivi e tutti legati in modo non artificioso alle battaglie che oggi si presentano. Il mio Satyagraha, amore e forza, ha l’obiettivo di far emergere la verità. Naturalmente non una verità con la V maiuscola. Il primo punto riguarda il fatto che le elezioni in Italia sono illegali secondo gli standard internazionali. La legalità, dunque. Noi siamo sempre stati coerenti e da trent’anni abbiamo cercato di dimostrare come devono essere raccolte le firme, come deve maturare una consapevolezza, un confronto. Prendiamo ad esempio l’eutanasia: in Italia da trent’anni i sondaggi ci dono che gli italiani sono favorevoli, così come per il testamento biologico. Ma su questi temi non si è mai arrivati a un referendum popolare. L’altro mio obiettivo riguarda un’altra verità storica. La guerra in Irak del 2003 è scoppiata per colpa di due traditori dei propri giuramenti rispetto ai propri paesi, come Blair e Bush. Si sarebbe riusciti, secondo il nostro programma, con e grazie alla pace ad arrivare alla democratizzazione grazie all’esilio di Saddam Hussein; esilio che lui avrebbe accettato. Quella guerra che ha provocato centinaia di migliaia di morti, direi due milioni, si poteva evitare. Va avanti dunque quell’analfabetismo che vede oggi la Libia sotto attacco. Una consapevolezza che oggi vedo anche in Obama, anche se mi impressiona molto il fatto che negli ultimi discorsi, per la prima volta il presidente americano abbia citato per ben tre volte la parola nonviolenza. L’altro tema che ho a cuore è quello delle carceri italiane e della giustizia, una giustizia più repellente di quella del sessantennio partitocratrico e del ventennio precedente. Le caratteristiche ideologiche di banalità del male oggi sono tremende, sono dei veri e propri nuclei di Shoah. E non abbiamo torturatori, siamo tutti torturati, al limite possiamo usare l’interpretazione di Anna Harendt, sul personaggio atroce che si giudicava. Sei anni fa abbiamo cominciato a denunciare questa deriva con l’esposizione di una stella gialla sui nostri petti come monito. La democrazia è sempre più rovinosamente “democrazia reale” in Israele, in Italia e credo - e questo mi spaventa - anche in Inghilterra e Stati Uniti. La maggioranza dei conservatori che oggi governano, a parte i liberaldemocratici, marginali, continuano a difendere la ragion di Stato invece del senso dello Stato coprendo tutto ciò che viene nascosto negli archivi, compresa la prova che Bush è stato un traditore”. Per quanto riguarda le carceri, qual è a suo avviso una possibile soluzione al sovraffollamento e ai suicidi? “Semplicemente rispettare la legge. Dirò di più: rispettare ciò che è stabilito dalla legge europea. Per esempio la metratura delle celle per densità di detenuti, e la legge italiana sarebbe pure più tollerante in materia di metri cubi da destinare a ogni singolo carcerato. Ancora: un buon terzo di detenuti probabilmente tra qualche anno uscirà da innocenti perché così ritenuti alla fine del processo; dunque sarebbe necessario abolire il carcere preventivo. Prosegue la criminalizzazione di comportamenti sociali diffusi come l’utilizzo di sostanze stupefacenti, facendo prevalere l’idea di un flagello; sull’aborto, noi rischiando, dicemmo che il flagello sociale era l’aborto clandestino, come sosteneva l’Organizzazione Mondiale della Sanità; e in tre anni siamo riusciti a far diminuire sensibilmente questa tragedia sociale storica. Il proibizionismo sulle droghe, in tutto il mondo, in Afghanistan, in Messico, in Italia, crea danni visibili a tutti”. Che cosa mi può dire dei diecimila detenuti in carcere per reato di clandestinità? “Su questo tema siamo in aperto dibattito anche con la vicina Francia. Ci troviamo di nuovo contro la legge, contro la legalità internazionale. Come radicali stiamo chiedendo da tempo di monitorare con i sistemi satellitari il Mediterraneo per individuare la presenza di barche dirette in Italia che purtroppo troppo spesso non arrivano, concludendo il viaggio in fondo al mare. Questo non è mai stato fatto e noi ancora oggi non sappiamo quante decine di migliaia di persone sono sepolte in mare. Il problema delle carceri è dunque transnazionale. All’inizio del ‘76 ottenemmo una legge di depenalizzazione del consumo di droghe leggere che fece uscire undicimila detenuti; oggi, se togliessimo il reato di clandestinità, oltre ad abolire una legge iniqua e illegale, risolveremmo il problema di diecimila persone che sovraffollato le nostre carceri”. Il libro che le ha dedicato Valter Vecellio, “Biografia di un irregolare”, è molto interessante, forse proprio perché la sua vita è un’avventura. Fatta di incontri e di battaglie per la giustizia, per i diritti di tutte le minoranze. Molti personaggi importanti hanno detto di lei cose fuori dell’ordinario. Sartre si diceva affascinato, e Ionesco si iscrisse al Partito Radicale senza conoscerlo, sulla sua parola. Per Eco “lei ha insegnato agli italiani come si fa a diventare liberi, e soprattutto a meritarselo”. Per Montanelli lei era un figlio discolo, un giamburrasca devastatore, “ma in caso di pericolo e di carestia, Pannella sarà il primo ad accorrere in soccorso”. Su di lei si è davvero scritto e detto di tutto. Lo storico Giorgio Spini arrivò a dire: “Pannella è considerato alla stregua di un lebbroso. Sono convinto che uomini come lui siano scelti come strumenti di Dio per fare vergognare la mia Chiesa evangelica, le sue infinite mancanze di coraggio e di coerenza”. Baget Bozzo l’ha addirittura definita un “profeta cristiano”… “La frase di Spini l’ho udita ad un convegno a Genova, poi è stata riportata negli atti dello stesso convegno, era il 1972, in occasione di un’assemblea contro il Concordato. Era il periodo in cui l’abate di San Paolo, Giovanni Franzoni era per l’abrogazione. Un’avventura, anche quella di Franzoni, davvero straordinaria. Solo dieci anni dopo la frase di Spini, che mi è stata ricordata, mi ha toccato profondamente e mi ha lusingato, all’epoca non avevo completamente colto il significato di quelle parole. Così come le parole di Baget Bozzo. In quel tempo raccoglievo adesioni emotive sia da parte cattolica che evangelica che ebraica, come avvenuto con Marek Halter. In pratica mi veniva riconosciuta la capacità di “predicare” nudo la parola, di portare un messaggio. Mi viene in mente la figura di Isaia evocata da Halter. La radicalità, e in qualche modo il fatto di essere “credenti”, ha probabilmente spinto a tali dichiarazioni. Ma a quel tempo non c’era in me la volontà, forse inconscia, di sentirmi accreditare di ruoli di tale portata come “scelto da Dio” o “profeta”. Qual è la crisi che oggi attraversano i nostri partiti, così distanti dalla società civile? “Ritengo che la classe dirigente della sinistra, tranne piccole minoranze, in cinquant’anni non abbia mai lottato davvero per la democrazia e la libertà. Dal ‘47 si è assistito, quasi da subito, a una lotta tra potenti, tra ceto dirigente. Fu infatti la classe dirigente della Resistenza ad aver ereditato case e palazzi romani di splendida bellezza, così come i sindacati che ereditarono, come i partiti, gli edifici fascisti. Tutte organizzazioni del welfare senza libertà. E il fascismo fu welfare senza libertà. Bersani (con il quale ho avuto sempre un buon rapporto) e il suo partito hanno fatto errori pari a quelli di Berlusconi. Ma almeno Berlusconi partiva da una condizione che definirei di gradimento popolare. Inoltre siamo arrivati ad un livello di tale volgarità politica che non porterà a nulla di buono. La sinistra continua a sbagliare strategia e invece di attaccare su questioni palesemente criticabili, spesso tende a difendersi dalle provocazioni. Poi dobbiamo ricordare che sociologicamente, storicamente, sono presenti ramificazioni