Giustizia: c’era una volta un carcere… la favola della “rieducazione” di Francesco De Palo Il Futurista, 2 giugno 2011 Ha scritto Albert Camus che “la verità, come la luce, acceca. La menzogna, invece, è un bel crepuscolo che mette in valore tutti gli oggetti”. Una sorta di tragico cono d’ombra, dove i fatti cambiano nome, i colori perdono tonalità e si sbiadiscono, dove il caldo diviene freddo e tutto inverte il proprio destino. E dove la vita diventa morte. Esiste un luogo in Italia che è ormai un “non luogo”. Perché spesso avulso da un contesto, perché è sempre più intriso di odio, rabbia e morte. Dove non si rieduca, ma si rischia di retrocedere nell’oblio. E non di un reato, o di un percorso sbagliato, ma l’oblio dal quale non si torna più: sono le carceri italiane con i tragici numeri che mettono solo brividi. Luoghi che in teoria dovrebbero essere adibiti alla rieducazione, ma che spesso né rieducano, né insegnano: spezzano purtroppo le vite. Come i tre decessi nel carcere di Viterbo degli ultimi quaranta giorni: l’ultimo si chiamava Luigi Fallico, pare avvenuto senza segni di violenza, l’ipotesi più probabile è che sia stato vittima di un infarto. Il suo legale dice che nonostante avesse avvertito fortissimi dolori al petto, era stato prima visitato nell’infermeria del carcere di Viterbo, ma da lì, anziché trasferirlo in una struttura attrezzata, lo hanno riportato in cella. Senza dimenticare ad aprile il 30enne senegalese Dioune Sergigme Shoiibou. Nonostante prima dell’arresto fosse stato operato alla testa per eliminare un ematoma dal cervello, si trovava in cella anziché nel letto di un nosocomio. Nel trionfo del più assurdo dei casi di malagiustizia, o malasanità politica, la si chiami come si vuole. Tanto, il prodotto finale non cambia. Riflessioni che trovano sfogo in pagine di volumi come “Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri”, di Luigi Manconi e Valentina Calderone (il Saggiatore 2011), o “Leone Bianco, Leone Nero. La legge non è uguale per tutti”, di Giuseppe Nicosia (LG Edizioni). Oppure nelle righe de “Vorrei dirti che non eri solo”, di Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi, ripercorrendo quella notte di ottobre in quella sala dell’ospedale romano “Sandro Pertini”. Non era solo Stefano, non lo era nemmeno in carcere, perché non si procurò quelle ferite mortali da solo, né in solitudine decise di andare incontro a ciò poi è accaduto. Con lui, oltre ai suoi carnefici, c’era anche chi avrebbe voluto aiutarlo. Quelle stesse persone, ovvero la sua famiglia, che oggi continuano a combattere per un pugno di verità. No, non era solo Stefano, come scrivono nel titolo del libro. Ma sono soli, spesso, quei detenuti che in quei luoghi vedono i propri diritti calpestati. Anche a causa di deficienze strutturali. Sono quasi settanta i decessi dall’inizio del 2011 rilevati dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, di cui ventiquattro suicidi. Gli altri sono imputati a “cause naturali”. Ma facendo un rapido calcolo anche con l’aiuto dei ritagli di cronaca nera sui quotidiani, ci si accorge presto che potrebbero essere molti di più. Nelle duecento carceri del paese ci sono 67.510 detenuti, a fronte di 45.543 posti. Un sovraffollamento che si ripercuote, ovviamente sulla missione educativa dell’istituto, sulla qualità della vita quotidiana che si riserva ai detenuti, sullo stato mentale e sulla psiche. Quest’anno si contano già 337 tentati suicidi, con quasi 2.000 atti di autolesionismo senza contare le aggressioni che hanno comportato ben 1.389 ferimenti e 508 colluttazioni. In undici anni sono deceduti 1.800 detenuti, di cui un terzo per suicidio. Andando indietro agli anni novanta, più di mille suicidi si contano fino ad oggi, con quasi 16.000 tentati suicidi ed una frequenza media di 150 casi ogni 10.000 detenuti. Ma un altro dato, che dovrebbe smuovere maggiormente le coscienze e le penne dei mezzi di informazione, sta in quegli 87 agenti di polizia penitenziaria che dal 2000 ad oggi si sono tolti la vita: avvolti in un silenzio quanto mai inquietante e per questo ancora più deprecabile. Ma cosa accade nelle carceri? E soprattutto, come tramutarle in un qualcosa di più vivibile? Lo si può approfondire analiticamente nel volume di Alessandro De Rossi “L’universo della detenzione”, dove l’autore, architetto e docente alla facoltà dì Ingegneria dell’Università dei Salento, riflette tecnicamente sui requisiti di funzionalità a cui il progettista di una struttura del genere deve attenersi. E li individua in sicurezza, igiene, vivibilità, chiedendosi cosa significhi oggi un termine come “benessere” all’interno di un carcere. Rilevando come si potrebbe richiamare “tutto ciò che non comporti il suo contrario, cioè l’inquietudine, il turbamento, la depressione, il dolore, il desiderio di autoannientamento”. E fa riferimento al fatto che, al di là delle misure minime riscontrabili nella normativa, un sicuro motivo di interesse per il progettista che si occupa dello studio delle funzioni all’interno di un penitenziario, “è dato dalla individuazione del limite sottile e dall’accertamento di quella soglia minima che divide un non meglio definibile benessere da un sicuro, accertabile e obiettivo malessere all’interno dei ristretti spazi del carcere”. Un intervento insomma che recuperi l’anima del detenuto, lo preservi dai rischi del disagio, della disperazione, dell’abbandono. Con il sostegno fondamentale di un apposito intervento legislativo, che curi in primo luogo la riabilitazione. Ma la protesta ha anche il volto di chi si priva di acqua e cibo per esternare il proprio disagio. Come i detenuti della casa circondariale di Lanciano che hanno iniziato lo sciopero della fame in solidarietà con quello che sta portando avanti Marco Pannella per “ridare dignità ai detenuti italiani”. Una realtà dove il sovraffollamento è ormai routine e non più emergenza, all’insegna di quella logica dell’abitudine che tramuta in quotidiana oggettività un dato che, invece, presenta caratteri di straordinarietà. L’esempio di Lanciano è indicativo: dove dovrebbero vivere 150 persone ce ne sono 380, in una cella che può contenere un detenuto ce ne sono tre, con la terza branda posizionata a tre metri di altezza e a trenta centimetri dal soffitto. Per non parlare di protezioni e garanzie di sicurezza. E