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LETTERA
ENCICLICA Venerati Fratelli nell'Episcopato, La fede e la ragione sono come le due ali
con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità.
E Dio ad aver posto nel cuore dell'uomo il desiderio di conoscere la verità
e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa
giungere anche alla piena verità su se stesso (cfr Es 33, 18; Sal 27
[26], 8-9; 63 [62], 2-3; Gv 14, 8; 1 Gv 3, 2). INTRODUZIONE «
CONOSCI TE STESSO » 1. Sia in Oriente che in Occidente, è
possibile ravvisare un cammino che, nel corso dei secoli, ha portato
l'umanità a incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi con
essa. E un cammino che s'è svolto — né poteva essere altrimenti — entro
l'orizzonte dell'autocoscienza personale: più l'uomo conosce la realtà e il
mondo e più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli diventa sempre
più impellente la domanda sul senso delle cose e della sua stessa esistenza. Quanto viene a porsi come oggetto della
nostra conoscenza diventa per ciò stesso parte della nostra vita. Il monito Conosci
te stesso era scolpito sull'architrave del tempio di Delfi, a
testimonianza di una verità basilare che deve essere assunta come regola
minima da ogni uomo desideroso di distinguersi, in mezzo a tutto il creato,
qualificandosi come « uomo » appunto in quanto « conoscitore di se stesso ». Un semplice sguardo alla storia antica,
d'altronde, mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate
da culture differenti, sorgano nello stesso tempo le domande di fondo che
caratterizzano il percorso dell'esistenza umana: chi sono? da dove vengo e
dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? Questi
interrogativi sono presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono
anche nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti di
Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei Tirthankara e di Buddha;
sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide
e Sofocle come pure nei trattati filosofici di Platone ed Aristotele. Sono
domande che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da
sempre urge nel cuore dell'uomo: dalla risposta a tali domande, infatti,
dipende l'orientamento da imprimere all'esistenza. 2. La Chiesa non è estranea, né può
esserlo, a questo cammino di ricerca. Da quando, nel Mistero pasquale, ha
ricevuto in dono la verità ultima sulla vita dell'uomo, essa s'è fatta
pellegrina per le strade del mondo per annunciare che Gesù Cristo è « la via,
la verità e la vita » (Gv 14, 6). Tra i diversi servizi che essa deve
offrire all'umanità, uno ve n'è che la vede responsabile in modo del tutto
peculiare: è la diaconia alla verità.(1) Questa missione, da una
parte, rende la comunità credente partecipe dello sforzo comune che l'umanità
compie per raggiungere la verità; (2) dall'altra, la obbliga a farsi carico
dell'annuncio delle certezze acquisite, pur nella consapevolezza che ogni
verità raggiunta è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si
manifesterà nella rivelazione ultima di Dio: « Ora vediamo come in uno
specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco
in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente » (1 Cor 13,
12). 3. Molteplici sono le risorse che l'uomo
possiede per promuovere il progresso nella conoscenza della verità, così da
rendere la propria esistenza sempre più umana. Tra queste emerge la filosofia,
che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il senso della vita e
ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto, si configura come uno dei compiti
più nobili dell'umanità. Il termine filosofia, secondo l'etimologia greca,
significa « amore per la saggezza ». Di fatto, la filosofia è nata e si è
sviluppata nel momento in cui l'uomo ha iniziato a interrogarsi sul perché
delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti, essa mostra che il
desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell'uomo. E una proprietà
nativa della sua ragione interrogarsi sul perché delle cose, anche se le
risposte via via date si inseriscono in un orizzonte che rende evidente la
complementarità delle differenti culture in cui l'uomo vive. La forte incidenza che la filosofia ha
avuto nella formazione e nello sviluppo delle culture in Occidente non deve
farci dimenticare l'influsso che essa ha esercitato anche nei modi di concepire
l'esistenza di cui vive l'Oriente. Ogni popolo, infatti, possiede una sua
indigena e originaria saggezza che, quale autentica ricchezza delle culture,
tende a esprimersi e a maturare anche in forme prettamente filosofiche.
Quanto questo sia vero lo dimostra il fatto che una forma basilare di sapere
filosofico, presente fino ai nostri giorni, è verificabile perfino nei
postulati a cui le diverse legislazioni nazionali e internazionali si
ispirano nel regolare la vita sociale. 4. È, comunque, da rilevare che dietro un
unico termine si nascondono significati differenti. Un'esplicitazione
preliminare si rende pertanto necessaria. Spinto dal desiderio di scoprire la
verità ultima dell'esistenza, l'uomo cerca di acquisire quelle conoscenze
universali che gli consentono di comprendersi meglio e di progredire nella
realizzazione di sé. Le conoscenze fondamentali scaturiscono dalla meraviglia
suscitata in lui dalla contemplazione del creato: l'essere umano è colto
dallo stupore nello scoprirsi inserito nel mondo, in relazione con altri suoi
simili dei quali condivide il destino. Parte di qui il cammino che lo porterà
poi alla scoperta di orizzonti di conoscenza sempre nuovi. Senza meraviglia
l'uomo cadrebbe nella ripetitività e, poco alla volta, diventerebbe incapace
di un'esistenza veramente personale. La capacità speculativa, che è propria
dell'intelletto umano, porta ad elaborare, mediante l'attività filosofica,
una forma di pensiero rigoroso e a costruire così, con la coerenza logica
delle affermazioni e l'organicità dei contenuti, un sapere sistematico.
Grazie a questo processo, in differenti contesti culturali e in diverse
epoche, si sono raggiunti risultati che hanno portato all'elaborazione di
veri sistemi di pensiero. Storicamente ciò ha spesso esposto alla tentazione
di identificare una sola corrente con l'intero pensiero filosofico. E però
evidente che, in questi casi, entra in gioco una certa « superbia filosofica
» che pretende di erigere la propria visione prospettica e imperfetta a
lettura universale. In realtà, ogni sistema filosofico, pur rispettato
sempre nella sua interezza senza strumentalizzazioni di sorta, deve
riconoscere la priorità del pensare filosofico, da cui trae origine e
a cui deve servire in forma coerente. In questo senso è possibile riconoscere,
nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di
conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero.
Si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità,
di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e
intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si
pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente
condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di
pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una
sorta di patrimonio spirituale dell'umanità. E come se ci trovassimo dinanzi
a una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi
principi, anche se in forma generica e non riflessa. Queste conoscenze,
proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire
come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la
ragione riesce a intuire e a formulare i principi primi e universali
dell'essere e a far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di
ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la
chiamavano gli antichi, orthòs logos, recta ratio. 5. La Chiesa, da parte sua, non può che
apprezzare l'impegno della ragione per il raggiungimento di obiettivi che
rendano l'esistenza personale sempre più degna. Essa infatti vede nella
filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti l'esistenza
dell'uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un aiuto indispensabile
per approfondire l'intelligenza della fede e per comunicare la verità del
Vangelo a quanti ancora non la conoscono. Facendo pertanto seguito ad analoghe
iniziative dei miei Predecessori, desidero anch'io rivolgere lo sguardo a
questa peculiare attività della ragione. Mi ci spinge il rilievo che,
soprattutto ai nostri giorni, la ricerca della verità ultima appare spesso
offuscata. Senza dubbio la filosofia moderna ha il grande merito di aver
concentrato la sua attenzione sull'uomo. A partire da qui, una ragione carica
di interrogativi ha sviluppato ulteriormente il suo desiderio di conoscere
sempre di più e sempre più a fondo. Sono stati così costruiti sistemi di
pensiero complessi, che hanno dato i loro frutti nei diversi ambiti del
sapere, favorendo lo sviluppo della cultura e della storia. L'antropologia,
la logica, le scienze della natura, la storia, il linguaggio..., in qualche
modo l'intero universo del sapere è stato abbracciato. I positivi risultati raggiunti
non devono, tuttavia, indurre a trascurare il fatto che quella stessa
ragione, intenta ad indagare in maniera unilaterale sull'uomo come soggetto,
sembra aver dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi
verso una verità che lo trascende. Senza il riferimento ad essa, ciascuno
resta in balia dell'arbitrio e la sua condizione di persona finisce per
essere valutata con criteri pragmatici basati essenzialmente sul dato
sperimentale, nell'errata convinzione che tutto deve essere dominato dalla
tecnica. E così accaduto che, invece di esprimere al meglio la tensione verso
la verità, la ragione sotto il peso di tanto sapere si è curvata su se stessa
diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto
per osare di raggiungere la verità dell'essere. La filosofia moderna,
dimenticando di orientare la sua indagine sull'essere, ha concentrato la
propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che
l'uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i
condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di
agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a
smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi,
hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle
verità che l'uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità di
posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato
sull'assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi
più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto
contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni di
vita che provengono dall'Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il
suo carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in
modo uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In
questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l'impressione di un
movimento ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è
riuscita a immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina
all'esistenza umana e alle sue forme espressive, dall'altra, tende a
sviluppare considerazioni esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che
prescindono dalla questione radicale circa la verità della vita personale,
dell'essere e di Dio. Di conseguenza, sono emersi nell'uomo contemporaneo, e
non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei
confronti delle grandi risorse conoscitive dell'essere umano. Con falsa
modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare
di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana,
personale e sociale. E venuta meno, insomma, la speranza di poter ricevere
dalla filosofia risposte definitive a tali domande. 6. Forte della competenza che le deriva
dall'essere depositaria della Rivelazione di Gesù Cristo, la Chiesa intende
riaffermare la necessità della riflessione sulla verità. E per questo motivo
che ho deciso di rivolgermi a voi, Venerati Confratelli nell'Episcopato, con
i quali condivido la missione di annunziare « apertamente la verità » (2
Cor 4, 2), come pure ai teologi e ai filosofi a cui spetta il dovere di
indagare sui diversi aspetti della verità, ed anche alle persone che sono in
ricerca, per partecipare alcune riflessioni sul cammino che conduce alla vera
sapienza, affinché chiunque ha nel cuore l'amore per essa possa intraprendere
la giusta strada per raggiungerla e trovare in essa riposo alla sua fatica e
gaudio spirituale. Mi spinge a questa iniziativa, anzitutto,
la consapevolezza che viene espressa dalle parole del Concilio Vaticano II,
quando afferma che i Vescovi sono « testimoni della divina e cattolica verità
