Cresce il rapporto tra carcere e territorio Il Mattino di Padova, 30 maggio 2011 15 comuni sono entrati in carcere il 10 novembre 2010: alcuni a portare testimonianza di come possa diventare realtà la collaborazione tra carcere e territorio, altri per conoscere l’altra città, quella oscura, e il suo desiderio di riscatto. Quell’incontro è stato intenso e il progetto “carcere e territorio” continua a dare frutti. Con un Comune nuovo, Campo San Martino, è iniziato un percorso di conoscenza, sia con le istituzioni che con un’associazione importante (Auser), che a sua volta ci ha chiesto di venire a trovarci “dentro” e durante un incontro denso e pacato ha dialogato con i “ragazzi” detenuti, li ha “interrogati” e ascoltati. Con i comuni “vecchi” (Limena, San Giorgio in Bosco, Galliera Veneta, Padova) il rapporto si è consolidato e in qualche caso è cresciuto. Proprio da quell’incontro, dal clima e dal fervore di idee, si sono sviluppati nuovi progetti. Il Comune di san Giorgio in Bosco, nel quale lavorava un detenuto part time, ha proposto alla cooperativa un impegno più importante: i servizi cimiteriali. La persona detenuta, Francesco, oggi lavora a tempo pieno per questo incarico di cui tutta la coop con lui è orgogliosa, perché apprezza la dignità che l’amministrazione attribuisce a questo compito. Inoltre San Giorgio in Bosco, per cui già elaboriamo la rassegna stampa, ci ha affidato un altro importante incarico: la sistemazione dell’archivio storico. Da sempre la coop lavora in questo settore (ha riordinato ad esempio l’archivio del Comune di Limena) e iniziare un percorso in questo senso anche a San Giorgio è una grande soddisfazione. Anche con Galliera Veneta il rapporto sta crescendo: oggi ci lavorano per noi Giuliano, ex detenuto, e Moreno, che si avvia a concludere la carcerazione. Giuliano è stato praticamente adottato dal Comune di Galliera, che gli affida compiti di responsabilità; il clima è tale che si è trasferito a vivere lì e lì sta costruendo la sua vita nuova. Sul clima dei paesi verso le persone detenute mi piace fare una riflessione. Anche sui razzismi e sui pregiudizi della provincia veneta a volte ragioniamo con stereotipi che non corrispondono alla complessa ricchezza della realtà. Noi in questi anni abbiamo imparato che se si mettono al centro la persona e la capacità di lavorare bene i razzismi e i pregiudizi svaniscono, perché spesso coprono semplicemente l’assenza di conoscenza, e la conoscenza che cambia di più le persone è quella diretta, sul campo. Rossella Favero (Coop AltraCittà) L’Auser in carcere Accompagnati da Paolo Sensolo, infaticabile presidente del circolo Auser di Campo San Martino/Curtarolo, con un gruppo di iscritti, tra cui una decina di soci di Piazzola sul Brenta, siamo andati in visita guidata al carcere “Due Palazzi”, di Padova. Ad attenderci c’era Rossella, presidente della Coop AltraCittà. Formato un gruppo compatto, oltrepassiamo il primo cancello di alte inferriate che subito si chiude alle nostre spalle, mentre un altro se ne apre davanti. E così per varie volte, in una successione che non ho più contato. È il momento della identificazione, con la consegna delle nostre carte d’identità, dei telefonini, degli oggetti di valore. Velocemente percorriamo un lungo corridoio, entriamo in biblioteca, ci sediamo. Davanti a noi prendono posto una decina di persone, per lo più giovani. Rossella procede alla presentazione: si tratta di reclusi da vari anni, ma intenzionati a riscattarsi attraverso le opportunità offerte da una struttura carceraria capace di trasformazioni e innovazioni straordinarie. Le difficoltà non mancano, perché questo carcere, nato per ospitare circa 400 persone, in realtà in questo momento ne trattiene quasi 900. Di queste, solo una parte riesce a partecipare ai programmi di “emancipazione” che andremo a conoscere. Mentre le persone detenute ordinatamente prendono la parola e si presentano, osservo che sono curate nel vestire e nelle acconciature, e padroneggiano bene la lingua italiana tutti, anche gli stranieri. Espongono con organicità il loro pensiero. Il primo a parlare è Stefano. Ci dice che in quella biblioteca ci sono migliaia di libri di autori italiani e stranieri. I carcerati possono accedervi per leggere, per consultare o per chiedere un prestito. Ma c’è di più. La biblioteca è in rete con le biblioteche del territorio e quindi è possibile offrire e ottenere libri da fuori. I libri, fonti di ricchezza spirituale e di pensiero, sono indispensabili per studi di alto livello. La conferma viene da Sandro che si è laureato in Filosofia e da Cesk, iscritto a Scienze Politiche. E poi ci sono altri spazi, destinati alla redazione e pubblicazione del periodico “Ristretti Orizzonti”, alla produzione di un foglio interno, alla composizione di brevi flash per la TV diocesana Telechiara. Il pensiero corre allora, al futuro. Mi chiedo: perché fare tutto questo se non c’è futuro? E la risposta arriva subito. Michele a nome di un gruppo di colleghi dice di essere impegnato nella rassegna stampa per conto di esponenti politici, aziende, comuni. C’è chi come Ismail è impegnato nei reparto di cartonaggio e legatoria della cooperativa AltraCittà per la realizzazione di prodotti in vendita nelle cartolerie. E c’è chi invece, è assunto dalla cooperativa “Giotto”, per la produzione di panettoni natalizi e colombe pasquali. Adesso mi rendo conto che le sbarre si sono allargate, si respira aria di riscatto. Il carcere da luogo di detenzione dove giustamente deve restare chi ha sbagliato, può diventare occasione di rivincita. E lo vediamo tutti, visitando la redazione del Notiziario “ Ristretti Orizzonti”, il laboratorio di cartotecnica, il reparto pasticceria con i suoi profumatissimi prodotti. La visita sta per finire. Avvolti nei nostri pensieri e costretti a spogliarci di tanti pregiudizi ci dirigiamo verso l’uscita. Con un’ultima sorpresa. Nel varcare la soglia, le guardie nella loro divisa blu, ci salutano: “Grazie per essere venuti!”, proprio mentre sentivo forte il bisogno di ringraziare. Ivo Beccegato Incontro con il gruppo Auser: nei loro atteggiamenti ho rivisto mio padre All’incontro con il gruppo Auser di Campo San Martino/Curtarolo, un’associazione che include persone anziane che offrono la loro disponibilità per azioni di volontariato sul territorio, ho preso parte anch’io con alcuni detenuti che partecipano ad attività culturali all’interno dell’istituto, in particolar modo nell’area in cui vi è la biblioteca, la rassegna stampa, la legatoria, la rivista “Ristretti orizzonti” e il TG “Due Palazzi”. Per l’occasione vi era un’ampia rappresentanza di tutte queste realtà, e ognuno esponeva il ruolo e le iniziative che queste hanno all’interno e all’esterno dell’istituto. Per quanto mi riguarda, essendo un componente della redazione della rivista, ho cercato di esporre le nostre attività, senza nascondere all’inizio una certa titubanza, convinto di avere di fronte persone impregnate di quei pregiudizi, divulgati da tante trasmissioni televisive, che spesso hanno come utenza proprio le persone di una certa età. Devo dire che questo mio pensiero non era corretto, anzi in questo caso ero io quello che senza conoscere mi ero fatto un’idea totalmente errata della capacità di giudizio che hanno le persone anziane, e gli sono grato della loro curiosità, della loro volontà di sapere, delle loro domande e dei loro dubbi. In quella giornata mi sono reso conto di quanto sia importante il confronto con la cittadinanza esterna, quanto è importante che le persone dentro e fuori dal carcere, di qualsiasi età o ceto sociale siano, possano comunicare e ascoltarsi tra loro. Ho avuto modo di intrattenermi a parlare, dopo l’incontro, con alcuni ospiti e ho avuto la sensazione che quelle poche ore trascorse insieme ci abbiano avvicinato molto. La spontaneità e gli sguardi diretti in cui vedevo un misto di rimprovero e allo stesso tempo un incitamento a continuare su quanto stavamo facendo, mi riportava a ricordi perduti, nei loro atteggiamenti ho rivisto mio padre, i miei nonni, tutti coloro che spesso, attraverso le vicissitudini del tempo e le loro esperienze, cercavano di darmi gli strumenti per poter affrontare la vita, che allora non sono riuscito a cogliere. Spero e mi auguro che queste