con l’assistenza medica che si interrompe alle ore 22. Mentre il personale di polizia non ne può più di doppi e tripli turni. Rivendicazioni che, però, non vengono ascoltate da chi dovrebbe farlo, da una classe dirigente che si occupa di altro. Perché la parola, come scrisse De Montaigne, “è per metà di colui che parla, per metà di colui che ascolta”. E allora vero baluardo del paese, è quella Costituzione troppo spesso offesa e bistrattata: che ancora una volta offre la risposta al quesito, e all’articolo tredici spiega che è punita la violenza commessa sulle persone che sono private della libertà. Basta leggerlo. E applicarlo. A tutti. Giustizia: si allarga lo sciopero della fame nelle carceri, ma nessuno ne parla di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone) Terra, 2 giugno 2011 In molte carceri, in giro per l’Italia, i detenuti hanno iniziato un coraggioso sciopero della fame. E lo stanno facendo in solidarietà allo sciopero della fame per la democrazia e l’amnistia di Marco Pannella. Il loro è un atto non violento di coraggio. C’è chi sciopera per l’amnistia, chi più genericamente contro il sovraffollamento, chi perché deve dividere una cella con decine di persone, chi perché la sera dopo le 22 manca la guardia medica. Tutti scioperano perché in carcere si vive male, molto male. Si vive spesso trattati non da uomini. Alla loro protesta, assolutamente pacifica, risponde il silenzio, finora assordante, dei media e delle istituzioni. Eppure si tratta di circa tremila persone detenute - da Roma a Sanremo, da Imperia a Trani, da Ancona a Lanciano - che protestano contro condizioni di vita carcerarie indegne. Marco Pannella nel riproporre l’amnistia ha parlato di atto di giustizia sostanziale. Ha ragione: il carcere è oggi un luogo di ingiusto internamento dell’eccedenza sociale. Le leggi sull’immigrazione e sulle droghe producono una costosa e ingiusta detenzione. Le galere sono i nuovi ghetti urbani. Per ogni criminale di professione ne trovi almeno cinque che sono finiti in prigione perché poveri di soldi, di studi, di opportunità sociali. Oggi i detenuti sono circa 68mila e i posti letto circa 44mila. Ciò è indecente. Per ripristinare la legalità penitenziaria - ossia tanti detenuti quanti sono i posti letto regolamentari non ci vogliono fantomatici piani carcere e barche di soldi da dare ai costruttori edili (vedasi l’appalto a favore di Anemone a Sassari), ma idee buone. Bisognerebbe ridurre all’osso lo spazio di applicazione della custodia cautelare, decriminalizzare la vita dei consumatori di droghe, depenalizzare del tutto lo status di immigrato irregolare. In questo modo avremmo sicuramente molti meno detenuti. Si può anche prevedere l’amnistia come strumento ordinario di gestione delle carceri e dei tribunali. Far vivere cinque persone in dieci metri quadri è tortura. Per questo è giusto dar voce ai detenuti che scioperano in solidarietà a Marco Pannella. Noi uniamo la nostra voce indignata alla loro protesta. Giustizia: sulle carceri un balbettio parlamentare di Stefano Anastasia (Associazione Antigone) Il Manifesto, 2 giugno 2011 L’ultima e più clamorosa è stata la decisione della Corte suprema degli Usa, che ha riconosciuto la legittimità di quella adottata nel febbraio 2009 da una corte federale californiana che, a sua volta, aveva intimato all’amministrazione Schwarzenegger di ridurre di un terzo la popolazione detenuta entro tre anni, essendo tenuta a garantire il diritto alla salute e a condizioni di vita dignitose ai circa 150 mila detenuti di quello Stato. Se il governo della California non dovesse provvedere nei tempi stabiliti, le autorità giurisdizionali potranno emettere ordini di rilascio fino al raggiungimento dell’obiettivo stabilito. Un paio di mesi fa era stata la volta della Corte costituzionale tedesca: l’esecuzione della pena può essere sospesa nel caso in cui l’amministrazione penitenziaria competente non sia in grado di garantire condizioni dignitose di detenzione. Intanto il neo-segretario alla Giustizia inglese, il conservatore Kenneth Clarke, ha fatto della riduzione della popolazione detenuta uno dei principali obiettivi del suo mandato: l’incarcerazione di massa costa troppo e non garantisce nessun risultato in termini di riduzione della criminalità. Questo lo scenario degli indirizzi politici e giurisdizionali che vanno maturando di fronte al sovraffollamento penitenziario, mentre davanti alle corti nazionali e internazionali si moltiplicano le richieste di indennizzo per condizioni di detenzione inumane o degradanti. In questo contesto è caduta la ormai rituale discussione parlamentare di mozioni sulla politica penitenziaria italiana. Le divisioni e le assenze in una maggioranza allo sbando hanno fatto sì che il governo andasse sotto più volte, con il risultato paradossale che, alla fine, la Camera ha approvato tutte le mozioni parlamentari. Si va dalla mozione di maggioranza che “impegna il governo a proseguire nell’attività intrapresa, dando seguito alla completa realizzazione dei nuovi istituti penitenziari e alla programmata assunzione di nuovo personale”, a quelle Ri e Udc che chiedono depenalizzazione e riduzione delle pene detentive, misure alternative e limiti alla custodia cautelare in carcere. Il Pd vuole che sia monitorata la riforma dell’assistenza sanitaria in carcere e cancellate le preclusioni all’accesso alle alternative per i recidivi. Tutti vogliono più poliziotti e qualcuno anche altro personale (Pd, Udc, Idv e Api). Notevole il richiamo Idv all’istituzione di organismi indipendenti di controllo delle carceri e alla formazione permanente degli operatori sui diritti umani e il reinserimento dei detenuti. Nessuno obietta alla via edilizia per la soluzione del problema sovraffollamento, anche se qualcuno (Udc) dubita che ci siano i soldi per perseguirla. Fli torna a solleticare gli interessi privati nella programmazione urbanistica e nella realizzazione delle strutture. A nessuno che venga in mente l’alternativa che si va profilando fuori dai nostri confini: i (pochi) soldi di cui dispone lo Stato possono andare a sostenere percorsi di reinserimento di un numero contenuto di condannati, oppure possono essere spesi per allestire nuovi posti - letto in carceri prive di ogni offerta trattamentale e finanche della garanzia del diritto alla salute e a