interne anche a schieramenti diversi, così come avviene ad esempio tra Bersani e Formigoni che hanno insieme legami con la Compagnia delle Opere sia lombarde che emiliane, e questo in un certo senso li rende soci, alleati, e spiega anche il fatto che siano stati noi a dover intervenire per far emergere la “peste lombarda” per porre il problema a Formigoni sulla raccolta di firme false in occasione della sua elezione. Non lo hanno fatto, come sarebbe stato ovvio, i colleghi del PD. La storia istituzionale italiana è stata formalmente una storia di regime che si difende dal Partito Radicale, illuminista, azionista, liberale, antinazionalista… un nemico da ostacolare. Questa condizione spesso non ci permette di poter dare il contributo che vorremmo dare al nostro Paese”. Giustizia: l’Unione delle Camere Penali aderisce allo sciopero della fame di Pannella Ansa, 31 maggio 2011 L’Unione delle Camere Penali Italiane aderisce allo sciopero della fame intrapreso da Marco Pannella da oltre un mese, per denunciare “le incivili condizioni delle carceri”. La decisione, secondo quanto riferisce una nota, è stata presa dalla Giunta Ucpi, che fa così propria l’iniziativa del leader radicale indicendo uno sciopero della fame. Inizierà domani primo giugno il presidente Valerio Spigarelli, e, a staffetta, l’iniziativa coinvolgerà ogni giorno tutti i componenti di Giunta. Secondo i penalisti, che denunciano da tempo la “drammatica situazione delle carceri italiane”, il sovraffollamento “cresce senza che ancora alcun serio provvedimento venga avviato per fronteggiare quella che non è più una emergenza ma una cronica condizione”. E “come conseguenza del sovraffollamento”, si fa notare nel comunicato dell’Ucpi, “cresce anche il numero dei suicidi, segnale drammatico delle condizioni di disagio fisico e psichico in cui vivono i detenuti”. L’Unione ha più volte ribadito, anche negli ultimi anni, la necessità di “predisporre iniziative legislative idonee a tutelare i diritti dei detenuti nelle carceri italiane”, contenendo appunto il sovraffollamento, ma il Governo e gran parte della politica “sono sordi a queste richieste”. La Giunta delle Camere penali conclude che con “analoghe modalità” il coordinatore Alessandro De Federicis e gli altri componenti dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane “hanno aderito all’iniziativa e intraprenderanno questa stessa forma di protesta”. Giustizia: don Ricca; carcere e minori da rieducare… le città sono meno accoglienti Redattore Sociale, 31 maggio 2011 Rispetto al passato, contano le campagne contro i migranti che aumentano la paura della gente, secondo il sacerdote salesiano, intervenuto alla presentazione dei risultati del progetto “Oltre il carcere per educare al (la) città”. Non solo i minori del circuito penale devono essere rieducati, ma anche le città che devono farsi più accoglienti. È quanto sostiene don Domenico Ricca, presidente della Federazione salesiani per il sociale, con 32 anni di esperienza alle spalle come cappellano di un carcere minorile. “Le città sono meno accoglienti di un tempo - afferma il sacerdote - questo a furia di campagne contro gli immigrati, la gente si è convinta che le paure sono la realtà”. Secondo don Ricca, nei confronti dei minori nei guai con la giustizia bisogna soprattutto “aiutarli a districarsi nel mondo del lavoro, dargli le competenze e considerare il fatto che i servizi minorili devono essere diversificati secondo l’utenza, ad esempio a Torino c’è una maggioranza di stranieri”. Il coinvolgimento delle istituzioni e del territorio per il reinserimento dei minori che hanno avuto problemi con la giustizia è stato oggetto del progetto “Oltre il carcere per educare al (la) città” della Federazione Salesiani per il sociale condotto nell’arco di 18 mesi dal primo dicembre 2009 al 31 maggio 2011 a Napoli, Torino e Roma con il cofinanziamento del ministeri del Lavoro e delle Politiche Sociali. Con lo scopo di contrastare i comportamenti minorili devianti, l’indagine ha coinvolto 60 minori soggetti a provvedimenti penali, le loro famiglie o le reti di amici nel caso dei minori stranieri non accompagnati, 190 adolescenti a rischio contattati nelle scuole e nei centri giovanili del territorio e 60 operatori dei servizi privati e pubblici. Gli obiettivi del progetto erano: ridurre il tasso di abbandoni nei progetti rieducativi e promuovere le life skills dei destinatari, migliorare le relazioni familiari e amicali, abbattere l’isolamento e sviluppare una nuova sensibilità rispetto alla criminalità minorile. Per raggiungere questi scopi, sono state realizzate una serie di attività specifiche per ognuno dei destinatari. Nel caso degli operatori è stato portato avanti un laboratorio di formazione e aggiornamento per superare visioni ghettizzanti e deresponsabilizzanti. Affiancamento e sostegno psico sociale per i minori e le loro famiglie. Ai ragazzi sono state dedicate alcune azioni come il recupero scolastico, la formazione professionale e l’inserimento lavorativo con borse lavoro, la socializzazione e il tempo libero con gruppi di pari. Molto importanti anche le attività promosse nei confronti della comunità locale, come laboratori di educazione alla legalità nelle scuole alle quali hanno partecipato come ‘testimoni privilegiatì i minori dell’area penale. Protocolli d’intesa sono stati stipulati con enti pubblici e privati per i tirocini professionali. Buoni risultati per il progetto “A partire dalla fine” Sviluppare l’autonomia dei ragazzi in uscita da una misura penale, riducendo progressivamente la loro “dipendenza” dall’operatore, permette di evitare che commettano nuovi reati. “Sono giovani convinti di poter ricevere attenzione dagli adulti solo se creano allarme - premette Paolo Tartaglione della cooperativa Arimo di Milano. Chiedono aiuto commettendo un reato, sapendo che così otterranno una risposta dagli adulti”. Il progetto “A partire dalla fine”, avviato nel 2008, ha come obiettivo quello di evitare queste ricadute. In che modo? Portando i giovani a una graduale autonomia, evitando loro un brusco passaggio dal “tutto pieno” (in cui sono circondati da molte figure adulte di riferimento) al “tutto vuoto”, in cui non c’è nessuno che possa sostenerli. “Deve essere il ragazzo a dare una risposta ai problemi che gli si presentano - spiega Paolo Tartaglione, responsabile del progetto - gli operatori lo devono sostenere in questo percorso, ma senza prendere decisioni al suo posto”. Un intervento educativo mirato e finalizzato a ottenere risposte da parte del ragazzo, per “favorire l’incontro del giovane con la realtà, cosa che durante la misura penale non è possibile ottenere al 100%”, conclude Tartaglione. I risultati del progetto sono molto positivi, soprattutto per quanto riguarda l’inserimento lavorativo. All’inizio del percorso solo il 5% dei 120 ragazzi coinvolti nel progetto aveva un lavoro stabile, mentre il 56% non studiava né lavorava. Oggi il 30% ha un impiego stabile e il 25% lavora in modo saltuario. C’è poi un altro 23,4% che sta portando avanti un percorso di formazione in azienda o di orientamento. “Il messaggio che vogliamo lanciare alle istituzioni è che questi ragazzi, alla fine della misura alternativa, vanno accompagnati ancora per un po’. Facendo però attenzione a non sviluppare dipendenza, ma al contrario potenziando l’autonomia del ragazzo - conclude Paolo Tartaglione - . Un obiettivo che si può raggiungere anche con risorse limitate”. Il progetto “A partire dalla fine”, inoltre, è diventato un blog su cui gli operatori del settore possono confrontarsi. Baby gang di ragazzine a Bologna, “ignoranza emotiva” Le loro vittime erano coetanei, ma anche anziani e disabili. Prese a calci e pugni, in alcuni casi mandate