iniziative facciano parte integrante di percorsi che permettano il confronto, rendendo il carcere un luogo vissuto come appartenente a tutta la cittadinanza. Sandro Calderoni Giustizia: quegli impegni per le carceri che restano lettera morta di Valentina Ascione Gli Altri, 30 maggio 2011 Si può forse prescindere dal merito, quando il merito sono i diritti calpestati di 67 mila persone? Sessantasette mila vite nelle mani di uno Stato anch’esso fuori legge, ogni giorno che passa in maniera più patente? Non dovrebbe forse rappresentare una priorità nell’agenda di governo? E per il parlamento un fine, quello di sanare una ferita così profonda dello stato di diritto, da perseguire con ogni mezzo? E invece può succedere, qui in Italia, che l’emergenza quotidiana delle nostre carceri, il sovraffollamento, le condizioni di vita penose di migliaia di detenuti, diventino come la luna per colui che guarda il dito che la indica. Terreno di regolamenti di conti interni, di fuoco incrociato e scambi di accuse tra schieramenti; pretesto per fare le pulci a una maggioranza intermittente e a un governo che procede a passo di funambolo. È grossomodo quanto accaduto la settimana scorsa alla Camera, dove il governo è “andato sotto” quattro volte, battuto sul voto di altrettante mozioni parlamentari. Hanno così cominciato a farsi rapidamente strada, sulle agenzie e sulle testate online, le dichiarazioni di giubilo delle opposizioni, le accuse della maggioranza ai deputati assenti, le smentite, gli inviti alla calma del governo e i primi retroscena su un presunto boicottaggio interno da parte dei Responsabili delusi, o sugli ipotetici effetti nefasti della tornata elettorale. Che le mozioni pietra dello scandalo vertessero sulla situazione delle carceri è tuttavia un dettaglio rimasto nascosto tra le righe degli occhielli o dei catenacci. Un dato contestuale, del tutto secondario, se non irrilevante ai fini di quanto stava accadendo nell’agone politico. Per non parlare del contenuto di quei documenti approvati, che formalmente “impegnano” il governo a predisporre un complesso di riforme - dalla depenalizzazione dei reati minori, a una più ampia e certa accessibilità delle misure alternative alla detenzione, dalla definizione di parametri più abbordabili per la conversione delle pene detentive in pene pecuniarie, a una limitazione del ricorso alla custodia cautelare in carcere - volte a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e a rendere effettiva la finalità rieducativa della pena. Impegni non da poco, che richiederebbero l’immediata mobilitazione del governo, e che invece non destano attenzione, né preoccupazione. Forse perché, tali e quali, a quelli presi un anno e mezzo fa - attraverso l’approvazione di mozioni uguali a quelle votate nei giorni scorsi - e completamente disattesi. Non si capisce, dunque, a cosa serva approvare mozioni destinate a restare lettera morta, mentre nelle carceri italiane migliaia di detenuti sono in sciopero della fame, nell’attesa di impegni seri e concreti. E che magari si ponga fine a sceneggiate parlamentari che li trasformano da protagonisti a pallide comparse. Giustizia: dagli Usa all’Europa, il modello “prison-fare” di Dina Galano Terra, 30 maggio 2011 La Corte suprema americana ha ordinato alla California di liberare decine di migliaia di detenuti per tentare di risolvere il problema delle carceri sovraffollate dove non si rispettano i requisiti minimi costituzionali. Una buona notizia che riapre il confronto sulla carcerizzazione dilagante nelle società occidentali. All’inizio di questa settimana è accaduto un fatto insolito per la storia della giurisprudenza statunitense. La Corte suprema, il massimo organo con poteri giudiziari, nonché l’unico specificatamente disciplinato nella Costituzione, ha ordinato alla California di liberare decine di migliaia di detenuti per tentare di risolvere il problema delle carceri sovraffollate. Le prigioni dello Stato “non rispettano i requisiti costituzionali minimi”, ha indicato il magistrato Anthony M. Kennedy a nome del collegio giudicante, riferendo che a causa del sovraffollamento degli istituti “200 detenuti sono costretti a vivere nella palestra dell’istituto e in 54 a dividersi un bagno”. Non c’è altra scelta, avrebbe incalzato il giudice nelle 52 pagine di motivazione, se non di procedere al loro rilascio. Così la cifra esorbitante di oltre 143mila reclusi nelle 33 carceri per adulti dello Stato californiano dovrebbe essere ridotta a circa 100mila. Tra i colleghi di Kennedy, le aree conservatrici hanno espresso netta avversione all’idea di una liberazione di massa definita ora “oltraggiosa” ora “assurda”; dal canto loro, i californiani hanno poco gradito l’ordine dall’alto che avrebbe calpestato la propria giurisdizione di Stato federale sulle questioni di privazione della libertà personale. Formalmente, però, non si tratta di un provvedimento amnistiale. Né si conosce se, come avvenuto in passato durante i mandati di Schwarzenegger, si procederà con il trasferimento dei colpevoli di reati minori alle galere delle contee. Dalla presidenza Reagan la popolazione carceraria degli Stati Uniti si è moltiplicata per sette. Un ritmo di crescita che non ha pari al mondo per un Paese da sempre anticipatore dei trend seguiti dagli altri governi industrializzati. Nonostante, poi, negli ultimi vent’anni il tasso di criminalità sia diminuito, su un indice di cento reati commessi finivano in carcere prima 21 persone, oggi 125; per lo stesso numero di delitti, dunque, gli Usa sono diventati sei volte più punitivi e le carceri altrettanto più frequentate. A voler inoltrarsi dietro il muro di cinta, chi è stato raggiunto dalla giustizia americana è sempre più spesso un individuo che l’ha già conosciuta, che entra ed esce come per porte girevoli, che dopo aver scontato pene brevi ricade nell’errore per povertà o emarginazione sociale. E per restare in terra californiana, alcuni reati come la detenzione di stupefacenti e la violenza sessuale, determinano per i loro autori sanzioni in proporzione maggiormente afflittive. Con il Jessica’s Law, per esempio, dal 2006 il sex offender in libertà vigilata non può risiedere o avvicinarsi a scuole e parchi pubblici per un raggio inferiore ai 600 metri (con un effetto negativo anche sul sovraffollamento degli istituti che continuano a trattenere persone che potrebbero invece accedere a misure alternative alla detenzione). Ma in Europa, se si escludono i Paesi dell’Est ancora lontani dagli standard comunitari in materia di diritti umani, il trend è il medesimo della giustizia statunitense (eccetto il ricorso al boia, bandito universalmente nel Vecchio continente tranne che in Bielorussia). Spagna, Portogallo, Inghilterra e Italia sono, nell’ordine, gli Stati che a partire dagli anni Ottanta hanno scelto la carcerizzazione come risposta all’avvento della “società del rischio”. L’area latina in particolare ha conosciuto il raddoppio della propria popolazione carceraria con la definitiva assunzione del paradigma interpretativo di politiche di esclusione versus inclusione; così negli ultimi vent’anni in Italia, Francia e Belgio l’incremento dei reclusi è stato del 50 per cento. Perfino in Austria si è stabilita la possibilità di far tornare in libertà i detenuti in eccesso rispetto all’effettiva disponibilità di posti nelle prigioni. Quanto al nostro Paese nello specifico, i quasi 70mila detenuti contati a inizio anno sono scesi a quota 68mila per effetto di due provvedimenti. Il primo, sostenuto da Angelino Alfano, ministro della Giustizia, ma ritenuto da molti “dalle maglie troppo strette”, concede la detenzione domiciliare a chi vanta soltanto un anno di pena residua; il secondo, giunto direttamente dalla Corte di giustizia europea, sta gradatamente sfollando le prigioni di stranieri che, non avendo rispettato l’ordine di allontanamento dall’Italia perché irregolari, dalla legge (ormai abrogata) avevano meritato la pena. Si tratta, a ben vedere, di parare il tiro di fronte a iniziative repressive che associano la sanzione massima allo status di alcuni individui (stranieri, tossicodipendenti, recidivi), ma non molto di più. La capienza regolamentare nelle prigioni italiane resta fissata in 42mila posti letto. Si era in 30mila nel 1975 per