condizioni di vita dignitose. Magistrale la mozione radicale: la Camera impegna il governo “a dare attuazione... agli impegni già assunti più di un anno fa”. Una mozione al quadrato, che impegna il governo a ricordarsi di essere impegnato. Poi, se mai si vorrà far sul serio, bisognerà tirare una riga e ricominciare da zero. Giustizia: intervista a Luigi Manconi… impariamo dal caso Cucchi di Giorgio Puri Il Futurista, 2 giugno 2011 Il nostro sistema democratico? Imperfetto, incompiuto e potenzialmente peggiorativo. Per questo, riflette Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A Buon Diritto” ed ex sottosegretario alta Giustizia, non serve a nulla considerare la Libertà come un trofeo conquistato una volta e per sempre. Da dove avviare una seria opera che rivoluzioni gli istituti carcerari, in chiave sociale e di vera rieducazione? Dai risultati delle commissioni istituite dai ministri delta giustizia di centrodestra e di centrosinistra nel corso degli ultimi quindici anni. L’ultima fu presieduta da Giuliano Pisapia, la penultima da Carlo Nordio, per riformare il codice penale e di procedura penale. Così quelle precedenti, le cui relazioni finali convergevano nell’indicare come le due direttrici da percorrere per modificare il sistema penitenziario fossero la depenalizzazione e la decarcerizzazione. Ma te cose sono andate nella direzione opposta. Per dirne una, l’introduzione dell’aggravante di clandestinità ha plasticamente rappresentato l’abnegazione di quanto detto. Ovvero si qualifica come fattispecie penale un mero status, una condizione. Sanzionata come un reato, pur essendo un’espressione che non ha comportato ciò che invece è il criterio essenziale che lo stato di diritto ha indicato per qualificare un reato. Se l’Italia è un paese dove, per ottenere diritti fondamentali, è necessario sottrarsi all’alimentazione, come lo sciopero della farne che sta portando avanti Marco Pannella, che significa, che di passi democratici in avanti non ne sorso stati fatti? È una forma di protesta non violenta che mette in campo la propria personale responsabilità, mettendo in gioco se stessi. Le azioni di lotta, in genere, privilegiano il bersaglio da colpire, mentre il metodo di lotta non violenta sottolinea il ruoto del soggetto che mette n discussione se stesso. Personalmente sono tra coloro che ritengono di vivere in un regime democratico dove le libertà fondamentali sono sì riconosciute. Ma abbiamo imparato, non da ieri, che non è un regime perfetto, né compiuto, né irreversibile. Non è escluso che al proprio interno vi siano zone addirittura antidemocratiche e comunque spazi dove i diritti non sono riconosciuti. Si tratta di un panorama appunto non perfetto, che può peggiorare, può vedere ridursi gli spazi di libertà. Parlerei di libertà e di diritti, ma al plurale: dal momento che non sono trofei conquistati una volta e per sempre. E soprattutto sono soggetti a restrizioni e persino a gravi lesioni. Cosa ha insegnato, in questo, il caso Cucchi? Molto, ma faccio un esempio totalmente lontano da quello: se passasse una legge come quella sul testamento biologico, verrebbe di fatto imposto all’individuo che abbia dichiarato di non voler subire nutrizione e idratazione forzate, un trattamento vero e proprio. Questa sarebbe forse la lesione più profonda che il nostro ordinamento giuridico abbia mai subito nella sua storia. Giustizia: raccolta firme per nuovo reato di “omicidio stradale”, con ritiro a vita patente La Repubblica, 2 giugno 2011 Il Sindaco di Firenze lancia la raccolta di firme per il reato di omicidio stradale e ritiro a vita della patente. L’iniziativa partita dai genitori di un ragazzo travolto da un ubriaco. Lorenzo aveva 17 anni e un sorriso impossibile da dimenticare. Esattamente un anno fa, mentre percorreva con lo scooter il viale alberato delle Cascine, a Firenze, un 45enne in Vespa gli tagliò la strada e gli portò via la vita. Il conducente aveva bevuto troppo e nel suo sangue furono trovate anche tracce di cannabis. Lorenzo è una delle 1.500 persone che ogni anno in Italia muoiono in un incidente provocato da chi si mette alla guida sotto l’effetto di alcol o stupefacenti. I genitori e la sorella di Lorenzo hanno trovato la forza di andare avanti solo nella convinzione che sia possibile fare qualcosa di concreto per fermare questa strage silenziosa. E ne è convinto anche il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. È sua la prima firma sulla proposta di legge per inserire, nel codice penale, il reato di omicidio stradale. E per arrivare a istituire quello che la madre di Lorenzo, Stefania, chiama “l’ergastolo della patente”: chi uccide sotto l’effetto di alcol o droga non deve avere un’altra possibilità di farlo. Il testo di legge - per raccogliere le 50mila firme necessarie è stato attivato anche un sito internet: www.occhioallastrada.it - prevede anche un inasprimento della pena per chi commette questo reato: dagli attuali 3 - 10 anni a 8 - 18 oltre all’arresto in flagranza di reato. “Abbiamo preso contatti con la commissione trasporti della Camera e non escludiamo che, accanto alla raccolta delle firme, possa avviarsi anche un iter parlamentare”, annuncia il sindaco. “Il codice stradale è un cantiere sempre aperto”, assicura il presidente della Commissione, Mario Valducci, che ha dato la sua disponibilità. “Oggi - ha osservato Renzi - è abbastanza probabile che se ti metti alla guida ubriaco e uccidi qualcuno non fai nemmeno un giorno di carcere, ma se vieni scoperto in flagranza a rubare hai molte più possibilità di finire dentro”. La sfida che parte da Firenze è ancora più ambiziosa. In pochi mesi, l’associazione nata per volontà dei familiari di Lorenzo, ha messo a punto, con il supporto di quattro esperti della società di consulenza McKinsey, il “progetto David”, un piano strategico per la sicurezza stradale. Il programma, che ha visto all’opera forze dell’ordine e università, associazioni di vittime e Asl, è studiato su misura per il capoluogo toscano, ma è estendibile anche ad altre realtà italiane. L’obiettivo dimezzare, entro il 2020, le vittime della strada: a Firenze significa salvare 58 vite ed evitare 1.000 feriti gravi. “Occorre agire su più fronti - spiega il padre di Lorenzo, dirigente d’azienda che ha gestito tutto il progetto: dagli interventi sulle infrastrutture, all’incremento