anche all’ospedale, per rubare un cellulare o un pò di soldi. Autrici delle aggressioni un gruppo di ragazzine, tutte fra i 13 e i 16 anni, che si facevano chiamare “Bolognina Warriors” e che ieri la polizia di Bologna ha smantellato fermando due di loro (14 e 15 anni) e consegnandole alle comunità di recupero. Una vicenda fatta di una violenza difficile da decifrare, che in queste ore sta scuotendo la città. “Colpisce il fatto che questi comportamenti aggressivi non vengano più da ambienti difficili, ma da ragazzi provenienti da famiglie normali”, commenta Giuseppe Centomani, direttore del Centro giustizia minorile di Bologna. “Questi episodi sono il segno di un’ignoranza affettiva ed emotiva, indicano la difficoltà da parte dei ragazzi di dare importanza e significato al rispetto della persona”. Su richiesta del gip dei minori Silvia Marzocchi, due ragazze del gruppo son finite ora in una comunità di recupero. Ma quando si arriva a comportamenti così estremi è davvero possibile rimediare? “La riabilitazione è senza dubbio possibile - continua Centomani - se si incontrano dei bravi educatori. Comportamenti di questo genere si verificano di solito nella prima fase adolescenziale. Si può intervenire restituendo il senso di realtà a questi ragazzi”. Secondo il direttore, i percorsi educativi messi in atto all’interno delle comunità e degli istituti minorili stanno anzi dando buoni risultati. “Lo conferma l’abbassamento della recidiva per i ragazzi che ne escono”. Oltre alla fase repressiva, però, il Centro giustizia minorile ha avviato da alcuni anni anche un’attività preventiva. “I nostri operatori vanno nelle scuole della provincia per spiegare innanzitutto le conseguenze di comportamenti del genere. In particolare quelle legali e penali - conclude Centomani - , che spesso i ragazzi non immaginano”. Giustizia: Sappe; per protesta non partecipiamo alle Feste della Polizia penitenziaria Adnkronos, 31 maggio 2011 “Un’amministrazione assente e una politica asfittica non fanno nulla nell’immediato per migliorare le condizioni delle carceri e della polizia penitenziaria”. È quanto denuncia il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, che ha deciso di non partecipare, per protesta, alla festa nazionale e a quelle regionali del Corpo. “Non partecipiamo alla Festa perché nulla vi è, a nostro avviso, da festeggiare - spiega il segretario generale aggiunto del Sappe, Roberto Martinelli - e denunciamo la grave carenza di personale, con la mancanza di 6.500 agenti a livello nazionale; il sovraffollamento della popolazione detenuta, con 25.000 carcerati in più rispetto ai posti previsti; la carenza di mezzi e di risorse economiche per le traduzioni, con la conseguenza che in alcuni istituti a volte non è più possibile trasferire i detenuti; la mancanza di fondi per pagare lo straordinario e per mettere la benzina nei mezzi di trasporto”. Il ringraziamento del Sappe ai baschi azzurri di Genova e della Liguria “Oggi a Genova si svolge la festa regionale della polizia penitenziaria. Il Sappe, in linea con quanto già avvenuto a Roma alla festa nazionale, non partecipa per protestare contro un’Amministrazione assente e una politica asfittica che non fa nulla nell’immediato per migliorare le condizioni delle carceri e della polizia penitenziaria. In Liguria le carceri scoppiano e costringono il Personale di Polizia Penitenziaria a condizioni di lavoro - negli Istituti penitenziari, a bordo dei mezzi dei Nuclei Traduzioni addetti al trasporto dei detenuti, presso i Reparti ospedalieri quando impegnati nei servizi di piantonamento dei ristretti - stressanti e di estremo disagio. Non parteciperemo alla Festa (perché nulla vi è, a nostro avviso, da festeggiare) e denunciamo la grave carenza di personale (mancano 6.500 agenti a livello nazionale e più di 410 in Liguria), il sovraffollamento della popolazione detenuta (in Italia ci sono 25.000 detenuti in più rispetto ai posti previsti, in Liguria circa 700 in più), la carenza di mezzi e di risorse economiche per le traduzioni, tant’è che in alcuni istituti, a volte, non è più possibile trasferire i detenuti, la mancanza di fondi per pagare lo straordinario e per mettere la benzina nei mezzi di trasporto. Nonostante queste gravi criticità, merita ricordare una volta di più che la Polizia Penitenziaria è un baluardo di legalità e sicurezza nel difficile contesto delle carceri e quindi a a tutti i suoi appartenenti va il ringraziamento del Sappe per quanto quotidianamente fanno in un ambiente di lavoro assai critico e delicato.” Lo scrive in una nota Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto e Commissario straordinario per la Liguria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. Martinelli sottolinea che “anche i dati recentemente elaborati dall’Amministrazione Penitenziaria, riferiti agli eventi critici accaduti nelle carceri liguri nel corso dell’anno 2010, devono fare seriamente riflettere sulle evidente problematiche del sistema e su quanto essi vadano ad incidere sul duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria in servizio in Liguria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità. Nel 2010, nelle sovraffollate carceri liguri, i detenuti hanno compiuto 220 atti di autolesionismo (11 dei quali da donne ristrette) e 23 tentativi di suicidio - 6 a Genova Marassi, 5 a Genova Pontedecimo, 3 a Imperia, 6 a La Spezia, 1 a Sanremo e 2 a Savona - . Le morti per cause naturali in carcere sono state 5 - 2 a Sanremo e 3 a Marassi - e 2 i suicidi - 1 a Pontedecimo ed 1 a La Spezia. 61 sono stati i detenuti che hanno posto in essere ferimenti. La manifestazioni di protesta individuali hanno visto 148 detenuti fare nel corso dell’anno lo sciopero della fame, 25 hanno rifiutato il vito o le terapie mediche, 89 detenuti sono stati coinvolti in proteste violente con danneggiamento o incendio di beni dell’Amministrazione penitenziaria. 5 sono state le evasioni da penitenziari, delle quali 3 a seguito di mancato rientro in carcere dopo aver fruito di permessi di permessi premio e 2 dalla semilibertà. Capitolo a parte, infine, lo hanno le manifestazioni di protesta collettive sulla situazione di sovraffollamento delle carceri e sulle critiche condizioni intramurarie che si sono tenute nel 2010: 8 le proteste, che hanno visto coinvolti complessivamente nei 7 penitenziari della Liguria 1.475 detenuti, proteste che si sono concretizzate in scioperi della fame, rifiuto del vitto dell’Amministrazione e soprattutto nella percussione rumorosa dei cancelli e delle inferriate delle celle (la cosiddetta battitura). Da questi dati emerge una volta di più quali e quanti sacrifici affrontano ogni giorno le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria per garantire vigilanza e sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti di pena liguri partecipando nel contempo alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti.” Giustizia: Sindacati direttori e dirigenti penitenziari; protestiamo per il ritorno alla legalità Comunicato stampa, 31 maggio 2011 Auspicando la più ampia diffusione, visto il gravissimo momento attuale del sistema penitenziario, si comunica che le sottoscritte OO.SS. della dirigenza penitenziaria di diritto pubblico, riunitesi in data 26 maggio 2011 in Roma, constatato il perdurante stato di illegalità dei comportamenti riservati alla categoria dalla Parte Pubblica, hanno chiesto un urgente incontro, entro e non oltre 15 giorni al Ministro della Giustizia On. Angelino Alfano. In particolare, si lamentano le seguenti proibitive condizioni di lavoro: 1. mancata attuazione della Legge di riforma della dirigenza penitenziaria, con la conseguenza che ad oggi, a distanza di sei anni, il personale dirigente di diritto pubblico