».(3) Testimoniare la verità è, dunque, un compito che è stato affidato a noi
Vescovi; ad esso non possiamo rinunciare senza venir meno al ministero che
abbiamo ricevuto. Riaffermando la verità della fede, possiamo ridare all'uomo
del nostro tempo genuina fiducia nelle sue capacità conoscitive e offrire alla
filosofia una provocazione perché possa recuperare e sviluppare la sua piena
dignità. Un ulteriore motivo mi induce a stendere
queste riflessioni. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor, ho
richiamato l'attenzione su « alcune verità fondamentali della dottrina
cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate
».(4) Con la presente Lettera, desidero continuare quella riflessione
concentrando l'attenzione sul tema stesso della verità e sul suo fondamento
in rapporto alla fede. Non si può negare, infatti, che questo
periodo di rapidi e complessi cambiamenti esponga soprattutto le giovani
generazioni, a cui appartiene e da cui dipende il futuro, alla sensazione di
essere prive di autentici punti di riferimento. L'esigenza di un fondamento
su cui costruire l'esistenza personale e sociale si fa sentire in maniera
pressante soprattutto quando si è costretti a costatare la frammentarietà di
proposte che elevano l'effimero al rango di valore, illudendo sulla
possibilità di raggiungere il vero senso dell'esistenza. Accade così che
molti trascinano la loro vita fin quasi sull'orlo del baratro, senza sapere a
che cosa vanno incontro. Ciò dipende anche dal fatto che talvolta chi era
chiamato per vocazione a esprimere in forme culturali il frutto della propria
speculazione, ha distolto lo sguardo dalla verità, preferendo il successo
nell'immediato alla fatica di una indagine paziente su ciò che merita di
essere vissuto. La filosofia, che ha la grande responsabilità di formare il
pensiero e la cultura attraverso il richiamo perenne alla ricerca del vero,
deve recuperare con forza la sua vocazione originaria. E per questo che ho
sentito non solo l'esigenza, ma anche il dovere di intervenire su questo
tema, perché l'umanità, alla soglia del terzo millennio dell'era cristiana,
prenda più chiara coscienza delle grandi risorse che le sono state concesse,
e s'impegni con rinnovato coraggio nell'attuazione del piano di salvezza nel
quale è inserita la sua storia. CAPITOLO
I LA
RIVELAZIONE Gesù rivelatore del Padre 7. Alla base di ogni riflessione che la
Chiesa compie vi è la consapevolezza di essere depositaria di un messaggio
che ha la sua origine in Dio stesso (cfr 2 Cor 4, 1-2). La conoscenza
che essa propone all'uomo non le proviene da una sua propria speculazione,
fosse anche la più alta, ma dall'aver accolto nella fede la parola di Dio
(cfr 1 Tess 2, 13). All'origine del nostro essere credenti vi è un
incontro, unico nel suo genere, che segna il dischiudersi di un mistero nascosto
nei secoli (cfr 1 Cor 2, 7; Rm 16, 25-26), ma ora rivelato: «
Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere
il mistero della sua volontà (cfr Ef 1, 9), mediante il quale gli
uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno
accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura ».(5) E, questa,
un'iniziativa pienamente gratuita, che parte da Dio per raggiungere l'umanità
e salvarla. Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi conoscere, e la conoscenza
che l'uomo ha di lui porta a compimento ogni altra vera conoscenza che la sua
mente è in grado di raggiungere circa il senso della propria esistenza. 8. Riprendendo quasi alla lettera
l'insegnamento offerto dalla Costituzione Dei Filius del Concilio
Vaticano I e tenendo conto dei principi proposti dal Concilio Tridentino, la
Costituzione Dei Verbum del Vaticano II ha proseguito il secolare
cammino di intelligenza della fede, riflettendo sulla Rivelazione alla
luce dell'insegnamento biblico e dell'intera tradizione patristica. Nel primo
Concilio Vaticano, i Padri avevano sottolineato il carattere soprannaturale
della rivelazione di Dio. La critica razionalista, che in quel periodo veniva
mossa contro la fede sulla base di tesi errate e molto diffuse, verteva sulla
negazione di ogni conoscenza che non fosse frutto delle capacità naturali
della ragione. Questo fatto aveva obbligato il Concilio a ribadire con forza
che, oltre alla conoscenza propria della ragione umana, capace per sua natura
di giungere fino al Creatore, esiste una conoscenza che è peculiare della
fede. Questa conoscenza esprime una verità che si fonda sul fatto stesso di
Dio che si rivela, ed è verità certissima perché Dio non inganna né vuole
ingannare.(6) 9. Il Concilio Vaticano I, dunque, insegna
che la verità raggiunta per via di riflessione filosofica e la verità della
Rivelazione non si confondono, né l'una rende superflua l'altra: « Esistono
due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche
per il loro oggetto: per il loro principio, perché nell'uno conosciamo con la
ragione naturale, nell'altro con la fede divina; per l'oggetto, perché oltre
le verità che la ragione naturale può capire, ci è proposto di vedere i
misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono
rivelati dall'alto ».(7) La fede, che si fonda sulla testimonianza di Dio e
si avvale dell'aiuto soprannaturale della grazia, è effettivamente di un
ordine diverso da quello della conoscenza filosofica. Questa, infatti, poggia
sulla percezione dei sensi, sull'esperienza e si muove alla luce del solo
intelletto. La filosofia e le scienze spaziano nell'ordine della ragione
naturale, mentre la fede, illuminata e guidata dallo Spirito, riconosce nel
messaggio della salvezza la « pienezza di grazia e di verità » (cfr Gv 1,
14) che Dio ha voluto rivelare nella storia e in maniera definitiva per mezzo
di suo Figlio Gesù Cristo (cfr 1 Gv 5, 9; Gv 5, 31-32). 10. Al Concilio Vaticano II i Padri,
puntando lo sguardo su Gesù rivelatore, hanno illustrato il carattere
salvifico della rivelazione di Dio nella storia e ne hanno espresso la natura
nel modo seguente: « Con questa rivelazione, Dio invisibile (cfr Col 1,
15; 1 Tm 1, 17) nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici
(cfr Es 33, 11; Gv 15, 14-15) e si intrattiene con essi (cfr Bar
3, 38) per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé. Questa economia
della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro,
in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza,
manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e
le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La
profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di
questa Rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore
e la pienezza di tutta la rivelazione ».(8) 11. La rivelazione di Dio, dunque, si
inserisce nel tempo e nella storia. L'incarnazione di Gesù Cristo, anzi,
avviene nella « pienezza del tempo » (Gal 4, 4). A duemila anni di
distanza da quell'evento, sento il dovere di riaffermare con forza che « nel
cristianesimo il tempo ha un'importanza fondamentale ».(9) In esso, infatti,
viene alla luce l'intera opera della creazione e della salvezza e, soprattutto,
emerge il fatto che con l'incarnazione del Figlio di Dio noi viviamo e
anticipiamo fin da ora ciò che sarà il compimento del tempo (cfr Eb 1,
2). La verità che Dio ha consegnato all'uomo
su se stesso e sulla sua vita si inserisce, quindi, nel tempo e nella storia.
Certo, essa è stata pronunciata una volta per tutte nel mistero di Gesù di
Nazareth. Lo dice con parole eloquenti la Costituzione Dei Verbum: «
Dio, dopo avere a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei Profeti,
“alla fine, nei nostri giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,
1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli
uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di
Dio (cfr Gv 1, 1-18). Gesù Cristo, Verbo fatto carne, mandato
come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3, 34) e porta a
compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr Gv 5, 36;
17, 4). Perciò Egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr Gv 14,
9), con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e
con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e
la gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito
di verità, compie e completa la Rivelazione ».(10) La storia, pertanto, costituisce per il
Popolo di Dio un cammino da percorrere interamente, così che la verità
rivelata esprima in pienezza i suoi contenuti grazie all'azione incessante
dello Spirito Santo (cfr Gv 16, 13). Lo insegna, ancora una volta, la
Costituzione Dei Verbum quando afferma che « la Chiesa, nel corso dei
secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in
essa giungano a compimento le parole di Dio ».(11) 12. La storia, quindi, diventa il luogo in
cui possiamo costatare l'agire di Dio a favore dell'umanità. Egli ci
raggiunge in ciò che per noi è più familiare e facile da verificare, perché
costituisce il nostro contesto quotidiano, senza il quale non riusciremmo a
comprenderci. L'incarnazione del Figlio di Dio permette
di vedere attuata la sintesi definitiva che la mente umana, partendo da sé,
non avrebbe neppure potuto immaginare: l'Eterno entra nel tempo, il Tutto si
nasconde nel frammento, Dio assume il volto dell'uomo. La verità espressa
nella Rivelazione di Cristo, dunque, non è più rinchiusa in un ristretto
ambito territoriale e culturale, ma si apre a ogni uomo e donna che voglia
accoglierla come parola definitivamente valida per dare senso all'esistenza.
Ora, tutti hanno in Cristo accesso al Padre; con la sua morte e risurrezione,
infatti, Egli ha donato la vita divina che il primo Adamo aveva rifiutato
(cfr Rm 5, 12-15). Con questa Rivelazione viene offerta all'uomo la
verità ultima sulla propria vita e sul destino della storia: « In realtà solamente
nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo »,
afferma la Costituzione Gaudium et spes.(12) Al di fuori di questa
prospettiva il mistero dell'esistenza personale rimane un enigma insolubile.
Dove l'uomo potrebbe cercare la risposta ad interrogativi drammatici come
quelli del dolore, della sofferenza dell'innocente e della morte, se non
nella luce che promana dal mistero della passione, morte e risurrezione di
Cristo? La ragione dinanzi al mistero 13. Non sarà, comunque, da dimenticare che
la Rivelazione permane carica di mistero. Certo, con tutta la sua vita Gesù
rivela il volto del Padre, essendo Egli venuto per spiegare i segreti di Dio;
(13) eppure, la conoscenza che noi abbiamo di tale volto è sempre segnata
dalla frammentarietà e dal limite del nostro comprendere. Solo la fede
permette di entrare all'interno del mistero, favorendone la coerente
intelligenza. Insegna il Concilio che « a Dio che si
rivela è dovuta l'obbedienza della fede ».(14) Con questa breve ma densa affermazione,
viene indicata una fondamentale verità del cristianesimo. Si dice, anzitutto,
che la fede è risposta di obbedienza a Dio. Ciò comporta che Egli venga
riconosciuto nella sua divinità, trascendenza e libertà suprema. Il Dio che
si fa conoscere, nell'autorità della sua assoluta trascendenza, porta anche
con sé la credibilità dei contenuti che rivela. Con la fede, l'uomo dona il
suo assenso a tale testimonianza divina. Ciò significa che riconosce
pienamente e integralmente la verità di quanto rivelato, perché è Dio stesso
che se ne fa garante. Questa verità, donata all'uomo e da lui non esigibile,
si inserisce nel contesto della comunicazione interpersonale e spinge la
ragione ad aprirsi ad essa e ad accoglierne il senso profondo. E per questo
che l'atto con il quale ci si affida a Dio è sempre stato considerato dalla
Chiesa come un momento di scelta fondamentale, in cui tutta la persona è
coinvolta. Intelletto e volontà esercitano al massimo la loro natura
spirituale per consentire al soggetto di compiere un atto in cui la libertà
personale è vissuta in maniera piena.(15) Nella fede, quindi, la libertà non
è semplicemente presente: è esigita. E la fede, anzi, che permette a ciascuno
di esprimere al meglio la propria libertà. In altre parole, la libertà non si
realizza nelle scelte contro Dio. Come infatti potrebbe essere considerato un
uso autentico della libertà il rifiuto di aprirsi verso ciò che permette la
realizzazione di se stessi? E nel credere che la persona compie l'atto più
significativo della propria esistenza; qui, infatti, la libertà raggiunge la
certezza della verità e decide di vivere in essa. In aiuto alla ragione, che cerca
l'intelligenza del mistero, vengono anche i segni presenti nella Rivelazione.
Essi servono a condurre più a fondo la ricerca della verità e a permettere
che la mente possa autonomamente indagare anche all'interno del mistero.
