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LETTERA
ENCICLICA Venerabili Fratelli, diletti Figli e
Figlie, L'UOMO, mediante il lavoro, deve
procurarsi il pane quotidiano(1) e contribuire al continuo progresso delle
scienze e della tecnica, e soprattutto all'incessante elevazione culturale e
morale della società, in cui vive in comunità con i propri fratelli. E con la
parola «lavoro» viene indicata ogni opera compiuta dall'uomo,
indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni
attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta
la ricchezza delle azioni, delle quali l'uomo è capace ed alle quali è
predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità. Fatto a
immagine e somiglianza di Dio stesso(2) nell'universo visibile, e in esso
costituito perché dominasse la terra(3), l'uomo è perciò sin dall'inizio chiamato
al lavoro. Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l'uomo
dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della
vita, non si può chiamare lavoro; solo l'uomo ne è capace e solo l'uomo lo
compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla
terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell'uomo e dell'umanità,
il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno
determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la
stessa sua natura. I INTRODUZIONE 1. Il lavoro umano a novant'anni
dalla "Rerum Novarum" Poiché si sono compiuti, il 15 maggio
dell'anno corrente, novant'anni dalla pubblicazione _ ad opera del
grande Pontefice della «questione sociale», Leone XIII _ di quell'Enciclica
di importanza decisiva, che inizia con le parole Rerum Novarum, desidero
dedicare il presente documento proprio al lavoro umano, e ancora di
più desidero dedicarlo all'uomo nel vasto contesto di questa realtà
che è il lavoro. Se, infatti, come mi sono espresso nell'Enciclica Redemptor
Hominis, pubblicata all'inizio del mio servizio nella Sede romana di San
Pietro, l'uomo «è la prima e fondamentale via della Chiesa»(4), e ciò proprio
in base all'inscrutabile mistero della Redenzione in Cristo, allora occorre
ritornare incessantemente su questa via e proseguirla sempre di nuovo secondo
i vari aspetti, nei quali essa ci svela tutta la ricchezza e al tempo stesso
tutta la fatica dell'esistenza umana sulla terra. Il lavoro è uno di questi aspetti, perenne
e fondamentale, sempre attuale e tale da esigere costantemente una rinnovata
attenzione e una decisa testimonianza. Perché sorgono sempre nuovi interrogativi
e problemi, nascono sempre nuove speranze, ma anche timori e
minacce connesse con questa fondamentale dimensione dell'umano esistere, con
la quale la vita dell'uomo è costruita ogni giorno, dalla quale essa attinge
la propria specifica dignità, ma nella quale è contemporaneamente contenuta
la costante misura dell'umana fatica, della sofferenza e anche del danno e
dell'ingiustizia che penetrano profondamente la vita sociale, all'interno delle
singole Nazioni e sul piano internazionale. Se è vero che l'uomo si nutre col
pane del lavoro delle sue mani(5), e cioè non solo di quel pane quotidiano
col quale si mantiene vivo il suo corpo, ma anche del pane della scienza e
del progresso, della civiltà e della cultura, allora è pure una verità
perenne che egli si nutre di questo pane col sudore del volto(6), cioè
non solo con lo sforzo e la fatica personali, ma anche in mezzo a tante
tensioni, conflitti e crisi che, in rapporto con la realtà del lavoro,
sconvolgono la vita delle singole società ed anche di tutta l'umanità. Celebriamo il 90° anniversario
dell'Enciclica Rerum Novarum alla vigilia di nuovi sviluppi nelle
condizioni tecnologiche, economiche e politiche che, secondo molti esperti,
influiranno sul mondo del lavoro e della produzione non meno di quanto fece
la rivoluzione industriale del secolo scorso. Molteplici sono i fattori di
portata generale: l'introduzione generalizzata dell'automazione in molti
campi della produzione; l'aumento del prezzo dell'energia e delle materie di
base; la crescente presa di coscienza della limitatezza del patrimonio
naturale e del suo insopportabile inquinamento; l'emergere sulla scena
politica dei popoli che, dopo secoli di soggezione, richiedono il loro legittimo
posto tra le nazioni e nelle decisioni internazionali. Queste nuove
condizioni ed esigenze richiederanno un riordinamento e un ridimensionamento
delle strutture dell'economia odierna, nonché della distribuzione del lavoro.
Tali cambiamenti potranno forse significare, purtroppo, per milioni di
lavoratori qualificati, la disoccupazione, almeno temporanea, o la necessità
di un riaddestramento; comporteranno con molta probabilità una diminuzione o
una crescita meno rapida del benessere materiale per i Paesi più sviluppati;
ma potranno anche dare sollievo e speranza ai milioni di uomini che oggi
vivono in condizioni di vergognosa e indegna miseria. Non spetta alla Chiesa analizzare
scientificamente le possibili conseguenze di tali cambiamenti sulla convivenza
umana. La Chiesa però ritiene suo compito di richiamare sempre la dignità e i
diritti degli uomini del lavoro e di stigmatizzare le situazioni, in cui essi
vengono violati, e di contribuire ad orientare questi cambiamenti perché si
avveri un autentico progresso dell'uomo e della società. 2. Nello sviluppo organico
dell'azione e dell'insegnamento sociale della Chiesa Certamente il lavoro, come problema
dell'uomo, si trova al centro stesso di quella «questione sociale», alla
quale durante i quasi cento anni trascorsi dalla menzionata Enciclica si
volgono in modo speciale l'insegnamento della Chiesa e le molteplici
iniziative connesse con la sua missione apostolica. Se su di esso desidero
concentrare le presenti riflessioni, ciò voglio fare non in modo difforme, ma
piuttosto in collegamento organico con tutta la tradizione di questo
insegnamento e di queste iniziative. Al tempo stesso, però, faccio questo,
secondo l'orientamento del Vangelo, per estrarre dal patrimonio del
Vangelo «cose antiche e cose nuove»(7). Certamente, il lavoro è
una «cosa antica» _ tanto antica quanto l'uomo e la sua vita sulla terra. La
situazione generale dell'uomo nel mondo contemporaneo, diagnosticata ed
analizzata nei vari aspetti geografici, di cultura e di civiltà, esige,
tuttavia, che si scoprano i nuovi significati del lavoro umano, e che
si formulino, altresì, i nuovi compiti che in questo settore sono
posti di fronte ad ogni uomo, alla famiglia, alle singole Nazioni, a tutto il
genere umano e, infine, alla Chiesa stessa. Nello spazio degli anni che sono passati
dalla pubblicazione dell'Enciclica Rerum Novarum, la questione sociale
non ha cessato di occupare l'attenzione della Chiesa. Ne danno testimonianza
i numerosi documenti del Magistero, emanati sia dai Pontefici sia anche dal
Concilio Vaticano II; ne danno testimonianza le enunciazioni dei singoli
Episcopati; ne dà testimonianza l'attività dei vari centri di pensiero e di
concrete iniziative apostoliche, sia a livello internazionale che a livello
delle Chiese locali. E' difficile enumerare qui in forma particolareggiata
tutte le manifestazioni del vivo impegno della Chiesa e dei cristiani nella
questione sociale, perché esse sono molto numerose. Come risultato del
Concilio, il principale centro di coordinamento in questo campo è diventata
la Pontificia Commissione «Iustitia et Pax», la quale trova i suoi
Organismi corrispondenti nell'ambito delle singole Conferenze Episcopali. Il
nome di questa istituzione è molto significativo: esso indica che la
questione sociale deve essere trattata nella sua dimensione integrale e
complessa. L'impegno in favore della giustizia deve essere intimamente unito
a quello per la pace nel mondo contemporaneo. Certamente, si è pronunciata in
favore di questo duplice impegno la dolorosa esperienza delle due grandi
guerre mondiali, che durante gli ultimi 90 anni hanno scosso molti Paesi sia
del Continente europeo sia, almeno parzialmente, degli altri Continenti. In
suo favore si pronunciano, specialmente dopo la fine della seconda guerra
mondiale, la permanente minaccia di una guerra nucleare e la prospettiva
della terribile auto-distruzione, che ne emerge. Se seguiamo la linea principale di
sviluppo dei documenti del supremo Magistero della Chiesa, troviamo in
essi l'esplicita conferma proprio di tale impostazione del problema. La
posizione chiave, per quanto riguarda la questione della pace nel mondo, è
quella dell'Enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII. Se si
considera, invece, l'evoluzione della questione della giustizia sociale, si
deve notare che, mentre nel periodo che va dalla Rerum Novarum alla Quadragesimo
Anno di Pio XI, l'insegnamento della Chiesa si concentra soprattutto
intorno alla giusta soluzione della cosiddetta questione operaia nell'ambito
delle singole Nazioni, nella fase successiva esso allarga l'orizzonte alle
dimensioni di tutto il globo. La distribuzione sproporzionata di ricchezza e
di miseria, l'esistenza di Paesi e di Continenti sviluppati e non, esigono
una perequazione e la ricerca delle vie per un giusto sviluppo di tutti. In
questa direzione procede l'insegnamento contenuto nell'Enciclica Mater et
Magistra di Giovanni XXIII, nella Costituzione pastorale Gaudium et
Spes del Concilio Vaticano II e nell'Enciclica Populorum Progressio di
Paolo VI. Questa direzione di sviluppo
dell'insegnamento e dell'impegno della Chiesa nella questione sociale
corrisponde esattamente al riconoscimento oggettivo dello stato delle cose.
Se nel passato al centro di tale questione si metteva soprattutto in luce il problema
della «classe», in epoca più recente si pone in primo piano il problema
del «mondo». Si considera, perciò, non solo l'ambito della classe, ma
quello mondiale delle disuguaglianze e delle ingiustizie e, di conseguenza,
non solo la dimensione di classe, ma quella mondiale dei compiti sulla via
che porta alla realizzazione della giustizia nel mondo contemporaneo.
L'analisi completa della situazione del mondo di oggi ha manifestato in modo
ancora più profondo e più pieno il significato dell'anteriore analisi delle
ingiustizie sociali ed è il significato che oggi si deve dare agli sforzi che
tendono a costruire la giustizia sulla terra, non nascondendo con ciò le
strutture ingiuste, ma postulando il loro esame e la loro trasformazione in
una dimensione più universale. 3. Il problema del lavoro, chiave
della questione sociale In mezzo a tutti questi processi _ sia
della diagnosi dell'oggettiva realtà sociale, sia anche dell'insegnamento
della Chiesa nell'àmbito della complessa e molteplice questione sociale _ il
problema del lavoro umano compare naturalmente molte volte. Esso è, in
qualche modo, una componente fissa come della vita sociale, così
dell'insegnamento della Chiesa. In questo insegnamento, peraltro,
l'attenzione al problema risale ben al di là degli ultimi novant'anni. La
dottrina sociale della Chiesa, infatti, trova la sua sorgente nella Sacra
Scrittura, a cominciare dal Libro della Genesi e, in particolare, nel Vangelo
e negli scritti apostolici. Essa appartenne fin dall'inizio all'insegnamento
della Chiesa stessa, alla sua concezione dell'uomo e della vita sociale e,
specialmente, alla morale sociale elaborata secondo le necessità delle varie
epoche. Questo patrimonio tradizionale è poi stato ereditato e sviluppato
dall'insegnamento dei Pontefici sulla moderna «questione sociale», a partire
dall'Enciclica Rerum Novarum. Nel contesto di tale questione, gli
approfondimenti del problema del lavoro hanno avuto un continuo
aggiornamento, conservando sempre quella base cristiana di verità, che
possiamo chiamare perenne. Se nel presente documento ritorniamo di
nuovo su questo problema, _ senza peraltro avere l'intenzione di toccare
tutti gli argomenti che lo concernono _ non è tanto per raccogliere e
ripetere ciò che è già contenuto nell'insegnamento della Chiesa, ma piuttosto
per mettere in risalto _ forse più di quanto sia stato compiuto finora _ il
fatto che il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave
essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla
veramente dal punto di vista del bene dell'uomo. E se la soluzione o,
piuttosto, la graduale soluzione della questione sociale, che continuamente
si ripresenta e si fa sempre più complessa, deve essere cercata nella
direzione di «rendere la vita umana più umana»(8), allora appunto la chiave,
che è il lavoro umano, acquista un'importanza fondamentale e decisiva. II IL
LAVORO E L'UOMO 4. Nel Libro della Genesi La Chiesa è convinta che il lavoro
costituisce una dimensione fondamentale dell'esistenza dell'uomo sulla terra.
Essa si conferma in questa convinzione anche considerando tutto il patrimonio
delle molteplici scienze, dedicate all'uomo: l'antropologia, la
paleontologia, la storia, la sociologia, la psicologia, ecc.: tutte sembrano
testimoniare in modo irrefutabile questa realtà. La Chiesa, tuttavia, attinge
questa sua convinzione soprattutto alla fonte della Parola di Dio rivelata e,
perciò, quella che è una convinzione dell'intelletto acquista in pari
tempo il carattere di una convinzione di fede. La ragione è che la Chiesa
_ vale la pena di osservarlo fin d'ora _ crede nell'uomo: essa pensa all'uomo
e si rivolge a lui non solo alla luce dell'esperienza storica, non
solo con l'aiuto dei molteplici metodi della conoscenza scientifica, ma in
primo luogo alla luce della parola rivelata del Dio vivente. Riferendosi
all'uomo, essa cerca di esprimere quei disegni eterni e quei destini
trascendenti, che il Dio vivente, creatore e redentore, ha legato
all'uomo.La Chiesa trova già nelle prime pagine del Libro della Genesi la
fonte della sua convinzione che il lavoro costituisce una fondamentale
dimensione dell'esistenza umana sulla terra. L'analisi di tali testi ci rende
consapevoli del fatto che in essi _ a volte con un modo arcaico di
manifestare il pensiero _ sono state espresse le verità fondamentali intorno
all'uomo, già nel contesto del mistero della Creazione. Sono queste le verità
che decidono dell'uomo sin dall'inizio e che, al tempo stesso, tracciano le
grandi linee della sua esistenza sulla terra, sia nello stato della giustizia
originaria, sia anche dopo la rottura, determinata dal peccato,
dell'originaria alleanza del Creatore con il creato, nell'uomo. Quando
questi, fatto «a immagine di Dio ... maschio e femmina»(9), sente le parole:
«Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela»(10),
anche se queste parole non si riferiscono direttamente ed esplicitamente al
lavoro, indirettamente già glielo indicano al di là di ogni dubbio come
un'attività da svolgere nel mondo. Anzi, esse ne dimostrano la stessa essenza
più profonda. L'uomo è immagine di Dio, tra l'altro, per il mandato ricevuto
dal suo Creatore di soggiogare, di dominare la terra. Nell'adempimento di
tale mandato, l'uomo, ogni essere umano, riflette l'azione stessa del
Creatore dell'universo. Il lavoro inteso come un'attività
«transitiva», cioè tale che, prendendo l'inizio nel soggetto umano, è
indirizzata verso un oggetto esterno, suppone uno specifico dominio dell'uomo
sulla «terra» ed a sua volta conferma e sviluppa questo dominio. E' chiaro che
col termine «terra», di cui parla il testo biblico, si deve intendere prima
di tutto quel frammento dell'universo visibile, del quale l'uomo è abitante;
per estensione, però, si può intendere tutto il mondo visibile, in quanto
esso si trova nel raggio d'influsso dell'uomo e della sua ricerca di
soddisfare alle proprie necessità. Le parole «soggiogate la terra» hanno
un'immensa portata. Esse indicano tutte le risorse che la terra (e
indirettamente il mondo visibile) nasconde in sé, e che, mediante l'attività
cosciente dell'uomo, possono essere scoperte e da lui opportunamente usate.
Così quelle parole, poste all'inizio della Bibbia, non cessano mai di
essere attuali. Esse abbracciano ugualmente tutte le epoche passate della
civiltà e dell'economia, come tutta la realtà contemporanea e le fasi future
dello sviluppo, le quali, in qualche misura, forse si stanno già delineando,
ma in gran parte rimangono ancora per l'uomo quasi sconosciute e nascoste. Se a volte si parla di periodi di
«accelerazione» nella vita economica e nella civilizzazione dell'umanità o
delle singole Nazioni, unendo queste «accelerazioni» al progresso della
scienza e della tecnica e, specialmente, alle scoperte decisive per la vita
socio-economica, si può dire al tempo stesso che nessuna di queste
«accelerazioni» supera l'essenziale contenuto di ciò che è stato detto in
quell'antichissimo testo biblico. Diventando _ mediante il suo lavoro _
sempre di più padrone della terra, e confermando _ ancora mediante il lavoro
_ il suo dominio sul mondo visibile, l'uomo, in ogni caso ed in ogni fase di
questo processo, rimane sulla linea di quell'originaria disposizione del
Creatore, la quale resta necessariamente e indissolubilmente legata al fatto
che l'uomo è stato creato, come maschio e femmina, «a immagine di Dio».