è senza contratto di categoria, e quindi senza diritti; 2. assenza di ogni confronto con la parte pubblica, anche nella individuazione di strategie complessive in grado di superare la gravissima emergenza attuale del sistema penitenziario, conseguente anche all’indiscriminato taglio della spesa, che ha determinato il peggioramento delle condizioni di vita sia per i detenuti che per il personale penitenziario tutto; 3. mancata gravissima agibilità dei diritti sindacali costituzionalmente garantiti. Per i suddetti motivi, nel caso in cui il Ministro della Giustizia, quale autorità politica d’indirizzo, non riterrà di convocare i richiedenti, le scriventi OO.SS. avvieranno tutte le iniziative di protesta, anche eclatanti, per riportare legalità al sistema penitenziario. Giustizia: capo Dipartimento minori; è necessario ridurre le carenze di organico Ansa, 31 maggio 2011 “Nel 2009 il ministro della Giustizia Alfano ha istituito con decreto la creazione di una figura specializzata nel trattamento dei minorenni detenuti negli istituti penali, stabilendo competenze e percorsi di formazione talmente particolari, da contribuire a rendere il sistema penale minorile italiano tra i più invidiati nel mondo”. Lo ha detto Bruno Brattoli, capo del dipartimento di giustizia minorile durante la celebrazione, al complesso Malaspina di Palermo, del 194esimo anniversario del corpo di polizia penitenziaria minorile. “Ci stiamo organizzando con le organizzazioni sindacali per ovviare alle carenze di organico e raggiungere una dislocazione territoriale più razionale - ha aggiunto il presidente Brattoli - per provvedere anche a una giusta e tempestiva retribuzione”. “L’auspicio è che la detenzione non sia solo un momento sanzionatorio, ma un’occasione di crescita per il minore - ha detto Clara Pangaro, vice direttore dell’istituto penale minorile di Palermo - e a questo obiettivo si ispira l’impegno dei quattro istituti siciliani, realizzando corsi di recitazione, atletica e progetti che danno la possibilità a tanti giovani di mettere a frutto le proprie risorse e potenzialità, fornendo loro strumenti e competenze. Non bisogna dimenticare che si tratta di soggetti molto vulnerabili”. Dopo gli onori alla Bandiera e il saluto ai Gonfaloni del Comune e della Provincia di Palermo, durante la cerimonia sono stati consegnati degli attestati di merito agli agenti dei quattro istituti penitenziari siciliani che si sono particolarmente distinti per il loro impegno. Giustizia: caso Scazzi; scarcerato lo zio Michele Misseri, dichiara “sono io il colpevole” La Gazzetta del Sud, 31 maggio 2011 Ricoverato e già dimesso, è tornato a casa Michele Misseri che ieri, poco prima della mezzanotte era stato portato in ospedale con un’ambulanza del 118. Le sue condizioni di salute sarebbero buone e i medici dell’ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto, al termine degli accertamenti, non avrebbero ritenuto di disporre il ricovero. L’ambulanza era arrivata a casa Misseri dopo che il sindaco di Avetrana, Mario De Marco, aveva richiesto il trattamento sanitario obbligatorio perché sembra che Misseri avesse manifestato propositi suicidi. Ma le circostanze che hanno portato al trasferimento in ospedale di Misseri e al successivo rientro a casa restano oscure. A quanto si apprende, Michele, al suo ritorno a casa, oltre alla figlia Valentina avrebbe trovato un paio di giornalisti. Secondo quanto aveva dichiarato Valentina nella notte: “sono venuti i medici del 118 dicendo di aver ricevuto una chiamata, ma io non ho chiamato nessuno. Michele era meravigliato per essere uscito dal carcere e si è sfogato ma stava benissimo”. L’uomo dovrà necessariamente uscire dall’abitazione nel pomeriggio perché, come ha disposto il giudice, ha l’obbligo di firma in caserma dalle 17 alle 18. “Ho fatto tutto io, lo giuro sulle ossa di mia madre” ha detto l’uomo che dell’omicidio della ragazzina ha dato almeno sette versioni, i magistrati lo hanno scarcerato perché ritengono non c’entri con l’uccisione, ma zio Miché parlando nella sua villetta con i giornalisti di diversi quotidiani continua a professarsi l’unico colpevole. “Quel maledetto 26 agosto - dice l’uomo, come riporta oggi La Stampa - io stavo arrabbiatissimo perché il trattore non partiva e pensavo che tutti ce l’avevano con me, gridavo e Sarah è venuta a vedere, questo ho pensato. Io gli ho detto vattene, ma lei mi doveva dire qualcosa, allora l’ho sollevata di peso, l’ho girata per cacciarla. E quando mi ha dato un calcio sono esploso, tutta la mia rabbia l’ho messa sopra di lei. Avevo una corda sul parafango del trattore e gliela ho girata due volte al collo. Sarah aveva il telefonino in mano ed è caduto aprendosi in due. Quando l’ho lasciata lei è caduta con il collo sul compressore e quando l’ho presa da terra aveva il collo storto”. “Io sono cosciente che devo tornare in carcere, perché so quello che ho fatto e devo pagare. Volevo ammazzarmi prima di andare in carcere con il veleno che usavo per pompare le olive. E adesso mi ammezzerei, ma non lo faccio perché ci sono due innocenti in carcere”. E sulla reazione di Avetrana agli arresti della figlia Sabrina e della moglie Cosima, dice: “Non sanno quello che fanno, quelli non sono applausi, dovranno applaudire Sabrina e Cosima quando usciranno”. “Non dovevo uscire io, ma Sabrina e Cosima che sono innocenti. Se le condannano la mia morte sarà sulla tomba di Sarah”, continua ancora zio Michele sulla Stampa: “Volevo suicidarmi su quella tomba. Per me era come una figlia. Volevo tirarla fuori da quel pozzo perché due giorni dopo l’ho sognata che diceva ‘zio ho freddò. Allora sono andato al pozzo ho legato la corda a un ceppo per uscirla fuori ma il pozzo era troppo stretto”. Lettere: sciopero della fame al carcere di Lanciano Roma, 31 maggio 2011 Egregio direttore, noi detenuti del carcere di Lanciano, in solidarietà al deputato Marco Pannella, che da circa 30 giorni è in sciopero della fame per cercare di risolvere le problematiche delle carceri italiane e per poter dare una giusta riforma della giustizia per gli italiani, abbiamo aderito anche noi pacificamente a due giorni di sciopero della fame, per i seguenti motivi: in primo luogo il sovraffollamento delle carceri, che nel nostro caso in una cella che può ospitare un singolo detenuto ne ospita ben tre, e lasciamo immaginare le precarie condizioni di sopravvivenza e di igiene personale, facciamo presente che la terza branda è a quasi tre metri di altezza e solo a 30 centimetri dal soffitto, senza nessuna protezione per garantire un sonno sicuro, ed è proprio per questo che la seconda settimana di maggio un detenuto è caduto fratturandosi una spalla “fortunatamente”. In questo istituto alle ore 22 non esiste più assistenza medica fino alle ore 7.30 del mattino seguente, ci chiediamo quale fosse il nostro futuro se malauguratamente ci giunge un malore notturno. In molti casi sono venuti i soccorsi esterni (118) ma il tempo è troppo, un malore cardiopatico e ci si rimane secchi. In altri casi se non fosse stato per l’intervento tempestivo e umanitario, da parte della polizia penitenziaria sarebbero successi molti episodi drammatici. Nonostante il carcere di Lanciano abbia una capienza massima di 150 detenuti, ne ospita ben 380 e la carenza del personale di polizia penitenziaria è veramente al collasso, è una situazione che giorno dopo giorno sfugge di mano e i disagi crescono per tutti. E potremmo dilungarci, ma ci fermiamo. Noi detenuti siamo consapevoli di aver commesso degli errori ma vorremmo scontare il nostro debito con lo Stato in modo dignitoso e di avere un reinserimento dopo la detenzione. Egregio direttore, speriamo che questo nostro grido arrivi alle istituzioni, in particolare al nostro