Questi segni, comunque, se da una parte danno maggior forza alla ragione,
perché le consentono di ricercare all'interno del mistero con i suoi propri
mezzi di cui è giustamente gelosa, dall'altra la spingono a trascendere la
loro realtà di segni per raccoglierne il significato ulteriore di cui sono
portatori. In essi, pertanto, è già presente una verità nascosta a cui la
mente è rinviata e da cui non può prescindere senza distruggere il segno
stesso che le viene proposto. Si è rimandati, in qualche modo,
all'orizzonte sacramentale della Rivelazione e, in particolare, al
segno eucaristico dove l'unità inscindibile tra la realtà e il suo
significato permette di cogliere la profondità del mistero. Cristo
nell'Eucaristia è veramente presente e vivo, opera con il suo Spirito, ma,
come aveva ben detto san Tommaso, « tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti
conferma, oltre la natura. E un segno ciò che appare: nasconde nel mistero
realtà sublimi ».(16) Gli fa eco il filosofo Pascal: « Come Gesù Cristo è
rimasto sconosciuto tra gli uomini, così la sua verità resta, tra le opinioni
comuni, senza differenza esteriore. Così resta l'Eucaristia tra il pane comune
».(17) La conoscenza di fede, insomma, non
annulla il mistero; solo lo rende più evidente e lo manifesta come fatto
essenziale per la vita dell'uomo: Cristo Signore « rivelando il mistero del
Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la
sua altissima vocazione »,(18) che è quella di partecipare al mistero della
vita trinitaria di Dio.(19) 14. L'insegnamento dei due Concili
Vaticani apre un vero orizzonte di novità anche per il sapere filosofico. La
Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l'uomo non
può prescindere, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua
esistenza; dall'altra parte, però, questa conoscenza rinvia costantemente al
mistero di Dio che la mente non può esaurire, ma solo ricevere e accogliere
nella fede. All'interno di questi due momenti, la ragione possiede un suo
spazio peculiare che le permette di indagare e comprendere, senza essere
limitata da null'altro che dalla sua finitezza di fronte al mistero infinito
di Dio. La Rivelazione, pertanto, immette nella
nostra storia una verità universale e ultima che provoca la mente dell'uomo a
non fermarsi mai; la spinge, anzi, ad allargare continuamente gli spazi del
proprio sapere fino a quando non avverte di avere compiuto quanto era in suo
potere, senza nulla tralasciare. Ci viene in aiuto per questa riflessione una
delle intelligenze più feconde e significative della storia dell'umanità, a
cui fanno doveroso riferimento sia la filosofia che la teologia:
sant'Anselmo. Nel suo Proslogion, l'Arcivescovo di Canterbury così si
esprime: « Volgendo spesso e con impegno il mio pensiero a questo problema, a
volte mi sembrava di poter ormai afferrare ciò che cercavo, altre volte
invece sfuggiva completamente al mio pensiero; finché finalmente, disperando
di poterlo trovare, volli smettere di ricercare qualcosa che era impossibile
trovare. Ma quando volli scacciare da me quel pensiero perché, occupando la
mia mente, non mi distogliesse da altri problemi dai quali potevo ricavare
qualche profitto, allora cominciò a presentarsi con sempre maggior
importunità [...]. Ma povero me, uno dei poveri figli di Eva, lontani da Dio,
che cosa ho cominciato a fare e a che cosa sono riuscito? A che cosa tendevo
e a che cosa sono giunto? A che cosa aspiravo e di che sospiro? [...]. O
Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (non
solum es quo maius cogitari nequit), ma sei più grande di tutto ciò che
si possa pensare (quiddam maius quam cogitari possit) [...]. Se tu non
fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è
impossibile ».(20) 15. La verità della Rivelazione cristiana,
che si incontra in Gesù di Nazareth, permette a chiunque di accogliere il «
mistero » della propria vita. Come verità suprema, essa, mentre rispetta
l'autonomia della creatura e la sua libertà, la impegna ad aprirsi alla
trascendenza. Qui il rapporto libertà e verità diventa sommo e si comprende
in pienezza la parola del Signore: « Conoscerete la verità e la verità vi
farà liberi » (Gv 8, 32). La Rivelazione cristiana è la vera stella
di orientamento per l'uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità
immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica; è l'ultima
possibilità che viene offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto
originario di amore, iniziato con la creazione. All'uomo desideroso di
conoscere il vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso e di
innalzare lo sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità di
recuperare il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della
verità. Le parole del Deuteronomio bene si possono applicare a questa
situazione: « Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né
troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in
cielo per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non è di
là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo
e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto
vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica
» (30,11-14). A questo testo fa eco il famoso pensiero del santo filosofo e
teologo Agostino: « Noli foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine
habitat veritas ».(21) Alla luce di queste considerazioni, una
prima conclusione si impone: la verità che la Rivelazione ci fa conoscere non
è il frutto maturo o il punto culminante di un pensiero elaborato dalla
ragione. Essa, invece, si presenta con la caratteristica della gratuità,
produce pensiero e chiede di essere accolta come espressione di amore. Questa
verità rivelata è anticipo, posto nella nostra storia, di quella visione
ultima e definitiva di Dio che è riservata a quanti credono in lui o lo
ricercano con cuore sincero. Il fine ultimo dell'esistenza personale, dunque,
è oggetto di studio sia della filosofia che della teologia. Ambedue, anche se
con mezzi e contenuti diversi, prospettano questo « sentiero della vita » (Sal
16 [15], 11) che, come la fede ci dice, ha il suo sbocco ultimo nella
gioia piena e duratura della contemplazione del Dio Uno e Trino. CAPITOLO
II CREDO
UT INTELLEGAM « La sapienza tutto conosce e tutto
comprende » (Sap 9, 11) 16. Quanto profondo sia il legame tra la conoscenza
di fede e quella di ragione è indicato già nella Sacra Scrittura con spunti
di sorprendente chiarezza. Lo documentano soprattutto i Libri sapienziali.
Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza preconcetti, di queste pagine
della Scrittura è il fatto che in questi testi venga racchiusa non soltanto
la fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di culture ormai
scomparse. Quasi per un disegno particolare, l'Egitto e la Mesopotamia fanno
sentire di nuovo la loro voce ed alcuni tratti comuni delle culture
dell'antico Oriente vengono riportati in vita in queste pagine ricche di
intuizioni singolarmente profonde. Non è un caso che, nel momento in cui
l'autore sacro vuole descrivere l'uomo saggio, lo dipinga come colui che ama
e ricerca la verità: « Beato l'uomo che medita sulla sapienza e ragiona con
l'intelligenza, considera nel cuore le sue vie, ne penetra con la mente i
segreti. La insegue come uno che segue una pista, si apposta sui suoi
sentieri. Egli spia alle sue finestre e sta ad ascoltare alla sua porta. Fa
sosta vicino alla sua casa e fissa un chiodo nelle sue pareti; alza la
propria tenda presso di essa e si ripara in un rifugio di benessere; mette i
propri figli sotto la sua protezione e sotto i suoi rami soggiorna; da essa
sarà protetto contro il caldo, egli abiterà all'ombra della sua gloria » (Sir
14, 20-27). Per l'autore ispirato, come si vede, il
desiderio di conoscere è una caratteristica che accomuna tutti gli uomini.
Grazie all'intelligenza è data a tutti, sia credenti che non credenti, la
possibilità di « attingere alle acque profonde » della conoscenza (cfr Pro
20, 5). Certo, nell'antico Israele la conoscenza del mondo e dei suoi
fenomeni non avveniva per via di astrazione, come per il filosofo ionico o il
saggio egiziano. Ancor meno il buon israelita concepiva la conoscenza con i
parametri propri dell'epoca moderna, tesa maggiormente alla divisione del
sapere. Nonostante questo, il mondo biblico ha fatto confluire nel grande
mare della teoria della conoscenza il suo apporto originale. Quale? La peculiarità che distingue il
testo biblico consiste nella convinzione che esista una profonda e
inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e quella della fede. Il
mondo e ciò che accade in esso, come pure la storia e le diverse vicende del
popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e giudicate con i mezzi
propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea a questo processo.
Essa non interviene per umiliare l'autonomia della ragione o per ridurne lo
spazio di azione, ma solo per far comprendere all'uomo che in questi eventi
si rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo il mondo e
gli avvenimenti della storia non è, pertanto, possibile senza confessare al
contempo la fede in Dio che in essi opera. La fede affina lo sguardo
interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la presenza
operante della Provvidenza. Un'espressione del libro dei Proverbi è
significativa in proposito: « La mente dell'uomo pensa molto alla sua via, ma
il Signore dirige i suoi passi » (16, 9). Come dire, l'uomo con la luce della
ragione sa riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in maniera
spedita, senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto inserisce la sua
ricerca nell'orizzonte della fede. La ragione e la fede, pertanto, non
possono essere separate senza che venga meno per l'uomo la possibilità di
conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio. 17. Non ha dunque motivo di esistere
competitività alcuna tra la ragione e la fede: l'una è nell'altra, e ciascuna
ha un suo spazio proprio di realizzazione. E sempre il libro dei Proverbi che
orienta in questa direzione quando esclama: « E gloria di Dio nascondere le
cose, è gloria dei re investigarle » (Pro 25, 2). Dio e l'uomo, nel
loro rispettivo mondo, sono posti in un rapporto unico. In Dio risiede
l'origine di ogni cosa, in Lui si raccoglie la pienezza del mistero, e questo
costituisce la sua gloria; all'uomo spetta il compito di investigare con la
sua ragione la verità, e in ciò consiste la sua nobiltà. Un'ulteriore tessera
a questo mosaico è aggiunta dal Salmista quando prega dicendo: « Quanto
profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio; se li
conto sono più della sabbia, se li credo finiti, con te sono ancora » (139 [138],
17-18). Il desiderio di conoscere è così grande e comporta un tale dinamismo,
che il cuore dell'uomo, pur nell'esperienza del limite invalicabile, sospira
verso l'infinita ricchezza che sta oltre, perché intuisce che in essa è
custodita la risposta appagante per ogni questione ancora irrisolta. 18. Possiamo dire, pertanto, che Israele
con la sua riflessione ha saputo aprire alla ragione la via verso il mistero.
Nella rivelazione di Dio ha potuto scandagliare in profondità quanto con la
ragione cercava di raggiungere senza riuscirvi. A partire da questa più
profonda forma di conoscenza, il popolo eletto ha capito che la ragione deve
rispettare alcune regole di fondo per poter esprimere al meglio la propria
natura. Una prima regola consiste nel tener conto del fatto che la conoscenza
dell'uomo è un cammino che non ha sosta; la seconda nasce dalla
consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con l'orgoglio di chi
pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza si fonda nel «
timore di Dio », del quale la ragione deve riconoscere la sovrana
trascendenza ed insieme il provvido amore nel governo del mondo. Quando s'allontana da queste regole,
l'uomo s'espone al rischio del fallimento e finisce per trovarsi nella
condizione dello « stolto ». Per la Bibbia, in questa stoltezza è insita una
minaccia per la vita. Lo stolto infatti si illude di conoscere molte cose, ma
in realtà non è capace di fissare lo sguardo su quelle essenziali. Ciò gli
impedisce di porre ordine nella sua mente (cfr Pro 1, 7) e di assumere
un atteggiamento adeguato nei confronti di se stesso e dell'ambiente
circostante. Quando poi giunge ad affermare « Dio non esiste » (cfr Sal 14
[13], 1), rivela con definitiva chiarezza quanto la sua conoscenza sia
carente e quanto lontano egli sia dalla verità piena sulle cose, sulla loro
origine e sul loro destino. 19. Alcuni testi importanti, che gettano
ulteriore luce su questo argomento, sono contenuti nel Libro della Sapienza.
In essi l'Autore sacro parla di Dio che si fa conoscere anche attraverso la
natura. Per gli antichi lo studio delle scienze naturali coincideva in gran
parte con il sapere filosofico. Dopo aver affermato che con la sua
intelligenza l'uomo è in grado di « comprendere la struttura del mondo e la
forza degli elementi [...] il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la
natura degli animali e l'istinto delle fiere » (Sap 7, 17.19-20), in
una parola, che è capace di filosofare, il testo sacro compie un passo in
avanti di grande rilievo. Ricuperando il pensiero della filosofia greca, a
cui sembra riferirsi in questo contesto, l'Autore afferma che, proprio
ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore: « Dalla grandezza e
bellezza delle creature, per analogia si conosce l'autore » (Sap 13,
5). Viene quindi riconosciuto un primo stadio della Rivelazione divina,
costituito dal meraviglioso « libro della natura », leggendo il quale, con
gli strumenti propri della ragione umana, si può giungere alla conoscenza del
Creatore. Se l'uomo con la sua intelligenza non arriva a riconoscere Dio
creatore di tutto, ciò non è dovuto tanto alla mancanza di un mezzo adeguato,
quanto piuttosto all'impedimento frapposto dalla sua libera volontà e dal suo
peccato. 20. La ragione, in questa prospettiva,
viene valorizzata, ma non sopravvalutata. Quanto essa raggiunge, infatti, può
essere vero, ma acquista pieno significato solamente se il suo contenuto
viene posto in un orizzonte più ampio, quello della fede: « Dal Signore sono
diretti i passi dell'uomo e come può l'uomo comprendere la propria via? » (Pro
20, 24). Per l'Antico Testamento, pertanto, la fede libera la ragione in
quanto le permette di raggiungere coerentemente il suo oggetto di conoscenza
e di collocarlo in quell'ordine supremo in cui tutto acquista senso. In una
parola, l'uomo con la ragione raggiunge la verità, perché illuminato dalla
fede scopre il senso profondo di ogni cosa e, in particolare, della propria
esistenza. Giustamente, dunque, l'autore sacro pone l'inizio della vera
conoscenza proprio nel timore di Dio: « Il timore del Signore è il principio
della scienza » (Pro 1, 7; cfr Sir 1, 14). « Acquista la sapienza, acquista
l'intelligenza » (Pro 4,
5) 21. La conoscenza, per l'Antico
Testamento, non si fonda soltanto su una attenta osservazione dell'uomo, del
mondo e della storia, ma suppone anche un indispensabile rapporto con la fede
e con i contenuti della Rivelazione. Qui si trovano le sfide che il popolo
eletto ha dovuto affrontare e a cui ha dato risposta. Riflettendo su questa
sua condizione, l'uomo biblico ha scoperto di non potersi comprendere se non
come « essere in relazione »: con se stesso, con il popolo, con il mondo e
con Dio. Questa apertura al mistero, che gli veniva dalla Rivelazione, è
stata alla fine per lui la fonte di una vera conoscenza, che ha permesso alla
sua ragione di immettersi in spazi di infinito, ricevendone possibilità di
comprensione fino allora insperate. Lo sforzo della ricerca non era esente,
per l'Autore sacro, dalla fatica derivante dallo scontro con i limiti della
ragione. Lo si avverte, ad esempio, nelle parole con cui il Libro dei
Proverbi denuncia la stanchezza dovuta al tentativo di comprendere i
misteriosi disegni di Dio (cfr 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la fatica, il
credente non si arrende. La forza per continuare il suo cammino verso la
verità gli viene dalla certezza che Dio lo ha creato come un « esploratore »
(cfr Qo 1, 13), la cui missione è di non lasciare nulla di intentato
nonostante il continuo ricatto del dubbio. Poggiando su Dio, egli resta
proteso, sempre e dovunque, verso ciò che è bello, buono e vero. 22. San Paolo, nel primo capitolo della
sua Lettera ai Romani, ci aiuta a meglio apprezzare quanto penetrante sia la
riflessione dei Libri Sapienziali. Sviluppando un'argomentazione filosofica
con linguaggio popolare, l'Apostolo esprime una profonda verità: attraverso
il creato gli « occhi della mente » possono arrivare a conoscere Dio. Egli,
infatti, mediante le creature fa intuire alla ragione la sua « potenza » e la
sua « divinità » (cfr Rm 1, 20). Alla ragione dell'uomo, quindi, viene
riconosciuta una capacità che sembra quasi superare gli stessi suoi limiti
naturali: non solo essa non è confinata entro la conoscenza sensoriale, dal
momento che può riflettervi sopra criticamente, ma argomentando sui dati dei
sensi può anche raggiungere la causa che sta all'origine di ogni realtà
sensibile. Con terminologia filosofica potremmo dire che, nell'importante
testo paolino, viene affermata la capacità metafisica dell'uomo. Secondo l'Apostolo, nel progetto
originario della creazione era prevista la capacità della ragione di
oltrepassare agevolmente il dato sensibile per raggiungere l'origine stessa
di tutto: il Creatore. A seguito della disobbedienza con la quale l'uomo
scelse di porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a Colui che
lo aveva creato, questa facilità di risalita a Dio creatore è venuta meno. Il Libro della Genesi descrive in maniera
plastica questa condizione dell'uomo, quando narra che Dio lo pose nel
giardino dell'Eden, al cui centro era situato « l'albero della conoscenza del
bene e del male » (2, 17). Il simbolo è chiaro: l'uomo non era in grado di
discernere e decidere da sé ciò che era bene e ciò che era male, ma doveva
richiamarsi a un principio superiore. La cecità dell'orgoglio illuse i nostri
progenitori di essere sovrani e autonomi, e di poter prescindere dalla
conoscenza derivante da Dio. Nella loro originaria disobbedienza essi
coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione ferite che da
allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino verso la piena verità. Ormai
la capacità umana di conoscere la verità era offuscata dall'avversione verso
Colui che della verità è fonte e origine. E ancora l'Apostolo a rivelare
quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato, fossero diventati « vani
» e i ragionamenti distorti e orientati al falso (cfr Rm 1, 21-22).