arrivare oggi al rapporto di 112 ristretti ogni 100mila individui liberi. Dunque, qual è il reale motivo del ritorno delle società contemporanee alla prigione? Perché sui quasi duecento Paesi appartenenti alle Nazioni Unite, soltanto venti non hanno conosciuto l’aumento della popolazione detenuta? “Il fattore è esogeno”, esemplifica Massimo Pavarini, docente all’Alma Mater di Bologna. “Come, quando e chi si punisce è sì una questione interna allo Stato sovrano, ma è di assoluta importanza per l’egemonia culturale di un Paese”, insegna il penalista. Secondo il professor Loic Waquant, sociologo all’università di Berkeley, California, le radici affondano in “almeno tre funzioni che si attribuiscono alla prigionia ma nulla hanno a che vedere con essa”. Con la carcerizzazione crescente, differenziata per tipo d’autore e più che retributiva verso determinati comportamenti, si tenta, secondo il docente, di “disciplinare il nuovo proletariato, ovvero il precariato, aumentando il costo della partecipazione all’economia informale e illegale; in secondo luogo di punire la povertà trasformandola in malattia mentale (e le carceri statunitensi hanno tassi altissimi di persone con diagnosi di disturbi mentali “accertati”); infine, di riasserire l’autorità dello Stato”. E le tre funzioni attribuite alla reclusione massiccia “sono le stesse individuate nel XVI secolo”. Dalle ricerche sociologiche condotte da Waquant emerge che le due direttrici su cui si è innalzata l’iperbole punitiva trovano corrispondenza nelle teorie di Marx da un lato e di Durkheim dall’altro. Mutuata dal filosofo tedesco di Treviri la lettura materialistica del carcere lo considera come uno strumento di controllo delle classi sociali inferiori, per cui “le politiche criminali sono collegate a quelle sociali, costituendo le due facce della politica della povertà”, spiega il professore di Berkeley. Seguendo l’insegnamento del collega francese, invece, si troverebbe la dimensione simbolica della pena moderna in cui “il punire si fa strumento di comunicazione, un modo per i governanti di mandare messaggi ai cittadini sulle regole da rispettare”. Una terza ragione dell’inflazione del sistema penale, conseguente a entrambe le impostazioni, viene poi spiegata dai tecnici del diritto contemporanei con “l’uso politico della giustizia”, vale a dire la moltiplicazione di leggi che alimentano le “pulsioni securitarie” erodendo la legislazione premiale e convogliando l’azione repressiva verso determinati comportamenti sociali. Ed ecco spiegato perché la storia del Far West ha finito per colonizzare la garantista Europa. Che sia la marginalità sociale a voler essere punita o il crimine esemplare che fa presa sull’emozione del popolo, qui come oltreoceano le teorie sul diritto penale minimo e sull’estrema ratio della pena detentiva sono diventate desuete, temi banditi dal dibattito pubblico e relegati nei conciliaboli. Domina in Occidente, valido sostituto del vecchio welfare, il “prison-fare”. Fin quando, ben in là dal venire, la maggioranza dei poveri sarà maggioranza dei cives e i re finiranno alla ghigliottina. Giustizia; da “sbarrette di cioccolato” a vino “sette mandate”, boom prodotti made in jail Adnkronos, 30 maggio 2011 Dal caffè alle sbarrette di cioccolato. Dalle borse fatte rigorosamente a mano a vini che mixano gusto e ironia, mostrando sull’etichetta la scritta “Sette mandate”, “Il fuggiasco” o “Fresco di galera” per la Falanghina. Ma anche pezzi unici, lavorati artigianalmente, come scialli e spille: sono i prodotti “Made in Carcere”, realizzati dai detenuti in diverse case circondariali da Nord a Sud del Paese, mettendo a segno in alcuni casi dei piccoli primati di qualità grazie al lavoro tenace di cooperative e imprese. Ma soprattutto di detenuti che, insieme ai prodotti, fabbricano con il lavoro un futuro diverso. Nelle carceri italiane sono infatti 14.174 i detenuti che lavorano, il 20,8% della popolazione carceraria. Molti di loro sono impegnati nella realizzazione di questi prodotti di eccellenza nel campo agroalimentare o manifatturiero, che hanno tanto di vetrina sul sito del ministero della Giustizia. Tra le ultime proposte, le scatole ricordo “Altracittà”, realizzate in cartone su richiesta del cliente a seconda delle sue esigenze. I coperchi delle scatole vengono personalizzati con una carta realizzata con un collage composto dalle foto fornite dal cliente. È possibile ordinarle su misura e con la carta di copertura a scelta. L’offerta comprende anche prodotti curiosi, utili e soprattutto particolari, come la stufa in ferro o il Profumo “Fumne” . E non poteva mancare lo “Svuotatasche”, pratiche ciotole realizzate con ritagli di ferro. O il portamonete quadrato che non a caso si chiama “Ora d’Aria”. Per il cento cinquantenario, ecco il “Quaderno 150 anni Unità d’Italia”, realizzato a mano nel laboratorio di legatoria nella Casa di reclusione di Padova, che riproduce un acquerello dedicato al monumento ai caduti di S. Giorgio in Bosco, a Padova. Mentre per le donne, è da segnalare l’abito all’americana “Sartoria San Vittore”, in jersey di lana blu, disponibile nelle taglie Small, Medium e Large fino ad esaurimento delle scorte. Ma ci sono anche borse viaggio “Rebibbia fashion”, realizzate interamente a mano, in pelle o cuoio. Unisex, invece, le magliette “Dado libera il galeotto”. Vasta anche l’offerta delle specialità enograstronomiche, tra cui il formaggio fuso “Galeghiotto”, derivato da pecorino semi stagionato, proposto al costo di euro 1,50 nella confezione in vasetto da 100 gr. Se poi si ha voglia di cambiare aria, che c’è di meglio degli amaretti “Dolci evasioni”, con mandorle di Avola e zucchero di canna equo solidale. E ancora in tema di biscotti, i baci di Dama “Banda biscotti”, realizzati con mandorle e cioccolato al latte. Una vera chicca i taralli al peperoncino, ai semi di finocchio, alla cipolla, al pepe e alla pizza, prodotti all’interno della Casa circondariale di Trani che da qualche tempo sono venduti all’Ipercoop di Barletta e in altri esercizi al dettaglio della zona. Mentre nel carcere di Busto Arsizio il trattamento e il reinserimento sociale hanno il sapore dolce della cioccolata. Il laboratorio produce quotidianamente 700 chili di cioccolato e 300 di pasticceria. Ormai un classico, invece, anche sul mercato, il bagnodoccia Papillon, alla pappa reale ed equiseto. La produzione è a cura dell’istituto S. Angelo dei Lombardi e nell’etichetta porta l’immagine di un’ape trattenuta dalle sbarre. Nello stesso carcere irpino si produce il liquore ‘Papillon’, a base di grappa e miele di sulla o millefiori. per concludere “cene d’evasione”. Una menzione speciale merita “Birra Tosta”, con il suo colore ebano e la schiuma compatta dai toni nocciola. Una specialità della cooperativa Pausa Cafè. un posto sul podio anche a “Il Recluso Rosso”, vino IGT Lazio dal colore rosso rubino sfumato di porpora, prodotto da Lazzaria cooperativa Sociale Integrata Onlus, a Velletri. Il più delle volte è l’inventiva il ‘segretò del successo di questi prodotti. Come dimostrano i “Veri avanzi di galera”, oggetti inutilizzati degli istituti penitenziari italiani che, grazie alla creatività e al lavoro dei detenuti, hanno guadagnato una “seconda vita”. Si va dalle borse nate da vecchie coperte strappate, ai lampadari realizzati con fari dei muri di cinta, comodini, librerie, plafoniere e opere d’arte “rinati” dalle lavatrici e dai computer smaltiti. “Il lavoro e la cultura - sottolinea all’Adnkronos Franco Ionta, Capo del Dap - sono due componenti fondamentali per rendere la detenzione finalizzabile a un recupero sociale. Un segno concreto che dimostra come l’amministrazione penitenziaria non significhi solo apertura e chiusura di porte”. Questo del “Made in carcere”, rimarca, “è un mondo abbastanza nascosto all’opinione pubblica, che considera il carcere un posto dove le persone soggiornano per un certo numero di mesi o di anni”. “Il carcere produce invece molte altre cose - tiene a precisare Ionta - e tante eccellenze in campo agroalimentare. Abbiamo ad esempio aziende agricole e un progetto importante in Sardegna, Colonia (Convertire Organizzare Lavoro Ottimale Negli Istituti Aperti, ndr). E ancora miele, pecorino e cioccolato. Ultimamente al Salone della Giustizia, a Rimini, abbiamo