Capo dello Stato Giorgio Napolitano e al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. I detenuti di Lanciano Sicilia: 114 detenuti in istituti penali per minori, 14 sono stranieri, la rapina il reato più diffuso Ansa, 31 maggio 2011 “In Sicilia sono 114 i detenuti degli istituti penali per minorenni, di cui 14 stranieri. In generale, in 2700 sono passati dai servizi minorili della regione e, tra questi, il 20% è costituito da giovani di 18 - 25 anni che a 21 anni passano nelle carceri per adulti. I minori transitati negli istituti penali della Sicilia ad oggi sono stati 323”. Sono alcuni dei dati diffusi da Michele Di Martino, dirigente del centro per la giustizia minorile della Sicilia durante la celebrazione, a Palermo, al complesso Malaspina, del 194esimo anniversario del corpo di polizia penitenziaria minorile. “I reati più frequenti sono quelli commessi contro il patrimonio, come la rapina aggravata - ha detto il presidente Bruno Brattoli, capo del dipartimento per la giustizia minorile - seguono detenzione e spaccio di stupefacenti, e reati contro la persona. I giovani affidati a tutti i servizi minorili (inclusi centri di prima accoglienza, servizi sociali e comunità) sono attualmente 1600, mentre i detenuti ultra diciottenni presenti sono 53. La detenzione è l’estrema ratio prevista dal sistema penale italiano che è uno dei più avanzati. Occorre, però modernizzare le strutture e potenziare il personale di sorveglianza specializzato”. Lazio: audizioni sulle carceri in Commissione sicurezza; all’esame i disagi di detenuti e agenti Iris, 31 maggio 2011 La situazione delle carceri del Lazio è stata oggetto di due audizioni della commissione Sicurezza, integrazione sociale, lotta alla criminalità , sollecitate dai consiglieri Isabella Rauti (Pdl) e Giuseppe Rossodivita (Lista Bonino - Pannella). Ad essere ricevuto per primo, il Garante dei diritti dei detenuti, Angiolo Marroni, che ha consegnato ai consiglieri il report dei primi cinque anni di attività, accompagnandolo con i dati aggiornati a domenica scorsa sulle presenze di detenuti nelle case circondariali regionali. Le presenze totali sono 6.598 (6.143 uomini e 455 donne) a fronte di una capienza regolamentare di 4.856 posti. Le situazioni più difficili si segnalano a Rebibbia, Regina Coeli, Viterbo. Il Garante ha relazionato anche sulle recenti proteste sviluppatesi proprio a Regina Coeli e Rebibbia, dove i detenuti hanno raccolto firme e iniziato lo sciopero della fame per denunciare il malessere derivante dal sovraffollamento: “A fronte di un problema così drammatico, registriamo che le carceri di Rieti e Velletri non possono funzionare ancora a pieno regime per mancanza di personale. E non parlo solo di forze di polizia ma anche di mediatori culturali, figura chiave per interagire correttamente con i detenuti di altre nazioni e altre religioni”. Il presidente Filiberto Zaratti (Sel), prendendo atto dei dati sottoposti alla Commissione, ha commentato: “In vista della stagione estiva la situazione rischia di diventare davvero esplosiva, soprattutto sul fronte sanitario, per non parlare dei sempre maggiori carichi di lavoro per i troppo pochi lavoratori impiegati presso le case circondariali”. A seguire, sono stati ascoltati i sindacati di polizia penitenziaria, che hanno confermato i disagi quotidiani patiti sia dai detenuti che dagli agenti. In particolare, sono state sottolineate alcune criticità: il trasporto all’esterno di detenuti per visite mediche, i tagli al budget dell’amministrazione penitenziaria, il calo di attrattivi professionale del ruolo di agente di polizia penitenziaria presso le nuove generazioni di lavoratori, l’aumento di suicidi. Erano presenti le seguenti sigle sindacali: Funzione Pubblica Cgil, Sinappe, Uila Pa, Fsa - Cnpp (Coordinamento Nazionale Polizia Penitenziaria), Fns Cisl Lazio, Osapp, rappresentanti dei lavoratori del carcere di Rebibbia. Torino: troppi detenuti, l’incubo delle Vallette La Repubblica, 31 maggio 2011 Un detenuto morto di carcere era appena stato arrestato, con accuse infamanti tutte da provare. Un altro, presunto camorrista, aspettava il processo d’appello. L’ultimo era dentro, anche lui in custodia cautelare, per l’omicidio della moglie. “Per un lungo periodo al Lorusso e Cutugno non abbiamo avuto suicidi - ricorda il provveditore dell’amministrazione penitenziaria, Aldo Fabozzi - adesso questi casi in serie, ravvicinati. Purtroppo può succedere, qui come altrove. Ogni storia fa a sé. Certo, più sono i carcerati, più aumenta il rischio di gesti autolesivi”. Dentro, però, non si è aspettato il terzo dramma per muoversi. Il direttore, raccontano i collaboratori, “aveva già creato un gruppo di studio ad hoc e redatto un report”. Lui, Buffa, preferisce non parlarne, non commentare, non spiegare. Parlano altri, alla luce della sequenza di tragedie. “Stiamo assistendo a una strage - attacca Andrea Buquicchio, capogruppo di Idv in consiglio regionale - che non è degna di un Paese civile. Una strage ignorata dal ministero della Giustizia, più impegnato a risolvere i problemi giudiziari del premier che a occuparsi della situazione di strutture e personale. I poliziotti penitenziari - sottolinea - sono lasciati da soli a fronteggiare l’emergenza”. Uno dei loro sindacalisti, Eugenio Sarno di Uil-Pa, butta nel dibattito una constatazione: “Il carcere, a dispetto dell’immaginario collettivo, non è un luogo sicuro né controllato. Un collega deve occuparsi anche di due o tre sezioni per volta, in certe fasce orarie deve garantire più servizi. Viene a mancare anche la sorveglianza visiva. Ma se anche ci fosse un agente per detenuto, non si riuscirebbero a impedire tutti i suicidi. Se una persona decide di togliersi la vita, il modo di farlo lo trova”. Il sovraffollamento e gli organici sottodimensionati certo non aiutano, anzi. “Andrà sempre peggio - pronostica amaro Sarno - Il Governo, dichiarato due anni fa lo stato di emergenza, ha tagliato i fondi del 60 per cento. Alle Vallette è prevista la costruzione di un nuovo blocco da 400 posti, però nessuno dice dove si prenderà il personale, carente ovunque. A settembre non avremo più neanche i soldi per pagare il vitto dei detenuti”. Preoccupato è pure il collega Gerardo Romano, segretario Osapp: “Il suicidio è “contagioso”, potrebbe scattare l’effetto emulazione. Alle Vallette - rivela - c’è un solo psicologo dell’Asl e quelli penitenziari sono pochi. Ogni detenuto ha diritto, in un anno, a mezz’ora di ascolto. Questi tempi ridicoli diminuiranno ancora per i tagli in arrivo per medici e infermieri, operatori deputati all’assistenza e al dialogo, indispensabili”. Anche il professor Claudio Sarzotti, responsabile torinese dell’associazione Antigone, non riesce a pensare in positivo. “La situazione, drammatica, è destinata a peggiorare. Per le persone detenute la stagione più difficile è l’estate, con il caldo, la convivenza forzata che diventa più pesante, l’oppressione che deriva dalle condizioni strutturali”. Allora, suggerisce, allargando l’orizzonte alla magistratura e alle forze di polizia, “bisogna far scendere il numero di detenuti, operando in entrata e in uscita. Penso a un minor ricorso agli arresti per i reati per cui l’arresto non è obbligatorio e alla liberazione degli arrestati, prima dell’ingresso in istituto, per cui si prevede la condizionale. Per incrementare le uscite servirebbe una maggiore applicazione di misure alternative, in particolare per gli stranieri, ora tagliati fuori. In questo quadro, presa com’è dalle pratiche ordinarie, la magistratura di sorveglianza non riesce a “sorvegliare” il carcere”. E, ancora, con una stoccata alla Regione: “La precedente giunta aveva istituito la figura del garante dei detenuti. Il bando è stato