dei controlli, passando per le campagne di prevenzione nelle scuole”. Eppure, almeno a Firenze, i giovani non sono sul banco degli imputati: nell’87% dei casi gli incidenti mortali sono causati da maschi adulti con più di 25 anni. Il sindaco ha promesso più controlli con l’etilometro. “Di fronte all’emergenza e a un approccio emotivo - ha aggiunto Renzi - noi proponiamo un piano basato su un metodo razionale e vogliamo che la politica assuma il tema della sicurezza stradale tra quelli fondamentali”. Brescia: Sel; il carcere di Canton Mombello resta un lager Brescia Oggi, 2 giugno 2011 Mercoledì mattina una delegazione di Sinistra ecologia libertà formata dalla consigliera regionale Chiara Cremonesi, Beppe Almansi e Carla Ferrari Aggradi ha visitato i due carceri cittadini di Canton Mombello e di Verziano. “L’impressione ricavata”, ha spiegato Almansi, “è quella di tutte le altre volte che ho visitato Canton Mombello. È un vero e proprio lager che va chiuso al più presto”. Un’opinione condivisa anche dal comune, che infatti ha individuato vicino a Verziano l’area in cui dovrebbe sorgere la nuova struttura, che però per ora è solo un progetto e comunque non è un progetto condiviso da Sel. La situazione è da tempo insostenibile con 550 detenuti, moltissimi dei quali in attesa di giudizio, “stipati alla bella e meglio in celle carenti di tutto ciò che serve per vivere. In una cella di non più di 30 metri quadri al secondo piano del raggio sud entriamo in una cella che contiene circa 15 detenuti di tutte le etnie (rumeni, senegalesi, marocchini, spagnoli) che a fatica riescono a muoversi e che vivono questa condizione, chiusi in cella, per almeno venti ore al giorno”. E tutto questo nonostante “nell’agosto del 2009 la corte Europea dei diritti umani abbia condannato l’Italia a risarcire un detenuto bosniaco per danni morali dovuti al sovraffollamento. Riusciamo ad immaginare questo cosa comporterebbe se tutti i 65mila detenuti nelle carceri italiane ricorressero alla corte Europea?”. E la recente ristrutturazione? Secondo gli esponenti di Sel “non ha risolto alcun problema e restano inalterate le questioni di sempre, umidità alle pareti a diretto contatto dei letti a castello spesso su tre piani, nessuna applicazione del regolamento penitenziario che prevede almeno una doccia per cella (ce ne sono solo tre per ogni raggio) e l’acqua calda. La situazione dei migranti, che a Canton Mombello sono il 70%, è ancora più grave in quanto impossibilitati il più delle volte ad accedere alle pene alternative o ai domiciliari. Per loro nessuna possibilità, a differenza degli altri che dispongono di una chiesa, di un luogo nel quale poter pregare tutti insieme”. Sel sottolinea che con queste premesse “Canton Mombello va chiuso al più presto, perché non può adempiere a nessuna funzione rieducativa, nonostante gli sforzi della direzione e degli operatori. Non crediamo che un nuovo carcere risolverà il problema che va risolto alla radice, abolendo le leggi che riempiono il carcere trasformandolo in una discarica sociale. Dalla Bossi/Fini alla Fini/Giovanardi alla ex Cirielli il nostro primo compito sarà quello di cancellarle”. E anche sulla vicenda del garante dei detenuti Sel ha qualcosa da dire: “Avremmo preferito che Mario Fappani proseguisse nella sua opera molto positiva di questi cinque anni e crediamo che il metodo adottato per sostituirlo sia stato sbagliato. Auguriamo comunque al nuovo garante, Emilio Quaranta, buon lavoro chiedendogli di proseguire l’opera del suo predecessore in sinergia con le associazioni”. Il destino di Canton Mombello è comunque la chiusura, ma Sel promette di vigilare affinché “l’area del carcere resti ad esclusivo utilizzo sociale, ad esempio per l’accoglienza degli ex detenuti o per i domiciliari per i detenuti che possono accedere a pene alternative, perché non si scateni l’ennesimo sacco o cementificazione di una area verde così importante sicuramente nell’occhio di molti speculatori”. “Il nuovo carcere”, conclude la nota, “dovrà continuare a stare nel cuore pulsante della città e non , come ci sembra di capire, accanto a quello di Verziano come sempre più spesso capita sottraendo la città alla necessità di rapportarsi con una istituzione che riguarda tutti noi”. Pisa: la protesta dei detenuti è una battaglia di libertà, democrazia e umana dignità di Adriano Ascoli e Federico Gusti (Zone del silenzio, Pisa) Il Tirreno, 2 giugno 2011 Appoggiamo la protesta dei detenuti del don Bosco. In Italia sono ormai quasi settantamila i detenuti, ristretti in appena 44 mila posti letto, condizioni di vita intollerabili per un paese civile e “democratico”, malattie debellate che esplodono in carcere mietendo vittime proprio per le condizioni disumane in cui migliaia di uomini e donne sono tenuti, una insopprimibile omertà mediatica che si rifiuta di vedere cosa succede al di là delle sbarre, siano esse carceri o ospedali psichiatrici giudiziari o centri di identificazione ed espulsione per cittadini stranieri irregolari. Il carcere è una discarica sociale dove si consumano violazioni dei diritti umani e civili, per questo i detenuti di molti istituti di pena hanno iniziato forme di protesta come scioperi della fame, rifiuto del cibo, battitura delle sbarre. Per questo in molti centri di detenzione per migranti sono in atto da mesi rivolte e proteste. Gran parte dei detenuti dovrebbe beneficiare di misure alternative, ma ci sono leggi come la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi, la Cirielli che rendono impossibile tutto ciò, ci sono norme dell’ordinamento penitenziario (come l’art. 4 bis) che escludono intere categorie di detenuti dai percorsi alternativi al carcere, spesso poi la magistratura di sorveglianza si rende responsabile di coprire la disumanità ed illegalità del carcere lasciando troppe volte morire dietro le sbarre detenuti le cui condizioni sono incompatibili col regime detentivo. Anni di governo Berlusconi e di politiche securitarie ormai condivise da quasi tutte le forze politiche, hanno riempito le galere, anni di proibizionismo hanno reso meno civile e solidale la società italiana, favorito rigurgiti razzisti e fascisti. I detenuti del don Bosco e di altri istituti di pena chiedono una amnistia e cambiamenti radicali nel sistema legislativo e penale, ricordiamo che abbiamo