fatto uno stand con tutti i prodotti fatti in carcere”. Il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sottolinea: “Ho visto personalmente panetterie e pasticcerie di alto livello. Dal vino ai formaggi, dal cioccolato alla tipografia, dalla valigeria a tanti altri prodotti, il carcere ha la possibilità di inserirsi in un mercato di nicchia, ma di qualità”. “Il 20 per cento della popolazione detenuta riesce a lavorare - spiega Ionta - più di 14.000 persone. Dobbiamo sperare questa soglia e avvicinarci al 100%. Questo è l’impegno dell’amministrazione penitenziaria”. Ma perché i progetti si consolidino, servono “iniziative di sistema e risorse”, ma anche “persone che vogliano intraprendere queste iniziative che sono proficue anche sotto il profilo fiscale perché chi fa lavorare un detenuto ha degli sgravi fiscali. E anche il contratto di lavoro - fa notare il Capo del Dap - è di due terzi rispetto a quello nazionale per tutte le altre categorie omologhe. Perciò il carcere oltre a promuovere il reinserimento del detenuto, può essere conveniente per le imprese”. “La struttura penitenziaria - conclude Ionta - si muove in questa direzione: far conoscere i prodotti d’eccellenza, divulgarli il più possibile e fare in modo che il detenuto sia occupato. Perché il lavoro sicuramente esclude il delitto”. Giustizia: omicidio Scazzi; scarcerato Michele Misseri, era detenuto da ottobre Adnkronos, 30 maggio 2011 Il gip del Tribunale di Taranto, Martino Rosati, ha accolto la richiesta di scarcerazione presentata dal difensore di Michele Misseri, lo zio di Sarah Scazzi, in carcere dal 7 ottobre dell’anno scorso. L’uomo è uscito dal carcere di Taranto. Si trovava sul sedile posteriore di un fuoristrada Mitsubishi sdraiato per evitare l’assalto delle telecamere e dei giornalisti. Misseri, che il 6 ottobre del 2010 aveva fatto ritrovare in un pozzo delle campagne di Avetrana il corpo della nipote 15enne Sarah Scazzi scomparsa il 26 agosto precedente, è accusato solo di soppressione di cadavere mentre finora l’ipotesi di accusa ne suoi confronti era di omicidio. Misseri era a bordo di un’auto “in borghese” forse dei carabinieri ma senza le insegne dell’Arma. Non è chiaro adesso dove andrà a vivere visto che sia la moglie Cosima Serrano che la figlia Sabrina sono detenute con l’accusa di essere coinvolte nell’omicidio di Sarah, la prima come presunta autrice materiale. Unico obbligo per Misseri quello di presentarsi ogni giorno alla polizia giudiziaria. La decisione di scarcerarlo, dopo la richiesta presentata dal suo legale, l’avvocato Francesco De Cristofaro, è del gip del Tribunale di Taranto Martino Rosati dopo il parere favorevole della Procura. Zio libero dopo 236 giorni, in carcere figlia e moglie È durata 236 giorni la carcerazione di Michele Misseri. il contadino di Avetrana è tornato in libertà questa sera dopo il fermo disposto il 7 ottobre scorso in conseguenza della lunga confessione che permise di ritrovare, in una cisterna, il cadavere di Sarah Scazzi. Dopo aver fornito sette versioni sul delitto, l’uomo sembra destinato a subire un processo per il solo reato di concorso in soppressione di cadavere. L’omicidio - secondo l’accusa - è stato compiuto dalla figlia di Michele, Sabrina, fermata il 15 ottobre, con il concorso morale di sua madre, Cosima Serrano, che era in casa mentre Sarah veniva uccisa e non avrebbe fatto nulla per fermare la figlia. Cosima è in carcere dal 26 maggio: assieme a Sabrina risponde anche di concorso in soppressione di cadavere per aver ordinato al marito di gettare nella cisterna il corpo della 15enne. Umbria: troppi detenuti, quasi la metà stranieri e il 20% di tossicodipendenti Ansa, 30 maggio 2011 Troppi detenuti nelle carceri umbre, poco meno della metà sono stranieri e uno su cinque tossicodipendente. Sono i dati forniti lunedì in occasione della festa della polizia penitenziaria. Attualmente negli istituti di pena umbri (Perugia, Spoleto e Terni) sono rinchiuse 1.715 persone, 1.635 uomini e 80 donne. I posti teorici sono invece 1.586 in tutto. Il 42,8% sono stranieri e il 21,5% tossicodipendenti. Dei 110 reclusi con condanne definitive all’ergastolo, però, soltanto uno è straniero. I detenuti al 41 bis, il cosiddetto carcere duro, a Spoleto e Terni, sono 106. Per quanto riguarda la sezione femminile del carcere di Perugia, nel 2010 sono stati nove i bambini ospitati insieme nelle apposite celle: due di loro non avevano ancora compiuto un anno d’età. In questo contesto gli agenti di polizia penitenziaria in servizio sono complessivamente 785, tra i quali 64 agenti del Gom, lo speciale nucleo del corpo. La pianta organica - è stato spiegato - prevede invece 1.060 unità. Gli agenti umbri hanno dovuto gestire anche 246 atti di autolesionismo, 20 tentativi di suicidio e 155 scioperi della fame. Sedici, invece, le aggressioni subite dagli appartenenti alla polizia penitenziaria e 175 ferimenti tra detenuti. Il corpo è stato inoltre impegnato in attività antidroga. Sono stati sette i sequestri: a Orvieto è stata trovata sostanza stupefacente all’interno del doppio strato di una cartolina, a Terni in un accappatoio nel casellario, in altri casi nella serratura di una porta o in ovuli di eroina ingeriti. Nella sezione maschile del carcere di Capanne sono attivi due corsi di scuola elementare frequentati da 12 detenuti, e uno di scuola media alle cui lezioni partecipano altre undici persone. Tra i corsi professionali svolti a Terni quello dedicato alla realizzazione di mosaici impegna undici detenuti, sono 16 invece gli aspiranti pizzaioli ad Orvieto (a sette di loro è stato riconosciuto l”attestato di qualifica), mentre sono una trentina le detenute che a Capanne si dedicano a corsi di informatica utilizzando i dieci computer donati dalla Fondazione Italia - Usa. Marche: nasce Antigone regionale, un lavoro tra diritti, giustizia e carcere Ansa, 30 maggio 2011 Anche le Marche, ora, hanno l’Associazione Antigone Onlus. L’Assemblea nazionale dell’Associazione, che si è tenuta il 21 Maggio scorso, a Roma, ha “battezzato” la nascita del gruppo marchigiano che, fin da subito, ha stabilito la propria agenda con l’organizzazione della prima assemblea regionale generale, prevista per metà giugno. Nata nel 1991 - dunque festeggia i suoi primi 20 anni - Antigone è un’Associazione che da sempre rappresenta una coscienza critica rispetto alle politiche della giustizia in Italia, con particolare riguardo alla questione delle condizioni delle persone detenute. Nelle Marche Antigone si affianca a quanti già si occupano di questi temi (pochi, ma buoni) per approfondire il dibattito e promuovere iniziative a garanzia dei beni primari tutelati dalla Costituzione: vita, libertà, salute delle persone, dentro e fuori dal carcere. Carcere, nelle Marche, significa otto istituti; un tasso di affollamento superiore alla media nazionale; risorse insufficienti per garantire il personale, i servizi, la possibilità di accedere alla formazione e al lavoro. Sia pure con differenze rilevanti tra istituto ed istituto. Significa anche problemi nel garantire prestazioni sanitarie equivalenti a quelle assicurate all’esterno e diversi decessi. Situazioni già ampiamente denunciate che probabilmente non possono risolversi soltanto con l’impegno garantito dagli operatori e dal personale di polizia penitenziaria. Occorrerebbero, invece, misure di carattere organizzativo e normativo precedute da un cambiamento di prospettiva sul piano culturale che può essere promosso anche da Antigone: dallo stato delle carceri si vede quanto un paese è civile. La sede operativa dell’associazione marchigiana è a Jesi (An). I soci fondatori, tutti già impegnati nel settore, hanno per il momento designato come presidente l’avv. Samuele Animali, già difensore civico regionale e garante dei diritti dei detenuti. Nelle prossime settimane verrà convocata l’assemblea generale dei soci per puntualizzare il programma di lavoro. Per contatti e informazioni, ma anche per chiedere l’iscrizione, si può scrivere a Antigone Marche, via Pergolesi 8, 60035 Jesi (An). Verona: proteste della Polizia penitenziaria a Montorio, in carcere gli agenti sono pochi L’Arena, 30 maggio 2011 Diritti dei detenuti, che in carcere hanno “scelto” di andare. Ma anche diritti della polizia