fatto, poi tutto si è arenato”. Messina: chiusura dell’Opg “Madia”; il tempo è scaduto, ma la Regione non risponde Gazzetta del Sud, 31 maggio 2011 La questione si trascina da tempo, ma deve necessariamente trovare una soluzione. Parliamo della chiusura degli Ospedali psichiatrici con il passaggio dell’ assistenza sanitaria alla Regione e del problema della sistemazione degli internati che potrebbero essere dimessi ma che nessuno vuole. All’Opg di Barcellona si aggiunge la diversa utilizzazione che deve essere fatta della struttura, alla quale è legata la serenità dei tanti addetti, dalla polizia penitenziaria al personale medico. Non a caso “Stop Opg”, la campagna per l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari, promossa da 24 associazioni tra cui la Cgil, approda oggi dalle 9,30 al teatro dell’Opg di Barcellona. L’iniziativa che prevede un convegno, seguito da una tavola rotonda alla quale parteciperà l’assessore alla Sanità Massimo Russo, è promossa da Cgil Sicilia, Funzione pubblica e Camera del lavoro di Messina. La giornata di lavoro è stata preceduta da un incontro svoltosi al ministero della Salute nel corso del quale è stato fatto il punto sul percorso e sull’applicazione delle norme per il superamento degli Opg, punti sui quali entro giugno ogni regione dovrà presentare una relazione sullo stato di attuazione. “In Sicilia - dice Elvira Morana, della segreteria regionale Cgil - siamo in presenza di una struttura sovraffollata con continuo aumento di presenze provenienti anche da altre regioni, funzionale solo a riprodurre disagio e sofferenza. Ci sono anche internati dichiarati “dimissibili”, ma che restano nell’Opg perché nessuna struttura competente se ne fa carico”. Dall’iniziativa di oggi partirà dunque “un appello alla regione ad adoperarsi per rimuovere gli ostacoli alle dimissioni degli internati giudicati dimissibili e a recepire le norme che dispongono il trasferimento dell’assistenza sanitaria dalla medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale, chiudendo l’ospedale giudiziario di Barcellona”. Il dibattito di stamani presieduto dal segretario della Camera del lavoro di Messina, Lillo Oceano, si aprirà con la relazione di Elvira Morana, segretaria regionale Cgil e sarà concluso da Stefano Cecconi, responsabile sanità della Cgil nazionale. Saranno proiettati video sugli Opg e presentate testimonianze. Nell’ambito dell’iniziativa si terrà una tavola rotonda coordinata da Francesco Gervasi, responsabile del dipartimento Salute della Cgil Sicilia, alla quale parteciperanno l’assessore regionale alla salute, Massimo Russo; la segretaria nazionale della Funzione pubblica, Rossana Dettori; la segretaria generale della Cgil Sicilia, Mariella Maggio; il direttore sanitario dell’Opg di Barcellona, Nunziante Rosania; l’assessore alle politiche sociali del comune di Barcellona, Santi Calderone. Inoltre, Giovanna Del Giudice, del Forum nazionale salute mentale; Giovanni Fiandaca, dell’Università di Palermo; Giuseppe Greco, presidente di Cittadinanza attiva; padre Giuseppe Insana, cappellano dell’Opg; Gaspare Motta, del dipartimento di salute mentale di Messina”. “Con i vertici regionali ci confronteremo sui tempi e le modalità del transito dell’assistenza sanitaria alla Sanità regionale - ha dichiarato alla “Gazzetta” il direttore del Madia Nunziante Rosania - Si tratta del primo fondamentale passo per avviare un percorso di superamento dell’Opg, ormai invivibile, e al contempo rasserenare il personale, che vive una situazione di grande incertezza e difficoltà. Al contempo si dovrà ragionare sulla riconversione della struttura sempre in ambito penitenziario. Savona: la denuncia del provveditore regionale; un carcere fatiscente e senza personale Secolo XIX, 31 maggio 2011 “Il 40 per cento delle presenze carcerarie attuali sono persone in attesa di giudizio. E ci sono anche tante persone per le quali probabilmente, la pena della reclusione è superiore rispetto al reato commesso”. Questo un passaggio del discorso di Giovanni Salamone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Liguria, pronunciato in occasione della festa regionale della Polizia Penitenziaria. La situazione in Liguria (capienza regolamentare / detenuti attualmente presenti): Genova : Marassi (456/813); Pontedecimo (96/175); Chiavari (78/86); Sanremo (209/351); Imperia (78/103); Savona (36/81); La Spezia (186/159 istituto a parziale funzionamento per lavori di ristrutturazione a padiglioni detentivi). Il rappresentante ligure del ministro della Giustizia ha tracciato il quadro degli istituti penitenziari alla luce del fatto che all’interno si trovano “persone che hanno diritto comunque ad un’aspettativa. Noi come comunità abbiamo il dovere di offrire delle chances a chi le ha perse per strada certamente per sua colpa ma che ha diritto ad una possibilità di riscatto” e che questo riscatto passa in prima battuta dalla figura degli agenti di polizia penitenziaria alcuni dei quali durante la cerimonia sono stati premiati per il lavoro svolto in servizio. “Il sistema penitenziario è in condizioni di gravissima criticità” afferma Salamone, non solo per il sovraffollamento ma anche per i tagli alle risorse. A preoccupare di più il dirigente, però, è la carenza di organico. Il suo messaggio, nella sala della scuola di Formazione della Giustizia di Genova suona chiaro: “Noi siamo soltanto dei tecnici eseguiamo le norme che ci vengono consegnate. Altri hanno la responsabilità di ripensare in modo più possibile e strategico che cosa fare del carcere e non basta a mio giudizio elevare creare nuove prigioni. A parte il fatto che nonostante i pronunciamenti, nonostante gli annunci, proprio in Liguria abbiamo un clamoroso esempio di ritardo che riguarda la nuova casa circondariale di Savona che non sappiamo quando e se riusciremo ad avere tuttavia siamo costretti a riempire di persone un edificio inqualificabile e costringere il nostro personale a lavorarvi dentro”. Domani su Radio19 tra le 8 e le 9 speciale sulla situazione delle carceri liguri. Ospiti Giovanni Salamone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Liguria, Salvatore Mazzeo direttore del carcere di Genova Marassi e Roberto Martinelli segretario nazionale aggiunto del Sappe - polizia penitenziaria. Per intervenire in diretta, il numero di sms è il 335.1981919; il numero verde l’800980964. Asti: dichiarato stato di agitazione permanente agenti polizia penitenziaria Adnkronos, 31 maggio 2011 Stato di agitazione permanente degli agenti di polizia penitenziaria alla casa circondariale di Asti. Lo hanno dichiarato da oggi sette sigle sindacali: Sappe, Osapp, Fns Cisl, Uilpa, Cgil, Ugl, Fsa - Cnpp. Le Segreterie provinciali hanno sottoscritto un documento in cui sottolineano il “grave malessere che attanaglia il personale di polizia penitenziaria astigiano, sempre più massacrato nel quotidiano da carichi di lavoro che non hanno precedenti” convocando lo stato di agitazione permanente “fino a quando non saranno assunti - spiegano - concreti provvedimenti in termini di assegnazione di unità”. Chiedono un intervento straordinario ed urgente che deve riguardare l’invio immediato di almeno 20 unità per porre rimedio alla grave drammaticità della Casa Circondariale di Asti. Il penitenziario astigiano conta oggi 126 agenti in servizio “a fronte di una pianta organica prevista di 267 unità“ spiegano i sindacati. Per questo chiedono che si apra un tavolo di confronto immediato con il Provveditore Regionale “al fine di trovare soluzioni concrete ed immediate - concludono - unitamente alle Segreterie Provinciali delle OO.SS. della Casa Circondariale di Asti”. Porto Azzurro (Li): insegnanti mobilitati per salvare il liceo del carcere Il Tirreno, 31 maggio 2011 