un codice penale ancora fermo in larghissima parte a quanto stabilito prima della nascita della Repubblica, cioè un codice la cui impostazione è quella della dittatura, Da parte nostra non possiamo che sostenere questa battaglia di libertà, di democrazia e di umana dignità. Genova: “amnistia per la Repubblica”, manifestazione dei Radicali davanti a Marassi Ansa, 2 giugno 2011 Sit-in dei Radicali, davanti al carcere di Genova Marassi, per chiedere una “amnistia per la Repubblica”, come recita lo striscione esposto in piazzale Marassi. L’iniziativa, che si svolge in contemporanea anche a Roma, Salerno, Palermo e Bologna, vuole portare un messaggio di speranza all’intera comunità penitenziaria, che vive in una situazione di grande sofferenza - scrivono i Radicali in una nota - a causa del sovraffollamento e dell’insufficienza di personale, nonché a quei cittadini che chiedono tempi certi e ragionevoli per la conclusione di una causa, siano essi imputati o parte lesa. Palermo: “amnistia per la Repubblica”, si manifesta davanti alle carceri Ansa, 2 giugno 2011 In occasione della Festa della Repubblica, a Palermo come a Roma, Cagliari, Salerno, Bologna, Lecce e molte altre città, nella mattinata di oggi 2 giugno, dalle ore 10.30 alle 11.30, i militanti dell’Associazione David Kato - Radicali Palermo, hanno manifestato davanti alla casa circondariale Ucciardone in via Enrico Albanese 3. La manifestazione è organizzata a sostegno dell’iniziativa nonviolenta di Marco Pannella, in digiuno dal 20 di aprile, “affinché l’Italia possa tornare ad essere considerata una democrazia”. “Noi radicali continuiamo il nostro monitoraggio sul carcere dell’Ucciardone - ha dichiarato la dirigente radicale Donatella Corleo - affinché si attui un programma di riforme che investa il sistema carcerario nel suo complesso”. San Vittore: i detenuti rifiutano il cibo per protestare contro il sovraffollamento La Repubblica, 2 giugno 2011 Rifiutano il cibo e dalle 20 alle 21 battono pentole e oggetti d’ acciaio contro le grate delle celle. Da domenica e fino a ieri sera, al carcere di San Vittore - come in altri istituti italiani - i detenuti hanno aderito in massa allo “sciopero del carrello”, in solidarietà al deputato radicale Marco Pannella, che da quasi un mese non mangia per tenere alta l’ attenzione sul problema del sovraffollamento degli istituti di pena. A San Vittore ci sono quasi 1.600 detenuti, su una capienza prevista di circa 800. Oltre che per il sovraffollamento, si protesta anche per il caldo e la carenza d’ acqua per problemi alle condotte idrauliche. Torino: una task force di detenuti contro i suicidi in carcere di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 2 giugno 2011 Il direttore Pietro Buffa: “Vogliamo introdurre un’esperienza preventiva di supporto già sperimentata in Gran Bretagna”. La morte, qui in carcere, suscita una grande costernazione. I tre suicidi che abbiamo avuto in venti giorni hanno creato un enorme carico di sofferenza tra chi sconta la pena e chi lavora...”. Non è nello stile di Pietro Buffa convocare i giornalisti, ma ieri il direttore della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno l’ha fatto perché, ha spiegato, “non possiamo accettare che nasca anche solo il dubbio che l’istituto affronti queste morti come un “fatto burocratico”. Così, affiancato da Elvezio Pirfo, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asl 2 (presente all’interno), dallo psichiatra Antonio Pellegrino e da Lucia Casolaro, direttore sanitario dell’istituto di pena, Buffa ha spiegato situazioni, difficoltà, fornito cifre. E illustrato un progetto al quale lavorava da tempo e che partirà la prossima settimana. “Detenuti volontari saranno formati per sostenere i compagni di cella o di sezione che mostrino fragilità, disagio psicologico e che siano considerati a rischio suicidio. Negli ultimi 12 mesi sono stati 23 i tentativi di suicidio, 3 dei quali, purtroppo, riusciti”. Nei tre anni precedenti, invece, non si era registrato nessun caso. Dal giugno 2010 gli atti di autolesionismo sono stati 162 (400 dieci anni fa). “Con questo non intendiamo assolutamente sostituire il personale di polizia penitenziaria né quello medico. Ci siamo ispirati ad esperienze adottate in carceri anglosassoni”, ha detto il direttore. “I volontari offriranno supporto, dialogo e vicinanza”. Per ottenere risultati, le persone coinvolte dovranno essere “appellanti” e con una condanna di primo grado non inferiore agli 8 mesi. “Vogliamo sperimentare un nuovo modello di comunità: in carcere tutti sono responsabili morali degli altri”, ha spiegato Buffa. “I detenuti vengono per lo più considerati numeri, invece sono anche risorsa. Le iniziative di lavoro note all’esterno lo dimostrano bene”. Ma sul tema del suicidio, ieri è stato ricordato che la Casa Lorusso e Cutugno è da tempo un modello, in Italia, attrezzato dagli inizi degli anni 90 con un presidio medico per valutare le condizioni psicologiche e le eventuali patologie psichiatriche dei detenuti all’arrivo. “Nei giorni seguenti - ha detto Buffa - il detenuto viene rivisto da uno psicologo. Nel 2001 poi, abbiamo creato i “gruppi di attenzione” con educatori, psicologi e assistenti volontari contro il disagio non psichiatrico”. Nel 2010 i “contatti” dei gruppi sono stati 1230. Quest’anno, fino al 31 maggio, 464. Nell’istituto, poi, c’è una sezione con 40 posti con assistenza psichiatrica 7 giorni su 7 alla quale vengono inviati da tutta Italia detenuti “a rischio”. Nel 2010 qui sono stati accolti 153 detenuti. L’ultimo dei tre suicidi era stato trattenuto dai medici oltre i 30 giorni di osservazione richiesti. “Non era nella sezione degli “acuti”, ma in quella vicina. Nell’ora d’aria - ha detto il direttore - è rimasto solo in cella. E come gli altri suicidi ha detto ai compagni “ci vediamo dopo”. Sono mille i motivi per non uscire nell’ora d’aria: una lettera, prepararsi da mangiare. Ma anche mettere in atto quel proposito. Ora si chiederà sempre a chi non esce, il motivo del suo rimanere, con la consapevolezza che certe misure possono avere anche ricadute negative”. Altre misure riguarderanno l’affidamento di oggetti e l’osservazione in arrivo da parte delle scorte. “Oggi qui ci sono 1592 detenuti e noi dobbiamo riuscire a intercettare chi vive un disagio. Vorremmo spiegare che a volte non