penitenziaria, che in carcere ci deve lavorare. A Montorio lavorano 280 uomini e donne di polizia penitenziaria, compresi tutti gradi. La pianta organica prevederebbe 407 unità. Ed era stata stilata in base a una capienza massima del carcere di circa 500 detenuti. Oggi l’istituto circondariale di Montorio scoppia come tutte le altre carceri italiane. Qui si toccano picchi di mille detenuti. Per questa ragione tutte le organizzazioni sindacali della struttura hanno proclamato lo stato di agitazione. E hanno iniziato una serie di incontri, il primo con il direttore Antonio Fullone, che s’è dimostrato molto partecipe, d’altra parte lui e i suoi uomini sono nella stessa barca. O meglio sullo stesso barcone che rischia di affondare. L’altro giorno in carcere è arrivato il provveditore Felice Bocchino, che ha competenza regionale, ma davanti al documento che ha mostrato e che testimonia che lui aveva chiesto al ministero 1 milione e mezzo di euro per lavori di messa in sicurezza degli istituti del Veneto e gliene sono stati concessi 260 mila, ben si capisce che ormai s’è raschiato oltre il fondo del barile. Protestano i detenuti, che battono le posate sulle sbarre e rifiutano il cibo perché, dicono, sono in condizioni disumane e con il caldo la situazione peggiora. Protestano i poliziotti che non riescono più a reggere i ritmi, lavorando con cinque o sei incarichi diversi ogni giorno. “Il personale già carente continua a diminuire (turni di lavoro forzati anche di 15 ore consecutivi). Uomini di vigilanza e/o di scorta insufficienti tanto che solo grazie all’enorme spirito di sacrificio e di abnegazione si è riusciti a sventare in tempo, l’altro giorno un tentativo di evasione da parte di un detenuto che aveva già raggiunto il muro di cinta in prossimità dell’uscita”, dice Carlo Taurino della Cgil. “Sono stati fatti tagli ai fondi già tagliati con rischi anche per l’igiene e la salubrità: abbiamo avuto tre casi di Tbc; mancano i soldi anche per acquistare la carta, o una lampadina per importanti zone di illuminazione dell’istituto; le missioni non vengono corrisposte da settembre 2010”, gli fa eco Giovanni Sicilia del Sappe. E ancora ci sono automezzi insufficienti ed inadeguati, obsoleti. “Chiediamo fatti non propaganda”, dicono i rappresantanti di Sappe Osapp Cisl Uil Sinappe Cgil Cnpp Ugl Notarfrancesco, Lioce, Ferrari, Budano, Nappi, Taurino, De Cieri e Floris. Il personale chiede lo sfollamento di almeno 153 detenuti di cui 53 protetti per riportare la presenza a tre detenuti per cella, il massimo consentito, così come ha stabilito da anni l’Asl di Verona; e ancora la sospensione fino a nuova assegnazione di personale di tutti i corsi e futuri progetti di aree lavoro per i detenuti oltre alla revoca di ogni disposizione finalizzata all’apertura della nuova sezione di osservazione per detenuti affetti da patologie psichiche. Nei prossimi giorni il personale della penitenziaria incontrerà il sindaco Flavio Tosi affinché si faccia promotore delle loro istanze con il ministro Maroni, cui a sua volta verrà chiesto di intercedere dal ministro Alfano. Pavia: infestazione di pidocchi in carcere, protesta tra i detenuti La Provincia, 30 maggio 2011 Piattole e pidocchi nelle celle del carcere di Torre del Gallo. E mentre tra i detenuti monta la protesta, la direzione ha avviato la disinfestazione. Due detenuti sono stati messi in isolamento sanitario. E intanto nelle celle esplode la protesta: i reclusi lamentano la presenza di parassiti e chiedono, per questo, di essere visitati. Sono stati segnalati anche casi di scabbia, ma il direttore Iolanda Vitale smentisce: “Qualche episodio c’è stato in passato, ora non abbiamo nessun problema di infezioni di questo tipo”. Sulla presenza di parassiti tra le lenzuola e i materassi dei letti delle celle, invece, il direttore conferma: “Ma la situazione è limitata al caso di un detenuto. Sono state già avviate dall’Asl le procedure di disinfestazione”. Ma i sindacati, in particolare la Uil, che ha fatto pochi giorni fa un’ispezione in carcere, denunciano carenze igienico-sanitarie più generali: “Le celle sono sporche e da tempo i muri non vengono tinteggiati - dice Gian Luigi Madonia, segretario regionale lombardo della Uil. La struttura cade a pezzi. I casi di infestazione da piattole registrati confermano la nostra analisi. Non dobbiamo dimenticare che le sezioni detentive sono anche luoghi di lavoro per il personale di polizia penitenziaria che, inevitabilmente, corre il rischio di essere contagiato”. Ad aggravare il problema anche il sovraffollamento, con tre detenuti per cella: “A Pavia i posti previsti sarebbero 244, ma ci sono 480 detenuti. Una situazione che chiaramente comprime gli spazi dei reclusi ed abbatte al minimo i livelli di civiltà”. A rispondere è ancora il direttore Vitale: “La struttura è soggetta a controlli periodici dell’Asl, che non hanno finora evidenziato nessuna criticità. Sicuramente ha bisogno di lavori di manutenzione, ma non è affatto una struttura fatiscente da un punto di vista igienico - sanitario. Alcune situazioni sono fisiologiche. Siamo quindi tranquilli”. Camerino (Mc): l’impegno del provveditore regionale, il nuovo carcere si farà di certo Corriere Adriatico, 30 maggio 2011 Il sindaco di Camerino è stato il primo a sottoscrivere il protocollo d’intesa per la realizzazione del nuovo carcere insieme a Franco Ionta, capo del dipartimento di amministrazione penitenziaria. La struttura già programmata sarà realizzata, abbiamo sempre parlato di Camerino, speriamo sia realizzato nei tempi previsti, probabile ci vogliano tre anni, perché i tempi dell’edilizia non si possono prevedere a priori. Così Raffaele Iannace, provveditore regionale, si è espresso a margine della festa regionale della polizia penitenziaria, sul futuro carcere di Camerino, che dovrà essere realizzato in località Morro, per circa 400 posti ed un costo totale di circa 40 milioni di euro. Parole di elogio le ha avute anche per gli agenti in servizio nella casa circondariale di Camerino: Ho trovato un gruppo di lavoro omogeneo ed affiatato - ha detto Iannace - tra detenuti e personale è subentrato un rapporto di stima, segno di valore e benevolenza. Nel discorso ufficiale pronunciato alla cerimonia Iannace ha tracciato anche le difficoltà in cui si dibatte il corpo di polizia penitenziaria alle prese con carenze di organico, parlando di emergenza carceri non superata, spronando la politica a portare a compimento le strutture previste, di cui Camerino è una delle città interessate. Durante la presentazione della cerimonia, il sindaco di Camerino Dario Conti ha lanciato la proposta di presentare una legge per permettere ai sindaci di visitare le strutture carcerarie, cosa possibili oggi ai parlamentari, ma non ai primi cittadini delle città in cui tali strutture si trovano. Lecce: l’Ugl critica la direzione del carcere, pronti a manifestare Bari Sera, 30 maggio 2011 Si ritroveranno ancora una volta domani, gli agenti di polizia penitenziaria, gli agenti di polizia penitenziaria, per una nuova manifestazione di protesta. In aperta polemica con l’amministrazione. Si ritroveranno ancora una volta domani mattina, gli agenti di polizia penitenziaria, dalle 10 alle 13, davanti all’ingresso della casa circondariale di Lecce, per una manifestazione nel corso della quale porranno all’attenzione generale i problemi di cui spesso e volentieri s’è discusso, ma per i quali ancora non sembra ci sia stata una soluzione. Particolarmente critico il sindacato Ugl, che in una nota ricorda la maggior parte dei motivi di questa nuova protesta. Per la “necessità del cambiamento e miglioramento effettivo delle condizioni lavorative del personale”, per il sostenimento di un “progetto di rinnovamento per l’organizzazione del lavoro”, in aperta polemica con la dirigenza di Borgo San Nicola, e, ancora, per l’effettiva “rotazione dei posti di servizio, e perché gli stessi non restino ad appannaggio di pochi”. Ugl critica aspramente l’amministrazione penitenziaria, accusata di “ricordarsi del personale e del reparto solo in occasione delle manifestazioni pubbliche, quando s’indossa ‘il vestito della festà”, mentre “non si mostrano al pubblico le condizioni logistiche e igieniche dei posti di servizio in cui lavorano gli agenti”. C’è poi il