Questo processo è, al tempo stesso, universale: abbraccia tutti
gli uomini, ogni generazione, ogni fase dello sviluppo economico e culturale,
ed insieme è un processo che si attua in ogni uomo, in ogni
consapevole soggetto umano. Tutti e ciascuno sono contemporaneamente da esso
abbracciati. Tutti e ciascuno, in misura adeguata e in un numero
incalcolabile di modi, prendono parte a questo gigantesco processo, mediante
il quale l'uomo «soggioga la terra» col suo lavoro. 5. Il lavoro in senso oggettivo: la
tecnica Questa universalità e, al tempo stesso,
questa molteplicità del processo del «soggiogare la terra» gettano luce sul
lavoro umano, poiché il dominio dell'uomo sulla terra si compie nel lavoro e
mediante il lavoro. Emerge così il significato del lavoro in senso
oggettivo, il quale trova la sua espressione nelle varie epoche della
cultura e della civiltà. L'uomo domina la terra già per il fatto che
addomestica gli animali, allevandoli e ricavandone per sé il cibo e gli
indumenti necessari, e per il fatto che può estrarre dalla terra e dal mare
diverse risorse naturali. Molto di più, però, l'uomo «soggioga la terra»,
quando comincia a coltivarla e successivamente rielabora i suoi prodotti,
adattandoli alle proprie necessità. L'agricoltura costituisce così un campo
primario dell'attività economica e un indispensabile fattore, mediante il
lavoro umano, della produzione. L'industria, a sua volta, consisterà sempre
nel coniugare le ricchezze della terra _ sia le risorse vive della natura,
sia i prodotti dell'agricoltura, sia le risorse minerarie o chimiche _ ed il
lavoro dell'uomo, il lavoro fisico come quello intellettuale. Ciò vale, in un
certo senso, anche nel campo della cosiddetta industria dei servizi, e in
quello della ricerca, pura o applicata. Oggi nell'industria e nell'agricoltura
l'attività dell'uomo ha cessato in molti casi di essere un lavoro
prevalentemente manuale, poiché la fatica delle mani e dei muscoli è aiutata
dall'opera di macchine e di meccanismi sempre più perfezionati. Non
soltanto nell'industria, ma anche nell'agricoltura, siamo testimoni delle
trasformazioni rese possibili dal graduale e continuo sviluppo della scienza
e della tecnica. E questo, nel suo insieme, è diventato storicamente una
causa di grandi svolte della civiltà, dall'origine dell'«èra industriale»
alle successive fasi di sviluppo per il tramite di nuove tecniche, come
quelle dell'elettronica o dei microprocessori negli ultimi anni. Se può sembrare che nel processo
industriale «lavori» la macchina mentre l'uomo solamente attende ad essa,
rendendo possibile e sostenendo in diversi modi il suo funzionamento, è anche
vero che proprio per questo lo sviluppo industriale pone la base per
riproporre in modo nuovo il problema del lavoro umano. Sia la prima industrializzazione
che ha creato la cosiddetta questione operaia, sia i successivi cambiamenti
industriali, dimostrano eloquentemente che, anche nell'epoca del «lavoro»
sempre più meccanizzato, il soggetto proprio del lavoro rimane l'uomo. Lo sviluppo dell'industria e dei diversi
settori con essa connessi, fino alle più moderne tecnologie dell'elettronica
specialmente nel campo della miniaturizzazione, dell'informatica, della
telematica ed altri, indica quale immenso ruolo assume, nell'interazione tra
il soggetto e l'oggetto del lavoro (nel più ampio senso di questa parola),
proprio quell'alleata del lavoro, generata dal pensiero umano, che è la
tecnica. Intesa in questo caso non come una capacità o una attitudine al
lavoro, ma come un insieme di strumenti dei quali l'uomo si serve nel
proprio lavoro, la tecnica è indubbiamente un'alleata dell'uomo. Essa gli
facilita il lavoro, lo perfeziona, lo accelera e lo moltiplica. Essa
favorisce l'aumento dei prodotti del lavoro, e di molti perfeziona anche la
qualità. E' un fatto, peraltro, che in alcuni casi la tecnica da alleata può
anche trasformarsi quasi in avversaria dell'uomo, come quando la
meccanizzazione del lavoro «soppianta» l'uomo, togliendogli ogni
soddisfazione personale e lo stimolo alla creatività e alla responsabilità;
quando sottrae l'occupazione a molti lavoratori prima impiegati, o quando,
mediante l'esaltazione della macchina, riduce l'uomo ad esserne il servo. Se le parole bibliche «soggiogate la
terra», rivolte all'uomo fin dall'inizio, vengono intese nel contesto
dell'intera epoca moderna, industriale e post-industriale, allora
indubbiamente esse racchiudono in sé anche un rapporto con la tecnica, con
quel mondo di meccanismi e di macchine, che è il frutto del lavoro
dell'intelletto umano e la conferma storica del dominio dell'uomo sulla
natura. La recente epoca della storia
dell'umanità, e specialmente di alcune società, porta con sé una giusta
affermazione della tecnica come un coefficiente fondamentale di progresso
economico; al tempo stesso, però, con questa affermazione sono sorti e
continuamente sorgono gli interrogativi essenziali riguardanti il lavoro
umano in rapporto al suo soggetto, che è appunto l'uomo. Questi interrogativi
racchiudono in sé una carica particolare di contenuti e di tensioni di carattere
etico ed etico-sociale. E perciò essi costituiscono una sfida continua
per molteplici istituzioni, per gli Stati e per i governi, per i sistemi e le
organizzazioni internazionali; essi costituiscono anche una sfida per la
Chiesa. 6. Il lavoro in senso soggettivo:
l'uomo-soggetto del lavoro Per continuare la nostra analisi del
lavoro legata alla parola della Bibbia, in forza della quale l'uomo deve
soggiogare la terra, bisogna che concentriamo la nostra attenzione sul
lavoro in senso soggettivo, molto più di quanto abbiamo fatto in
riferimentto al significato oggettivo del lavoro, toccando appena quella
vasta problematica, che è perfettamente e dettagliatamente nota agli studiosi
nei vari campi ed anche agli stessi uomini del lavoro secondo le loro
specializzazioni. Se le parole del Libro della Genesi, alle quali ci
riferiamo in questa nostra analisi, parlano in modo indiretto del lavoro nel
senso oggettivo, così, nello stesso modo, parlano anche del soggetto dei
lavoro; ma ciò che esse dicono è molto eloquente e carico di un grande
significato. L'uomo deve soggiogare la terra, la deve
dominare, perché come «immagine di Dio» è una persona, cioè un essere
soggettivo capace di agire in modo programmato e razionale, capace di
decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l'uomo è
quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni
appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro
contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua
umanità, al compimento della vocazione ad essere persona, che gli è propria a
motivo della stessa umanità. Le principali verità su questo tema sono state
ultimamente ricordate dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium
et Spes, particolarmente nel capitolo I dedicato alla vocazione
dell'uomo. E così quel «dominio», del quale parla il
testo biblico qui meditato, si riferisce non solamente alla dimensione
oggettiva del lavoro, ma ci introduce contemporaneamente alla comprensione
della sua dimensione soggettiva. Il lavoro inteso come processo, mediante il
quale l'uomo e il genere umano soggiogano la terra, corrisponde a questo
fondamentale concetto della Bibbia solo quando contemporaneamente in tutto
questo processo l'uomo manifesta e conferma se stesso come colui che
«domina». Quel dominio, in un certo senso, si riferisce alla dimensione
soggettiva ancor più che a quella oggettiva: questa dimensione condiziona la
stessa sostanza etica del lavoro. Non c'è, infatti, alcun dubbio che il
lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale senza mezzi termini e
direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona, un
soggetto consapevole e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso. Questa verità, che costituisce in un certo
senso lo stesso fondamentale e perenne midollo della dottrina cristiana sul
lavoro umano, ha avuto ed ha un significato primario per la formulazione
degli importanti problemi sociali a misura di intere epoche. L'età antica introdusse tra gli uomini una propria tipica
differenziazione in ceti a seconda del tipo di lavoro che eseguivano. Il
lavoro che richiedeva da parte del lavoratore l'impiego delle forze fisiche,
il lavoro dei muscoli e delle mani, era considerato indegno degli uomini
liberi, e alla sua esecuzione venivano, perciò, destinati gli schiavi. Il
cristianesimo, ampliando alcuni aspetti propri già dell'Antico Testamento, ha
operato qui una fondamentale trasformazione di concetti, partendo dall'intero
contenuto del messaggio evangelico e soprattutto dal fatto che Colui, il quale
essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto(11), dedicò la maggior parte
degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, presso un
banco di carpentiere. Questa circostanza costituisce da sola il più eloquente
«Vangelo del lavoro», che manifesta come il fondamento per determinare il
valore del lavoro umano non sia prima di tutto il genere di lavoro che si
compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Le fonti della
dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione
oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva. In una tale concezione sparisce quasi il
fondamento stesso dell'antica differenziazione degli uomini in ceti, a
seconda del genere di lavoro da essi eseguito. Ciò non vuol dire che il
lavoro umano, dal punto di vista oggettivo, non possa e non debba essere in
alcun modo valorizzato e qualificato. Ciò vuol dire solamente che il primo
fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso,il suo soggetto. A ciò
si collega subito una conclusione molto importante di natura etica: per
quanto sia una verità che l'uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però
prima di tutto il lavoro è «per l'uomo», e non l'uomo «per il lavoro». Con
questa conclusione si arriva giustamente a riconoscere la preminenza del
significato soggettivo del lavoro su quello oggettivo. Dato questo modo di
intendere, e supponendo che vari lavori compiuti dagli uomini possano avere
un maggiore o minore valore oggettivo, cerchiamo tuttavia di porre in
evidenza che ognuno di essi si misura soprattutto con il metro della
dignità del soggetto stesso del lavoro, cioè della persona, dell'uomo
che lo compie. A sua volta: indipendentemente dal lavoro che ogni uomo
compie, e supponendo che esso costituisca uno scopo _ alle volte molto
impegnativo _ del suo operare, questo scopo non possiede un significato
definitivo per se stesso. Difatti, in ultima analisi, lo scopo del lavoro,
di qualunque lavoro eseguito dall'uomo _ fosse pure il lavoro più «di
servizio», più monotono, nella scala del comune modo di valutazione,
addirittura più emarginante _ rimane sempre l'uomo stesso. 7. Una minaccia al giusto ordine dei
valori Proprio queste affermazioni basilari sul
lavoro sono sempre emerse dalle ricchezze della verità cristiana,
specialmente dal messaggio stesso del «Vangelo del lavoro», creando il
fondamento del nuovo modo di pensare, di valutare e di agire degli uomini.
Nell'epoca moderna, fin dall'inizio dell'èra industriale, la verità cristiana
sul lavoro doveva contrapporsi alle varie correnti del pensiero materialistico
ed economicistico. Per alcuni fautori di tali idee, il lavoro
era inteso e trattato come una specie di «merce», che il lavoratore _ e
specialmente l'operaio dell'industria _ vende al datore di lavoro, che è al
tempo stesso possessore del capitale, cioè dell'insieme degli strumenti di
lavoro e dei mezzi che rendono possibile la produzione. Questo modo di
concepire il lavoro era diffuso, in particolare, nella prima metà del secolo
XIX. In seguito le esplicite formulazioni di questo tipo sono
pressoché sparite, cedendo ad un modo più umano di pensare e di valutare il
lavoro. L'interazione fra l'uomo del lavoro e l'insieme degli strumenti e dei
mezzi di produzione ha dato luogo all'evolversi di diverse forme di
capitalismo _ parallelamente a diverse forme di collettivismo _ dove si sono
inseriti altri elementi socio-economici a seguito di nuove circostanze
concrete, dell'opera delle associazioni dei lavoratori e dei poteri pubblici,
dell'apparire di grandi imprese transnazionali. Ciononostante, il pericolo
di trattare il lavoro come una «merce sui generis», o come una anonima
«forza» necessaria alla produzione (si parla addirittura di «forza-lavoro»), esiste
sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica
sia caratterizzata dalle premesse dell'economismo materialistico. Un'occasione sistematica e, in certo qual
senso, perfino uno stimolo per questo modo di pensare e di valutare è
costituito dall'accelerato processo di sviluppo della civiltà unilateralmente
materialistica, nella quale si dà prima di tutto importanza alla dimensione
oggettiva del lavoro, mentre la dimensione soggettiva _ tutto ciò che è in
rapporto indiretto o diretto con lo stesso soggetto del lavoro _ rimane su di
un piano secondario. In tutti i casi di questo genere, in ogni situazione
sociale di questo tipo avviene una confusione o, addirittura, un'inversione
dell'ordine stabilito all'inizio con le parole del Libro della Genesi: l'uomo
viene trattato come uno strumento di produzione,(12) mentre egli _ egli
solo, indipendentemente dal lavoro che compie _ dovrebbe essere trattato come
suo soggetto efficiente e suo vero artefice e creatore. Proprio tale
inversione d'ordine, a prescindere dal programma e dalla denominazione
secondo cui essa si compie, meriterebbe _ nel senso indicato qui sotto più
ampiamente _ il nome di «capitalismo». Si sa che il capitalismo ha il suo
preciso significato storico in quanto sistema, e sistema economico-sociale,
in contrapposizione al «socialismo» o «comunismo». Ma, alla luce dell'analisi
della realtà fondamentale dell'intero processo economico e, prima di tutto,
della struttura di produzione _ quale appunto è il lavoro _ conviene
riconoscere che l'errore del primitivo capitalismo può ripetersi dovunque
l'uomo venga trattato, in un certo qual modo, al pari di tutto il complesso
dei mezzi materiali di produzione, come uno strumento e non invece secondo la
vera dignità del suo lavoro _ cioè come soggetto e autore, e per ciò stesso
come vero scopo di tutto il processo produttivo. Da questo si comprende come l'analisi del
lavoro umano fatta alla luce di quelle parole, che riguardano il «dominio»
dell'uomo sopra la terra, penetri al centro stesso della problematica
etico-sociale. Questa concezione dovrebbe pure trovare un posto centrale
in tutta la sfera della politica sociale ed economica, sia nell'ambito
dei singoli Paesi, sia in quello più vasto dei rapporti internazionali ed
intercontinentali, con particolare riferimento alle tensioni, che si
delineano nel mondo non solo sull'asse Oriente-Occidente, ma anche sull'asse
Nord-Sud. Hanno rivolto una decisa attenzione a queste dimensioni della
problematica etico-sociale contemporanea sia Giovanni XXIII nell'Enciclica Mater
et Magistra, sia Paolo VI nell'Enciclica Populorum Progressio. 8. Solidarietà degli uomini del
lavoro Se si tratta del lavoro umano nella
fondamentale dimensione del suo soggetto, cioè dell'uomo-persona che esegue
un dato lavoro, si deve da questo punto di vista fare almeno una sommaria
valutazione degli sviluppi, che nei novant'anni trascorsi dalla Rerum
Novarum sono avvenuti in rapporto all'aspetto soggettivo del lavoro.
Difatti, per quanto il soggetto del lavoro sia sempre lo stesso, cioè l'uomo,
tuttavia nell'aspetto oggettivo si verificano notevoli variazioni. Benché si
possa dire che il lavoro, a motivo del suo soggetto, è uno (uno
e ogni volta irripetibile), tuttavia, considerando le sue oggettive
direzioni, bisogna costatare che esistono molti lavori: tanti diversi
lavori. Lo sviluppo della civiltà umana porta in questo campo un
arricchimento continuo. Al tempo stesso, però, non si può non notare come nel
processo di questo sviluppo non solo compaiono nuove forme di lavoro, ma pure
che altre spariscono. Pur concedendo che in linea di massima questo sia un
fenomeno normale, bisogna, tuttavia, vedere se non si infiltrino in esso, e
in quale misura, certe irregolarità, che per motivi etico-sociali possono
essere pericolose. Proprio a motivo di una tale anomalia
di grande portata è nata nel secolo scorso la cosiddetta questione
operaia, definita a volte come «questione proletaria». Tale questione _ con i
problemi ad essa connessi _ ha dato origine ad una giusta reazione sociale,
ha fatto sorgere e quasi irrompere un grande slancio di solidarietà tra gli
uomini del lavoro e, prima di tutto, tra i lavoratori dell'industria.