Dopo l’annuncio dello smantellamento della scuola carceraria, i docenti si mobilitano. Gli insegnanti dell’Isis Foresi marceranno alla volta del provveditorato di Livorno per manifestare la loro contrarietà alla possibile cancellazione della sezione penitenziaria. “Ci stiamo muovendo a tappeto - dice Alessandra Doni, professoressa di storia e filosofia sia presso Forte San Giacomo che al Grigolo - perché è un caso civile e per i detenuti l’istruzione è l’unico strumento di socializzazione. Per noi insegnanti questa è stata la migliore esperienza della nostra vita lavorativa. Non può essere cancellata, sarebbe un danno enorme per queste persone”. Docenti sul piede di guerra per una causa più che giusta visto che l’insegnamento presso la casa circondariale di Porto Azzurro, iniziato nel 1997, è stato ricco di successi sia dal punto di vista umano sia da quello formativo. La scuola all’interno della struttura penitenziaria, inoltre, non può che fare da deterrente di fronte ai disordini occorsi negli ultimi mesi a Porto Azzurro. “La Caritas, l’Arci e tutti i sindacati ci stanno appoggiando - continua Doni - perché questa battaglia è un obbligo per tutta l’Elba. Insieme a molti miei colleghi ci stiamo muovendo per scongiurare questa eventualità. Bisogna convincerci che ciò che facciamo è importante. C’è molta speranza. Anche l’anno scorso il mantenimento della sezione carceraria non era scontato e grazie alle battaglie dei miei colleghi tutto è rimasto inalterato. Già in altri plessi scolastici elbani i professori hanno fatto sentire la propria voce - conclude Doni - e fortunatamente sono riusciti a prevalere a fronte di tagli molto pesanti che il dirigente scolastico provinciale aveva intenzione di fare proprio all’Elba”. Ancona: detenuto modello evade durante il lavoro nei campi Corriere Adriatico, 31 maggio 2011 Il marocchino, fuggito dal carcere di Barcaglione, avrebbe finito di scontare la pena nel 2015. L’uomo, 48 anni, è ricercato ovunque. Detenuto modello evade dal carcere durante l’orario di lavoro, approfittando di un buco nella sorveglianza mentre si trovava ad accudire gli ulivi nelle campagne attorno alla struttura penitenziaria di Barcaglione. L’uomo, un marocchino di 48 anni finito in carcere per spaccio di droga, sarebbe uscito a fine 2015 e da quando era entrato in carcere aveva sempre mantenuto un comportamento rispettoso delle regole, tanto che gli erano stati concessi benefici come appunto il permesso di lavoro fuori dal carcere. Da tempo il 48enne usciva ogni mattina alle 9 insieme agli altri detenuti, nell’ambito di un progetto per la coltivazione e la cura di un uliveto sulle colline dietro il carcere di Barcaglione. Il regime di lavoro sorvegliato prevedeva il rientro nel penitenziario alle 13, per consumare il pranzo, poi i detenuti uscivano di nuovo per il turno del pomeriggio, dalle 15 alle 19. Serbia: Mladic proclama innocenza; sarà estradato al Tribunale penale internazionale dell’Aja Ansa, 31 maggio 2011 Ratko Mladic sarà estradato al Tribunale penale internazionale dell’Aja già tra oggi e domani, malgrado la battaglia legale ingaggiata dalla famiglia e dal suo legale e le manifestazioni degli ultranazionalisti che si sono svolte ieri a Belgrado e in altre città di Serbia e Bosnia. Mladic deve rispondere di genocidio e crimini di guerra, perché come comandante delle truppe serbo - bosniache durante gli anni 90 pianificò e guido il lungo assedio di Sarajevo e, soprattutto, la carneficina di Srebrenica. Mladic è ritenuto il responsabile dell’uccisione di migliaia di musulmani di Bosnia, tanto da essere conosciuto come il “macellaio di Srebrenica”. Dal momento dell’arresto, avvenuto nel villaggio di Lazarevo in Voivodina, provincia autonoma della Serbia, Mladic è detenuto in una cella del Tribunale speciale per i crimini di guerra di Belgrado, ieri “blindato” dalle forze di sicurezza serbe per timore di violente contestazioni da parte dei manifestanti. Secondo l’avvocato difensore l’ex generale è in condizioni di salute precarie perché in questi 16 anni di latitanza sarebbe stato colpito da tre ictus. E per questo - sostiene il suo legale - non sarebbe in grado di affrontare per ora un processo davanti ai giudici dell’Aja. E ieri Mladic ha addirittura negato responsabilità per il massacro di Srebrenica, tramite le parole del figlio Darko che si è recato a trovarlo in carcere. Nella città bosniaca furono uccisi nel luglio del 1995 circa 8mila musulmani. “Ha detto che non ha nulla a che fare con il massacro di Srebrenica - ha riferito il figlio - e che ha salvato molte donne, bambini, guerriglieri. Il suo ordine fu di evacuare dapprima i feriti, poi donne, bambini e infine i combattenti”. Mladic avrebbe incolpato il regime politico di Belgrado per il genocidio perpetrato, e in particolare Milosevic, al tempo presidente della Serbia. L’avvocato di Mladic ha predisposto il ricorso contro l’estradizione, ma il destino dell’ex generale serbo è segnato. Questo malgrado le molte manifestazioni di sostegno che si sono tenute ieri, in primis quella di Belgrado, organizzate dal Partito radicale di estrema destra di Vojislav Seselj, anch’egli peraltro sotto processo per crimini di guerra presso il Tribunale internazionale dell’Aja. In diecimila sono scesi in piazza ieri sera nella capitale serba per protestare contro l’arresto di Mladic. Le autorità hanno schierato centinaia di poliziotti in assetto antisommossa temendo possibili scontri. Sulle bandiere i manifestanti hanno inneggiato: “Mladic è un eroe serbo”. Qualche petardo è stato lanciato contro i poliziotti. In migliaia hanno manifestato anche a Kalinovik, villaggio natale di Ratko, a 70 chilometri a sud di Sarajevo in Bosnia. Molti i cartelli con la scritta “Ci avete preso l’aquila, ma è rimasto il nido”. La manifestazione in questo caso è stata organizzata dall’associazione reduci di guerra, di cui il fondatore è proprio Mladic. Altre manifestazioni si sono tenute ieri a Pale e a Visegrad, ma i reduci hanno annunciato che la protesta più massiccia si terrà a Banja Luca domani 31 maggio, la città quartier generale dei serbi di bosnia durante la lunga guerra civile. Russia: caso Khodorkovsky; la Corte di Strasburgo condanna Mosca a risarcirlo Apcom, 31 maggio 2011 La Corte europea dei diritti umani ha condannato la Russia a pagare 10.000 euro per danni morali a Mikhail Khodorkovsky, ma non ha riconosciuto la natura “politica” del processo all’ex oligarca in carcere dal 2003, pur ammettendo che è lecito un “certo sospetto” sui “veri scopi delle autorità russe” nei confronti dell’ex patron della compagnia petrolifera Yukos. Il verdetto emesso oggi dalla Corte di Strasburgo rileva anche alcune violazioni degli articoli relativi alle condizioni di permanenza in prigione e la durata della carcerazione in attesa di processo, oltre a “irregolarità procedurali in relazione alla detenzione”. Tuttavia, fanno notare i giudici nella sentenza emessa all’unanimità, non sono state presentate “prove incontestabili, necessarie” a supporto della richiesta di sanzionare un procedimento politicamente motivato. La corte, composta da sette giudici - compreso il russo Anatoly Kovler - riconosce che per un periodo limitato Khodorkovsky è stato tenuto in carcere in condizioni “disumane e degradanti” e che durante il processo gli sono state applicate misure di sicurezza in aula non adatte al suo caso, ma piuttosto a un pericoloso criminale, in particolare la collocazione dietro una gabbia di ferro con fitte sbarre. Violazioni anche in due estensioni della carcerazione, poiché non motivate, oltre a varie irregolarità nelle procedure di detenzione. Il tribunale per i diritti, però, non accoglie il più importante punto del ricorso presentato dall’ex magnate del