discorso legato ai lavori di manutenzione ordinaria, per i quali il sindacato chiede che siano svolti “con la manodopera detenuta, attraverso progetti formativi finanziati dalla cassa delle ammende, poiché l’amministrazione si cela dietro la mancanza di fondi quando si tratta di migliorare le condizioni di lavoro dei poliziotti mentre poi li trova per il trattamento dei detenuti”. Altre richieste sono il “progetto pilota di esternalizzazione del servizio di banconista presso il bar dell’ente assistenza della casa circondariale di Lecce” e per l’apertura, entro l’estate del 2012, dello stabilimento balneare “San Basilide” di Torre Chianca, “ancora una volta negato al personale dell’amministrazione penitenziaria pur rientrando e tra i beni del citato ente di assistenza”. Senza dimenticare, infine, gli interventi di meccanizzazione e informatizzazione dei posti di servizio”. Bologna: Sappe; domani niente festa, faremo presidio fuori dal carcere Dire, 30 maggio 2011 Dentro al carcere della Dozza gli altri agenti della Polizia penitenziaria faranno festa; loro, invece, gli appartenenti al sindacato del Sappe, staranno fuori in presidio per protestare contro la situazione drammatica delle carceri. Lo ribadisce in una nota il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante, per cui la festa regionale della Polizia penitenziaria in programma per domani mattina dalle 10 alle 13 ha un gusto molto amaro. “Il penitenziario bolognese è il più complesso della regione Emilia - Romagna e uno dei più difficili d’Italia”, denuncia Durante. I detenuti al momento, stando ai dati forniti dall’Amministrazione penitenziaria, sono 1.143 a fronte di una capienza regolamentare di 497 posti. “La situazione di Bologna è uno spaccato della realtà di tantissimi istituti medio grandi dell’Italia e, in particolare, del Nord, dove è più elevata la presenza di detenuti stranieri e di soggetti tossicodipendenti” sostiene Durante con i dati alla mano. Dei 1.143 detenuti, ricorda il Sappe, solo 66 sono donne; gli stranieri sono 711 (62,12%), così suddivisi tra cui 189 dal Marocco, 156 dalla Tunisia, 97 dai paesi dell’Unione Europea, 89 dall’Albania,27 dalla Nigeria, 22 da altri paesi dell’Africa, 38 da altri paesi asiatici e 18 dall’ex Jugoslavia. Per quanto riguarda la tipologia dei reati, 442 (di cui 300 tossicodipendenti) sono in carcere per reati di droga; 208 per reati contro il patrimonio; 164 per reati contro la persona; 92 per la legge sull’immigrazione clandestina e 83 per reati contro la pubblica amministrazione. Altri 30 sono alla Dozza per reati legati alla prostituzione, 36 per reati contro la fede pubblica, 20 per reati contro l’amministrazione della giustizia, 15 per la legge sulle armi e altri 15 per motivi di ordine pubblico. Caserta: Osapp; oggi la protesta degli agenti penitenziaria a Santa Maria Capua Vetere Agi, 30 maggio 2011 Ottanta poliziotti del nucleo traduzioni e trasferimenti della penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere hanno formato una catena umana fuori al carcere sammaritano per protestare contro il mancato pagamento di 18 stipendi arretrati sulle missioni, sulle condizioni precarie in cui si eseguono i trasferimenti anche di detenuti pericolosi. “Gli uomini della penitenziaria spesso sono costretti a pagare di tasca loro la benzina per i mezzi di trasferimento - ha spiegato questa mattina il segretario regionale del sindacato Osapp Pasquale Montesano - e dall’inizio dell’anno si sono verificate 13 aggressioni di agenti da parte di detenuti. In questa zona, ad alto livello di criminalità organizzata, è ancora più difficile operare”. La manifestazione è stata il culmine di una serie di proteste che il nucleo traduzioni e trasferimenti della polizia penitenziaria ha organizzato. Genova: protesta Sappe; non parteciperemo alla festa della Polizia penitenziaria Ansa, 30 maggio 2011 Il Sappe non parteciperà alla festa della polizia penitenziaria, prevista per domani, per protesta contro l’amministrazione assente e la politica asfittica che non fa nulla nell’immediato per migliorare le condizioni delle carceri e della polizia penitenziaria. A annunciarlo è Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto e commissario straordinario per la Liguria del Sappe: “Le carceri - dice Martinelli - scoppiano e costringono il personale di polizia penitenziaria a condizioni di lavoro stressanti e di estremo disagio”. Il sindacato annuncia: “Non parteciperemo ma denunceremo alle autorità presenti la grave carenza di personale (mancano 6.500 agenti a livello nazionale e più di 410 in Liguria), il sovraffollamento della popolazione detenuta (in Italia ci sono 25.000 detenuti in più rispetto ai posti previsti, in Liguria circa 700 in più), la carenza di mezzi e risorse economiche per le traduzioni; in alcuni istituti, a volte, non è più possibile trasferire i detenuti, mancano fondi per pagare lo straordinario e mettere la benzina nei mezzi di trasporto.” Un fallimento scelta sede per festa Polizia penitenziaria “Il Corpo di Polizia Penitenziaria non ha bisogno di manifestazioni autoreferenziali ma di cerimonie allargate alla partecipazione dell’opinione pubblica genovese che deve conoscere quali e quante difficoltà operative incontrano le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria nel quotidiano lavoro nelle carceri genovese e liguri. Siamo e dobbiamo essere una Istituzione sempre più trasparente, una casa di vetro, perché non abbiamo nulla da nascondere, anzi dobbiamo assolutamente valorizzare quello che ogni giorno i Baschi Azzurri fanno nel mondo sconosciuto delle carceri. In questo contesto, festeggiare la ricorrenza della Festa della Polizia Penitenziaria fuori dalle mura della nostra Amministrazione dovrebbe essere un evento davvero solenne, in quanto prerequisito per la solennità dell’evento stesso è il suo aspetto pubblico. Nel caso della Polizia Penitenziaria poi, proprio per l’importanza che tale ricorrenza ha quale celebrazione di quell’incontro e riconoscimento, tra la Società e uno dei suoi servizi fondamentali come quello svolto dal nostro Corpo, l’aspetto pubblico dei festeggiamenti non è solo un prerequisito, ma è carattere fondamentale senza il quale gli stessi festeggiamenti non hanno senso. I cittadini hanno il diritto di conoscere da vicino le attività di una delle loro cinque Forze di Polizia e hanno ampiamente dimostrato di apprezzarne il lavoro quando gliene è stata data occasione di valutazione. Celebrare invece una Festa della Polizia Penitenziaria, come quella che si terrà a Genova il 31 maggio prossimo, in una sala sconosciuta ed inaccessibile alla popolazione è già di per sé un fallimento”. Dura presa di posizione di Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto e Commissario straordinario per la Liguria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, sulla Festa del Corpo di Polizia Penitenziaria che domani 31 maggio si terrà a Genova. Martinelli sottolinea che “ il Sappe non parteciperà alla cerimonia celebrativa dell’annuale del Corpo, per protestare contro un’Amministrazione assente e una politica asfittica che non fa nulla nell’immediato per migliorare le condizioni delle carceri e della polizia penitenziaria”. Ma denuncia la propria “totale disapprovazione per la scelta di organizzare nuovamente la Festa del Corpo di Polizia Penitenziaria della Liguria a Genova, presso la Scuola del Personale della Giustizia in cui vi sono solamente 100 posti (non uno di più!) a disposizione per assistervi, poliziotti e autorità comprese. Tale scelta fa tornare indietro di molto la fiducia che il Personale aveva iniziato ad avere nei confronti di un’Amministrazione che dimostra, ancora una volta, di sottovalutare quanto l’aspetto della mancanza di riconoscimento sociale per il proprio lavoro, avvertito dai nostri colleghi, incida in ognuno a mettere in crisi il senso di appartenenza al Corpo e ai suoi doveri istituzionali. Le motivazioni di ordine strettamente economico non solo non possono essere giustificate, ma sono un vero e proprio insulto ai quasi mille appartenenti alla Polizia Penitenziaria in Liguria, nonché dimostrano il senso di menefreghismo che una parte assolutamente minoritaria di questa Amministrazione, ha nei confronti delle persone che ne rappresentano di gran lunga