L'appello alla solidarietà e all'azione comune, lanciato agli uomini del
lavoro _ soprattutto a quelli del lavoro settoriale, monotono,
spersonalizzante nei complessi industriali, quando la macchina tende a
dominare sull'uomo, _ aveva un suo importante valore e una sua eloquenza dal
punto di vista dell'etica sociale. Era la reazione contro la degradazione
dell'uomo come soggetto del lavoro, e contro l'inaudito, concomitante
sfruttamento nel campo dei guadagni, delle condizioni di lavoro e di
previdenza per la persona del lavoratore. Tale reazione ha riunito il mondo
operaio in una comunità caratterizzata da una grande solidarietà. Sulle orme dell'Enciclica Rerum Novarum
e di molti documenti successivi del Magistero della Chiesa bisogna
francamente riconoscere che fu giustificata, dal punto di vista della
morale sociale, la reazione contro il sistema di ingiustizia e di danno,
che gridava vendetta al cospetto del Cielo(13), e che pesava sull'uomo del
lavoro in quel periodo di rapida industrializzazione. Questo stato di cose
era favorito dal sistema socio-politico liberale che, secondo le sue premesse
di economismo, rafforzava e assicurava l'iniziativa economica dei soli
possessori del capitale, ma non si preoccupava abbastanza dei diritti
dell'uomo del lavoro, affermando che il lavoro umano è soltanto uno strumento
di produzione e che il capitale e il fondamento, il coefficiente e lo scopo
della produzione. Da allora, la solidarietà degli uomini del
lavoro, insieme con una presa di coscienza più netta e più impegnativa circa
i diritti dei lavoratori da parte degli altri, ha prodotto in molti casi
cambiamenti profondi. Si sono escogitati diversi nuovi sistemi. Si sono
sviluppate diverse forme di neo-capitalismo o di collettivismo. Non di rado
gli uomini del lavoro possono partecipare, ed effettivamente partecipano,
alla gestione ed al controllo della produttività delle imprese. Per il
tramite di appropriate associazioni, essi influiscono sulle condizioni di
lavoro e di rimunerazione, come anche sulla legislazione sociale. Ma nello
stesso tempo vari sistemi ideologici o di potere, come anche nuove relazioni,
sorte ai diversi livelli della convivenza umana, hanno lasciato persistere
ingiustizie flagranti o ne hanno creato di nuove. A livello mondiale, lo
sviluppo della civiltà e delle comunicazioni ha reso possibile una più
completa diagnosi delle condizioni di vita e di lavoro dell'uomo in tutta la
terra, ma ha anche messo in luce altre modalità di ingiustizia, ben più vaste
di quelle che, nel secolo scorso, stimolarono l'unione degli uomini del
lavoro per una particolare solidarietà nel mondo operaio. Così nei Paesi che
hanno già compiuto un certo processo di rivoluzione industriale; così anche nei
Paesi nei quali il cantiere primario del lavoro non cessa di essere la
coltivazione della terra, o altre occupazioni ad essa consimili. Movimenti di solidarietà nel campo del
lavoro _ di una solidarietà che non deve mai essere chiusura al dialogo e
alla collaborazione con gli altri _ possono essere necessari anche in
riferimento alle condizioni di ceti sociali che prima non erano in essi
compresi, ma che subiscono, nei sistemi sociali e nelle condizioni di vita
che cambiano, un'effettiva «proletarizzazione», o addirittura si
trovano in realtà già in una condizione di «proletariato», la quale, anche se
non ancora conosciuta con questo nome, di fatto è tale da meritarlo. In
questa condizione possono trovarsi alcune categorie o gruppi
dell'«intellighenzia» lavorativa, specialmente quando insieme con l'accesso
sempre più largo all'istruzíone, col numero sempre crescente delle persone,
che hanno conseguito diplomi per la loro preparazione culturale, diminuisce
il fabbisogno del loro lavoro. Tale disoccupazione degli intellettuali avviene
o aumenta, quando l'istruzione accessibile non è orientata verso i tipi di
impiego o di servizi richiesti dai veri bisogni della società, o quando il
lavoro, per il quale si esige l'istruzione, almeno professionale, è meno
ricercato o meno pagato di un lavoro manuale. E ovvio che l'istruzione di per
se stessa costituisce sempre un valore ed un importante arricchimento della
persona umana; ma ciononostante, taluni processi di «proletarizzazione»
restano possibili indipendentemente da questo fatto. Perciò, bisogna continuare a interrogarsi
circa il soggetto del lavoro e le condizioni in cui egli vive. Per
realizzare la giustizia sociale nelle varie parti del mondo, nei vari Paesi e
nei rapporti tra di loro, sono necessari sempre nuovi movimenti di
solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini
del lavoro. Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo
richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento
dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La
Chiesa e vivamente impegnata in questa causa, perché la considera come sua
missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde essere
veramente la «Chiesa dei poveri». E i «poveri» compaiono sotto diverse
specie; compaiono in diversi posti e in diversi momenti; compaiono in molti
casi come risultato della violazione della dignità del lavoro umano: sia
perché vengono limitate le possibilità del lavoro _ cioè per la piaga della
disoccupazione _, sia perché vengono svalutati il lavoro ed i diritti che da
esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza
della persona del lavoratore e della sua famiglia. 9. Lavoro: dignità della persona Rimanendo ancora nella prospettiva dell'uomo
come soggetto del lavoro, ci conviene toccare, almeno sinteticamente, alcuni
problemi che definiscono più da vicino la dignità del lavoro umano, poiché
permettono di caratterizzare più pienamente il suo specifico valore morale.
Occorre far questo tenendo sempre davanti agli occhi quella vocazione biblica
a «soggiogare la terra»(14), nella quale si è espressa la volontà del
Creatore, perché il lavoro rendesse possibile all'uomo di raggiungere quel
«dominio» che gli è proprio nel mondo visibile. La fondamentale e primordiale intenzione
di Dio nei riguardi dell'uomo, che Egli «creò ... a sua somiglianza, a sua
immagine»(15), non è stata ritrattata né cancellata neppure quando l'uomo,
dopo aver infranto l'originaria alleanza con Dio, udì le parole: «Col sudore
del tuo volto mangerai il pane»(16). Queste parole si riferiscono alla fatica
a volte pesante, che da allora accompagna il lavoro umano; però, non
cambiano il fatto che esso è la via sulla quale l'uomo realizza il
«dominio», che gli è proprio, sul mondo visibile «soggiogando» la terra.
Questa fatica è un fatto universalmente conosciuto, perché universalmente
sperimentato. Lo sanno gli uomini del lavoro manuale, svolto talora in
condizioni eccezionalmente gravose. Lo sanno non solo gli agricoltori, che
consumano lunghe giornate nel coltivare la terra, la quale a volte «produce
pruni e spine»(17), ma anche i minatori nelle miniere o nelle cave di pietra,
i siderurgici accanto ai loro altiforni, gli uomini che lavorano nei cantieri
edili e nel settore delle costruzioni in frequente pericolo di vita o di
invalidità. Lo sanno, al tempo stesso, gli uomini legati al banco del lavoro
intellettuale, lo sanno gli scienziati, lo sanno gli uomini sui quali grava
la grande responsabilità di decisioni destinate ad avere vasta rilevanza
sociale. Lo sanno i medici e gli infermieri, che vigilano giorno e notte
accanto ai malati. Lo sanno le donne,che, talora senza adeguato
riconoscimento da parte della società e degli stessi familiari, portano ogni
giorno la fatica e la responsabilità della casa e dell'educazione dei figli. Lo
sanno tutti gli uomini del lavoro e, poiché è vero che il lavoro è una
vocazione universale, lo sanno tutti gli uomini. Eppure, con tutta questa fatica _ e forse,
in un certo senso, a causa di essa _ il lavoro è un bene dell'uomo. Se questo
bene comporta il segno di un «bonum arduum», secondo la terminologia di San
Tommaso(18), ciò non toglie che, come tale, esso sia un bene dell'uomo. Ed è
non solo un bene «utile» o «da fruire», ma un bene «degno», cioè
corrispondente alla dignità dell'uomo, un bene che esprime questa dignità e
la accresce. Volendo meglio precisare il significato etico del lavoro, si
deve avere davanti agli occhi prima di tutto questa verità. Il lavoro è un
bene dell'uomo _ è un bene della sua umanità _, perché mediante il lavoro
l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie
necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo
senso, «diventa più uomo». Senza questa considerazione non si può
comprendere il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente
non si può comprendere perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù:
infatti, la virtù, come attitudine morale, è ciò per cui l'uomo diventa buono
in quanto uomo(19). Questo fatto non cambia per nulla la nostra giusta
preoccupazione, affinché nel lavoro, mediante il quale la materia viene
nobilitata, l'uomo stesso non subisca una diminuzione della
propria dignità(20). E noto, ancora, che è possibile usare variamente il
lavoro contro l'uomo, che si può punire l'uomo col sistema del lavoro
forzato nei lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione
dell'uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè
l'uomo del lavoro. Tutto ciò depone in favore dell'obbligo morale di unire la
laboriosità come virtù con l'ordine sociale del lavoro, che permetterà
all'uomo di «diventare più uomo» nel lavoro, e non già di degradarsi a causa
del lavoro, logorando non solo le forze fisiche (il che, almeno fino a un
certo grado, e inevitabile), ma soprattutto intaccando la dignità e
soggettività, che gli sono proprie. 10. Lavoro e società: famiglia,
nazione Confermata in questo modo la dimensione
personale del lavoro umano, si deve poi arrivare al secondo cerchio di
valori, che e ad esso necessariamente unito. Il lavoro è il fondamento su
cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una
vocazione dell'uomo. Questi due cerchi di valori _ uno congiunto al lavoro,
l'altro conseguente al carattere familiare della vita umana _ devono unirsi
tra sé correttamente, e correttamente permearsi. Il lavoro è, in un certo
modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia,
poiché questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l'uomo
acquista mediante il lavoro. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il
processo di educazione nella famiglia, proprio per la ragione che
ognuno «diventa uomo», fra l'altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo
esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo.
Evidentemente qui entrano in gioco, in un certo senso, due aspetti del
lavoro: quello che consente la vita ed il mantenimento della famiglia, e
quello mediante il quale si realizzano gli scopi della famiglia stessa, soprattutto
l'educazione. Ciononostante, questi due aspetti del lavoro sono uniti tra di
loro e si completano in vari punti. Nell'insieme si deve ricordare ed
affermare che la famiglia costituisce uno dei più importanti termini di
riferimento, secondo i quali deve essere formato l'ordine socio-etico del
lavoro umano. La dottrina della Chiesa ha sempre dedicato una speciale
attenzione a questo problema, e nel presente documento occorrerà che
ritorniamo ancora su di esso. Infatti, la famiglia è, al tempo stesso, una comunità
resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per
ogni uomo. Il terzo cerchio di valori che emerge
nella presente prospettiva _ nella prospettiva del soggetto del lavoro _
riguarda quella grande società, alla quale l'uomo appartiene in base a
particolari legami culturali e storici. Tale società _ anche quando non ha
ancora assunto la forma matura di una nazione _ è non soltanto la grande
«educatrice» di ogni uomo, benché indiretta (perché ognuno assume nella
famiglia i contenuti e valori che compongono, nel suo insieme, la cultura di
una data nazione), ma è anche una grande incarnazione storica e sociale del
lavoro di tutte le generazioni. Tutto questo fa sì che l'uomo unisca la sua
più profonda identità umana con l'appartenenza alla nazione, ed intenda il
suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi
compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a
moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi
nel mondo. Questi tre cerchi conservano
permanentemente la loro importanza per il lavoro umano nella sua
dimensione soggettiva. E tale dimensione, cioè la concreta realtà dell'uomo
del lavoro, ha la precedenza sulla dimensione oggettiva. Nella dimensione
soggettiva si realizza, prima di tutto, quel «dominio» sul mondo della
natura, al quale l'uomo è chiamato sin dall'inizio secondo le parole del
Libro della Genesi. Se il processo stesso di «soggiogare la terra», cioè il
lavoro sotto l'aspetto della tecnica, è segnato nel corso della storia e,
specialmente, negli ultimi secoli, da uno sviluppo immenso dei mezzi
produttivi, allora questo è un fenomeno vantaggioso e positivo, a condizione
che la dimensione oggettiva del lavoro non prenda il sopravvento sulla
dimensione soggettiva, togliendo all'uomo o diminuendo la sua dignità e i
suoi inalienabili diritti. III IL
CONFLITTO TRA LAVORO E CAPITALE 11. Dimensioni di tale conflitto L'abbozzo della fondamentale problematica
del lavoro qual è stato delineato sopra, come si riferisce ai primi testi
biblici, così costituisce, in un certo senso, la stessa struttura portante
dell'insegnamento della Chiesa, che si mantiene immutato attraverso i secoli,
nel contesto delle varie esperienze della storia. Tuttavia, sullo sfondo
delle esperienze che hanno preceduto la pubblicazione dell'Enciclica Rerum
Novarum e che l'hanno seguita, esso acquista una particolare espressività
ed un'eloquenza di viva attualità. Il lavoro appare in questa analisi come
una grande realtà, che esercita un fondamentale influsso sulla formazione in
senso umano del mondo affidato all'uomo dal Creatore, ed è una realtà
strettamente legata all'uomo, come al proprio soggetto, ed al suo razionale
operare. Questa realtà, nel corso normale delle cose, riempie la vita umana e
incide fortemente sul suo valore e sul suo senso. Anche se unito con la
fatica e con lo sforzo, il lavoro non cessa di essere un bene, sicché l'uomo
si sviluppa mediante l'amore per il lavoro. Questo carattere del lavoro
umano, del tutto positivo e creativo, educativo e meritorio, deve
costituire il fondamento delle valutazioni e delle decisioni, che oggi si
prendono nei suoi riguardi, anche in riferimento ai diritti soggettivi
dell'uomo, come attestano le Dichiarazioni internazionali ed anche
i molteplici Codici del lavoro, elaborati sia dalle competenti
istituzioni legislative dei singoli Paesi, sia dalle Organizzazioni che
dedicano la loro attività sociale o anche scientifico-sociale alla
problematica del lavoro. Un organismo che promuove a livello internazionale
tali iniziative è l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, la più
antica Istituzione specializzata dell'ONU. Nella parte successiva delle presenti
considerazioni ho intenzione di ritornare in modo più dettagliato su questi
importanti problemi, ricordando almeno gli elementi fondamentali della
dottrina della Chiesa intorno a questo tema. Prima però conviene toccare un
cerchio molto importante di problemi, tra i quali si e venuto formando questo
insegnamento nell'ultima fase, cioè nel periodo, la cui data, in un certo
senso simbolica, è l'anno della pubblicazione dell'Enciclica Rerum
Novarum. E' noto che in tutto questo periodo, il
quale non è affatto ancora terminato, il problema del lavoro è stato posto in
base al grande conflitto, che nell'epoca dello sviluppo industriale ed
insieme con esso si è manifestato tra il «mondo del capitale» e il «mondo
del lavoro», cioè tra il gruppo ristretto, ma molto influente, degli
imprenditori, proprietari o detentori dei mezzi di produzione, e la più vasta
moltitudine di gente che era priva di questi mezzi, e che partecipava,
invece, al processo produttivo esclusivamente mediante il lavoro. Tale
conflitto è stato originato dal fatto che i lavoratori mettevano le loro
forze a disposizione del gruppo degli imprenditori, e che questo, guidato dal
principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il
salario più basso possibile per il lavoro eseguito dagli operai. A ciò
bisogna aggiungere anche altri elementi di sfruttamento, collegati con la
mancanza di sicurezza nel lavoro ed anche di garanzie circa le condizioni di
salute e di vita degli operai e delle loro famiglie. Questo conflitto, interpretato da certuni
come un conflitto socio-economico a carattere di classe, ha
trovato la sua espressione nel conflitto ideologico tra il
liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, ed il marxismo, inteso
come ideologia del socialismo scientifico e del comunismo, che pretende di
intervenire in veste di portavoce della classe operaia, di tutto il
proletariato mondiale. In questo modo il reale conflitto, che esisteva tra il
mondo del lavoro ed il mondo del capitale, si è trasformato nella lotta
programmata di classe, condotta con metodi non solo ideologici, ma
addirittura, e prima di tutto, politici. E' nota la storia di questo
conflitto, come note sono anche le richieste dell'una e dell'altra parte. Il
programma marxista, basato sulla filosofia di Marx e di Engels, vede nella
lotta di classe l'unica via per l'eliminazione delle ingiustizie di classe,
esistenti nella società, e delle classi stesse. L'attuazione di questo
programma premette la collettivizzazione dei mezzi di produzione, affinché,
mediante il trasferimento di questi mezzi dai privati alla collettività, il
lavoro umano venga preservato dallo sfruttamento. A questo tende la lotta condotta con
metodi non solo ideologici, ma anche politici. I raggruppamenti, ispirati
dall'ideologia marxista come partiti politici, tendono, in funzione del
principio della «dittatura del proletariato» ed esercitando influssi di vario
tipo, compresa la pressione rivoluzionaria, al monopolio del potere nelle
singole società, per introdurre in esse, mediante l'eliminazione della
proprietà privata dei mezzi di produzione, il sistema collettivistico.