Gli occhi della mente non erano ormai più capaci di vedere con chiarezza:
progressivamente la ragione è rimasta prigioniera di se stessa. La venuta di
Cristo è stata l'evento di salvezza che ha redento la ragione dalla sua
debolezza, liberandola dai ceppi in cui essa stessa s'era imprigionata. 23. Il rapporto del cristiano con la
filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo
Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande
chiarezza: la contrapposizione tra « la sapienza di questo mondo » e quella
di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza
il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in
grado di esprimerla in maniera adeguata. L'inizio della prima Lettera ai Corinzi
pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l'evento
storico contro cui s'infrange ogni tentativo della mente di costruire su
argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso
dell'esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in
croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano
salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. « Dov'è il
sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo?
Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? » (1 Cor 1,
20), si domanda con enfasi l'Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è
più possibile la sola sapienza dell'uomo saggio, ma è richiesto un passaggio
decisivo verso l'accoglienza di una novità radicale: « Dio ha scelto ciò che
nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel
mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose
che sono » (1 Cor 1, 27-28). La sapienza dell'uomo rifiuta di vedere
nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non
esita ad affermare: « Quando sono debole, è allora che sono forte » (2 Cor
12, 10). L'uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte
di vita e di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno
di salvezza proprio ciò che la ragione considera « follia » e « scandalo ».
Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il
culmine del suo insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: « Dio ha
scelto ciò che nel mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le cose che sono »
(1 Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell'amore
rivelato nella croce di Cristo, l'Apostolo non ha timore di usare il
linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su
Dio. La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce
rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che
essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò
che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza. La sapienza della Croce, dunque, supera
ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi
all'universalità della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene posta
alla nostra ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La
filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l'incessante trascendersi
dell'uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella
« follia » della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere
la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il rapporto fede e
filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio
contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell'oceano
sconfinato della verità. Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e
la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono
incontrare. CAPITOLO
III INTELLEGO
UT CREDAM In cammino alla ricerca della verità 24. Racconta l'evangelista Luca negli Atti
degli Apostoli che, durante i suoi viaggi missionari, Paolo arrivò ad Atene.
La città dei filosofi era ricolma di statue rappresentanti diversi idoli. Un
altare colpì la sua attenzione ed egli ne trasse prontamente lo spunto per
individuare una base comune su cui avviare l'annuncio del kerigma: «
Cittadini ateniesi, — disse — vedo che in tutto siete molto timorati degli
dei. Passando, infatti, e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato
anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza
conoscere, io ve lo annunzio » (At 17, 22-23). A partire da qui, san Paolo
parla di Dio come creatore, come di Colui che trascende ogni cosa e che a
tutto dà vita. Continua poi il suo discorso così: « Egli creò da uno solo
tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della
terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio,
perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni,
benché non sia lontano da ciascuno di noi » (At 17, 26-27). L'Apostolo mette in luce una verità di cui
la Chiesa ha sempre fatto tesoro: nel più profondo del cuore dell'uomo è
seminato il desiderio e la nostalgia di Dio. Lo ricorda con forza anche la
liturgia del Venerdì Santo quando, invitando a pregare per quanti non
credono, ci fa dire: « O Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel cuore
degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano
hanno pace ».(22) Esiste quindi un cammino che l'uomo, se vuole, può
percorrere; esso prende il via dalla capacità della ragione di innalzarsi al
di sopra del contingente per spaziare verso l'infinito. In differenti modi e in diversi tempi
l'uomo ha dimostrato di saper dare voce a questo suo intimo desiderio. La
letteratura, la musica, la pittura, la scultura, l'architettura ed ogni altro
prodotto della sua intelligenza creatrice sono diventati canali attraverso
cui esprimere l'ansia della sua ricerca. La filosofia in modo peculiare ha
raccolto in sé questo movimento ed ha espresso, con i suoi mezzi e secondo le
modalità scientifiche sue proprie, questo universale desiderio dell'uomo. 25. « Tutti gli uomini desiderano sapere
»,(23) e oggetto proprio di questo desiderio è la verità. La stessa vita
quotidiana mostra quanto ciascuno sia interessato a scoprire, oltre il
semplice sentito dire, come stanno veramente le cose. L'uomo è l'unico essere
in tutto il creato visibile che non solo è capace di sapere, ma sa anche di
sapere, e per questo si interessa alla verità reale di ciò che gli appare.
Nessuno può essere sinceramente indifferente alla verità del suo sapere. Se
scopre che è falso, lo rigetta; se può, invece, accertarne la verità, si
sente appagato. E la lezione di sant'Agostino quando scrive: « Molti ho
incontrato che volevano ingannare, ma che volesse farsi ingannare, nessuno
».(24) Giustamente si ritiene che una persona abbia raggiunto l'età adulta
quando può discernere, con i propri mezzi, tra ciò che è vero e ciò che è
falso, formandosi un suo giudizio sulla realtà oggettiva delle cose. Sta qui
il motivo di tante ricerche, in particolare nel campo delle scienze, che
hanno portato negli ultimi secoli a così significativi risultati, favorendo
un autentico progresso dell'umanità intera. Non meno importante della ricerca in
ambito teoretico è quella in ambito pratico: intendo alludere alla ricerca
della verità in rapporto al bene da compiere. Con il proprio agire etico,
infatti, la persona, operando secondo il suo libero e retto volere, si
introduce nella strada della felicità e tende verso la perfezione. Anche in
questo caso si tratta di verità. Ho ribadito questa convinzione nella Lettera
enciclica Veritatis splendor: « Non si dà morale senza libertà [...].
Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca
della verità, esiste ancora prima l'obbligo morale grave per ciascuno di
cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta ».(25) E necessario, dunque, che i valori scelti
e perseguiti con la propria vita siano veri, perché soltanto valori veri
possono perfezionare la persona realizzandone la natura. Questa verità dei
valori, l'uomo la trova non rinchiudendosi in se stesso ma aprendosi ad
accoglierla anche nelle dimensioni che lo trascendono. E questa una
condizione necessaria perché ognuno diventi se stesso e cresca come persona
adulta e matura. 26. La verità inizialmente si presenta all'uomo
in forma interrogativa: ha un senso la vita? verso dove è diretta? A
prima vista, l'esistenza personale potrebbe presentarsi radicalmente priva di
senso. Non è necessario ricorrere ai filosofi dell'assurdo né alle
provocatorie domande che si ritrovano nel Libro di Giobbe per dubitare del
senso della vita. L'esperienza quotidiana della sofferenza, propria ed
altrui, la vista di tanti fatti che alla luce della ragione appaiono
inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica come
quella sul senso.(26) A ciò si aggiunga che la prima verità assolutamente
certa della nostra esistenza, oltre al fatto che esistiamo, è l'inevitabilità
della nostra morte. Di fronte a questo dato sconcertante s'impone la ricerca
di una risposta esaustiva. Ognuno vuole — e deve — conoscere la verità sulla
propria fine. Vuole sapere se la morte sarà il termine definitivo della sua
esistenza o se vi è qualcosa che oltrepassa la morte; se gli è consentito
sperare in una vita ulteriore oppure no. Non è senza significato che il
pensiero filosofico abbia ricevuto un suo decisivo orientamento dalla morte
di Socrate e ne sia rimasto segnato da oltre due millenni. Non è affatto
casuale, quindi, che i filosofi dinanzi al fatto della morte si siano
riproposti sempre di nuovo questo problema insieme con quello sul senso della
vita e dell'immortalità. 27. A questi interrogativi nessuno può
sfuggire, né il filosofo né l'uomo comune. Dalla risposta ad essi data
dipende una tappa decisiva della ricerca: se sia possibile o meno raggiungere
una verità universale e assoluta. Di per sé, ogni verità anche parziale, se è
realmente verità, si presenta come universale. Ciò che è vero, deve essere
vero per tutti e per sempre. Oltre a questa universalità, tuttavia, l'uomo
cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua
ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento di ogni cosa. In
altre parole, egli cerca una spiegazione definitiva, un valore supremo, oltre
il quale non vi siano né vi possano essere interrogativi o rimandi ulteriori.
Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano. Viene per tutti il momento
in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la propria esistenza ad
una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più sottoposta
al dubbio. I filosofi, nel corso dei secoli, hanno
cercato di scoprire e di esprimere una simile verità, dando vita a un sistema
o una scuola di pensiero. Al di là dei sistemi filosofici, tuttavia, vi sono
altre espressioni in cui l'uomo cerca di dare forma a una sua « filosofia »:
si tratta di convinzioni o esperienze personali, di tradizioni familiari e
culturali o di itinerari esistenziali in cui ci si affida all'autorità di un
maestro. In ognuna di queste manifestazioni ciò che permane sempre vivo è il
desiderio di raggiungere la certezza della verità e del suo valore assoluto. I differenti volti della verità
dell'uomo 28. Non sempre, è doveroso riconoscerlo,
la ricerca della verità si presenta con una simile trasparenza e
consequenzialità. La nativa limitatezza della ragione e l'incostanza del
cuore oscurano e deviano spesso la ricerca personale. Altri interessi di
vario ordine possono sopraffare la verità. Succede anche che l'uomo
addirittura la sfugga non appena comincia ad intravederla, perché ne teme le
esigenze. Nonostante questo, anche quando la evita, è sempre la verità ad
influenzarne l'esistenza. Mai, infatti, egli potrebbe fondare la propria vita
sul dubbio, sull'incertezza o sulla menzogna; una simile esistenza sarebbe
minacciata costantemente dalla paura e dall'angoscia. Si può definire,
dunque, l'uomo come colui che cerca la verità. 29. Non è pensabile che una ricerca così
profondamente radicata nella natura umana possa essere del tutto inutile e
vana. La stessa capacità di cercare la verità e di porre domande implica già
una prima risposta. L'uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse del
tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. Solo la prospettiva di poter
arrivare ad una risposta può indurlo a muovere il primo passo. Di fatto,
proprio questo è ciò che normalmente accade nella ricerca scientifica. Quando
uno scienziato, a seguito di una sua intuizione, si pone alla ricerca della
spiegazione logica e verificabile di un determinato fenomeno, egli ha fiducia
fin dall'inizio di trovare una risposta, e non s'arrende davanti agli
insuccessi. Egli non ritiene inutile l'intuizione originaria solo perché non
ha raggiunto l'obiettivo; con ragione dirà piuttosto che non ha trovato
ancora la risposta adeguata. La stessa cosa deve valere anche per la
ricerca della verità nell'ambito delle questioni ultime. La sete di verità è
talmente radicata nel cuore dell'uomo che il doverne prescindere
comprometterebbe l'esistenza. E sufficiente, insomma, osservare la vita di
tutti i giorni per costatare come ciascuno di noi porti in sé l'assillo di
alcune domande essenziali ed insieme custodisca nel proprio animo almeno
l'abbozzo delle relative risposte. Sono risposte della cui verità si è
convinti, anche perché si sperimenta che, nella sostanza, non differiscono
dalle risposte a cui sono giunti tanti altri. Certo, non ogni verità che
viene acquisita possiede lo stesso valore. Dall'insieme dei risultati
raggiunti, tuttavia, viene confermata la capacità che l'essere umano ha di
pervenire, in linea di massima, alla verità. 30. Può essere utile, ora, fare un rapido
cenno a queste diverse forme di verità. Le più numerose sono quelle che
poggiano su evidenze immediate o trovano conferma per via di esperimento. E
questo l'ordine di verità proprio della vita quotidiana e della ricerca
scientifica. A un altro livello si trovano le verità di carattere filosofico,
a cui l'uomo giunge mediante la capacità speculativa del suo intelletto.