sia la consistenza strettamente numerica, sia ne garantiscono l’effettivo funzionamento, spesso sopperendo alle lacune che gli altri non sono in grado di colmare”. Perugia: Rossi (Provincia): impegno della Polizia penitenziaria è di alto valore Asca, 30 maggio 2011 “Mai come in questa fase è alto il valore sociale di quanto svolto dal corpo di Polizia Penitenziaria in Italia e in Umbria”. Lo ha detto il vicepresidente della Provincia di Perugia, Aviano Rossi, nel rappresentare l’Ente alle celebrazioni regionali del 194° anniversario di fondazione della Polizia Penitenziaria. Per Rossi in un momento come quello attuale in cui si registra il più alto numero di detenuti che la storia repubblicana ricordi, anche per effetto di una crisi socio - economica generalizzata che ha portato alla comparsa di nuove figure di detenuti, il ruolo della Polizia penitenziaria ‘è quanto mai delicato e si declina al sociale, in quanto la detenzione sempre più spesso diventa anche momento di recuperò. Ricordati, infatti, i progetti di inclusione sociale su cui l’Ente si sta impegnando, quattro azioni per l’integrazione sociale e lavorativa dei detenuti. Portati avanti in collaborazione con il Provveditorato regionale dell’Umbria dell’Amministrazione penitenziaria sono finalizzati a migliorare lo status dei carcerati e facilitare il loro reinserimento in società una volta scontata la pena. Palermo: volontariato per i detenuti in un bene confiscato ai boss mafiosi La Repubblica, 30 maggio 2011 In un bene confiscato, i detenuti di Pagliarelli e dell’Ucciardone sperimentano la possibilità di una vita diversa. L’associazione di volontariato penitenziario “As.vo.pe.” ha inaugurato ieri la sua nuova sede di via Mariano Bonincontro, fra viale Regione Siciliana e via Noce. “Una trentina di soci volontari svolgeranno servizio di biblioteca, ma anche colloqui di sostegno morale e scolastico”, spiega la presidente Vanna Bonomonte: “Sono previsti pure dei corsi di lingua italiana per stranieri ed elaboreremo alcuni progetti di inclusione sociale dei detenuti”. La onlus si occupa anche delle famiglie dei detenuti in stato di indigenza. “È un contributo importante - dice la direttrice di Pagliarelli, Francesca Vazzana - è fondamentale prevenire ogni forma di disagio tra chi sta scontando una pena. La sensazione di essere abbandonati dalla società civile o anche l’inattività sono deleteri. I laboratori, invece, contribuiscono a dare il senso di un legame affettivo con l’esterno, sostituendo il familiare che non c’è”. Roma: con la Caritas una gara di cucina nel carcere di Rebibbia Roma Sette, 30 maggio 2011 L’associazione Vic della Caritas diocesana organizza la “Festa della solidarietà” nella casa di reclusione. I detenuti si sfidano ai fornelli da campeggio di Jacopo D’Andrea “Ero in carcere e siete venuti a visitarmi”. Queste parole del Vangelo di Matteo esprimono lo spirito con cui l’associazione Vic (Volontari in carcere), una onlus che è legata alla Caritas diocesana di Roma, ha animato, sabato 28 maggio, la “Festa della solidarietà” nella casa di reclusione di Rebibbia, alla presenza del direttore Stefano Ricca. Nel cortile centrale del carcere si sono riuniti, così, numerosi detenuti per una inconsueta gara culinaria sotto la giuria di Marcello Masi, vicedirettore del Tg2 e direttore editoriale della rubrica Eat parade, e di Clara Barra, coordinatrice nazionale del Gambero Rosso. “È una vera e propria gara di cucina galeotta: si cuoce con le stesse regole che ci sono in carcere. Quindi, niente posate di metallo ma di plastica. Le grattugie sono fatte con scatole di tonno bucherellate e per tagliare si usano anche dei coperchi in plastica”, riferisce Daniela De Robert, presidente del Vic. E questa tenzone ai fornelli da campeggio ha una tradizione. “L’ha inventata un ergastolano che fece un grandissimo percorso di cambiamento - spiega De Robert: le prime edizioni erano regionali, ora sono nazionali e internazionali”. Tra i partecipanti infatti c’è anche un gruppo di tunisini, in lizza con la loro specialità principe: il cous cous. Proprio davanti a una tavola imbandita con pane arabo troviamo Rafat, un detenuto egiziano che vive in Italia dall’86. Ha la cittadinanza e coordina il circolo detenuti stranieri della Casa di reclusione di Rebibbia. Racconta: “Qui ci sono il 30% di reclusi stranieri, non solo arabi”. Rafat ha diversi fratelli in Egitto ed è cristiano copto. “Mi raccontano che lo stato egiziano è praticamente assente e i fondamentalisti usciti dalle galere hanno ripreso a fare caos: lì la polizia ha paura”, confessa. Dei detenuti romani invece poco più in là mostrano orgogliosi il loro “merluzzo all’acqua pazza senza sale perché sul pesce il sale non ci va”. Mentre si accalcano altri reclusi incuriositi, la volontaria Maria Pons de Leon racconta: “Noi del Vic operiamo in tutti e 4 gli istituti di Rebibbia (tre maschili e uno femminile, ndr). Siamo un centinaio di volontari. Qui nella casa di reclusione hanno le sezioni aperte. C’è chi ha bisogno di contattare la famiglia, chi l’avvocato, chi invece vuole solo parlare. Io faccio la volontaria dal 1998 e non posso farne a meno: è bellissimo”. Il Vic, tra l’altro, ha anche una cooperativa sociale che offre lavoro dentro e fuori dal carcere e ogni anno organizza un corso di formazione per volontari in carcere aperto ai cittadini. La gara continua anche con piccoli sfottò ed “esibizionismi”. Un detenuto davanti alle telecamere del Tg3 lancia una pizza in aria. Al tavolo affianco, cade un pentolino con dell’olio. “Porta sfortuna: niente mandato e permesso”. E ridono tutti intorno. Paolo, un recluso di Napoli, dice che “in questo carcere si sta bene rispetto ad altri”. Alessandro è d’accordo: “In altre prigioni c’è una vita di sofferenza. Non sanno come dirigere la cosa”. Ma Antonio non la pensa così. “Appena parli qui, vieni trasferito: ti mandano in Sicilia o in Calabria nei carceri peggiori ma non m’importa tanto fra tre, quattro mesi esco. Non funziona niente. È pietoso. 5 metri quadri di cella. Uno sopra l’altro: c’è sovraffollamento. Per parlare con il direttore passa molto tempo”. Poi, conclude: “Stavo meglio a Velletri”. Un altro recluso commenta allontanandosi: “Ha ragione”. Il direttore Stefano Ricca sottolinea: “La situazione della Casa di reclusione che dirigo è certamente aggravata dal sovraffollamento ma rispetto ad altre carceri del Lazio in misura minore”. Intanto si aspetta anche lo spettacolo musicale con Ambrogio Sparagna e Raffaello Simeoni. Don Sandro Spriano cappellano del “Nuovo complesso Rebibbia” che ospita 1.750 detenuti circa ricorda: “Vengo proprio da lì. È impossibile accontentarli tutti ma un incontro tra persone come questo è un incontro che arricchisce”. E Adelaide che è volontaria in carcere dal 1959 dà la sua testimonianza davanti a tanti reclusi attenti e silenziosi. “Questi anni nelle prigioni hanno arricchito me e la mia famiglia. Ho sette figli e alcuni di essi hanno cominciato ad aiutarmi”. Il sole picchia sul campo da calcetto in erba sintetica. Mentre lo superiamo per uscire, un agente della polizia penitenziaria racconta: “Qui molti detenuti riproducono fra di loro il microcosmo che magari vivevano fuori: ci sono estorsioni, prepotenze ed atti di violenza. Non è facile”. Rebibbia si richiude alle nostre spalle mentre la festa continua. Almeno per un giorno. Trieste: i magistrati; episodio di “autoinseminazione maldestra”, un caso isolato Il Piccolo, 30 maggio 2011 “Solo un episodio “maldestro” nel carcere del Coroneo da parte di una detenuta che ha cercato di autoinseminarsi artificialmente con il liquido seminale di un recluso contenuto in un guanto lanciato dalla finestra di una cella durante l’ora d’aria. Si tratta di una vicenda isolata, una pratica alla quale la quasi totalità delle detenute è estranea”. Lo confermano i magistrati di sorveglianza Emanuela Bigattin e Rosa Maria Putrino. Precisano, in una nota che “non si è mai verificata in passato, nè esiste attualmente alcuna situazione pericolosa o allarmante né sotto il profilo di sicurezza dell’istituto penitenziario, né dal punto di vista sanitario”. I due magistrati precisano inoltre che l’episodio è stato “desunto dal carteggio intercorso tra i due detenuti (un uomo e una donna) in quanto non è stato rinvenuto