Secondo i principali ideologi e capi di questo ampio movimento
internazionale, lo scopo di un tale programma di azione è quello di compiere
la rivoluzione sociale e di introdurre in tutto il mondo il socialismo e, in
definitiva, il sistema comunista. Toccando questo cerchio estremamente
importante di problemi, che costituiscono non solo una teoria, ma proprio un
tessuto di vita socio-economica, politica e internazionale della nostra
epoca, non si può e non è nemmeno necessario entrare in particolari, poiché
questi sono conosciuti sia grazie ad una vasta letteratura, sia in base alle
esperienze pratiche. Si deve, invece, risalire dal loro contesto al problema
fondamentale del lavoro umano, al quale sono dedicate soprattutto le considerazioni
contenute nel presente documento. Al tempo stesso, infatti, è evidente che
questo problema capitale, sempre dal punto di vista dell'uomo _ problema che
costituisce una delle fondamentali dimensioni della sua esistenza terrena e
della sua vocazione _, non può essere altrimenti spiegato se non tenendo
conto del pieno contesto della realtà contemporanea. 12. Priorità del lavoro Di fronte all'odierna realtà, nella cui
struttura si trovano così profondamente inscritti tanti conflitti causati
dall'uomo, e nella quale i mezzi tecnici _ frutto del lavoro umano _ giocano
un ruolo primario (si pensi qui anche alla prospettiva di un cataclisma
mondiale nell'eventualità di una guerra nucleare dalle possibilità
distruttive quasi inimmaginabili), si deve prima di tutto ricordare un
principio sempre insegnato dalla Chiesa. Questo è il principio della
priorità del «lavoro» nei confronti del «capitale». Questo principio
riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale
il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il
«capitale», essendo l'insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento
o la causa strumentale. Questo principio è verità evidente che risulta da
tutta l'esperienza storica dell'uomo. Quando nel primo capitolo della Bibbia
sentiamo che l'uomo deve soggiogare la terra, noi sappiamo che queste parole
si riferiscono a tutte le risorse, che il mondo visibile racchiude in sé,
messe a disposizione dell'uomo. Tuttavia, tali risorse non possono servire
all'uomo se non mediante il lavoro. Col lavoro rimane pure legato sin
dall'inizio il problema della proprietà: infatti, per far servire a sé e agli
altri le risorse nascoste nella natura, l'uomo ha come unico mezzo il suo
lavoro. E per poter far fruttificare queste risorse per il tramite del suo
lavoro, l'uomo si appropria di piccole parti delle diverse ricchezze della
natura: del sottosuolo, del mare, della terra, dello spazio. Di tutto questo
egli si appropria facendone il suo banco di lavoro. Se ne appropria mediante il
lavoro e per un ulteriore lavoro. Lo stesso principio si applica alle fasi
successive di questo processo, nel quale la prima fase rimane sempre
la relazione dell'uomo con le risorse e con le ricchezze della natura. Tutto
lo sforzo conoscitivo, tendente a scoprire queste ricchezze, a individuare le
varie possibilità della loro utilizzazione da parte dell'uomo e per l'uomo,
ci rende consapevoli che tutto ciò che nell'intera opera di produzione
economica proviene dall'uomo, sia il lavoro come pure l'insieme dei mezzi di
produzione e la tecnica collegata con essi (cioè la capacità di adoperare
questi mezzi nel lavoro), suppone queste ricchezze e risorse del mondo
visibile, che l'uomo trova, ma non crea. Egli le trova, in un certo
senso, già pronte, preparate per la scoperta conoscitiva e per la corretta
utilizzazione nel processo produttivo. In ogni fase dello sviluppo del suo
lavoro, l'uomo si trova di fronte al fatto della principale donazione da
parte della «natura», e cioè in definitiva da parte del Creatore. All'inizio
del lavoro umano sta il mistero della creazione. Questa affermazione, già
indicata come punto di partenza, costituisce il filo conduttore di questo
documento, e verrà sviluppata ulteriormente nell'ultima parte delle presenti
riflessioni. La successiva considerazione dello stesso
problema deve confermarci nella convinzione circa la priorità del lavoro
umano in rapporto a ciò che, col passar del tempo, si è abituati a
chiamare «capitale». Se infatti nell'àmbito di quest'ultimo concetto
rientrano, oltre che le risorse della natura messe a disposizione dell'uomo,
anche quell'insieme di mezzi, mediante i quali l'uomo se ne appropria,
trasformandole a misura delle sue necessità (e in questo modo, in qualche
senso, «umanizzandole»), allora già qui si deve costatare che quell'insieme
di mezzi è frutto del patrimonio storico del lavoro umano. Tutti i mezzi
di produzione, dai più primitivi fino a quelli ultramoderni, è l'uomo che li
ha gradualmente elaborati: l'esperienza e l'intelletto dell'uomo. In questo
modo sono sorti non solo gli strumenti più semplici che servono alla
coltivazione della terra, ma anche _ con un adeguato progresso della scienza
e della tecnica _ quelli più moderni e complessi: le macchine, le fabbriche,
i laboratori e i computers. Così, tutto ciò che serve al lavoro, tutto
ciò che costituisce _ allo stato odierno della tecnica _ il suo «strumento»
sempre più perfezionato, è frutto del lavoro. Questo gigantesco e potente strumento _
l'insieme dei mezzi di produzione, che sono considerati, in un certo senso,
come sinonimo di «capitale» _, è nato dal lavoro e porta su di sé i segni del
lavoro umano. Al presente grado di avanzamento della tecnica, l'uomo, che è
il soggetto del lavoro, volendo servirsi di quest'insieme di moderni
strumenti, ossia dei mezzi di produzione, deve prima assimilare sul piano
della conoscenza il frutto del lavoro degli uomini che hanno scoperto quegli
strumenti, che li hanno programmati, costruiti e perfezionati, e che
continuano a farlo. La capacità di lavoro _ cioè di partecipazione
efficiente al moderno processo di produzione _ esige una preparazione sempre
maggiore e, prima di tutto, un'adeguata istruzione. Resta chiaro
ovviamente che ogni uomo, che partecipa al processo di produzione, anche nel
caso che esegua solo quel tipo di lavoro, per il quale non sono necessari una
particolare istruzione e speciali qualificazioni, è tuttavia in questo
processo di produzione il vero soggetto efficiente, mentre l'insieme degli
strumenti, anche il più perfetto in se stesso, è solo ed esclusivamente
strumento subordinato al lavoro dell'uomo. Questa verità, che appartiene al
patrimonio stabile della dottrina della Chiesa, deve esser sempre
sottolineata in relazione al problema del sistema di lavoro, ed anche di
tutto il sistema socio-economico. Bisogna sottolineare e mettere in risalto
il primato dell'uomo nel processo di produzione, il primato dell'uomo di
fronte alle cose. Tutto ciò che è contenuto nel concetto di «capitale» _
in senso ristretto _ è solamente un insieme di cose. L'uomo come soggetto del
lavoro, ed indipendentemente dal lavoro che compie, l'uomo, egli solo, è una
persona. Questa verità contiene in sé conseguenze importanti e decisive. 13. Economismo e materialismo Prima di tutto, alla luce di questa
verità, si vede chiaramente che non si può separare il «capitale» dal lavoro,
e che in nessun modo si può contrapporre il lavoro al capitale né il capitale
al lavoro, né ancora meno _ come si spiegherà più avanti _ gli uomini
concreti, che sono dietro a questi concetti, gli uni agli altri. Retto, cioè
conforme all'essenza stessa del problema; retto, cioè intrinsecamente vero e
al tempo stesso moralmente legittimo, può essere quel sistema di lavoro che
alle sue stesse basi supera l'antinomia tra lavoro e capitale, cercando
di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della sostanziale ed
effettiva priorità del lavoro, della soggettività del lavoro umano e della
sua efficiente partecipazione a tutto il processo di produzione, e ciò
indipendentemente dalla natura delle prestazioni che sono eseguite dal
lavoratore. L'antinomia tra lavoro e capitale non ha
la sua sorgente nella struttura dello stesso processo di produzione, e
neppure in quella del processo economico. In generale questo processo
dimostra, infatti, la reciproca compenetrazione tra il lavoro e ciò che siamo
abituati a chiamare il capitale; dimostra il loro legame indissolubile.
L'uomo, lavorando a qualsiasi banco di lavoro, sia esso relativamente
primitivo oppure ultra-moderno, può rendersi conto facilmente che col suo
lavoro entra in un duplice patrimonio, cioè nel patrimonio di ciò che è
dato a tutti gli uomini nelle risorse della natura, e di ciò che gli altri
hanno già in precedenza elaborato sulla base di queste risorse, prima di
tutto sviluppando la tecnica, cioè formando un insieme di strumenti di lavoro
sempre più perfetti: l'uomo, lavorando, al tempo stesso «subentra nel lavoro
degli altri»(21). Accettiamo senza difficoltà una tale immagine del campo e del
processo del lavoro umano, guidati sia dall'intelligenza sia dalla fede che
attinge la luce dalla Parola di Dio. E' questa un'immagine coerente,
teologica ed insieme umanistica. L'uomo è in essa il «padrone» delle
creature, che sono messe a sua disposizione nel mondo visibile. Se nel
processo del lavoro si scopre qualche dipendenza, questa è la dipendenza dal
Datore di tutte le risorse della creazione, ed è a sua volta la dipendenza da
altri uomini, da coloro al cui lavoro ed alle cui iniziative dobbiamo le già
perfezionate e ampliate possibilità del nostro lavoro. Di tutto ciò che nel
processo di produzione costituisce un insieme di «cose», degli strumenti, del
capitale, possiamo solo affermare che esso condiziona il lavoro
dell'uomo; non possiamo, invece, affermare che esso costituisca quasi il
«soggetto» anonimo che rende dipendente l'uomo e il suo lavoro. La rottura di questa coerente immagine,
nella quale è strettamente salvaguardato il principio del primato della
persona sulle cose, si è compiuta nel pensiero umano, talvolta dopo un
lungo periodo di incubazione nella vita pratica. E si è compiuta in modo tale
che il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto al capitale, e il
capitale contrapposto al lavoro, quasi come due forze anonime, due fattori di
produzione messi insieme nella stessa prospettiva «economistica». In tale
impostazione del problema vi era l'errore fondamentale, che si può chiamare l'errore
dell'economismo, se si considera il lavoro umano esclusivamente secondo
la sua finalità economica. Si può anche e si deve chiamare questo errore
fondamentale del pensiero un errore del materialismo, in quanto
l'economismo include, direttamente o indirettamente, la convinzione del
primato e della superiorità di ciò che è materiale, mentre invece esso
colloca ciò che è spirituale e personale (l'operare dell'uomo, i valori
morali e simili), direttamente o indirettamente, in una posizione subordinata
alla realtà materiale. Questo non è ancora il materialismo teorico nel
pieno senso della parola; però, è già certamente materialismo pratico, il
quale, non tanto in virtù delle premesse derivanti dalla teoria
materialistica, quanto in virtù di un determinato modo di valutare, quindi di
una certa gerarchia dei beni, basata sulla immediata e maggiore attrattiva di
ciò che è materiale, è giudicato capace di appagare i bisogni dell'uomo. L'errore di pensare secondo le categorie
dell'economismo è andato di pari passo col sorgere della filosofia
materialistica, con lo sviluppo di questa filosofia dalla fase più elementare
e comune (chiamata anche materialismo volgare, perché pretende di ridurre la
realtà spirituale ad un fenomeno superfluo) alla fase del cosiddetto
materialismo dialettico. Sembra tuttavia che _ nel quadro delle presenti
riflessioni _, per il fondamentale problema del lavoro umano e, in
particolare, per quella separazione e contrapposizione tra «lavoro» e
«capitale», come tra due fattori della produzione considerati in quella
stessa prospettiva «economistica», di cui sopra, l'economismo abbia avuto
un'importanza decisiva ed abbia influito, proprio su tale impostazione
non-umanistica di questo problema, prima del sistema filosofico
materialistico. Nondimeno, è cosa evidente che il materialismo, anche nella
sua forma dialettica, non è in grado di fornire alla riflessione sul lavoro
umano basi sufficienti e definitive, perché il primato dell'uomo sullo
strumento-capitale, il primato della persona sulle cose, possa trovare in
esso un'adeguata ed irrefutabile verifica e appoggio. Anche nel
materialismo dialettico l'uomo non è, prima di tutto, soggetto del lavoro e
causa efficiente del processo di produzione, ma rimane inteso e trattato in
dipendenza da ciò che è materiale, come una specie di «risultante» dei
rapporti economici e di produzione, predominanti in una data epoca. Evidentemente l'antinomia tra lavoro e
capitale qui considerata _ l'antinomia nel cui quadro il lavoro è
stato separato dal capitale e contrapposto ad esso, in un certo senso
onticamente, come se fosse un elemento qualsiasi del processo economico _ ha
inizio non solamente nella filosofia e nelle teorie economiche del secolo
XVIII, ma molto più ancora in tutta la prassi economico-sociale di quel
tempo, che era quello dell'industrializzazione che nasceva e si sviluppava
precipitosamente, nella quale si scopriva in primo luogo la possibilità di
moltiplicare grandemente le ricchezze materiali, cioè i mezzi, ma si perdeva
di vista il fine, cioè l'uomo, al quale questi mezzi devono servire. Proprio
questo errore di ordine pratico ha colpito prima di tutto il
lavoro umano, l'uomo del lavoro, e ha causato la reazione sociale,
eticamente giusta, della quale si è già parlato. Lo stesso errore, che ormai
ha il suo determinato aspetto storico, legato col periodo del primitivo
capitalismo e liberalismo, può però ripetersi in altre circostanze di tempo e
di luogo, se si parte, nel ragionamento, dalle stesse premesse sia teoriche
che pratiche. Non si vede altra possibilità di un superamento radicale di
questo errore, se non intervengono adeguati cambiamenti sia nel campo della
teoria, come in quello della pratica, cambiamenti che procedano su una
linea di decisa convinzione del primato della persona sulle cose, del lavoro
dell'uomo sul capitale come insieme dei mezzi di produzione. 14. Lavoro e proprietà Il processo storico _ qui brevemente
presentato _ che è certo uscito dalla sua fase iniziale, ma che continua ad
essere in vigore, anzi ad estendersi nei rapporti tra le nazioni e i
continenti, esige una precisazione anche da un altro punto di vista. E'
evidente che, quando si parla dell'antinomia tra lavoro e capitale, non si
tratta solo di concetti astratti o di «forze anonime», operanti nella
produzione economica. Dietro l'uno e l'altro concetto ci sono gli uomini, gli
uomini vivi, concreti; da una parte coloro, che eseguono il lavoro senza
essere proprietari dei mezzi di produzione, e dall'altra coloro, che fungono
da imprenditori e sono i proprietari di questi mezzi, oppure rappresentano i
proprietari. Così, quindi, nell'insieme di questo difficile processo storico,
sin dall'inizio si inserisce il problema della proprietà. L'Enciclica Rerum
Novarum, che ha come tema la questione sociale, pone l'accento anche su
questo problema, ricordando e confermando la dottrina della Chiesa sulla
proprietà, sul diritto di proprietà privata, anche quando si tratta dei mezzi
di produzione. Lo stesso ha fatto l'Enciclica Mater et Magistra. Il suddetto principio, così come fu allora
ricordato e come è tuttora insegnato dalla Chiesa, diverge radicalmente
dal programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato
in vari Paesi del mondo nei decenni seguiti all'epoca dell'Enciclica di Leone
XIII. Esso, al tempo stesso, differisce dal programma del capitalismo praticato
dal liberalismo e dai sistemi politici, che ad esso si richiamano. In questo
secondo caso, la differenza consiste nel modo di intendere lo stesso diritto
di proprietà. La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto
come un qualcosa di assoluto ed intoccabile. Al contrario, essa l'ha sempre
inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni
dell'intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato
al diritto dell'uso comune, alla destinazione universale dei beni. Inoltre, la proprietà secondo l'insegnamento
della Chiesa non è stata mai intesa in modo da poter costituire un motivo di
contrasto sociale nel lavoro. Come è già stato ricordato precedentemente in
questo testo, la proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro
perché essa serva al lavoro. Ciò riguarda in modo particolare la proprietà
dei mezzi di produzione. Il considerarli isolatamente come un insieme di
proprietà a parte al fine di contrapporlo nella forma del «capitale» al
«lavoro» e ancor più di esercitare lo sfruttamento del lavoro, è contrario
alla natura stessa di questi mezzi e del loro possesso. Essi non possono
essere posseduti contro il lavoro, non possono essere neppure posseduti
per possedere, perché l'unico titolo legittimo al loro possesso _ e ciò
sia nella forma della proprietà privata, sia in quella della proprietà
pubblica o collettiva _ è che essi servano al lavoro; e che
conseguentemente, servendo al lavoro, rendano possibile la realizzazione del
primo principio di quell'ordine, che è la destinazione universale dei beni e
il diritto al loro uso comune. Da questo punto di vista, quindi, in
considerazione del lavoro umano e dell'accesso comune ai beni destinati
all'uomo, è anche da non escludere la socializzazione, alle opportune
condizioni, di certi mezzi di produzione. Nello spazio dei decenni che ci
separano dalla pubblicazione dell'Enciclica Rerum Novarum, l'insegnamento
della Chiesa ha sempre ricordato tutti questi principi, risalendo agli
argomenti formulati nella tradizione molto più antica, per es. ai noti argomenti
della Summa Theologiae di San Tommaso d'Aquino(22). Nel presente documento, che ha come tema
principale il lavoro umano, conviene confermare tutto lo sforzo con cui
l'insegnamento della Chiesa sulla proprietà ha cercato e cerca sempre di assicurare
il primato del lavoro e, per ciò stesso, la soggettività dell'uomo
nella vita sociale e, specialmente, nella struttura dinamica di tutto il
processo economico. Da questo punto di vista, continua a rimanere
inaccettabile la posizione del «rigido» capitalismo, il quale difende
l'esclusivo diritto della proprietà privata dei mezzi di produzione come un
«dogma» intoccabile nella vita economica. Il principio del rispetto del
lavoro esige che questo diritto sia sottoposto ad una revisione costruttiva, sia
in teoria che in pratica. Se infatti è una verità che il capitale, come
l'insieme dei mezzi di produzione, è al tempo stesso il prodotto del lavoro
di generazioni, allora è parimente vero che esso si crea incessantemente
grazie al lavoro effettuato con l'aiuto di quest'insieme dei mezzi di
produzione, che appaiono come un grande banco di lavoro, al quale s'impegna,
giorno per giorno, la presente generazione dei lavoratori. Si tratta qui,
ovviamente, delle varie specie di lavoro, non solo del cosiddetto lavoro
manuale, ma anche del molteplice lavoro intellettuale, da quello di concetto
a quello direttivo. In questa luce acquistano un significato
di particolare rilievo le numerose proposte avanzate dagli esperti della
dottrina sociale cattolica ed anche dal supremo Magistero della Chiesa(23).