Infine, vi sono le verità religiose, che in qualche misura affondano le loro
radici anche nella filosofia. Esse sono contenute nelle risposte che le varie
religioni nelle loro tradizioni offrono alle domande ultime.(27) Quanto alle verità filosofiche, occorre
precisare che esse non si limitano alle sole dottrine, talvolta effimere, dei
filosofi di professione. Ogni uomo, come già ho detto, è in certo qual modo
un filosofo e possiede proprie concezioni filosofiche con le quali orienta la
sua vita. In un modo o in un altro, egli si forma una visione globale e una
risposta sul senso della propria esistenza: in tale luce egli interpreta la
propria vicenda personale e regola il suo comportamento. E qui che dovrebbe
porsi la domanda sul rapporto tra le verità filosofico-religiose e la verità
rivelata in Gesù Cristo. Prima di rispondere a questo interrogativo è
opportuno valutare un ulteriore dato della filosofia. 31. L'uomo non è fatto per vivere solo.
Egli nasce e cresce in una famiglia, per inserirsi più tardi con il suo
lavoro nella società. Fin dalla nascita, quindi, si trova immerso in varie
tradizioni, dalle quali riceve non soltanto il linguaggio e la formazione
culturale, ma anche molteplici verità a cui, quasi istintivamente, crede. La
crescita e la maturazione personale, comunque, implicano che queste stesse
verità possano essere messe in dubbio e vagliate attraverso la peculiare
attività critica del pensiero. Ciò non toglie che, dopo questo passaggio,
quelle stesse verità siano « ricuperate » sulla base dell'esperienza che se
ne è fatta, o in forza del ragionamento successivo. Nonostante questo, nella
vita di un uomo le verità semplicemente credute rimangono molto più numerose
di quelle che egli acquisisce mediante la personale verifica. Chi, infatti,
sarebbe in grado di vagliare criticamente gli innumerevoli risultati delle scienze
su cui la vita moderna si fonda? Chi potrebbe controllare per conto proprio
il flusso delle informazioni, che giorno per giorno si ricevono da ogni parte
del mondo e che pure si accettano, in linea di massima, come vere? Chi,
infine, potrebbe rifare i cammini di esperienza e di pensiero per cui si sono
accumulati i tesori di saggezza e di religiosità dell'umanità? L'uomo, essere
che cerca la verità, è dunque anche colui che vive di credenza. 32. Nel credere, ciascuno si affida alle
conoscenze acquisite da altre persone. E ravvisabile in ciò una tensione
significativa: da una parte, la conoscenza per credenza appare come una forma
imperfetta di conoscenza, che deve perfezionarsi progressivamente mediante
l'evidenza raggiunta personalmente; dall'altra, la credenza risulta spesso
umanamente più ricca della semplice evidenza, perché include un rapporto
interpersonale e mette in gioco non solo le personali capacità conoscitive,
ma anche la capacità più radicale di affidarsi ad altre persone, entrando in
un rapporto più stabile ed intimo con loro. E bene sottolineare che le verità
ricercate in questa relazione interpersonale non sono primariamente
nell'ordine fattuale o in quello filosofico. Ciò che viene richiesto,
piuttosto, è la verità stessa della persona: ciò che essa è e ciò che
manifesta del proprio intimo. La perfezione dell'uomo, infatti, non sta nella
sola acquisizione della conoscenza astratta della verità, ma consiste anche
in un rapporto vivo di donazione e di fedeltà verso l'altro. In questa fedeltà
che sa donarsi, l'uomo trova piena certezza e sicurezza. Al tempo stesso,
però, la conoscenza per credenza, che si fonda sulla fiducia interpersonale,
non è senza riferimento alla verità: l'uomo, credendo, si affida alla verità
che l'altro gli manifesta. Quanti esempi si potrebbero portare per
illustrare questo dato! Il mio pensiero, però, corre direttamente alla
testimonianza dei martiri. Il martire, in effetti, è il più genuino testimone
della verità sull'esistenza. Egli sa di avere trovato nell'incontro con Gesù
Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà mai strappargli
questa certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare
recedere dall'adesione alla verità che ha scoperto nell'incontro con Cristo.
Ecco perché fino ad oggi la testimonianza dei martiri affascina, genera
consenso, trova ascolto e viene seguita. Questa è la ragione per cui ci si
fida della loro parola: si scopre in essi l'evidenza di un amore che non ha
bisogno di lunghe argomentazioni per essere convincente, dal momento che
parla ad ognuno di ciò che egli nel profondo già percepisce come vero e
ricercato da tanto tempo. Il martire, insomma, provoca in noi una profonda
fiducia, perché dice ciò che noi già sentiamo e rende evidente ciò che anche
noi vorremmo trovare la forza di esprimere. 33. Si può così vedere che i termini del
problema vanno progressivamente completandosi. L'uomo, per natura, ricerca la
verità. Questa ricerca non è destinata solo alla conquista di verità parziali,
fattuali o scientifiche; egli non cerca soltanto il vero bene per ognuna
delle sue decisioni. La sua ricerca tende verso una verità ulteriore che sia
in grado di spiegare il senso della vita; è perciò una ricerca che non può
trovare esito se non nell'assoluto.(28) Grazie alle capacità insite nel
pensiero, l'uomo è in grado di incontrare e riconoscere una simile verità. In
quanto vitale ed essenziale per la sua esistenza, tale verità viene raggiunta
non solo per via razionale, ma anche mediante l'abbandono fiducioso ad altre
persone, che possono garantire la certezza e l'autenticità della verità
stessa. La capacità e la scelta di affidare se stessi e la propria vita a
un'altra persona costituiscono certamente uno degli atti antropologicamente
più significativi ed espressivi. Non si dimentichi che anche la ragione ha
bisogno di essere sostenuta nella sua ricerca da un dialogo fiducioso e da
un'amicizia sincera. Il clima di sospetto e di diffidenza, che a volte
circonda la ricerca speculativa, dimentica l'insegnamento dei filosofi
antichi, i quali ponevano l'amicizia come uno dei contesti più adeguati per
il retto filosofare. Da quanto ho fin qui detto, risulta che
l'uomo si trova in un cammino di ricerca, umanamente interminabile: ricerca
di verità e ricerca di una persona a cui affidarsi. La fede cristiana gli
viene incontro offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo
scopo di questa ricerca. Superando lo stadio della semplice credenza,
infatti, essa immette l'uomo in quell'ordine di grazia che gli consente di
partecipare al mistero di Cristo, nel quale gli è offerta la conoscenza vera
e coerente del Dio Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è la Verità, la fede
riconosce l'ultimo appello che viene rivolto all'umanità, perché possa dare compimento
a ciò che sperimenta come desiderio e nostalgia. 34. Questa verità, che Dio ci rivela in
Gesù Cristo, non è in contrasto con le verità che si raggiungono filosofando.
I due ordini di conoscenza conducono anzi alla verità nella sua pienezza.
L'unità della verità è già un postulato fondamentale della ragione umana,
espresso nel principio di non-contraddizione. La Rivelazione dà la certezza
di questa unità, mostrando che il Dio creatore è anche il Dio della storia
della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce
l'intelligibilità e la ragionevolezza dell'ordine naturale delle cose su cui
gli scienziati si appoggiano fiduciosi,(29) è il medesimo che si rivela Padre
di nostro Signore Gesù Cristo. Quest'unità della verità, naturale e rivelata,
trova la sua identificazione viva e personale in Cristo, così come ricorda
l'Apostolo: « La verità che è in Gesù » (Ef 4, 21; cfr Col 1,
15-20). Egli è la Parola eterna, in cui tutto è stato creato, ed è
insieme la Parola incarnata, che in tutta la sua persona (30) rivela
il Padre (cfr Gv 1, 14.18). Ciò che la ragione umana cerca « senza
conoscerlo » (cfr At 17, 23), può essere trovato soltanto per mezzo di
Cristo: ciò che in Lui si rivela, infatti, è la « piena verità » (cfr Gv 1,
14-16) di ogni essere che in Lui e per Lui è stato creato e quindi in Lui
trova compimento (cfr Col 1, 17). 35. Sullo sfondo di queste considerazioni
generali, è necessario ora esaminare in maniera più diretta il rapporto tra
la verità rivelata e la filosofia. Questo rapporto impone una duplice
considerazione, in quanto la verità che ci proviene dalla Rivelazione è,
nello stesso tempo, una verità che va compresa alla luce della ragione. Solo
in questa duplice accezione, infatti, è possibile precisare la giusta
relazione della verità rivelata con il sapere filosofico. Consideriamo,
pertanto, in primo luogo i rapporti tra la fede e la filosofia nel corso
della storia. Da qui sarà possibile individuare alcuni principi, che
costituiscono i punti di riferimento a cui rifarsi per stabilire il corretto
rapporto tra i due ordini di conoscenza. CAPITOLO
IV IL
RAPPORTO Tappe significative dell'incontro
tra fede e ragione 36. Secondo la testimonianza degli Atti
degli Apostoli, l'annuncio cristiano venne a confronto sin dagli inizi con le
correnti filosofiche del tempo. Lo stesso libro riferisce della discussione
che san Paolo ebbe ad Atene con « certi filosofi epicurei e stoici » (17,
18). L'analisi esegetica di quel discorso all'Areopago ha posto in evidenza le
ripetute allusioni a convincimenti popolari di provenienza per lo più stoica.
Certamente ciò non era casuale. Per farsi comprendere dai pagani, i primi
cristiani non potevano nei loro discorsi rinviare soltanto « a Mosè e ai
profeti »; dovevano anche far leva sulla conoscenza naturale di Dio e sulla
voce della coscienza morale di ogni uomo (cfr Rm 1, 19-21; 2, 14-15; At 14,
16-17). Poiché però tale conoscenza naturale, nella religione pagana, era
scaduta in idolatria (cfr Rm 1, 21-32), l'Apostolo ritenne più saggio
collegare il suo discorso al pensiero dei filosofi, i quali fin dagli inizi
avevano opposto ai miti e ai culti misterici concetti più rispettosi della
trascendenza divina. Uno degli sforzi maggiori che i filosofi
del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la
concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo,
anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni
cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della
natura. I tentativi dell'uomo di comprendere l'origine degli dei e, in loro,
dell'universo trovarono la loro prima espressione nella poesia. Le teogonie
rimangono, fino ad oggi, la prima testimonianza di questa ricerca dell'uomo.
Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e
la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si
accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento
razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada
che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno
sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine
verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui
si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione
della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la
religione fu, almeno in parte, purificata mediante l'analisi razionale. Fu su
questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i
filosofi antichi, aprendo la strada all'annuncio e alla comprensione del Dio
di Gesù Cristo. 37. Nell'accennare a questo movimento di
avvicinamento dei cristiani alla filosofia, è doveroso ricordare anche
l'atteggiamento di cautela che in essi suscitavano altri elementi del mondo
culturale pagano, quali ad esempio la gnosi. La filosofia, come saggezza
pratica e scuola di vita, poteva facilmente essere confusa con una conoscenza
di tipo superiore, esoterico, riservato a pochi perfetti. E senza dubbio a
questo genere di speculazioni esoteriche che san Paolo pensa, quando mette in
guardia i Colossesi: « Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e
con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del
mondo e non secondo Cristo » (2, 8). Quanto mai attuali si presentano le
parole dell'Apostolo, se le riferiamo alle diverse forme di esoterismo che
dilagano oggi anche presso alcuni credenti, privi del dovuto senso critico.