abbiamo mezzi sufficienti, ma non siamo disattenti. Per noi evitare queste morti è questione di responsabilità morale perché le persone ci sono state affidate”. Verona: Giacomo Attolini si suicidò in carcere, la vedova chiede nuove indagini L’Arena, 2 giugno 2011 Il pm non rileva negligenze e chiede l’archiviazione del caso. Il legale della vedova: “Il suicidio poteva essere evitato, Attolini fu visitato venti volte dallo psichiatra, segno di un disagio”. Una morte in carcere, una morte che per la vedova di Giacomo Attolini era “annunciata” perché, come sottolineò nella denuncia presentata in procura pochi giorni dopo il suicidio del marito, quello del 7 gennaio era il terzo tentativo. Depositò un esposto chiedendo che venissero accertate eventuali responsabilità, o meglio che la procura verificasse se erano state adottate tutte le cautele mirate ad impedire che Attolini riuscisse a togliersi la vita. Perché ci aveva già provato e per questo era stato sottoposto al regime di grande sorveglianza. Ma poi quel controllo venne meno “perché il detenuto dichiarò di non aver più intenzione di compiere gesti inconsulti”. E dieci giorni dopo si impiccò. Un fascicolo aperto dal dottor Marco Zenatelli che alcune settimane fa, non ritenendo fossero presenti negligenze e che il gesto di Attolini fosse dovuto a un “improvviso mutamento dei propositi”, ha chiesto che finisse in archivio. Una richiesta alla quale la vedova, tutelata dall’avvocato Guido Beghini, si è opposta. “È pacifico che il signor Attolini dal 29 febbraio 2009 (data di ingresso a Montorio perché responsabile della morte di una sua ex dipendente che lo accusava di violenza sessuale) al 6 dicembre dello stesso anno fu sottoposto a ben 20 visite psichiatriche”, si legge nell’atto di impugnazione, “ma ciò non fu sufficiente a prevenire il tentativo di suicidio che si verificò proprio il 6 dicembre evento che suggerì, il giorno seguente, di disporre a suo carico il regime di grande sorveglianza”. Nei dieci giorni a seguire, e in particolare il 17 dicembre, disse all’agente di polizia penitenziaria che voleva impiccarsi. Questo modificò il regime di sorveglianza: dal 19 al 23 dicembre fu “guardato a vista”. Il controllo visivo venne meno in seguito alla determinazione del gruppo multidisciplinare “sulla base delle dichiarazioni di Attolini”, insiste il legale, “in carenza di un concreto approfondimento di natura psichiatrica e trattamentale che pur avrebbe dovuto essere suggerito dal tentativo posto in essere solo una settimana prima. È da chiedersi se la suddetta determinazione non sia stata affetta da eccesso di sommarietà”. E a sostegno di questo cita le conclusioni alle quali è giunto il consulente di parte, il dottor Gianfranco Rivellini, e cioè che “Giacomo Attolini meritava un supplemento di aiuto nei termini più generali di un adeguato trattamento penitenziario, nel modo più alto e articolato possibile”. E sottolinea che “il suicidio avrebbe potuto essere evitato grazie ad un piano di interventi alternativo”. Non fu trasferito in altro istituto, vennero fatte “verifiche formali che non hanno approfondito una situazione personale complessa che avrebbe richiesto di non revocare la sorveglianza a vista”. Per tutto questo l’avvocato Beghini conclude chiedendo al gip un’investigazione suppletiva per stabilire se il personale abbia attuato le cautele necessarie. Ma soprattutto che la morte di Giacomo Attolini non finisca in archivio. Bologna: Uil-Pa; detenuta ricoverata d’urgenza per tubercolosi? chiediamo informazione Comunicato stampa, 2 giugno 2011 Abbiamo appreso che, da circa una settimana, una detenuta ristretta presso il Reparto Femminile è stata ricoverata d’urgenza presso il locale nosocomio per Tbc dopo una detenzione di circa tre mesi presso il reparto Femminile senza nessun tipo d’isolamento particolare tranne quello previsto per i detenuti “nuovi giunti” visto che ha svolto le varie attività in comune con le altre detenute “nuove giunte” e senza nessun tipo di precauzioni per il personale tutto. Le voci ricorrenti parlano di Tbc “aperta” o “bacillifera” cosa che se fosse veritiera preoccupa non poco il Personale ivi di servizio visto che il bacillo poteva essere emesso all’esterno attraverso la semplice respirazione o colpi di tosse. Con la presente chiediamo se detta notizia corrisponde al vero e, se così fosse, di intraprendere immediatamente tutte le forme di controllo sia sul Personale che sulla Popolazione detenuta che ha avuto contatti con la stessa. Inoltre con l’occasione si chiede di sottoporre i lavoratori a periodiche forme di profilassi, obbligo sino ad oggi eluso dall’Amministrazione Penitenziaria nei confronti del personale della Casa Circondariale, che si è limitata ai soli controlli per video terminalisti, quando in realtà altre sono pure le eziologie che possono portare i lavoratori ad un peggioramento della salute dovuto Dlgs. 81/2008 (per citarne una la presenza costante e massiccia di fumo passivo). Il personale e le OO.SS. hanno fondate ragioni di essere turbate e ancor più preoccupate per la salute loro e delle loro famiglie, motivo per cui è assolutamente indispensabile affrontare la problematica sotto tutti gli aspetti, informazione, formazione, prevenzione e profilassi. Uil-Pa Penitenziari Venezia: manifestazioni di protesta dei residenti di Campalto contro il nuovo carcere Il Gazzettino, 2 giugno 2011 Dopo l’ultimatum del commissario, Cà Farsetti può indicare un’altra area. Convocato per il 10 giugno il Consiglio comunale a Mestre per decidere il sito. “Se entro la prima quindicina di giugno non arriveranno proposte alternative a Campalto, nei giorni successivi avvieremo la fase di progettazione esecutiva per la realizzazione del nuovo carcere veneziano nell’ex struttura militare di Via Orlanda”. Queste le parole del commissario per il Piano carceri Franco Ionta, con le quali, non più tardi di quindici giorni fa, comunicava al presidente del Consiglio comunale Roberto Turetta la decisione di dare avvio quanto prima ai lavori della nuova casa circondariale veneziana. Se nel frattempo il Comune ha individuato un’area alternativa da proporre al commissario ancora non è dato di sapere: si sa però, che il Consiglio comunale è stato convocato per discutere su questo argomento venerdì 10 giugno, alle ore 15, in municipio a Mestre. All’Ordine