Sono, queste, le proposte riguardanti la comproprietà dei mezzi di
lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e/o ai profitti
delle imprese, il cosiddetto azionariato del lavoro, e simili.
Indipendentemente dall'applicabilità concreta di queste diverse proposte,
rimane evidente che il riconoscimento della giusta posizione del lavoro e
dell'uomo del lavoro nel processo produttivo esige vari adattamenti
nell'àmbito dello stesso diritto della proprietà dei mezzi di produzione; e
ciò prendendo in considerazione non solo le situazioni più antiche, ma prima
di tutto la realtà e la problematica, che si è creata nella seconda metà del
secolo in corso, per quanto riguarda il cosiddetto Terzo Mondo ed i vari
nuovi Paesi indipendenti che son sorti, specialmente ma non soltanto in
Africa, al posto dei territori coloniali di una volta. Se dunque la posizione del «rigido»
capitalismo deve essere continuamente sottoposta a revisione in vista di una
riforma sotto l'aspetto dei diritti dell'uomo, intesi nel modo più vasto e
connessi con il suo lavoro, allora dallo stesso punto di vista si deve
affermare che queste molteplici e tanto desiderate riforme non possono essere
realizzate mediante l'eliminazione aprioristica della proprietà
privata dei mezzi di produzione. Occorre, infatti, osservare che la
semplice sottrazione di quei mezzi di produzione (il capitale) dalle mani dei
loro proprietari privati non è sufficiente per socializzarli in modo
soddisfacente. Essi cessano di essere proprietà di un certo gruppo sociale,
cioè dei proprietari privati, per diventare proprietà della società
organizzata, venendo sottoposti all'amministrazione ed al controllo diretto
di un altro gruppo di persone, di quelle cioè che, pur non avendone la proprietà,
ma esercitando il potere nella società, dispongono di essi al livello
dell'intera economia nazionale oppure dell'economia locale. Questo gruppo dirigente e responsabile può
assolvere i suoi compiti in modo soddisfacente dal punto di vista del primato
del lavoro _ ma può anche adempierli male, rivendicando al tempo stesso per
sé il monopolio dell'amministrazione e della disposizione dei mezzi di
produzione e non arrestandosi neppure davanti all'offesa dei fondamentali
diritti dell'uomo. Così, quindi, il solo passaggio dei mezzi di produzione in
proprietà dello Stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente
alla «socializzazione» di questa proprietà. Si può parlare di socializzazione
solo quando sia assicurata la soggettività della società, cioè quando ognuno,
in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo
stesso il «com-proprietario» del grande banco di lavoro, al quale s'impegna
insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di
associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di
dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali,
culturali: corpi che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei
pubblici poteri, che perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di
leale collaborazione vicendevole, subordinatamente alle esigenze del bene
comune, e che presentino forma e sostanza di una viva comunità, cioè che in
essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come persone e
stimolati a prendere parte attiva alla loro vita(24). 15. Argomento
"personalistico" Così, quindi, il principio della
priorità del lavoro nei confronti
del capitale è un postulato appartenente all'ordine della morale sociale.
Tale postulato ha la sua importanza-chiave tanto nel sistema costruito sul
principio della proprietà privata dei mezzi di produzione, quanto nel sistema
in cui la proprietà privata di questi mezzi è stata limitata anche
radicalmente. Il lavoro è, in un certo senso, inseparabile dal capitale e non
accetta sotto nessuna forma quell'antinomia, cioè la separazione e la
contrapposizione in rapporto ai mezzi di produzione, che ha gravato sopra la
vita umana negli ultimi secoli, come risultato di premesse unicamente
economiche. Quando l'uomo lavora, servendosi dell'insieme dei mezzi di
produzione, egli al tempo stesso desidera che i frutti di questo lavoro
servano a lui e agli altri e che, nel processo stesso del lavoro, possa
apparire come corresponsabile e co-artefice al banco di lavoro, presso il
quale si applica. Da ciò nascono alcuni specifici diritti
dei lavoratori, che corrispondono all'obbligo del lavoro. Se ne parlerà in
seguito. Ma già qui bisogna sottolineare, in generale, che l'uomo che lavora
desidera non solo la debita remunerazione per il suo lavoro, ma
anche che sia presa in considerazione nel processo stesso di produzione la
possibilità che egli lavorando, anche in una proprietà comune, al tempo
stesso sappia di lavorare «in proprio». Questa
consapevolezza viene spenta in lui nel sistema di un'eccessiva
centralizzazione burocratica, nella quale il lavoratore si sente un
ingranaggio di un grande meccanismo mosso dall'alto e _ a più di un titolo _
un semplice strumento di produzione piuttosto che un vero soggetto di lavoro,
dotato di propria iniziativa. L'insegnamento della Chiesa ha sempre espresso
la ferma e profonda convinzione che il lavoro umano non riguarda soltanto
l'economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali. Il sistema
economico stesso e il processo di produzione traggono vantaggio proprio
quando questi valori personali sono pienamente rispettati. Secondo il
pensiero di San Tommaso d'Aquino(25), è soprattutto questa ragione che depone
in favore della proprietà privata dei mezzi stessi di produzione. Se
accettiamo che per certi, fondati motivi, eccezioni possono essere fatte al
principio della proprietà privata _ e nella nostra epoca siamo addirittura
testimoni che è stato introdotto il sistema della proprietà «socializzata» _,
tuttavia l'argomento personalistico non perde la sua forza né a
livello di principi, né a livello pratico. Per essere razionale e
fruttuosa, ogni socializzazione dei mezzi di produzione deve prendere in
considerazione questo argomento. Si deve fare di tutto perché l'uomo, anche in
un tale sistema, possa conservare la consapevolezza di lavorare «in proprio».
In caso contrario, in tutto il processo economico sorgono necessariamente
danni incalcolabili, e danni non solo economici, ma prima di tutto danni
nell'uomo. IV DIRITTI
DEGLI UOMINI DEL LAVORO 16 . Nel vasto contesto dei diritti
dell'uomo Se il lavoro _ nel molteplice senso di
questa parola _ è un obbligo, cioè un dovere, al tempo stesso esso è anche
una sorgente di diritti da parte del lavoratore. Questi diritti devono
essere esaminati nel vasto contesto dell'insieme dei diritti dell'uomo, che
gli sono connaturali, molti dei quali sono proclamati da varie istanze
internazionali e sempre maggiormente garantiti dai singoli Stati per i propri
cittadini. Il rispetto di questo vasto insieme di diritti dell'uomo
costituisce la condizione fondamentale per la pace nel mondo contemporaneo:
per la pace sia all'interno dei singoli Paesi e società, sia nell'àmbito dei
rapporti internazionali, come è già stato notato molte volte dal Magistero
della Chiesa, specialmente dal tempo dell'Enciclica Pacem in terris. I
diritti umani che scaturiscono dal lavoro rientrano precisamente nel
più vasto contesto di quei fondamentali diritti della persona. Tuttavia, nell'àmbito di questo contesto,
essi hanno un carattere specifico, rispondente alla specifica natura del
lavoro umano delineata precedentemente, e proprio secondo questo carattere
occorre guardarli. Il lavoro è _ come è stato detto _ un obbligo, cioè
un dovere dell'uomo, e ciò nel molteplice senso di questa parola. L'uomo
deve lavorare sia per il fatto che il Creatore gliel'ha ordinato, sia per il
fatto della sua stessa umanità, il cui mantenimento e sviluppo esigono il
lavoro. L'uomo deve lavorare per riguardo al prossimo, specialmente per
riguardo alla propria famiglia, ma anche alla società, alla quale appartiene,
alla nazione, della quale è figlio o figlia, all'intera famiglia umana, di
cui è membro, essendo erede del lavoro di generazioni e insieme co-artefice
del futuro di coloro che verranno dopo di lui nel succedersi della storia.
Tutto ciò costituisce l'obbligo morale del lavoro, inteso nella sua ampia
accezione. Quando occorrerà considerare i diritti morali di ogni uomo per
riguardo al lavoro, corrispondenti a questo obbligo, si dovrà avere sempre
davanti agli occhi l'intero vasto raggio di riferimenti, nei quali si
manifesta il lavoro di ogni soggetto lavorante. Infatti, parlando dell'obbligo del lavoro
e dei diritti del lavoratore corrispondenti a questo obbligo, noi abbiamo in
mente, prima di tutto, il rapporto tra il datore di lavoro _ diretto o
indiretto _ e il lavoratore stesso. La distinzione tra datore di lavoro
diretto ed indiretto pare molto importante in considerazione sia della reale
organizzazione del lavoro, sia della possibilità del formarsi di giusti od
ingiusti rapporti nel settore del lavoro. Se il datore di lavoro diretto è
quella persona o istituzione, con la quale il lavoratore stipula direttamente
il contratto di lavoro secondo determinate condizioni, allora come datore di
lavoro indiretto si devono intendere molti fattori differenziati, oltre
il datore di lavoro diretto, che esercitano un determinato influsso sul modo
in cui si formano sia il contratto di lavoro, sia, in conseguenza, i rapporti
più o meno giusti nel settore del lavoro umano. 17. Datore di lavoro:
"indiretto" e "diretto" Nel concetto di datore di lavoro indiretto
entrano sia le persone sia le istituzioni di vario tipo, come anche i
contratti collettivi di lavoro e i principi di comportamento,
stabiliti da queste persone ed istituzioni, i quali determinano tutto il
sistema socio-economico o da esso risultano. Il concetto di datore di
lavoro indiretto si riferisce così a molti e vari elementi. La responsabilità
del datore di lavoro indiretto è diversa da quella del datore di lavoro
diretto _ come indica la stessa parola: la responsabilità è meno diretta _,
ma essa rimane una vera responsabilità: il datore di lavoro indiretto
determina sostanzialmente l'uno o l'altro aspetto del rapporto di lavoro, e
condiziona in tal modo il comportamento del datore di lavoro diretto, quando
quest'ultimo determina concretamente il contratto ed i rapporti di lavoro.