Sulle orme di san Paolo, altri scrittori dei primi secoli, in particolare
sant'Ireneo e Tertulliano, sollevano a loro volta riserve nei confronti di
un'impostazione culturale che pretendeva di subordinare la verità della
Rivelazione all'interpretazione dei filosofi. 38. L'incontro del cristianesimo con la
filosofia, dunque, non fu immediato né facile. La pratica di essa e la
frequentazione delle scuole apparve ai primi cristiani più come un disturbo
che come un'opportunità. Per loro, primo e urgente dovere era l'annuncio di
Cristo risorto da proporre in un incontro personale capace di condurre
l'interlocutore alla conversione del cuore e alla richiesta del Battesimo.
Ciò non significa, comunque, che essi ignorassero il compito di approfondire
l'intelligenza della fede e delle sue motivazioni. Tutt'altro. Ingiusta e
pretestuosa, pertanto, risulta la critica di Celso, che accusa i cristiani di
essere gente « illetterata e rozza ».(31) La spiegazione di questo loro
iniziale disinteresse va ricercata altrove. In realtà, l'incontro con il
Vangelo offriva una risposta così appagante alla questione, fino a quel
momento ancora non risolta, circa il senso della vita, che la frequentazione
dei filosofi appariva loro come una cosa lontana e, per alcuni versi, superata. Ciò appare oggi ancora più chiaro, se si
pensa a quell'apporto del cristianesimo che consiste nell'affermazione
dell'universale diritto d'accesso alla verità. Abbattute le barriere
razziali, sociali e sessuali, il cristianesimo aveva annunciato fin dai suoi
inizi l'uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio. La prima conseguenza
di questa concezione si applicava al tema della verità. Veniva decisamente
superato il carattere elitario che la sua ricerca aveva presso gli antichi:
poiché l'accesso alla verità è un bene che permette di giungere a Dio, tutti
devono essere nella condizione di poter percorrere questa strada. Le vie per
raggiungere la verità rimangono molteplici; tuttavia, poiché la verità
cristiana ha un valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere percorsa,
purché conduca alla meta finale, ossia alla rivelazione di Gesù Cristo. Quale pioniere di un incontro positivo col
pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento, va
ricordato san Giustino: questi, pur conservando anche dopo la conversione
grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver
trovato nel cristianesimo « l'unica sicura e proficua filosofia ».(32)
Similmente, Clemente Alessandrino chiamava il Vangelo « la vera filosofia
»,(33) e interpretava la filosofia in analogia alla legge mosaica come una
istruzione propedeutica alla fede cristiana (34) e una preparazione al
Vangelo.(35) Poiché « la filosofia brama quella sapienza che consiste nella
rettitudine dell'anima e della parola e nella purezza della vita, essa è ben
disposta verso la sapienza e fa tutto il possibile per raggiungerla. Presso
di noi si dicono filosofi coloro che amano la sapienza che è creatrice e
maestra di ogni cosa, cioè la conoscenza del Figlio di Dio ».(36) La filosofia
greca, per l'Alessandrino, non ha come primo scopo quello di completare o
rafforzare la verità cristiana; suo compito è, piuttosto, la difesa della
fede: « La dottrina del Salvatore è perfetta in se stessa e non ha bisogno di
appoggio, perché essa è la forza e la sapienza di Dio. La filosofia greca,
col suo apporto, non rende più forte la verità, ma siccome rende impotente
l'attacco della sofistica e disarma gli attacchi proditori contro la verità,
la si è chiamata a ragione siepe e muro di cinta della vigna ».(37) 39. Nella storia di questo sviluppo è
possibile, comunque, verificare l'assunzione critica del pensiero filosofico
da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono
incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi
che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica
per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero
platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il
nome stesso, infatti, insieme con l'idea di teologia come discorso razionale
su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella
filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e
il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione
cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle
divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva
la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su
Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva
della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da
essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia
abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda
concetti quali l'immortalità dell'anima, la divinizzazione dell'uomo e
l'origine del male. 40. In quest'opera di cristianizzazione
del pensiero platonico e neoplatonico, meritano particolare menzione i Padri
Cappadoci, Dionigi detto l'Areopagita e soprattutto sant'Agostino. Il grande
Dottore occidentale era venuto a contatto con diverse scuole filosofiche, ma
tutte lo avevano deluso. Quando davanti a lui si affacciò la verità della
fede cristiana, allora ebbe la forza di compiere quella radicale conversione
a cui i filosofi precedentemente frequentati non erano riusciti ad indurlo.
Il motivo lo racconta lui stesso: « Dal quel momento però cominciai a
rendermi conto che una preferenza per l'insegnamento cattolico mi avrebbe
imposto di credere a cose non dimostrate (sia che una dimostrazione ci fosse
ma non apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in misura
minore e con rischio d'errore trascurabile in confronto all'insegnamento
manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della credulità con temerarie
promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere a tante fantasie favolose
ed assurde, dato che non poteva dimostrarle ».(38) Agli stessi platonici, a
cui si faceva riferimento in modo privilegiato, Agostino rimproverava che,
pur avendo conosciuto il fine verso cui tendere, avevano ignorato però la via
che vi conduce: il Verbo incarnato.(39) Il Vescovo di Ippona riuscì a
produrre la prima grande sintesi del pensiero filosofico e teologico nella quale
confluivano correnti del pensiero greco e latino. Anche in lui, la grande
unità del sapere, che trovava il suo fondamento nel pensiero biblico, venne
ad essere confermata e sostenuta dalla profondità del pensiero speculativo.
La sintesi compiuta da sant'Agostino rimarrà per secoli come la forma più
alta della speculazione filosofica e teologica che l'Occidente abbia
conosciuto. Forte della sua storia personale e aiutato da una mirabile
santità di vita, egli fu anche in grado di introdurre nelle sue opere molteplici
dati che, facendo riferimento all'esperienza, preludevano a futuri sviluppi
di alcune correnti filosofiche. 41. Diverse, dunque, sono state le forme
con cui i Padri d'Oriente e d'Occidente sono entrati in rapporto con le
scuole filosofiche. Ciò non significa che essi abbiano identificato il
contenuto del loro messaggio con i sistemi a cui facevano riferimento. La
domanda di Tertulliano: « Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che
cosa l'Accademia e la Chiesa? »,(40) è chiaro sintomo della coscienza critica
con cui i pensatori cristiani, fin dalle origini, affrontarono il problema
del rapporto tra la fede e la filosofia, vedendolo globalmente nei suoi
aspetti positivi e nei suoi limiti. Non erano pensatori ingenui. Proprio
perché vivevano intensamente il contenuto della fede, essi sapevano
raggiungere le forme più profonde della speculazione. E pertanto ingiusto e
riduttivo limitare la loro opera alla sola trasposizione delle verità di fede
in categorie filosofiche. Fecero molto di più. Riuscirono, infatti, a far
emergere in pienezza quanto risultava ancora implicito e propedeutico nel
pensiero dei grandi filosofi antichi.(41) Costoro, come ho detto, avevano
avuto il compito di mostrare in quale modo la ragione, liberata dai vincoli
esterni, potesse uscire dal vicolo cieco dei miti, per aprirsi in modo più
adeguato alla trascendenza. Una ragione purificata e retta, quindi, era in
grado di elevarsi ai livelli più alti della riflessione, dando fondamento
solido alla percezione dell'essere, del trascendente e dell'assoluto. Proprio qui si inserisce la novità operata
dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all'assoluto e in essa
innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L'incontro non fu
solo a livello di culture, delle quali l'una succube forse del fascino
dell'altra; esso avvenne nell'intimo degli animi e fu incontro tra la
creatura e il suo Creatore. Oltrepassando il fine stesso verso cui
inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté
raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo
incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di
riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse
presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non
offuscava in loro il riconoscimento delle differenze. 42. Nella teologia scolastica il ruolo
della ragione filosoficamente educata diventa ancora più cospicuo sotto la
spinta dell'interpretazione anselmiana dell'intellectus fidei. Per il
santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede non è competitiva con
la ricerca propria della ragione. Questa, infatti, non è chiamata a esprimere
un giudizio sui contenuti della fede; ne sarebbe incapace, perché a ciò non
idonea. Suo compito, piuttosto, è quello di saper trovare un senso, di
scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere una qualche
intelligenza dei contenuti di fede. Sant'Anselmo sottolinea il fatto che
l'intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama: più ama, più desidera
conoscere. Chi vive per la verità è proteso verso una forma di conoscenza che
si infiamma sempre più di amore per ciò che conosce, pur dovendo ammettere di
non aver ancora fatto tutto ciò che sarebbe nel suo desiderio: « Ad te
videndum factus sum; et nondum feci propter quod factus sum ».(42) Il
desiderio di verità spinge, dunque, la ragione ad andare sempre oltre; essa,
anzi, viene come sopraffatta dalla costatazione della sua capacità sempre più
grande di ciò che raggiunge. A questo punto, però, la ragione è in grado di
scoprire ove stia il compimento del suo cammino: « Penso infatti che chi
investiga una cosa incomprensibile debba accontentarsi di giungere con il
ragionamento a riconoscerne con somma certezza la realtà, anche se non è in
grado di penetrare con l'intelletto il suo modo di essere [...]. Che cosa c'è
peraltro di tanto incomprensibile ed inesprimibile quanto ciò che è al di
sopra di ogni cosa? Se dunque ciò di cui finora si è disputato intorno alla
somma essenza è stato stabilito su ragioni necessarie, quantunque non possa
essere penetrato con l'intelletto in modo da potersi chiarire anche
verbalmente, non per questo vacilla minimamente il fondamento della sua
certezza. Se, infatti, una precedente riflessione ha compreso in modo
razionale che è incomprensibile (rationabiliter comprehendit
incomprehensibile esse) il modo in cui la sapienza superna sa ciò che ha
fatto [...], chi spiegherà come essa stessa si conosce e si dice, essa di cui
l'uomo nulla o pressoché nulla può sapere? ».(43) L'armonia fondamentale della conoscenza
filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta confermata: la fede
chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione; la
ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la
fede presenta. La novità perenne del pensiero di
san Tommaso d'Aquino 43. Un posto tutto particolare in questo
lungo cammino spetta a san Tommaso, non solo per il contenuto della sua
dottrina, ma anche per il rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il
pensiero arabo ed ebreo del suo tempo. In un'epoca in cui i pensatori
cristiani riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più direttamente
aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre in primo piano l'armonia
che intercorre tra la ragione e la fede. La luce della ragione e quella della
fede provengono entrambe da Dio, egli argomentava; perciò non possono
contraddirsi tra loro.(44) Più radicalmente, Tommaso riconosce che la
natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione
della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca
e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a
compimento,(45) così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest'ultima,
illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti
dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla
conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il
carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato
il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e
precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche
modo « esercizio del pensiero »; la ragione dell'uomo non si annulla né si
avvilisce dando l'assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso
raggiunti con scelta libera e consapevole.(46) E per questo motivo che, giustamente, san
Tommaso è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e
modello del retto modo di fare teologia. Mi piace ricordare, in questo
contesto, quanto ha scritto il mio Predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, in
occasione del settimo centenario della morte del Dottore Angelico: « Senza
dubbio, Tommaso possedette al massimo grado il coraggio della verità, la
libertà di spirito nell'affrontare i nuovi problemi, l'onestà intellettuale
di chi non ammette la contaminazione del cristianesimo con la filosofia
profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa. Perciò, egli passò
alla storia del pensiero cristiano come un pioniere sul nuovo cammino della
filosofia e della cultura universale. Il punto centrale e quasi il nocciolo
della soluzione che egli diede al problema del nuovo confronto tra la ragione
e la fede con la genialità del suo intuito profetico, è stato quello della
conciliazione tra la secolarità del mondo e la radicalità del Vangelo,
sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi
valori, senza peraltro venire meno alle supreme e inflessibili esigenze
dell'ordine soprannaturale ».(47) 44. Tra le grandi intuizioni di san
Tommaso vi è anche quella relativa al ruolo che lo Spirito Santo svolge nel
far maturare in sapienza la scienza umana. Fin dalle prime pagine della sua Summa
Theologiae (48) l'Aquinate volle mostrare il primato di quella sapienza
che è dono dello Spirito Santo ed introduce alla conoscenza delle realtà
divine. La sua teologia permette di comprendere la peculiarità della sapienza
nel suo stretto legame con la fede e la conoscenza divina. Essa conosce per connaturalità,
presuppone la fede e arriva a formulare il suo retto giudizio a partire dalla
verità della fede stessa: « La sapienza elencata tra i doni dello Spirito
Santo è distinta da quella che è posta tra le virtù intellettuali. Infatti
quest'ultima si acquista con lo studio: quella invece “viene dall'alto”, come
si esprime san Giacomo. Così pure è distinta dalla fede. Poiché la fede
accetta la verità divina così com'è, invece è proprio del dono di sapienza
giudicare secondo la verità divina ».(49) La priorità riconosciuta a questa
sapienza, tuttavia, non fa dimenticare al Dottore Angelico la presenza di
altre due complementari forme di sapienza: quella filosofica, che si
fonda sulla capacità che l'intelletto ha, entro i limiti che gli sono
connaturali, di indagare la realtà; e quella teologica, che si fonda
sulla Rivelazione ed esamina i contenuti della fede, raggiungendo il mistero
stesso di Dio. Intimamente convinto che « omne verum a
quocumque dicatur a Spiritu Sancto est »,(50) san Tommaso amò in maniera
disinteressata la verità. Egli la cercò dovunque essa si potesse manifestare,
evidenziando al massimo la sua universalità. In lui, il Magistero della
Chiesa ha visto ed apprezzato la passione per la verità; il suo pensiero,
proprio perché si mantenne sempre nell'orizzonte della verità universale,
oggettiva e trascendente, raggiunse « vette che l'intelligenza umana non
avrebbe mai potuto pensare ».(51) Con ragione, quindi, egli può essere
definito « apostolo della verità ».(52) Proprio perché alla verità mirava
senza riserve, nel suo realismo egli seppe riconoscerne l'oggettività. La sua
è veramente la filosofia dell'essere e non del semplice apparire. Il dramma della separazione tra fede
e ragione 45. Con il sorgere delle prime università,
la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della
ricerca e del sapere scientifico. Sant'Alberto Magno e san Tommaso, pur
mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi
a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze
avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca.