petrolio, quello di motivazione politica dell’inchiesta e del processo. “La Corte ha osservato che, mentre il caso del signor Khodorkovsky può aver dato adito a dubbi sulle reali intenzioni delle autorità russe nel perseguirlo penalmente, le rivendicazioni di una motivazione politica dietro il procedimento richiedono prove inconfutabili, che non sono state presentate”, cita la sentenza emessa oggi. “La Corte è persuasa che le accuse contro il signor Khodorkovsky rientrano nella categoria del ‘ragionevole sospettò e quindi siano compatibili con la Convenzione” dei diritti fondamentali. La “Corte rigetta la richiesta del signor Khodorkovsky di indicare al governo russo specifiche misure su come applicare il giudizio, convenendo che la supervisione di tali misure sia di competenza del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa”, conclude la sentenza. Oltre ai 10.000 euro di danni morali, la Russia dovrà pagare 14.543 euro per costi e spese legali. Richiesta scarcerazione: Corte non deciderà prima di 2 settimane Il tribunale di Mosca non prenderà in esame prima di due settimane la richiesta di libertà condizionale dall’ex proprietario della compagnia petrolifera Yukos, Mikhail Khodorkovsky. Lo ha detto Lalita Darchieva, portavoce del tribunale Preobrazhensky competente per il caso, sottolineando che il lasso di tempo è “in conformità con il codice di procedura penale”. Oggi il trinunale ha ricevuto la richiesta di libertà condizionale da parte di Khodorkosvsky e del suo ex socio Platon Lebedev. “la questione relativa al material ricevuto verrà esaminata come richiesto dal codice di procedura penale” ha detot la portavoce. “Alle parti verrà fornita al data dell’udienza con un preavviso di 14 giorni” Già uomo più ricco di Russia, in carcere dal 2003, il detenuto annota nella richiesta - presentata ieri - che non si tratta di una ammissione di colpa. Intanto però le Ong sono scettiche. Il capo del Gruppo di Helsinki di Mosca Lyudmila Alekseeva ritiene che la richiesta sia una mossa saggia in questo caso clamoroso, ma ritiene anche che la liberazione sia un scenario improbabile. In carcere per frode ed evasione fiscale e successivamente condannato per appropriazione indebita e riciclaggio, l’ex magnate e nemico numero uno di Vladimir Putin dovrebbe rimanere dietro alle sbarre sino al 2016. Kobhdorkovsky nei mesi scorsi ha chiesto al presidente Dmitri Medvedev la revisione del processo che ha prodotto una “condanna vergognosa”. In base a dichiarazioni precedenti dei due leader russi, all’interno del tandem al potere ci sono visioni differenti sul caso. Secondo Putin il posto giusto per Khodorkovsky è quello riservato ai ladri “la galera”. Per Medvedev se l’ex miliardario venisse rilasciato “non ci sarebbe alcun pericolo”. Birmania: un’amnistia con aspetti gravemente farseschi di Francesco Radicioni Notizie Radicali, 31 maggio 2011 A pochi mesi dalla farsa del passaggio da una giunta militare ad un governo civile e la “fioritura della democrazia disciplinata” in cui sempre gli stessi uomini - svestiti gli abiti dei militari - continuano a mantenersi ben saldi al potere, il gattopardo birmano annuncia una patetica amnistia. L’atto di clemenza annunciato lunedì scorso dal nuovo Presidente - ed ex primo ministro! - dell’Unione di Myanmar Thein Sein prevede di amnistiare a tutti un anno di reclusione e di commutare le condanne a morte in ergastolo. Un provvedimento poco più che simbolico in un paese che viene classificato da “Nessuno Tocchi Caino” come ‘abolizionista di fattò, non eseguendo direttamente sentenze capitali fin dal colpo di Stato del 1988. L’amnistia birmana che dovrebbe consentire l’uscita dalle carceri birmane di circa 15.000 detenuti per reati comuni è stato definito da Thein Sein come la via per “rendere i detenuti dei cittadini che potranno così contribuire alla costruzione della nuova nazione”. Chi rimarrà estromesso dal processo di costruzione della nuova nazione birmana saranno gli oltre 2.100 detenuti politici per la cui liberazione si era più volte espressa la comunità internazionale, l’ultimo in ordine di tempo l’inviato speciale delle Nazioni Unite Vijay Nambiar. Infatti, secondo quanto riportato dalla Lega Nazionale della Democrazia sarebbero solo una quarantina i prigionieri di coscienza che potranno essere liberati grazie a questo provvedimento di clemenza. Il singolo anno di sconto di pena previsto dal provvedimento voluto dal governo di Napyidaw sarà solo una goccia nel mare per quanti tra gli studenti, i monaci e rappresentanti delle minoranze etnici devono scontare condanne di decine di anni. Pochi giorni dopo questa amnistia con i suoi aspetti gravemente farseschi, una ventina di prigionieri politici del tristemente noto carcere Insein di Yangon hanno iniziato uno sciopero della fame per chiedere un miglioramento delle condizioni di detenzione: la possibilità di leggere, adeguate razioni alimentari e un miglioramento delle cure mediche. Certo, la situazione italiana dimostra di essere - se possibile - ancora peggiore: infatti, se il Governo ha dapprima accolto le proposte radicali e di Rita Bernardini presentando un ddl volto a far scontare l’ultimo anno di detenzione ai domiciliari, il Parlamento l’ha poi resa - nei fatti - quasi inutile, svuotandola dei suoi contenuti. Oggi, la lotta nonviolenta che Marco Pannella e gli oltre 3.000 detenuti nelle carceri italiano conducono da 38 giorni nel silenzio assordante della stampa scritta e televisiva per la situazione delle carceri italiane è la stessa dei detenuti politici birmani ed è per sua stessa natura transnazionale, e lo scandalo radicale della nonviolenza deve essere a Roma come a Yangon ignorato e reso clandestino. Cina: monaco tibetano muore dopo 15 anni di carcere Ansa, 31 maggio 2011 Jampa Pelsang fu arrestato nel 1996, durante la prima campagna di “rieducazione patriottica” ordinata dalle autorità cinesi per i monaci tibetani. Si oppose e fu arrestato, insieme a decine di monaci. Numerosi monaci tibetani sono morti dopo anni di carcere. È morto il 23 maggio il monaco Jampa Pelsang aka Puloe, rilasciato il 6 maggio dal carcere di Chushul in gravissime condizioni di salute. Egli è stato 15 anni in prigione per essersi opposto alla “campagna di rieducazione” ordinata dalle autorità cinesi nel maggio 1996 presso i monasteri di Sera, Gaden e Drepung a Lhasa in Tibet. Nel maggio 1996 le autorità cinesi lanciarono la prima campagna di rieducazione, proibendo in tutti i monasteri le fotografie del Dalai Lama (è tuttora reato averne) e impedendo le preghiere per costringere in monaci a partecipare a incontri di indottrinamento. I monaci fecero una protesta, chiedendo ai funzionari di andare via. Per risposta arrivò l’esercito nei monasteri, che stroncò con la violenza ogni protesta. I monaci Gelek Jinpa e Dorjee furono feriti, oltre 100 monaci furono cacciati dal monastero e decine di monaci furono arrestati tra il 5 e il 7 maggio. Jampa fu arrestato il 6 maggio 1996, insieme ad altri 62 monaci. Di loro, 32 monaci sono stati condannati a pene tra uno e 15 anni di carcere., mentre gli altri furono condannati a campi di “rieducazione - tramite - lavoro”, veri lavori forzati. Jampa, ritenuto tra i leader delle proteste, fu condannato a 15 anni, scontati nei carceri di Lhasa, Drapchi e Chushul. Egli era nato a Drepung, contea di Meldro Gungkar, Lhasa, ed è entrato giovanissimo nel monastero di Gaden. Con Jampa fu condannato Tenzin Yeshi, che pure è morto poco tempo dopo il rilascio. Lobsang Wangchuk,, condannato a 10 anni, è morto nel carcere di Drapchi il 4 maggio 1998, colpito con arma da fuoco da una guardia durante una protesta pacifica. La Cina è stata spesso accusata di praticare torture e condizioni dure di carcere per i detenuti.