Una costatazione del genere non ha come scopo quello di esimere quest'ultimo
dalla responsabilità che gli è propria, ma solamente di richiamare
l'attenzione su tutto l'intreccio di condizionamenti che influiscono sul suo
comportamento. Quando si tratta di stabilire una politica del lavoro
corretta dal punto di vista etico, bisogna tenere davanti agli occhi
tutti questi condizionamenti. Ed essa è corretta, allorché sono pienamente
rispettati gli oggettivi diritti dell'uomo del lavoro. Il concetto di datore di lavoro indiretto
si può applicare ad ogni singola società e, prima di tutto, allo Stato. E',
infatti, lo Stato che deve condurre una giusta politica del lavoro. E' noto,
però, che nel presente sistema dei rapporti economici nel mondo, si
verificano tra i singoli Stati molteplici collegamenti, che
si esprimono per esempio nel processo d'importazione e d'esportazione, cioè
nel reciproco scambio dei beni economici, siano essi le materie prime, o i
semilavorati, o, infine, i prodotti industriali finiti. Questi rapporti
creano anche reciproche dipendenze e, di conseguenza, sarebbe
difficile parlare di piena autosufficienza, cioè di autarchia, in riferimento
a qualunque Stato, fosse pure il più potente in senso economico. Un tale sistema di reciproche dipendenze è
normale in se stesso: tuttavia, può facilmente diventare occasione di varie forme
di sfruttamento o di ingiustizia, e, di conseguenza, influire sulla politica
di lavoro dei singoli stati ed, in ultima istanza, sul singolo lavoratore,
che è il soggetto proprio del lavoro. Ad esempio i Paesi altamente
industrializzati e, più ancora, le imprese che dirigono su grande scala i
mezzi di produzione industriale (le cosiddette società multinazionali o
transnazionali), dettano i prezzi più alti possibili per i loro prodotti,
cercando contemporaneamente di stabilire i prezzi più bassi possibili per le
materie prime o per i semilavorati, il che, fra altre cause, crea come
risultato una sproporzione sempre crescente tra i redditi nazionali dei
rispettivi Paesi. La distanza tra la maggior parte dei Paesi ricchi e i Paesi
più poveri non diminuisce e non si livella, ma aumenta sempre di più,
ovviamente a scapito di questi ultimi. E' evidente che ciò non può rimanere
senza effetto sulla politica locale del lavoro sulla situazione dell'uomo del
lavoro nelle società economicamente svantaggiate. Il datore diretto di
lavoro, trovandosi in un simile sistema di condizionamenti, fissa le
condizioni del lavoro al di sotto delle oggettive esigenze dei lavoratori,
specialmente se egli stesso vuole trarre i profitti più alti possibili
dall'impresa da lui condotta (oppure dalle imprese da lui condotte, se si
tratta di una situazione di proprietà «socializzata» dei mezzi di
produzione). Questo quadro delle dipendenze, relative
al concetto di datore indiretto di lavoro, è _ come è facile dedurre _
enormemente esteso e complicato. Per determinarlo si deve prendere in
considerazione, in un certo senso, l'insieme degli elementi decisivi
per la vita economica nel profilo di una data società e Stato; però si
deve, al tempo stesso, tener conto di collegamenti e di dipendenze molto più
vaste. La realizzazione dei diritti dell'uomo del lavoro non può, tuttavia,
essere condannata a costituire solamente un derivato dei sistemi economici, i
quali su scala più larga o più ristretta siano guidati soprattutto dal
criterio del massimo profitto. Al contrario, è precisamente il riguardo per i
diritti oggettivi dell'uomo del lavoro _ di ogni tipo di lavoratore: manuale,
intellettuale, industriale, agricolo, ecc. _ che deve costituire l'adeguato
e fondamentale criterio della formazione di tutta l'economia nella
dimensione sia di ogni società e di ogni Stato, sia nell'insieme della
politica economica mondiale e dei sistemi e rapporti internazionali, che ne
derivano. In questa direzione dovrebbero esercitare
il loro influsso tutte le Organizzazioni Internazionali a ciò
chiamate, cominciando dall'Organizzazione delle Nazioni Unite. Pare che
l'Organizzazione Mondiale del Lavoro (OIT), nonché l'Organizzazione delle
Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura (FAO) ed altre ancora, abbiano
da offrire nuovi contributi particolarmente su questo punto. Nell'àmbito dei
singoli Stati esistono ministeri o dicasteri del potere pubblico ed
anche vari Organismi sociali istituiti a questo scopo. Tutto ciò
indica efficacemente quale grande importanza abbia _ come è stato detto sopra
_ il datore di lavoro indiretto nella realizzazione del pieno rispetto dei
diritti dell'uomo del lavoro, perché i diritti della persona umana
costituiscono l'elemento chiave di tutto l'ordine morale sociale. 18. Il problema dell'occupazione Considerando i diritti degli uomini del
lavoro proprio in relazione a questo «datore di lavoro indiretto», cioè
all'insieme delle istanze a livello nazionale ed internazionale che sono
responsabili di tutto l'orientamento della politica del lavoro, si deve prima
di tutto rivolgere l'attenzione ad un problema fondamentale. Si tratta
del problema di avere un lavoro, cioè, in altre parole, del problema di un'occupazione
adatta per tutti i soggetti che ne sono capaci. L'opposto di una giusta e
corretta situazione in questo settore è la disoccupazione, cioè la mancanza
di posti di lavoro per i soggetti che di esso sono capaci. Può trattarsi di
mancanza di occupazione in genere, oppure in determinati settori di lavoro.
Il compito di queste istanze, che qui si comprendono sotto il nome di datore
di lavoro indiretto, è di agire contro la disoccupazione, la quale è
in ogni caso un male e, quando assume certe dimensioni, può diventare una
vera calamità sociale. Essa diventa un problema particolarmente doloroso,
quando vengono colpiti soprattutto i giovani, i quali, dopo essersi preparati
mediante un'appropriata formazione culturale, tecnica e professionale, non
riescono a trovare un posto di lavoro e vedono penosamente frustrate la loro
sincera volontà di lavorare e la loro disponibilità ad assumersi la propria
responsabilità per lo sviluppo economico e sociale della comunità. L'obbligo
delle prestazioni in favore dei disoccupati, il dovere cioè di corrispondere
le convenienti sovvenzioni indispensabili per la sussistenza dei lavoratori
disoccupati e delle loro famiglie, è un dovere che scaturisce dal principio
fondamentale dell'ordine morale in questo campo, cioè dal principio dell'uso
comune dei beni o, parlando in un altro modo ancora più semplice, dal diritto
alla vita ed alla sussistenza. Per contrapporsi al pericolo della
disoccupazione, per assicurare a tutti un'occupazione, le istanze che sono
state qui definite come datore di lavoro indiretto devono provvedere ad una pianificazione
globale in riferimento a quel banco di lavoro differenziato, presso il
quale si forma la vita non solo economica, ma anche culturale di una data
società; esse devono fare attenzione, inoltre, alla corretta e razionale
organizzazione del lavoro a tale banco. Questa sollecitudine globale in
definitiva grava sulle spalle dello Stato, ma non può significare una
centralizzazione unilateralmente operata dai pubblici poteri. Si tratta,
invece, di una giusta e razionale coordinazione, nel quadro della
quale deve essere garantita l'iniziativa delle singole persone, dei
gruppi liberi, dei centri e complessi di lavoro locali, tenendo conto di ciò
che è già stato detto sopra circa il carattere soggettivo del lavoro umano. Il fatto della reciproca dipendenza delle
singole società e Stati e la necessità di collaborazione in vari settori
richiedono che, mantenendo i diritti sovrani di ciascuno di essi nel campo
della pianificazione e dell'organizzazione del lavoro nella propria società,
si agisca al tempo stesso, in questo settore importante, nella dimensione
della collaborazione internazionale mediante i necessari trattati e
accordi. Anche qui è necessario che il criterio di questi patti e di questi
accordi diventi sempre più il lavoro umano, inteso come un fondamentale
diritto di tutti gli uomini, il lavoro che dà a tutti coloro che lavorano
analoghi diritti, così che il livello della vita degli uomini del lavoro
nelle singole società presenti sempre meno quelle urtanti differenze, che
sono ingiuste e atte a provocare anche violente reazioni. Le Organizzazioni
Internazionali hanno in questo settore compiti enormi da svolgere. Bisogna
che esse si lascino guidare da un'esatta diagnosi delle complesse situazioni
e dei condizionamenti naturali, storici, civili, ecc.; bisogna anche che esse,
in relazione ai piani di azione stabiliti in comune, abbiano una maggiore
operatività, cioè efficacia nella realizzazione. Su tale via si può attuare il piano di un
universale e proporzionato progresso di tutti, secondo il filo conduttore
dell'Enciclica di Paolo VI Populorum Progressio. Bisogna sottolineare
che l'elemento costitutivo e, al tempo stesso, la più adeguata verifica di
questo progresso nello spirito di giustizia e di pace, che la Chiesa
proclama e per il quale non cessa di pregare il Padre di tutti gli uomini e
di tutti i popoli, è proprio la continua rivalutazione del lavoro umano, sia
sotto l'aspetto della sua finalità oggettiva, sia sotto l'aspetto della
dignità del soggetto d'ogni lavoro, che è l'uomo. Il progresso, del quale si
tratta, deve compiersi mediante l'uomo e per l'uomo e deve produrre frutti
nell'uomo. Una verifica del progresso sarà il sempre più maturo
riconoscimento della finalità del lavoro e il sempre più universale rispetto
dei diritti ad esso inerenti, conformemente alla dignità dell'uomo, soggetto
del lavoro. Una ragionevole pianificazione ed una
adeguata organizzazione del lavoro umano, a misura delle singole società e
dei singoli Stati, dovrebbero facilitare anche la scoperta delle giuste
proporzioni tra le diverse specie di occupazione: il lavoro della terra,
dell'industria, nei molteplici servizi, il lavoro di concetto ed anche quello
scientifico o artistico, secondo le capacità dei singoli uomini e per il bene
comune di ogni società e di tutta l'umanità. All'organizzazione della vita
umana secondo le molteplici possibilità del lavoro dovrebbe corrispondere un
adatto sistema di istruzione e di educazione, che prima di tutto abbia
come scopo lo sviluppo di una matura umanità, ma anche una specifica
preparazione ad occupare con profitto un giusto posto nel grande e
socialmente differenziato banco di lavoro. Gettando lo sguardo sull'intera famiglia
umana, sparsa su tutta la terra, non si può non rimanere colpiti da un
fatto sconcertante di proporzioni immense; e cioè che, mentre da una
parte cospicue risorse della natura rimangono inutilizzate, dall'altra
esistono schiere di disoccupati o di sotto-occupati e sterminate moltitudini
di affamati: un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia all'interno
delle singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano
continentale e mondiale _ per quanto concerne l'organizzazione del lavoro e
dell'occupazione _ vi è qualcosa che non funziona, e proprio nei punti più
critici e di maggiore rilevanza sociale. 19. Salario e altre prestazioni
sociali Dopo aver delineato il ruolo importante,
che l'impegno di dare un'occupazione a tutti i lavoratori ha al fine di
garantire il rispetto degli inalienabili diritti dell'uomo in considerazione
del suo lavoro, conviene toccare più da vicino questi diritti, i quali, in
definitiva, si formano nel rapporto tra il lavoratore e il datore di
lavoro diretto. Tutto ciò che è stato detto finora sul tema del datore di
lavoro indiretto ha come scopo di precisare più da vicino proprio questi rapporti
mediante la dimostrazione di quei molteplici condizionamenti, nei quali essi
indirettamente si formano. Questa considerazione, però, non ha un significato
puramente descrittivo; essa non è un breve trattato di economia o di
politica. Si tratta di mettere in evidenza l'aspetto deontologico e
morale. Il problema-chiave dell'etica sociale, in questo caso, è quello
della giusta remunerazione per il lavoro che viene eseguito. Non c'è
nel contesto attuale un altro modo più importante per realizzare la giustizia
nei rapporti lavoratore-datore di lavoro, di quello costituito appunto dalla
remunerazione del lavoro. Indipendentemente dal fatto che questo lavoro si
effettui nel sistema della proprietà privata dei mezzi di produzione oppure
in un sistema, nel quale questa proprietà ha subìto una specie di
«socializzazione», il rapporto tra il datore di lavoro (prima di tutto
diretto) e il lavoratore si risolve in base al salario, cioè mediante la
giusta remunerazione del lavoro che è stato eseguito. Occorre anche rilevare come la giustizia
di un sistema socio-economico e, in ogni caso, il suo giusto funzionamento
meritino, in definitiva, di essere valutati secondo il modo in cui il lavoro
umano è in quel sistema equamente remunerato. A questo punto arriviamo di nuovo
al primo principio di tutto l'ordinamento etico-sociale, e cioè al
principio dell'uso comune dei beni. In ogni sistema, senza riguardo ai
fondamentali rapporti esistenti tra il capitale e il lavoro, il salario, cioè
la remunerazione del lavoro, rimane una via concreta, attraverso
la quale la stragrande maggioranza degli uomini può accedere a quei beni che
sono destinati all'uso comune: sia beni della natura, sia quelli che sono
frutto della produzione. Gli uni e gli altri diventano accessibili all'uomo
del lavoro grazie al salario, che egli riceve come remunerazione per il suo
lavoro. Di qui, proprio il giusto salario diventa in ogni caso la concreta verifica
della giustizia di tutto il sistema socio-economico e, ad ogni modo, del
suo giusto funzionamento. Non è questa l'unica verifica, ma è particolarmente
importante ed è, in un certo senso, la verifica-chiave. Questa verifica riguarda soprattutto la
famiglia. Una giusta remunerazione per il lavoro della persona adulta, che ha
responsabilità di famiglia è quella che sarà sufficiente per fondare e
mantenere degnamente una famiglia e per assicurarne il futuro. Tale
remunerazione può realizzarsi sia per il tramite del cosiddetto salario
familiare _ cioè un salario unico dato al capo-famiglia per il suo lavoro,
e sufficiente per il bisogno della famiglia, senza la necessità di far
assumere un lavoro retributivo fuori casa alla coniuge _, sia per il tramite
di altri provvedimenti sociali, come assegni familiari o contributi
alla madre che si dedica esclusivamente alla famiglia, contributi che devono
corrispondere alle effettive necessità, cioè al numero delle persone a carico
per tutto il tempo che esse non siano in grado di assumersi degnamente la
responsabilità della propria vita. L'esperienza conferma che bisogna
adoperarsi per la rivalutazione sociale dei compiti materni, della
fatica ad essi unita e del bisogno che i figli hanno di cura, di amore e di
affetto per potersi sviluppare come persone responsabili, moralmente e
religiosamente mature e psicologicamente equilibrate. Tornerà ad onore della
società rendere possibile alla madre _ senza ostacolarne la libertà, senza
discriminazione psicologica o pratica, senza penalizzazione nei confronti
delle sue compagne _ di dedicarsi alla cura e all'educazione dei figli
secondo i bisogni differenziati della loro età. L'abbandono forzato di tali
impegni, per un guadagno retribuitivo fuori della casa, è scorretto dal punto
di vista del bene della società e della famiglia, quando contraddica o renda
difficili tali scopi primari della missione materna(26). In tale contesto si deve sottolineare che,
in via più generale, occorre organizzare e adattare tutto il processo
lavorativo in modo che vengano rispettate le esigenze della persona e le sue
forme di vita, innanzitutto della sua vita domestica, tenendo conto dell'età
e del sesso di ciascuno. E' un fatto che in molte società le donne lavorano
in quasi tutti i settori della vita. Conviene, però, che esse possano
svolgere pienamente le loro funzioni secondo l'indole ad esse propria, senza
discriminazioni e senza esclusione da impieghi dei quali sono capaci, ma
anche senza venir meno al rispetto per le loro aspirazioni familiari e per il
ruolo specifico che ad esse compete nel contribuire al bene della società
insieme con l'uomo. La vera promozione della donna esige che il lavoro
sia strutturato in tal modo che essa non debba pagare la sua promozione con
l'abbandono della propria specificità e a danno della famiglia, nella quale
ha come madre un ruolo insostituibile. Accanto al salario, qui entrano in gioco
ancora varie prestazioni sociali, aventi come scopo quello di
assicurare la vita e la salute dei lavoratori e quella della loro famiglia.
Le spese riguardanti le necessità della cura della salute, specialmente in
caso di incidenti sul lavoro, esigono che il lavoratore abbia facile accesso
all'assistenza sanitaria, e ciò, in quanto possibile, a basso costo, o
addirittura gratuitamente. Un altro settore, che riguarda le prestazioni, è
quello collegato al diritto al riposo: prima di tutto, si tratta qui
del regolare riposo settimanale, comprendente almeno la Domenica, ed inoltre
un riposo più lungo, cioè le cosiddette ferie una volta all'anno, o
eventualmente più volte durante l'anno per periodi più brevi. Infine, si
tratta qui del diritto alla pensione e all'assicurazione per la vecchiaia ed
in caso di incidenti collegati alla prestazione lavorativa. Nell'ambito di
questi diritti principali, si sviluppa tutto un sistema di diritti
particolari, che insieme con la remunerazione per il lavoro decidono della
corretta impostazione di rapporti tra il lavoratore e il datore di lavoro.
Tra questi diritti va sempre tenuto presente quello ad ambienti di lavoro ed
a processi produttivi, che non rechino pregiudizio alla sanità fisica dei lavoratori
e non ledano la loro integrità morale. 20. L'importanza dei sindacati Sulla base di tutti questi diritti,
insieme con la necessità di assicurarli da parte degli stessi lavoratori, ne
sorge ancora un altro: vale a dire, il diritto di associarsi, cioè di
formare associazioni o unioni, che abbiano come scopo la difesa degli
interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni. Queste
unioni hanno il nome di sindacati. Gli interessi vitali degli uomini
del lavoro sono fino ad un certo punto comuni per tutti; nello stesso tempo,
però, ogni tipo di lavoro, ogni professione possiede una propria specificità,
che in queste organizzazioni dovrebbe trovare il suo proprio riflesso
particolare. I sindacati trovano la propria ascendenza,
in un certo senso, già nelle corporazioni artigianali medioevali, in quanto
queste organizzazioni univano tra di loro uomini appartenenti allo stesso
mestiere e, quindi, in base al lavoro che effettuavano. Al tempo
stesso, però, i sindacati differiscono dalle corporazioni in questo punto
essenziale: i moderni sindacati sono cresciuti sulla base della lotta dei
lavoratori, del mondo del lavoro e, prima di tutto, dei lavoratori
industriali, per la tutela dei loro giusti diritti nei confronti degli
imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione. La difesa degli
interessi esistenziali dei lavoratori in tutti i settori, nei quali entrano
in causa i loro diritti, costituisce il loro compito. L'esperienza storica
insegna che le organizzazioni di questo tipo sono un indispensabile elemento
della vita sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate.