A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due
saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di
un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si
radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e
assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre
conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre
più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare
una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla
fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale. Insomma, ciò che il pensiero patristico e
medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una
conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne
di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza
razionale separata dalla fede e alternativa ad essa. 46. Le radicalizzazioni più influenti sono
note e ben visibili, soprattutto nella storia dell'Occidente. Non è esagerato
affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato
allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a
raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento
ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell'idealismo hanno cercato
in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero
della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche
razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di
umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come
dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto
timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che,
sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per
l'umanità. Nell'ambito della ricerca scientifica si è
venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata
da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e
soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale.
La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento
etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e
la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle
potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che
alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura
e sullo stesso essere umano. Come conseguenza della crisi del
razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia
del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei.
I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né
possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell'interpretazione
nichilista, l'esistenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in
cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è all'origine di quella diffusa
mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo,
perché tutto è fugace e provvisorio. 47. Non è da dimenticare, d'altra parte,
che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della
filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta
progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni
aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme
di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo,
ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la
contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della
vita, queste forme di razionalità sono orientate — o almeno orientabili —
come « ragione strumentale » al servizio di fini utilitaristici, di fruizione
o di potere. Quanto sia pericoloso assolutizzare questa
strada l'ho fatto osservare fin dalla mia prima Lettera enciclica quando
scrivevo: « L'uomo di oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che
produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del
lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di
questa multiforme attività dell'uomo, troppo presto e in modo spesso
imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di 'alienazione', nel
senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto,
almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti,
questi frutti si rivolgono contro l'uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti,
o possono essere diretti contro di lui. In questo sembra consistere l'atto
principale del dramma dell'esistenza umana contemporanea, nella sua più larga
e universale dimensione. L'uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli
teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte,
ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua
genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale
contro lui stesso ».(53) Sulla scia di queste trasformazioni
culturali, alcuni filosofi, abbandonando la ricerca della verità per se
stessa, hanno assunto come loro unico scopo il raggiungimento della certezza
soggettiva o dell'utilità pratica. Conseguenza di ciò è stato l'offuscamento
della vera dignità della ragione, non più messa nella condizione di conoscere
il vero e di ricercare l'assoluto. 48. Ciò che emerge da questo ultimo
scorcio di storia della filosofia è, dunque, la constatazione di una
progressiva separazione tra la fede e la ragione filosofica. E ben vero che,
ad una attenta osservazione, anche nella riflessione filosofica di coloro che
contribuirono ad allargare la distanza tra fede e ragione si manifestano
talvolta germi preziosi di pensiero, che, se approfonditi e sviluppati con
rettitudine di mente e di cuore, possono far scoprire il cammino della
verità. Questi germi di pensiero si trovano, ad esempio, nelle approfondite
analisi sulla percezione e l'esperienza, sull'immaginario e l'inconscio,
sulla personalità e l'intersoggettività, sulla libertà ed i valori, sul tempo
e la storia. Anche il tema della morte può diventare severo richiamo, per
ogni pensatore, a ricercare dentro di sé il senso autentico della propria
esistenza. Questo tuttavia non toglie che l'attuale rapporto tra fede e
ragione richieda un attento sforzo di discernimento, perché sia la ragione
che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l'una di fronte
all'altra. La ragione, privata dell'apporto della Rivelazione, ha percorso
sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale.
La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza,
correndo il rischio di non essere più una proposta universale. E illusorio
pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività;
essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o
superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una
fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità
dell'essere. Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio
richiamo forte e incisivo, perché la fede e la filosofia recuperino l'unità
profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel
rispetto della reciproca autonomia. Alla parresia della fede deve
corrispondere l'audacia della ragione. CAPITOLO
V GLI
INTERVENTI DEL MAGISTERO Il discernimento del Magistero come
diaconia alla verità 49. La Chiesa non propone una propria
filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di
altre.(54) La ragione profonda di questa riservatezza sta nel fatto che la
filosofia, anche quando entra in rapporto con la teologia, deve procedere
secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe altrimenti garanzia che
essa rimanga orientata verso la verità e ad essa tenda con un processo
razionalmente controllabile. Di poco aiuto sarebbe una filosofia che non
procedesse alla luce della ragione secondo propri principi e specifiche
metodologie. In fondo, la radice della autonomia di cui gode la filosofia è
da individuare nel fatto che la ragione è per sua natura orientata alla
verità ed è inoltre in se stessa fornita dei mezzi necessari per
raggiungerla. Una filosofia consapevole di questo suo « statuto costitutivo »
non può non rispettare anche le esigenze e le evidenze proprie della verità
rivelata. La storia, tuttavia, ha mostrato le
deviazioni e gli errori in cui non di rado il pensiero filosofico,
soprattutto moderno, è incorso. Non è compito né competenza del Magistero
intervenire per colmare le lacune di un discorso filosofico carente. E suo
obbligo, invece, reagire in maniera chiara e forte quando tesi filosofiche discutibili
minacciano la retta comprensione del dato rivelato e quando si diffondono
teorie false e di parte che seminano gravi errori, confondendo la semplicità
e la purezza della fede del popolo di Dio. 50. Il Magistero ecclesiastico, quindi,
può e deve esercitare autoritativamente, alla luce della fede, il proprio
discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle affermazioni che
si scontrano con la dottrina cristiana.(55) Al Magistero spetta di indicare,
anzitutto, quali presupposti e conclusioni filosofiche sarebbero
incompatibili con la verità rivelata, formulando con ciò stesso le esigenze
che si impongono alla filosofia dal punto di vista della fede. Nello sviluppo
del sapere filosofico, inoltre, sono sorte diverse scuole di pensiero. Anche
questo pluralismo pone il Magistero di fronte alla responsabilità di
esprimere il suo giudizio circa la compatibilità o meno delle concezioni di
fondo, a cui queste scuole si attengono, con le esigenze proprie della Parola
di Dio e della riflessione teologica. La Chiesa ha il dovere di indicare ciò che
in un sistema filosofico può risultare incompatibile con la sua fede. Molti
contenuti filosofici, infatti, quali i temi di Dio, dell'uomo, della sua
libertà e del suo agire etico, la chiamano in causa direttamente, perché
toccano la verità rivelata che essa custodisce. Quando esercitiamo questo
discernimento, noi Vescovi abbiamo il compito di essere « testimoni della
verità » nell'adempimento di una diaconia umile ma tenace, quale ogni
filosofo dovrebbe apprezzare, a vantaggio della recta ratio, ossia della
ragione che riflette correttamente sul vero. 51. Questo discernimento, comunque, non
deve essere inteso primariamente in forma negativa, come se intenzione del
Magistero fosse di eliminare o ridurre ogni possibile mediazione. Al
contrario, i suoi interventi sono tesi in primo luogo a provocare, promuovere
e incoraggiare il pensiero filosofico. I filosofi per primi, d'altronde,
comprendono l'esigenza dell'autocritica, della correzione di eventuali errori
e la necessità di oltrepassare i limiti troppo ristretti in cui la loro
riflessione è concepita. Si deve considerare, in modo particolare, che una è
la verità, benché le sue espressioni portino l'impronta della storia e, per
di più, siano opera di una ragione umana ferita e indebolita dal peccato. Da
ciò risulta che nessuna forma storica della filosofia può legittimamente
pretendere di abbracciare la totalità della verità, né di essere la
spiegazione piena dell'essere umano, del mondo e del rapporto dell'uomo con
Dio. Oggi poi, col moltiplicarsi dei sistemi,
dei metodi, dei concetti e argomenti filosofici, spesso estremamente
particolareggiati, un discernimento critico alla luce della fede si impone
con maggiore urgenza. Discernimento non facile, perché se è già laborioso
riconoscere le capacità congenite e inalienabili della ragione, con i suoi
limiti costitutivi e storici, ancora più problematico qualche volta può
risultare il discernimento, nelle singole proposte filosofiche, di ciò che,
dal punto di vista della fede, esse offrono di valido e di fecondo rispetto a
ciò che, invece, presentano di erroneo o di pericoloso. La Chiesa, comunque,
sa che i « tesori della sapienza e della scienza » sono nascosti in Cristo (Col
2, 3); per questo interviene stimolando la riflessione filosofica, perché
non si precluda la strada che conduce al riconoscimento del mistero. 52. Non è solo di recente che il Magistero
della Chiesa è intervenuto per manifestare il suo pensiero nei confronti di
determinate dottrine filosofiche. A titolo esemplificativo basti ricordare,
nel corso dei secoli, i pronunciamenti circa le teorie che sostenevano la
preesistenza delle anime,(56) come pure circa le diverse forme di idolatria e
di esoterismo superstizioso, contenute in tesi astrologiche; (57) per non
dimenticare i testi più sistematici contro alcune tesi dell'averroismo
latino, incompatibili con la fede cristiana.(58) Se la parola del Magistero si è fatta
udire più spesso a partire dalla metà del secolo scorso è perché in quel
periodo non pochi cattolici sentirono il dovere di opporre una loro filosofia
alle varie correnti del pensiero moderno. A questo punto, diventava
obbligatorio per il Magistero della Chiesa vegliare perché queste filosofie
non deviassero, a loro volta, in forme erronee e negative. Furono così
censurati simmetricamente: da una parte, il fideismo (59) e il tradizionalismo
radicale,(60) per la loro sfiducia nelle capacità naturali della ragione;
dall'altra parte, il razionalismo (61) e l'ontologismo,(62)
perché attribuivano alla ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla
luce della fede. I contenuti positivi di questo dibattito furono formalizzati
nella Costituzione dogmatica Dei Filius, con la quale per la prima
volta un Concilio ecumenico, il Vaticano I, interveniva in maniera solenne
sui rapporti tra ragione e fede. L'insegnamento contenuto in quel testo
caratterizzò fortemente e in maniera positiva la ricerca filosofica di molti
credenti e costituisce ancora oggi un punto di riferimento normativo per una
corretta e coerente riflessione cristiana in questo particolare ambito. 53. Più che di singole tesi filosofiche, i
pronunciamenti del Magistero si sono occupati della necessità della
conoscenza razionale e, dunque, ultimamente filosofica per l'intelligenza
della fede. Il Concilio Vaticano I, sintetizzando e riaffermando in modo
solenne gli insegnamenti che in maniera ordinaria e costante il Magistero
pontificio aveva proposto per i fedeli, mise in evidenza quanto fossero
inseparabili e insieme irriducibili la conoscenza naturale di Dio e la
Rivelazione, la ragione e la fede. Il Concilio partiva dall'esigenza
fondamentale, presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità
naturale dell'esistenza di Dio, principio e fine di ogni cosa,(63) e
concludeva con l'asserzione solenne già citata: « esistono due ordini di
conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro
oggetto ».(64) Bisognava affermare, dunque, contro ogni forma di
razionalismo, la distinzione dei misteri della fede dai ritrovati filosofici
e la trascendenza e precedenza di quelli rispetto a questi; d'altra parte,
contro le tentazioni fideistiche, era necessario che si ribadisse l'unità
della verità e, quindi, anche l'apporto positivo che la conoscenza razionale
può e deve dare alla conoscenza di fede: « Ma anche se la fede è sopra la
ragione, non vi potrà mai essere una vera divergenza tra fede e ragione:
poiché lo stesso Dio, che rivela i misteri e comunica la fede, ha anche
deposto nello spirito umano il lume della ragione, questo Dio non potrebbe
negare se stesso, né il vero contraddire il vero ».(65) 54. Anche nel nostro secolo, il Magistero
è ritornato più volte sull'argomento mettendo in guardia contro la tentazione
razionalistica. E su questo scenario che si devono collocare gli interventi
del Papa san Pio X, il quale rilevava come alla base del modernismo vi
fossero asserti filosofici di indirizzo fenomenista, agnostico e
immanentista.(66) Non si può neppure dimenticare l'importanza che ebbe il
rifiuto cattolico della filosofia marxista e del comunismo ateo.(67) Successivamente, il Papa Pio XII fece
sentire la sua voce quando, nella Lettera enciclica Humani generis,
mise in guardia contro interpretazioni erronee, collegate con le tesi
dell'evoluzionismo, dell'esistenzialismo e dello storicismo. Egli precisava
che queste tesi erano state elaborate e venivano proposte non da teologi,
avendo la loro origine « fuori dall'ovile di Cristo »; (68) aggiungeva,
comunque, che tali deviazioni non erano semplicemente da rigettare, ma da
esaminare criticamente: « Ora queste tendenze, che più o meno deviano dalla
retta strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi o dai
teologi cattolici, che hanno il grave compito di difendere la verità divina
ed umana e di farla penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono
conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare
se prima non sono ben conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false
affermazioni si nasconde un po' di verità, sia, infine, perché gli stessi
errori spingono la mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza
alcune verità sia filosofiche sia teologiche ».(69) Da ultimo, anche la Congregazione per la
Dottrina della Fede, in adempimento del suo specifico compito a servizio del
magistero universale del Romano Pontefice,(70) ha dovuto intervenire per
ribadire il pericolo che comporta l'assunzione acritica, da parte di alcuni
teologi della liberazione, di tesi e metodologie derivanti dal marxismo.(71) Nel passato il Magistero ha dunque
esercitato ripetutamente e sotto diverse modalità il discernimento in materia
filosofica. Quanto i miei Venerati Predecessori hanno apportato costituisce
un prezioso contributo che non può essere dimenticato. 55. Se guardiamo alla nostra condizione odierna,
vediamo che i problemi di un tempo ritornano, ma con peculiarità nuove. Non
si tratta più solamente di questioni che interessano singole persone o
gruppi, ma di convinzioni diffuse nell'ambiente al punto da divenire in
qualche misura mentalità comune. Tale è, ad esempio, la radicale sfiducia
nella ragione che rivelano i più recenti sviluppi di molti studi filosofici.