del giorno vi è la relazione del sindaco sulla proposta di realizzare nel territorio veneziano il nuovo istituto di pena, che il primo cittadino illustrerà alla presenza di funzionari e tecnici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Fra una decina di giorni sapremo, dunque, se il carcere si farà a Campalto, come indicato dal commissario governativo, oppure se il Comune avrà trovato un’altra area, con i requisiti richiesti dal Ministero per questo genere di strutture, da proporre in alternativa al sito demaniale ubicato a Campalto, tra via Orlanda e la conterminazione lagunare. Il Comune, come noto, da gennaio ad oggi ha preso in esame ben dodici siti, oltre a quello di Campalto, anche se pochi di questi hanno le caratteristiche volumetriche corrispondenti alla tipologia fissata dall’amministrazione penitenziaria. Se il volume dell’area deve, infatti, essere superiore ai 90mila metri quadrati, ben otto delle tredici zone esaminate sono da scartare poiché “sottomisura”, ovvero: Caserma di Via Miranese, Forte Cosenz, area Via Pertini, area San Giuliano, Via Vallenari, Cà D’oro, Via Porto di Cavergnago e l’ex caserma Pepe del Lido. Rimarrebbero in gioco, sempreché i tecnici del Dipartimento non riscontrino altri motivi ostativi, la caserma Matter di Mestre, Forte Tron a Marghera, Forte Pepe al Montiron, l’area demaniale di Sacca San Mattia a Murano, oltre, naturalmente, alla contestatissima via Orlanda. Ascoli: sei detenuti puliranno il centro storico di Civitella Corriere Adriatico, 2 giugno 2011 Sabato 4 giugno, per l’intera giornata, 6 detenuti del Carcere Circondariale di Ascoli Piceno si recheranno a Civitella del Tronto per provvedere a pulire il centro storico e la locale pineta da rifiuti ed erbacce. La collaborazione tra l’Amministrazione Comunale di Civitella del Tronto ed il Carcere di Ascoli Piceno, ormai al secondo anno, consentirà di sistemare ed abbellire alcune aree limitrofe alla storica fortezza, anche in vista di importanti eventi in programma a Civitella nel periodo estivo per le celebrazioni del 150°. Soddisfazione è stata espressa dal Sindaco della cittadina Gaetano Luca Ronchi, il quale, nel ringraziare per la sinergia la direttrice del carcere dott.ssa Lucia Di Feliciantonio ed il Comandante della Polizia Penitenziaria dott. Pio Mancini, ha tenuto a ricordare non solo l’analoga iniziativa svoltasi l’anno scorso sempre a Civitella, ma anche il determinante contributo che in questi mesi un altro detenuto, assegnato stabilmente dal Magistrato di Sorveglianza a Civitella, sta dando per la sistemazione e pulizia delle vie del centro storico, entrato nel maggio del 2008 nel Club dei Borghi più Belli d’Italia. “In un periodo di grande congiuntura economica, i Comuni devono letteralmente inventarsi iniziative e progetti per poter dare risposte le più soddisfacenti possibili alla collettività. Noi l’abbiamo fatto e lo stiamo facendo - dichiara il Sindaco - anche con iniziative come questa, che rispondono alla necessità di provvedere alla sistemazione di aree pubbliche, frequentate da turisti e bambini e, dall’altra, di assicurare un reinserimento in società dei detenuti, che già nel passato hanno mostrato vivo interesse verso questa iniziativa e che ci hanno sollecitato a ripeterla”. Cosenza: detenuti in protesta per la mancata applicazione del decreto “svuota carceri” Agi, 2 giugno 2011 I detenuti del carcere di Cosenza hanno inscenato una protesta nel pomeriggio battendo le stoviglie sulle sbarre delle celle di sicurezza e urlando slogan come “Libertà, libertà”. Libertà, libertà: è il grido dei detenuti del carcere di Cosenza, che hanno inscenato una protesta battendo le stoviglie sulle sbarre delle celle e creando delle piccole fiaccole con dei giornali bruciati. I carcerati gridano “amnistia subito”. La protesta nasce infatti dalla mancata applicazione del decreto svuota carceri, approvato in via definitiva lo scorso autunno, che consente la detenzione domiciliare a chi deve scontare una pena inferiore a un anno. Per lo stesso motivo nei giorni scorsi si sono svolte manifestazioni analoghe in altre carceri italiane. La protesta di Cosenza non ha creato problemi di ordine pubblico. Mantova: in servizio il primo comandante donna della Polizia penitenziaria La Gazzetta di Mantova, 2 giugno 2011 Il suo compito; coordinare gli ottanta agenti in servizio e vigilare su quasi duecento detenuti. Emanuela Anniciello, trentatré anni, per il carcere di via Poma è il primo comandante donna della polizia penitenziaria. Nata nel 1978 a Caserta, aveva già scritto nel dna il suo percorso: è venuta alla luce il 30 giugno, giorno in cui si festeggia San Basilide, protettore degli agenti di custodia. Il posto all’istituto di pena di via Poma era vacante dallo scorso anno. La nuova comandante è stata presentata ieri dal magistrato di sorveglianza Luigi Fasanelli e dal direttore del carcere Enrico Baraniello. La Anniciello vanta un passato impeccabile. Laureata in giurisprudenza a Napoli, ha svolto la professione di avvocato per tre anni prima di superare il concorso, diventare commissario e svolgere l’anno di tirocinio. Mantova è la prima nomina. “Collaborerò con il direttore e il personale - s’è ripromessa - in questo ruolo serve dialogo, equilibrio e buon senso. Per un obiettivo: riadattare i detenuti e limitare le recidive”. Catania: carcere di piazza Lanza, una sala colloqui con i “colori dell’affetto” La Sicilia, 2 giugno 2011 È stato inaugurato ieri nel carcere di piazza Lanza il nuovo salone per i colloqui tra i detenuti e i loro familiari. La cerimonia ha avuto come momento saliente l’apposizione di dipinti, raffiguranti immagini specificamente adatte all’infanzia. L’iniziativa fa parte del progetto “I colori dell’affetto”, elaborato dalla direzione del carcere catanese in linea con gli indirizzi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che prevede la realizzazione di interventi per limitare l’impatto con la struttura penitenziaria al bambino che deve incontrare il genitore detenuto, per il miglioramento e la valorizzazione dei locali dedicati all’attesa dei familiari e ai colloqui. I dipinti sono stati realizzati dai docenti e dai ragazzi del liceo artistico “Emilio Greco” e dai detenuti iscritti alla scuola elementare del penitenziario e dai loro insegnanti. Il processo di produzione dei