Ciò, evidentemente, non significa che soltanto i lavoratori dell'industria
possano istituire associazioni di questo tipo. I rappresentanti di ogni
professione possono servirsene per assicurare i loro rispettivi diritti.
Esistono, quindi, i sindacati degli agricoltori e dei lavoratori di concetto;
esistono pure le unioni dei datori di lavoro. Tutti, come già è stato detto,
si dividono ancora in successivi gruppi o sottogruppi, secondo le particolari
specializzazioni professionali. La dottrina sociale cattolica non ritiene
che i sindacati costituiscano solamente il riflesso della struttura
«di classe» della società e che siano l'esponente della lotta di classe, che
inevitabilmente governa la vita sociale. Sì, essi sono un esponente della
lotta per la giustizia sociale, per i giusti diritti degli uomini del
lavoro a seconda delle singole professioni. Tuttavia, questa «lotta» deve
essere vista come un normale adoperarsi «per» il giusto bene: in questo caso,
per il bene che corrisponde alle necessità e ai meriti degli uomini del
lavoro, associati secondo le professioni; ma questa non è una lotta
«contro» gli altri. Se nelle questioni controverse essa assume anche un
carattere di opposizione agli altri, ciò avviene in considerazione del bene
della giustizia sociale, e non per «la lotta», oppure per eliminare
l'avversario. Il lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso
unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di
costruire una comunità. In definitiva, in questa comunità devono in qualche
modo unirsi tanto coloro che lavorano, quanto coloro che dispongono dei mezzi
di produzione, o che ne sono i proprietari. Alla luce di questa
fondamentale struttura di ogni lavoro _ alla luce del fatto che, in
definitiva, in ogni sistema sociale il «lavoro» e il «capitale» sono le
indispensabili componenti del processo di produzione _ l'unione degli uomini
per assicurarsi i diritti che loro spettano, nata dalle necessità del lavoro,
rimane un fattore costruttivo di ordine sociale e di solidarietà, da
cui non è possibile prescindere. I giusti sforzi per assicurare i diritti
dei lavoratori, che sono uniti dalla stessa professione, devono sempre tener
conto delle limitazioni che impone la situazione economica generale del
paese. Le richieste sindacali non possono trasformarsi in una specie di «egoismo»
di gruppo o di classe, benché esse possano e debbano tendere pure a
correggere _ per riguardo al bene comune di tutta la società _ anche tutto
ciò che è difettoso nel sistema di proprietà dei mezzi di produzione o nel
modo di gestirli e di disporne. La vita sociale ed economico-sociale è
certamente come un sistema di «vasi comunicanti», ed a questo sistema deve pure
adattarsi ogni attività sociale, che ha come scopo quello di salvaguardare i
diritti dei gruppi particolari. In questo senso l'attività dei sindacati
entra indubbiamente nel campo della «politica», intesa questa come una
prudente sollecitudine per il bene comune. Al tempo stesso, però, il
compito dei sindacati non è di «fare politica» nel senso che comunemente si
dà oggi a questa espressione. I sindacati non hanno il carattere di «partiti
politici» che lottano per il potere, e non dovrebbero neppure essere
sottoposti alle decisioni dei partiti politici o avere dei legami troppo
stretti con essi. Infatti, in una tale situazione essi perdono facilmente il
contatto con ciò che è il loro compito specifico, che è quello di assicurare
i giusti diritti degli uomini del lavoro nel quadro del bene comune
dell'intera società, e diventano, invece, uno strumento per altri scopi. Parlando della tutela dei giusti diritti
degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni, occorre
naturalmente aver sempre davanti agli occhi ciò che decide circa il carattere
soggettivo del lavoro in ogni professione, ma al tempo stesso, o prima di
tutto, ciò che condiziona la dignità propria del soggetto del lavoro. Qui si
dischiudono molteplici possibilità nell'operato delle organizzazioni
sindacali, e ciò anche nel loro impegno di carattere istruttivo, educativo
e di promozione dell'auto-educazione. Benemerita è l'opera delle scuole,
delle cosiddette «università operaie» e «popolari», dei programmi e corsi di
formazione, che hanno sviluppato e tuttora sviluppano proprio questo campo di
attività. Si deve sempre auspicare che, grazie all'opera dei suoi sindacati,
il lavoratore possa non soltanto «avere» di più, ma prima di tutto «essere»
di più: possa, cioè, realizzare più pienamente la sua umanità sotto ogni
aspetto. Adoperandosi per i giusti diritti dei loro
membri, i sindacati si servono anche del metodo dello «sciopero», cioè
del blocco del lavoro, come di una specie di ultimatum indirizzato agli organi
competenti e, soprattutto, ai datori di lavoro. Questo è un metodo
riconosciuto dalla dottrina sociale cattolica come legittimo alle debite
condizioni e nei giusti limiti. In relazione a ciò i lavoratori dovrebbero
avere assicurato il diritto allo sciopero, senza subire personali
sanzioni penali per la partecipazione ad esso. Ammettendo che questo è un
mezzo legittimo, si deve contemporaneamente sottolineare che lo sciopero
rimane, in un certo senso, un mezzo estremo. Non se ne può abusare; non
se ne può abusare specialmente per giochi «politici». Inoltre, non si può mai
dimenticare che, quando trattasi di servizi essenziali alla convivenza
civile, questi vanno, in ogni caso, assicurati mediante, se necessario,
apposite misure legali. L'abuso dello sciopero può condurre alla paralisi di
tutta la vita socio-economica, e ciò è contrario alle esigenze del bene
comune della società, che corrisponde anche alla natura rettamente intesa del
lavoro stesso. 21. Dignità del lavoro agricolo Tutto ciò che è stato detto in precedenza
sulla dignità del lavoro, sulla dimensione oggettiva e soggettiva del lavoro
dell'uomo, trova un'applicazione diretta al problema del lavoro agricolo e
alla situazione dell'uomo che coltiva la terra nel duro lavoro dei campi. Si
tratta, infatti, di un settore molto vasto dell'ambiente di lavoro del nostro
pianeta, non circoscritto all'uno o all'altro continente, non limitato alle
società che hanno già conquistato un certo grado di sviluppo e di progresso.
Il mondo agricolo, che offre alla società i beni necessari per il suo
quotidiano sostentamento, riveste una importanza fondamentale. Le
condizioni del mondo rurale e del lavoro agricolo non sono uguali
dappertutto, e diverse sono le posizioni sociali dei lavoratori agricoli nei
diversi Paesi. E ciò non dipende soltanto dal grado di sviluppo della tecnica
agricola, ma anche, e forse ancora di più, dal riconoscimento dei giusti
diritti dei lavoratori agricoli e, infine, dal livello di consapevolezza
riguardante tutta l'etica sociale del lavoro. Il lavoro dei campi conosce non lievi
difficoltà, quali lo sforzo fisico continuo e talvolta estenuante, lo scarso
apprezzamento, con cui è socialmente considerato, al punto da creare presso
gli uomini dell'agricoltura il sentimento di essere socialmente degli
emarginati, e da accelerare in essi il fenomeno della fuga in massa dalla
campagna verso le città e purtroppo verso condizioni di vita ancor più
disumanizzanti. Si aggiungano la mancanza di adeguata formazione
professionale e di attrezzi appropriati, un certo individualismo serpeggiante
ed anche situazioni obiettivamente ingiuste. In taluni Paesi in via di
sviluppo, milioni di uomini sono costretti a coltivare i terreni di altri e
vengono sfruttati dai latifondisti, senza la speranza di poter mai accedere
al possesso neanche di un minimo pezzo di terra in proprio. Mancano forme di
tutela legale per la persona del lavoratore agricolo e per la sua famiglia in
caso di vecchiaia, di malattia o di mancanza di lavoro. Lunghe giornate di
duro lavoro fisico vengono miseramente pagate. Terreni coltivabili vengono
lasciati abbandonati dai proprietari; titoli legali al possesso di un piccolo
terreno, coltivato in proprio da anni, vengono trascurati o rimangono senza
difesa di fronte alla «fame di terra» di individui o di gruppi più potenti.
Ma anche nei Paesi economicamente sviluppati, dove la ricerca scientifica, le
conquiste tecnologiche o la politica dello Stato hanno portato l'agricoltura
ad un livello molto avanzato, il diritto al lavoro può essere leso quando si
nega al contadino la facoltà di partecipare alle scelte decisionali
concernenti le sue prestazioni lavorative, o quando viene negato il diritto
alla libera associazione in vista della giusta promozione sociale, culturale
ed economica del lavoratore agricolo. In molte situazioni sono dunque necessari
cambiamenti radicali ed urgenti per ridare all'agricoltura _ ed agli uomini
dei campi _ il giusto valore come base di una sana economia, nell'insieme
dello sviluppo della comunità sociale. Perciò occorre proclamare e promuovere
la dignità del lavoro, di ogni lavoro, e specialmente del lavoro agricolo,
nel quale l'uomo in modo tanto eloquente «soggioga» la terra ricevuta in dono
da Dio ed afferma il suo «dominio» nel mondo visibile. 22. La persona handicappata e il
lavoro Recentemente, le comunità nazionali e le
organizzazioni internazionali hanno rivolto la loro attenzione ad un altro
problema connesso col lavoro, e che è ricco di incidenze: quello delle
persone handicappate. Anche esse sono soggetti pienamente umani, con
corrispondenti diritti innati, sacri e inviolabili, che, pur con le
limitazioni e le sofferenze inscritte nel loro corpo e nelle loro facoltà,
pongono in maggior rilievo la dignità e la grandezza dell'uomo. Poiché la
persona portatrice di «handicaps» è un soggetto con tutti i suoi diritti,
essa deve essere facilitata a partecipare alla vita della società in tutte le
dimensioni e a tutti i livelli, che siano accessibili alle sue possibilità.
La persona handicappata è uno di noi e partecipa pienamente alla nostra
stessa umanità. Sarebbe radicalmente indegno dell'uomo, e negazione della
comune umanità, ammettere alla vita della società, e dunque al lavoro, solo i
membri pienamente funzionali perché, così facendo, si ricadrebbe in una
grave forma di discriminazione, quella dei forti e dei sani contro i
deboli ed i malati. Il lavoro in senso oggettivo deve essere subordinato,
anche in questa circostanza, alla dignità dell'uomo, al soggetto del lavoro e
non al vantaggio economico. Spetta quindi alle diverse istanze
coinvolte nel mondo del lavoro, al datore diretto come a quello indiretto di
lavoro, promuovere con misure efficaci ed appropriate il diritto della
persona handicappata alla preparazione professionale e al lavoro, in modo che
essa possa essere inserita in un'attività produttrice per la quale sia
idonea. Qui si pongono molti problemi pratici, legali ed anche economici, ma
spetta alla comunità, cioè alle autorità pubbliche, alle associazioni e ai
gruppi intermedi, alle imprese ed agli handicappati stessi di mettere insieme
idee e risorse per arrivare a questo scopo irrinunciabile: che sia offerto
un lavoro alle persone handicappate, secondo le loro possibilità, perché
lo richiede la loro dignità di uomini e di soggetti del lavoro. Ciascuna
comunità saprà darsi le strutture adatte per reperire o per creare posti di
lavoro per tali persone sia nelle comuni imprese pubbliche o private,
offrendo un posto ordinario di lavoro o un posto più adatto, sia nelle
imprese e negli ambienti cosiddetti «protetti». Una grande attenzione dovrà essere
rivolta, come per tutti gli altri lavoratori, alle condizioni di lavoro
fisiche e psicologiche degli handicappati, alla giusta rimunerazione, alla
possibilità di promozioni ed all'eliminazione dei diversi ostacoli. Senza
nascondersi che si tratta di un impegno complesso e non facile, ci si può
augurare che una retta concezione del lavoro in senso soggettivo porti
ad una situazione che renda possibile alla persona handicappata di sentirsi
non ai margini del mondo del lavoro o in dipendenza dalla società, ma come un
soggetto del lavoro di pieno diritto, utile, rispettato per la sua dignità
umana, e chiamato a contribuire al progresso e al bene della sua famiglia e
della comunità secondo le proprie capacità. 23. Il lavoro e il problema
dell'emigrazione Occorre, infine, pronunciarsi almeno
sommariamente sul tema della cosiddetta emigrazione per lavoro. Questo
è un fenomeno antico, ma che tuttavia si ripete di continuo ed ha, anche
oggi, grandi dimensioni per le complicazioni della vita contemporanea. L'uomo
ha il diritto di lasciare il proprio Paese d'origine per vari motivi _ come
anche di ritornarvi _ e di cercare migliori condizioni di vita in un altro
Paese. Questo fatto, certamente, non è privo di difficoltà di varia natura;
prima di tutto, esso costituisce, in genere, una perdita per il Paese dal
quale si emigra. Si allontana un uomo e insieme un membro di una grande
comunità, ch'è unita dalla storia, dalla tradizione, dalla cultura, per iniziare
una vita in mezzo ad un'altra società, unita da un'altra cultura e molto
spesso anche da un'altra lingua. Viene a mancare in tale caso un soggetto
di lavoro, il quale con lo sforzo del proprio pensiero o delle proprie
mani potrebbe contribuire all'aumento del bene comune nel proprio Paese; ed
ecco, questo sforzo, questo contributo viene dato ad un'altra società, la
quale, in un certo senso ne ha diritto minore che non la patria d'origine. E tuttavia, anche se l'emigrazione è sotto
certi aspetti un male, in determinate circostanze questo è, come si dice, un
male necessario. Si deve far di tutto _ e certamente molto si fa a questo
scopo _ perché questo male in senso materiale non comporti maggiori danni
in senso morale, anzi perché, in quanto possibile, esso porti perfino un
bene nella vita personale, familiare e sociale dell'emigrato, per quanto
riguarda sia il Paese nel quale arriva, sia la patria che lascia. In questo
settore moltissimo dipende da una giusta legislazione, in particolare quando
si tratta dei diritti dell'uomo del lavoro. E s'intende che un tale problema
entra nel contesto delle presenti considerazioni, soprattutto da questo punto
di vista. La cosa più importante è che l'uomo, il
quale lavora fuori del suo Paese natìo tanto come emigrato permanente quanto
come lavoratore stagionale, non sia svantaggiato nell'ambito dei
diritti riguardanti il lavoro in confronto agli altri lavoratori di quella
determinara società. L'emigrazione per lavoro non può in nessun modo
diventare un'occasione di sfruttamento finanziario o sociale. Per quanto
riguarda il rapporto di lavoro col lavoratore immigrato, devono valere gli
stessi criteri che valgono per ogni altro lavoratore in quella società. Il
valore del lavoro deve essere misurato con lo stesso metro, e non con
riguardo alla diversa nazionalità, religione o razza. A maggior ragione non
può essere sfruttata una situazione di costrizione, nella quale si trova
l'emigrato. Tutte queste circostanze devono categoricamente cedere _
naturalmente dopo aver preso in considerazione le speciali qualifiche _ di
fronte al fondamentale valore del lavoro, il quale è collegato con la dignità
della persona umana. Ancora una volta va ripetuto il fondamentale principio:
la gerarchia dei valori, il senso profondo del lavoro stesso esigono che sia
il capitale in funzione del lavoro, e non il lavoro in funzione del capitale. V ELEMENTI
PER UNA SPIRITUALITA' DEL LAVORO 24. Particolare compito della Chiesa
Conviene dedicare l'ultima parte delle
presenti riflessioni sul tema del lavoro umano, collegate col 90°
anniversario dell'Enciclica Rerum Novarum, alla spiritualità del
lavoro nel senso cristiano dell'espressione. Dato che il lavoro nella sua
dimensione soggettiva è sempre un'azione personale, actus personae, ne
segue che ad esso partecipa l'uomo intero, il corpo e lo spirito, indipendentemente
dal fatto che sia un lavoro manuale o intellettuale. All'uomo intero è pure
indirizzata la Parola del Dio vivo, il messaggio evangelico della salvezza,
nel quale troviamo molti contenuti _ come luci particolari _ dedicati al
lavoro umano. Ora, è necessaria un'adeguata assimilazione di questi
contenuti; occorre lo sforzo interiore dello spirito umano, guidato dalla
fede, dalla speranza e dalla carità, per dare al lavoro dell'uomo
concreto, con l'aiuto di questi contenuti, quel significato che esso ha
agli occhi di Dio, e mediante il quale esso entra nell'opera della
salvezza al pari delle sue trame e componenti ordinarie e, al tempo stesso,
particolarmente importanti. Se la Chiesa considera come suo dovere
pronunciarsi a proposito del lavoro dal punto di vista del suo valore umano e
dell'ordine morale, in cui esso rientra, in ciò ravvisando un suo compito
importante nel servizio che rende all'intero messaggio evangelico,
contemporaneamente essa vede un suo dovere particolare nella formazione di
una spiritualità del lavoro, tale da aiutare tutti gli uomini ad
avvicinarsi per il suo tramite a Dio, Creatore e Redentore, a partecipare ai
suoi piani salvifici nei riguardi dell'uomo e del mondo e ad approfondire
nella loro vita l'amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede una viva