alcun riscontro diretto”. Per questo motivo secondo Bigattin e Putrino “non vi alcuna prova che le pratiche (che erano state ipotizzate dai detenuti nel carteggio, ndr) siano state effettivamente poste in essere”. Infatti dopo la segnalazione dell’episodio “la magistratura di sorveglianza non ha adottato alcun provvedimento disciplinare a carico dei detenuti in quanto non rientra nelle competenze l’adozione di sanzioni disciplinari come stabilito dalla legge penitenziaria”. Non solo: ai due reclusi “non è stato revocato alcun beneficio in quanto non né usufruivano”. Le affermazioni dei giudici Bigattin e Putrino indicano inoltre che dopo l’episodio non è stato ritenuto necessario adottare alcuna iniziativa straordinaria. Il caso dell’autoinseminazione risale al luglio del 2010 ma era stato tenuto nascosto per mesi. La segnalazione inoltrata dall’amministrazione penitenziaria racconta di come le recluse nella casa circondariale triestina abbiano tentato di introdurre nel loro corpo il liquido seminale di altri detenuti sperando di restare incinte e di uscire quindi dal Coroneo usufruendo delle misure alternative alla detenzione riservate alle donne in attesa di un bambino. “Sono rimasto incredulo di fronte a questo stratagemma”, aveva detto l’allora direttore del Coroneo Enrico Sbriglia. Iran: magistratura; 300 trafficanti di droga nel “braccio della morte” Aki, 30 maggio 2011 Trecento trafficanti di droga sono rinchiusi nel “braccio della morte” in Iran in attesa di essere giustiziati. Lo ha annunciato il procuratore generale di Teheran, Abbas Jafari Dolatabadi, in un’intervista al quotidiano Sharq. “Sono state emesse condanne a morte per 300 detenuti accusati di reati legati al traffico di droga, inclusi quelli che sono stati trovati in possesso di almeno 30 grammi di eroina”, ha affermato Dolatabadi. Il procuratore di Teheran ha precisato che tutte le condanne a morte saranno eseguite tramite impiccagione. A inizio anno la Repubblica Islamica ha approvato una legge che inasprisce la pena per chi è coinvolto nel narcotraffico. Di fatto la nuova legge ha portato a un incremento sostanziale delle condanne a morte nel paese. Undici persone sono state impiccate tra giovedì e venerdì in Iran. Uno di loro, un uomo accusato di aver ucciso cinque donne, è stato giustiziato in piazza a Qazvin, a ovest di Tehran, dopo che la sua sentenza era stata confermata dalla Corte Suprema. Altri quattro sono stati impiccati pubblicamente a Shiraz, nel sud dell’Iran, per furto e rapimento. La sentenza capitale nei confronti di sei persone accusate di traffico di droga è stata invece eseguita in alcune carceri nel nord e nel sud-ovest della Repubblica Islamica. Turchia: libertà di stampa, reporter premiati… in carcere Ansa, 30 maggio 2011 Premiati direttamente nelle celle delle carceri in cui sono detenuti. È accaduto a due giornalisti turchi che hanno vinto l’edizione 2011 del premio per la libertà di espressione e di pensiero, assegnato dall’unione degli editori del paese che si affaccia sul Mediterraneo. I due vincitori agli arresti sono Ahmet Sik, accusato di essere coinvolto in un complotto per sovvertire il governo Erdogan, e l’editore di libri in curdo Bedri Adanir. Proprio il loro pensiero e la sua libera espressione è il motivo alla base della detenzione dei due giornalisti. Ahmet Sik è stato arrestato a fine febbraio con l’accusa di fare parte dell’organizzazione Ergenekon che avrebbe ordito un tentativo di colpo di stato contro il governo islamico - moderato guidato da Recep Tayyip Erdogan. Un suo libro sui legami tra le autorità e la potente confraternita islamica guidata da Fetullah Gulen è stato sequestrato dalla polizia prima della sua pubblicazione. Sorte simile è quella capitata a Bedri Adanir, giornalista ed editore, detenuto da un anno e mezzo in un carcere di massima sicurezza a Diyarbakir con l’accusa di terrorismo, per aver pubblicato un libro in curdo. Adanir è ancora in attesa del suo processo, che è stato rinviato al 26 luglio. “La nostra situazione è peggio che prima del golpe del 1980 - ha spiegato a Hurriyet, Metin Celal, presidente dell’associazione degli editori - in questo momento ci sono 67 fra scrittori, giornalisti ed editori in prigione in attesa di processo senza un solo capo d’imputazione”. “Se attribuiamo ancora questo premio - ha dichiarato il giornalista Ertugul Maviolgu che ha ritirato il premio al posto di Sik - significa che non c’è libertà di espressione in questo Paese. La Turchia vuole diventare una grande potenza nella regione, ma ha rilevanza a livello globale solo grazie alla situazione economica. Vorremmo che potesse diventare un Paese esemplare anche per quanto riguarda i diritti umani e la giustizia”. “Mio fratello non ha ucciso una persona, ha solo pubblicato un libro. Perché tanta paura per un libro? È sotto processo con accuse di terrorismo”, ha detto la sorella di Adanir, Kadriye. Russia: avvocato morì in cella per mancata assistenza medica, nessun responsabile Apcom, 30 maggio 2011 Voluta dallo stesso Dmitri Medvedev, l’inchiesta del procuratore generale sulla misteriosa morte in carcere dell’avvocato Sergei Magnitsky non ha rilevato alcun colpevole. Secondo quanto riferito oggi dal portavoce del Comitato investigativo, Vladimir Markin, le accuse e l’arresto del legale, diventato ennesimo simbolo della malagiustizia russa, sono avvenute nel rispetto della legge federale. Magnitsky è morto nel 2009 all’età di 37 anni, mentre era agli arresti preventivi in attesa di processo. Aveva accusato alcuni impiegati del ministero dell’Interno di aver usato compagnie consociate del fondo Hermitage Capital - per il quale lavorava lui stesso - in una gigantesca frode per ricevere un rimborso fiscale illegale di centinaia di milioni di euro. La denuncia gli si è ritorta contro: Magnitsky è stato accusato lui stesso di aver creato lo schema ed è stato incarcerato. Si riteneva maggiore responsabile della sua morte il procuratore Oleg Silcenko, che proibì ogni visita medica al detenuto con gravi problemi renali. Per i legali difensori e per gli attivisti dei diritti umani Silcenko avrebbe agito mosso da interessi politici: ma i risultati dell’ultima inchiesta lo scagionano completamente. Sri Lanka: scuole di religione nelle carceri, per riabilitare i detenuti Asia News, 30 maggio 2011 Il progetto del ministero per la Riabilitazione e le Riforme nelle carceri prevede corsi di buddismo, cristianesimo, islam e induismo. I leader religiosi e spirituali avvertono: “Iniziativa lodevole, ma di grande responsabilità: gli insegnanti devono essere ben istruiti”. Creare delle “scuole di religione” in tutte le prigioni dello Sri Lanka, per educare, riabilitare e preparare i detenuti al mondo esterno, quando saranno rilasciati. Il programma del ministero per la Riabilitazione e le Riforme nelle carceri, lanciato lo scorso 13 maggio, prevede l’istituzione di corsi di buddismo, cristianesimo, islam e induismo in 33 prigioni e centri correttivi per giovani detenuti. I leader religiosi e spirituali lodano l’iniziativa, ma sottolineano che si tratta di un incarico di grande responsabilità, “non di solo insegnamento”. “I docenti che andranno a insegnare nelle carceri dovranno essere ben istruiti”, afferma il ven. Weligama Dhammissara Thero, del monastero di Sri Senevirathnaramaya, a Wellampitiya. “I detenuti devono riconquistare le loro vite”. Per p. Noel Dias, cattolico ed ex cappellano della diocesi di Colombo, la proposta risponde a un bisogno attuale e prezioso: “La società ha bisogno di gente onesta e corretta. Formare persone di questo tipo è un dovere delle autorità”. “In carcere ci sono persone di ogni tipo - dichiara Ramachandra Kurukkal Babusharma, segretario dell’International Hindu Religious Federation - ma qualunque siano le loro colpe è nostro compito aiutarli a espiarle. La religione rende l’essere umano migliore”. Il moulama di Colombo Seyed Hassan, copresidente dell’Inter Religious Alliance for National Unity, sottolinea però che per attuare al meglio il programma è necessario modificare l’orario dell’intera giornata. “La religione non può essere insegnata di corsa e in poco tempo - spiega Hassan; per prima cosa, dobbiamo capire la loro mentalità: l’incontro con la fede non deve essere un altro peso nelle loro vite”.