dipinti non è stato il più importante risultato: accanto vi é stata l’esperienza culturale ed umana che hanno vissuto i giovani liceali nella preparazione del contatto che avrebbero avuto con gli studenti detenuti. Il percorso ha rivestito pertanto un’elevata valenza pedagogica e sociale ed ha suscitato interesse e grande partecipazione, che ha liberato una originale creatività nei partecipanti. Alla manifestazione d’inaugurazione del nuovo salone, hanno partecipato il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Sicilia, Orazio Faramo; il direttore dell’Ufficio Detenuti e Trattamento del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Sicilia, Giuseppa Irrera; i Capi d’Istituto degli Istituti scolastici coinvolti nel progetto, professori Guglielmino e Previtera; il direttore dell’Ufficio esecuzione penale esterna per la Sicilia nonché direttore dell’ufficio di esecuzione penale esterna di Catania, Maria Annunziata Riccioli. Il direttore generale dei Detenuti e del Trattamento. Sebastiano Ardita ha fatto pervenire un messaggio. Il dirigente della struttura, Rosario Tortorella, dopo il saluto agli ospiti e un ringraziamento agli operatori dell’Area Pedagogica dell’Istituto, ha espresso soddisfazione “per la valida iniziativa educativa, e per l’esperienza guidata volta agli alunni, detenuti e non”. La manifestazione si è conclusa con un buffet realizzato dagli studenti dell’istituto alberghiero “Karol Woytjla” nell’ambito dei laboratori didattici dell’Istituto stesso. Usa: gli Stati sull’orlo del crac tagliano fondi alle carceri e liberano i detenuti di Elena Molinari Avvenire, 2 giugno 2011 La California dovrà rilasciare decine di migliaia di carcerati perché non può permettersi di costruire nuove prigioni. L’Arizona ha smesso di offrire trapianti di organi ai pazienti sprovvisti di assicurazione sanitaria privata. A Newark, una delle città a più alta densità criminale d’America, il Comune ha licenziato il 13 per cento dei poliziotti. Se a livello nazionale gli Stati Uniti stanno lentamente uscendo dalla crisi, gli enti locali sono alle prese con riduzioni alle entrate e debiti senza precedenti, addirittura peggiori rispetto ai tempi della Depressione degli anni Trenta. Per l’anno fiscale 2012 (che comincia il primo luglio) almeno 44 Stati prevedono deficit di bilancio. A rendere la situazione ancora più drammatica sono però le costituzioni di tutti gli Stati americani, tranne il Vermont, che impongono ai governi di chiudere l’anno scale in pareggio, costringendo i governatori a una combinazione di tagli dolorosissimi e di trasferimenti dei costi dei servizi a contee e città. Il risultato è una reazione a catena di debiti destinata a concretizzarsi in scuole più affollate, chiusure di centri per giovani e anziani, ospedali pubblici al collasso, corpi di polizia allo stremo. Oltre all’effetto immediato dei tagli dei servizi sulla vita degli americani, secondo molti analisti la slavina dei bilanci in rosso da Washington alle capitali statali fino ai Comuni potrebbe tornare come un boomerang a danneggiare l’economia nazionale. Gli Stati impiegano infatti 19 milioni di americani: poco meno di un sesto della forza lavoro nazionale. Almeno 16 città, inoltre, sono a rischio di bancarotta nel 2011, fra cui metropoli come New York, San Diego, San Francisco, Washington e Detroit. Se una di queste città smettesse di pagare gli interessi sulle sue obbligazioni, la crepa nella fiducia degli investitori potrebbe propagarsi al resto del Paese, scatenando una fuga dai buoni comunali, statali e persino del Tesoro. Il caso della California è emblematico. Grande come l’Italia, la California è l’ottava economia del mondo e ospita la Silicon Valley. Eppure, la settimana scorsa la Corte Suprema ha ordinato allo Stato di liberare 30mila prigionieri perché le condizioni nelle carceri li mettono in pericolo di vita. Il nuovo governatore democratico, Terry Brown, di fronte al sollevamento popolare che l’apertura delle celle causerebbe, pensa di muovere il problema un gradino più giù, trasferendo i carcerati nelle prigioni delle contee. Intanto 21 Stati hanno intenzione di tagliare la spesa scolastica di almeno un terzo nel prossimo anno fiscale, sommandosi ai 34 che l’hanno già fatto. E il prossimo mese sono destinate ad affiorare altre soluzioni con cui i governatori cercheranno di chiudere il buco in bilancio prima della fine dell’anno fiscale, che cade in contemporanea con la fine dello stimolo federale di 480 miliardi concesso dall’Amministrazione Obama. Una coincidenza sfortunata, se si pensa che per la maggior parte degli Stati, i sussidi federali rappresentano ormai il 30% delle entrate. Francia: cappellani in carcere; i Testimoni di Geova battono il ministero Italia Oggi, 2 giugno 2011 Da tempo rivendicano il diritto di diventare cappellani di carcere. Per il momento si portano a casa un round della partita contro la cancelleria francese, dal momento che il ricorso del ministero contro tre testimoni di Geova è stato rigettato dalla corte amministrativa di appello di Parigi. La cancelleria adesso ha due mesi di tempo per fare appello in cassazione. Il ministero, che rifiuta da diversi anni di accettare come cappellani volontari del carcere dei rappresentanti dei testimoni di Geova, ha preso atto della decisione. Per giustificare il suo rifiuto ad autorizzare i testimoni di Geova a diventare cappellani carcerari, la cancelleria adduce il fatto che i detenuti desiderosi di ricorrere a membri del movimento religioso non sono abbastanza numerosi. Ma secondo il portavoce francese dei testimoni di Geova, sarebbero un centinaio le domande a livello nazionale. Attualmente i cappellani cattolici stipendiati dalla amministrazione penitenziaria sono circa duecento, ai quali si aggiungono una sessantina di musulmani, ottanta protestanti e una quarantina di ebrei. Al di là di tutto, il dossier ha soprattutto una forte valenza politica. Moltiplicando le azioni legali, i testimoni di Geova sperano di accelerare il processo di riconoscimento da parte dei poteri pubblici e di raggiungere una certa normalizzazione nel paesaggio religioso francese. Un passo che il ministero della giustizia esita a compiere. Anche a causa del carattere settario attribuito al movimento religioso dalla commissione parlamentare sulle sette nella sua relazione del 1995.