partecipazione alla sua triplice missione: di Sacerdote, di Profeta e di Re,
così come insegna con espressioni mirabili il Concilio Vaticano II. 25. Il lavoro come partecipazione
all'opera del Creatore Come dice il Concilio Vaticano II, «per i
credenti una cosa è certa: l'attività umana individuale e collettiva, ossia
quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di
migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso,
corrisponde al disegno di Dio. L'uomo infatti, creato a immagine di Dio, ha
ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa
contiene per governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure
di riportare a Dio se stesso e l'universo intero, riconoscendo in lui il
Creatore di tutte le cose, in modo che, nella subordinazione di tutta la
realtà all'uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra»(27). Nella Parola della divina Rivelazione è
iscritta molto profondamente questa verità fondamentale, che l'uomo, creato
a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all'opera del
Creatore, ed a misura delle proprie possibilità, in un certo senso,
continua a svilupparla e la completa, avanzando sempre più nella scoperta
delle risorse e dei valori racchiusi in tutto quanto il creato. Questa verità
noi troviamo già all'inizio stesso della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi,
dove l'opera stessa della creazione è presentata nella forma di un
«lavoro» compiuto da Dio durante i «sei giorni»(28), per «riposare» il
settimo giorno(29). D'altronde, ancora l'ultimo libro della Sacra Scrittura
risuona con lo stesso accento di rispetto per l'opera che Dio ha compiuto
mediante il suo «lavoro» creativo, quando proclama: «Grandi e mirabili sono
le tue opere, o Signore Dio onnipotente»(30), analogamente al Libro della Genesi,
il quale chiude la descrizione di ogni giorno della creazione con
l'affermazione: «E Dio vide che era una cosa buona»(31). Questa descrizione della creazione, che
troviamo già nel primo capitolo del Libro della Genesi è, al tempo
stesso, in un certo senso il primo «Vangelo del lavoro». Essa
dimostra, infatti, in che cosa consista la sua dignità: insegna che l'uomo
lavorando deve imitare Dio, suo Creatore, perché porta in sé _ egli solo _ il
singolare elemento della somiglianza con lui. L'uomo deve imitare Dio sia
lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la
propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo. Quest'opera
di Dio nel mondo continua sempre, così come attestano le parole di Cristo:
«Il Padre mio opera sempre...»(32): opera con la forza creatrice, sostenendo
nell'esistenza il mondo che ha chiamato all'essere dal nulla, e opera con la
forza salvifica nei cuori degli uomini, che sin dall'inizio ha destinato al
«riposo»(33) in unione con se stesso, nella «casa del Padre»(34). Perciò,
anche il lavoro umano non solo esige il riposo ogni «settimo giorno»(35), ma
per di più non può consistere nel solo esercizio delle forze umane
nell'azione esteriore; esso deve lasciare uno spazio interiore, nel quale
l'uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si
prepara a quel «riposo» che il Signore riserva ai suoi servi ed amici(36). La coscienza che il lavoro umano sia una
partecipazione all'opera di Dio, deve permeare _ come insegna il Concilio _
anche «le ordinarie attività quotidiane. Gli uomini e le donne,
infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia,
esercitano le proprie attività così da prestare anche conveniente servizio
alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi
prolungano l'opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno
un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio
nella storia»(37). Bisogna, dunque, che questa spiritualità
cristiana del lavoro diventi patrimonio comune di tutti. Bisogna che,
specialmente nell'epoca odierna, la spiritualità del lavoro dimostri
quella maturità, che esigono le tensioni e le inquietudini delle menti e dei
cuori: «I cristiani, dunque, non solo non pensano di contrapporre le
conquiste dell'ingegno e della potenza dell'uomo alla potenza di Dio, quasi
che la creatura razionale sia rivale del Creatore; ma, al contrario, essi
piuttosto sono persuasi che le vittorie dell'umanità sono segno della
grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la
potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità
individuale e collettiva... Il messaggio cristiano, lungi dal
distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi
dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna
piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante»(38). La consapevolezza che mediante il lavoro
l'uomo partecipa all'opera della creazione, costituisce il più profondo movente
per intraprenderlo in vari settori: «I fedeli perciò _ leggiamo nella
Costituzione Lumen Gentium _ devono riconoscere la natura intima di
tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio e
aiutarsi a vicenda per una vita più santa anche con opere propriamente
secolari, affinché il mondo sia imbevuto dello spirito di Cristo e raggiunga
più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace...
Con la loro competenza, quindi, nelle discipline profane e con la loro
attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, contribuiscano
validamente a che i beni creati, secondo la disposizione del Creatore e la
luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e
dalla civile cultura»(39). 26. Cristo, l'uomo del lavoro Questa verità, secondo cui mediante il lavoro
l'uomo partecipa all'opera di Dio stesso suo Creatore, è stata in modo
particolare messa in risalto da Gesù Cristo _ quel Gesù del
quale molti dei suoi primi uditori a Nazareth «rimanevano stupiti e dicevano:
Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata
data? ... Non è costui il carpentiere?»(40). Infatti, Gesù non solo
proclamava, ma prima di tutto compiva con l'opera il «Vangelo» a lui
affidato, la parola dell'eterna Sapienza. Perciò, questo era pure il «Vangelo
del lavoro», perché colui che lo proclamava, era egli stesso uomo del
lavoro, del lavoro artigiano come Giuseppe di Nazareth(41). E anche se
nelle sue parole non troviamo uno speciale comando di lavorare _ piuttosto,
una volta, il divieto di una eccessiva preoccupazione per il lavoro e
l'esistenza(42) _, però, al tempo stesso, l'eloquenza della vita di Cristo è
inequivoca: egli appartiene al «mondo del lavoro», ha per il lavoro umano
riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore
questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una
linea particolare della somiglianza dell'uomo con Dio, Creatore e Padre. Non
è lui a dire: «il Padre mio è il vignaiolo ...»(43), trasferendo in vari modi
nel suo insegnamento quella fondamentale verità sul lavoro, la quale
si esprime già in tutta la tradizione dell'Antico Testamento, iniziando dal
Libro della Genesi? Nei libri dell'Antico Testamento non mancano molteplici riferimenti al lavoro umano,
alle singole professioni esercitate dall'uomo: così per es. al medico(44), al
farmacista(45), all'artigiano-artista(46), al fabbro(47) _ si potrebbero
riferire queste parole al lavoro del siderurgico d'oggi _, al vasaio(48),
all'agricoltore(49), allo studioso(50), al navigatore(51), all'edile(52), al musicista(53),
al pastore(54), al pescatore(55). Sono conosciute le belle parole dedicate al
lavoro delle donne(56). Gesù Cristo nelle sue parabole sul Regno di
Dio si richiama costantemente al lavoro umano: al lavoro del pastore(57),
dell'agricoltore(58), del medico(59), del seminatore(60), del padrone di
casa(61), del servo(62), dell'amministratore(63), del pescatore(64), del
mercante(65), dell'operaio(66). Parla pure dei diversi lavori delle
donne(67). Presenta l'apostolato a somiglianza del lavoro manuale dei
mietitori(68) o dei pescatori(69). Inoltre, si riferisce anche al lavoro
degli studiosi(70). Questo insegnamento di Cristo sul lavoro,
basato sull'esempio della propria vita durante gli anni di Nazareth, trova
un'eco particolarmente viva nell'insegnamento di Paolo Apostolo. Paolo
si vantava di lavorare nel suo mestiere (probabilmente fabbricava tende)(71),
e grazie a ciò poteva pure come apostolo guadagnarsi da solo il pane(72).
«Abbiamo lavorato con fatica e sforzo, notte e giorno, per non essere di peso
ad alcuno di voi»(73). Di qui derivano le sue istruzioni sul tema del lavoro,
che hanno carattere di esortazione e di comando: «A questi ...
ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane
lavorando in pace», così scrive ai Tessalonicesi(74). Infatti, rilevando che
«alcuni» vivono disordinatamente, senza far nulla(75), l'Apostolo nello
stesso contesto non esita a dire: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi»(76).
In un altro passo invece incoraggia: «Qualunque cosa facciate, fatela
di cuore come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che quale
ricompensa riceverete dal Signore l'eredità»(77). Gli insegnamenti dell'Apostolo delle Genti
hanno, come si vede, un'importanza-chiave per la morale e la spiritualità del
lavoro umano. Essi sono un importante complemento a questo grande, anche se
discreto, Vangelo del lavoro, che troviamo nella vita di Cristo e nelle sue
parabole, in ciò che Gesù «fece e insegnò»(78). In base a queste luci emananti dalla
Sorgente stessa, la Chiesa sempre ha proclamato ciò di cui troviamo l'espressione
contemporanea nell'insegnamento del Vaticano II: «L'attività umana,
invero, come deriva dall'uomo, così è ordinata all'uomo. L'uomo, infatti,
quando lavora, non soltanto modifica le cose e la società, ma perfeziona
anche se stesso. Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, è portato a
uscire da sé e a superarsi. Tale sviluppo, se è ben compreso, vale più delle
ricchezze esteriori che si possono accumulare ... Pertanto, questa è la norma
dell'attività umana: che secondo il disegno e la volontà di Dio essa
corrisponda al vero bene dell'umanità, e permetta all'uomo singolo o come
membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale
vocazione»(79). Nel contesto di una tale visione dei
valori del lavoro umano, ossia di una tale spiritualità del lavoro, si
spiega pienamente ciò che nello stesso punto della Costituzione pastorale del
Concilio leggiamo sul tema del giusto significato del progresso: «L'uomo
vale più per quello che è che per quello che ha. Parimente tutto ciò che gli
uomini fanno per conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità
e un ordine più umano nei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in
campo tecnico. Questi, infatti, possono fornire, per così dire, la materia
alla promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo ad
effettuarla»(80). Tale dottrina sul problema del progresso e
dello sviluppo _ tema così dominante nella mentalità moderna _ può essere
intesa solamente come frutto di una provata spiritualità del lavoro umano, e solamente
in base a una tale spiritualità essa può essere realizzata e messa in
pratica. Questa è la dottrina, ed insieme il programma, che affonda le sue
radici nel «Vangelo del lavoro». 27. Il lavoro umano alla luce della Croce
e della Risurrezione di Cristo C'è ancora un aspetto del lavoro umano,
una sua dimensione essenziale, nella quale la spiritualità fondata sul
Vangelo penetra profondamente. Ogni lavoro _ sia esso manuale o
intellettuale _ va congiunto inevitabilmente con la fatica. Il Libro
della Genesi lo esprime in modo veramente penetrante, contrapponendo a
quella originaria benedizione del lavoro, contenuta nel mistero stesso
della creazione, ed unita all'elevazione dell'uomo come immagine di Dio, la maledizione
che il peccato ha portato con sé: «Maledetto sia il suolo per
causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua
vita»(81). Questo dolore unito al lavoro segna la strada della vita umana
sulla terra e costituisce l'annuncio della morte: «Col sudore del tuo
volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato
tratto ...»(82). Quasi come un'eco di queste parole, si esprime l'autore di
uno dei libri sapienziali. «Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie
mani e tutta la fatica che avevo durato a farle ...»(83). Non c'è un uomo
sulla terra che non potrebbe far proprie queste espressioni. Il Vangelo pronuncia, in un certo senso,
la sua ultima parola anche a questo riguardo nel mistero pasquale di Gesù
Cristo. E qui occorre cercare la risposta a questi problemi cosi importanti
per la spiritualità del lavoro umano. Nel mistero pasquale è contenuta
la croce di Cristo, la sua obbedienza fino alla morte, che l'Apostolo
contrappone a quella disubbidienza, che ha gravato sin dall'inizio la storia
dell'uomo sulla terra(84). E' contenuta in esso anche l'elevazione di
Cristo, il quale mediante la morte di croce ritorna ai suoi discepoli con la
potenza dello Spirito Santo nella risurrezione. Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente
comporta nella condizione presente dell'umanità, offrono al cristiano e ad
ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare
nell'amore all'opera che il Cristo è venuto a compiere(85). Quest'opera di
salvezza è avvenuta per mezzo della sofferenza e della morte di croce.
Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi,
l'uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione
dell'umanità. Egli si dimostra vero discepolo di Gesù, portando a sua volta
la croce ogni giorno(86) nell'attività che è chiamato a compiere. Cristo, «sopportando la morte per noi
tutti peccatori, ci insegna col suo esempio che è necessario anche portare la
croce; quella che dalla carne e dal mondo viene messa sulle spalle di quanti
cercano la pace e la giustizia»; però, al tempo stesso, «con la sua
risurrezione costituito Signore, egli, il Cristo, a cui è stato dato ogni
potere in cielo e sulla terra, opera ormai nel cuore degli uomini con la
virtù del suo Spirito, ... purificando e fortificando quei generosi
propositi, con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana
la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra»(87). Nel lavoro umano il cristiano ritrova una
piccola parte della croce di Cristo e l'accetta nello stesso spirito di
redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce. Nel
lavoro, grazie alla luce che dalla risurrezione di Cristo penetra dentro di
noi, troviamo sempre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi
come un annuncio dei «nuovi cieli e di una terra nuova»(88), i quali proprio
mediante la fatica del lavoro vengono partecipati dall'uomo e dal mondo.
Mediante la fatica _ e mai senza di essa. Questo conferma, da una parte,
l'indispensabilità della croce nella spiritualità del lavoro umano; d'altra
parte, però, si svela in questa croce e fatica un bene nuovo, il quale prende
inizio dal lavoro stesso: dal lavoro inteso in profondità e sotto tutti gli
aspetti _ e mai senza di esso. E' già questo nuovo bene _ frutto
del lavoro umano _ una piccola parte di quella «terra nuova», dove abita la
giustizia? (89) In quale rapporto sta esso con la risurrezione di Cristo, se
è vero che la molteplice fatica del lavoro dell'uomo è una piccola parte
della croce di Cristo? Anche a questa domanda cerca di rispondere il
Concilio, attingendo la luce dalle fonti stesse della Parola rivelata:
«Certo, siamo avvertiti che niente giova all'uomo se guadagna il mondo, ma
perde se stesso (cfr. Lc 9, 25). Tuttavia, l'attesa di una terra nuova
non deve indebolire, bensì stimolare piuttosto la sollecitudine a coltivare
questa terra, dove cresce quel corpo dell'umanità nuova che già riesce ad
offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché
si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del
Regno di Cristo, tuttavia nella misura in cui può contribuire a meglio
ordinare l'umana società, tale progresso è di grande importanza per il Regno
di Dio»(90). Abbiamo cercato, nelle presenti riflessioni
dedicate al lavoro umano, di mettere in rilievo tutto ciò che sembrava
indispensabile, dato che mediante esso devono moltiplicarsi sulla terra non
solo «i frutti della nostra operosità», ma anche «la dignità dell'uomo, la
fraternità e la libertà»(91). Il cristiano che sta in ascolto della parola
del Dio vivo, unendo il lavoro alla preghiera, sappia quale posto occupa il
suo lavoro non solo nel progresso terreno, ma anche nello sviluppo
del Regno di Dio, al quale siamo tutti chiamati con la potenza dello
Spirito Santo e con la parola del Vangelo. Nel concludere queste riflessioni, mi è
gradito impartire di vero cuore a tutti voi, venerati Fratelli, Figli e
Figlie carissimi, la propiziatrice Benedizione Apostolica. Questo documento, che avevo preparato
perché si pubblicasse il 15 maggio scorso, nel 90° anniversario
dell'Enciclica «Rerum Novarum», ha potuto essere da me definitivamente
riveduto soltanto dopo la mia degenza ospedaliera. Dato a Castel Gandolfo, il 14
settembre, festa dell'Esaltazione della s. Croce, dell'anno 1981, terzo di
Pontificato. |
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