Da più parti si è sentito parlare, a questo riguardo, di « fine della
metafisica »: si vuole che la filosofia si accontenti di compiti più modesti,
quali la sola interpretazione del fattuale o la sola indagine su campi
determinati del sapere umano o sulle sue strutture. Nella stessa teologia tornano ad
affacciarsi le tentazioni di un tempo. In alcune teologie contemporanee, ad
esempio, si fa nuovamente strada un certo razionalismo, soprattutto
quando asserti ritenuti filosoficamente fondati sono assunti come normativi
per la ricerca teologica. Ciò accade soprattutto quando il teologo, per
mancanza di competenza filosofica, si lascia condizionare in modo acritico da
affermazioni entrate ormai nel linguaggio e nella cultura corrente, ma prive
di sufficiente base razionale.(72) Non mancano neppure pericolosi
ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l'importanza della conoscenza
razionale e del discorso filosofico per l'intelligenza della fede, anzi per
la stessa possibilità di credere in Dio. Un'espressione oggi diffusa di tale
tendenza fideistica è il « biblicismo », che tende a fare della lettura della
Sacra Scrittura o della sua esegesi l'unico punto di riferimento veritativo.
Accade così che si identifichi la parola di Dio con la sola Sacra Scrittura,
vanificando in tal modo la dottrina della Chiesa che il Concilio Ecumenico
Vaticano II ha ribadito espressamente. La Costituzione Dei Verbum,
dopo aver ricordato che la parola di Dio è presente sia nei testi sacri che
nella Tradizione,(73) afferma con forza: « La Sacra Tradizione e la Sacra
Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato
alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori,
persevera costantemente nell'insegnamento degli Apostoli ».(74) La Sacra
Scrittura, pertanto, non è il solo riferimento per la Chiesa. La « regola
suprema della propria fede »,(75) infatti, le proviene dall'unità che lo
Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero
della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in
maniera indipendente.(76) Non è da sottovalutare, inoltre, il pericolo
insito nel voler derivare la verità della Sacra Scrittura dall'applicazione
di una sola metodologia, dimenticando la necessità di una esegesi più ampia
che consenta di accedere, insieme con tutta la Chiesa, al senso pieno dei
testi. Quanti si dedicano allo studio delle Sacre Scritture devono sempre
tener presente che le diverse metodologie ermeneutiche hanno anch'esse alla
base una concezione filosofica: occorre vagliarla con discernimento prima di
applicarla ai testi sacri. Altre forme di latente fideismo sono
riconoscibili nella poca considerazione che viene riservata alla teologia
speculativa, come pure nel disprezzo per la filosofia classica, alle cui
nozioni sia l'intelligenza della fede sia le stesse formulazioni dogmatiche
hanno attinto i loro termini. Il Papa Pio XII, di venerata memoria, ha messo
in guardia contro tale oblio della tradizione filosofica e contro l'abbandono
delle terminologie tradizionali.(77) 56. Si nota, insomma, una diffusa
diffidenza verso gli asserti globali e assoluti, soprattutto da parte di chi
ritiene che la verità sia il risultato del consenso e non dell'adeguamento
dell'intelletto alla realtà oggettiva. E certo comprensibile che, in un mondo
suddiviso in molti campi specialistici, diventi difficile riconoscere quel
senso totale e ultimo della vita che la filosofia tradizionalmente ha
cercato. Nondimeno alla luce della fede che riconosce in Gesù Cristo tale
senso ultimo, non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o meno, ad
avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete
troppo modeste nel loro filosofare. La lezione della storia di questo
millennio, che stiamo per concludere, testimonia che questa è la strada da
seguire: bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l'ansia per
la ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi percorsi. E la fede che
provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per
tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e
convincente della ragione. L'interesse della Chiesa per la
filosofia 57. Il Magistero, comunque, non si è
limitato solo a rilevare gli errori e le deviazioni delle dottrine
filosofiche. Con altrettanta attenzione ha voluto ribadire i principi
fondamentali per un genuino rinnovamento del pensiero filosofico, indicando
anche concreti percorsi da seguire. In questo senso, il Papa Leone XIII con
la sua Lettera enciclica Æterni Patris compì un passo di autentica
portata storica per la vita della Chiesa. Quel testo è stato, fino ad oggi,
l'unico documento pontificio di quel livello dedicato interamente alla
filosofia. Il grande Pontefice riprese e sviluppò l'insegnamento del Concilio
Vaticano I sul rapporto tra fede e ragione, mostrando come il pensare
filosofico sia un contributo fondamentale per la fede e la scienza
teologica.(78) A più di un secolo di distanza, molte indicazioni contenute in
quel testo non hanno perduto nulla del loro interesse dal punto di vista sia
pratico che pedagogico; primo fra tutti, quello relativo all'incomparabile
valore della filosofia di san Tommaso. La riproposizione del pensiero del
Dottore Angelico appariva a Papa Leone XIII come la strada migliore per
ricuperare un uso della filosofia conforme alle esigenze della fede. San
Tommaso, egli scriveva, « nel momento stesso in cui, come conviene, distingue
perfettamente la fede dalla ragione, le unisce ambedue con legami di amicizia
reciproca: conserva ad ognuna i propri diritti e ne salvaguarda la dignità
».(79) 58. Si sa quante felici conseguenze abbia
avuto quell'invito pontificio. Gli studi sul pensiero di san Tommaso e di
altri autori scolastici ricevettero nuovo slancio. Fu dato vigoroso impulso
agli studi storici, con la conseguente riscoperta delle ricchezze del
pensiero medievale, fino a quel momento largamente sconosciute, e si
costituirono nuove scuole tomistiche. Con l'applicazione della metodologia
storica, la conoscenza dell'opera di san Tommaso fece grandi progressi e
numerosi furono gli studiosi che con coraggio introdussero la tradizione
tomista nelle discussioni sui problemi filosofici e teologici di quel
momento. I teologi cattolici più influenti di questo secolo, alla cui
riflessione e ricerca molto deve il Concilio Vaticano II, sono figli di tale
rinnovamento della filosofia tomista. La Chiesa ha potuto così disporre, nel
corso del XX secolo, di una vigorosa schiera di pensatori formati alla scuola
dell'Angelico Dottore. 59. Il rinnovamento tomista e neotomista,
comunque, non è stato l'unico segno di ripresa del pensiero filosofico nella
cultura di ispirazione cristiana. Già prima, e in parallelo con l'invito
leoniano, erano emersi non pochi filosofi cattolici che, ricollegandosi a
correnti di pensiero più recenti, secondo una propria metodologia, avevano
prodotto opere filosofiche di grande influsso e di valore durevole. Ci fu chi
organizzò sintesi di così alto profilo che nulla hanno da invidiare ai grandi
sistemi dell'idealismo; chi, inoltre, pose le basi epistemologiche per una
nuova trattazione della fede alla luce di una rinnovata comprensione della coscienza
morale; chi, ancora, produsse una filosofia che, partendo dall'analisi
dell'immanenza, apriva il cammino verso il trascendente; e chi, infine, tentò
di coniugare le esigenze della fede nell'orizzonte della metodologia
fenomenologica. Da diverse prospettive, insomma, si è continuato a produrre
forme di speculazione filosofica che hanno inteso mantenere viva la grande
tradizione del pensiero cristiano nell'unità di fede e ragione. 60. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, per
parte sua, presenta un insegnamento molto ricco e fecondo nei confronti della
filosofia. Non posso dimenticare, soprattutto nel contesto di questa Lettera
enciclica, che un intero capitolo della Costituzione Gaudium et spes costituisce
quasi un compendio di antropologia biblica, fonte di ispirazione anche per la
filosofia. In quelle pagine si tratta del valore della persona umana creata a
immagine di Dio, si motiva la sua dignità e superiorità sul resto del creato
e si mostra la capacità trascendente della sua ragione.(80) Anche il problema
dell'ateismo viene considerato nella Gaudium et spes e ben si motivano
gli errori di quella visione filosofica, soprattutto nei confronti
dell'inalienabile dignità della persona e della sua libertà.(81) Certamente
possiede anche un profondo significato filosofico l'espressione culminante di
quelle pagine, che ho ripreso nella mia prima Lettera enciclica Redemptor
hominis e che costituisce uno dei punti di riferimento costante del mio
insegnamento: « In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova
vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di
quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio
rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo
all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione ».(82) Il Concilio si è occupato anche dello
studio della filosofia, a cui devono dedicarsi i candidati al sacerdozio;
sono raccomandazioni estensibili più in generale all'insegnamento cristiano
nel suo insieme. Afferma il Concilio: « Le discipline filosofiche si
insegnino in maniera che gli alunni siano anzitutto guidati all'acquisto di
una solida e armonica conoscenza dell'uomo, del mondo e di Dio, basandosi sul
patrimonio filosofico perennemente valido, tenuto conto anche delle correnti
filosofiche moderne ».(83) Queste direttive sono state a più riprese
ribadite e specificate in altri documenti magisteriali con lo scopo di
garantire una solida formazione filosofica, soprattutto per coloro che si
preparano agli studi teologici. Da parte mia, più volte ho sottolineato
l'importanza di questa formazione filosofica per quanti dovranno un giorno,
nella vita pastorale, confrontarsi con le istanze del mondo contemporaneo e
cogliere le cause di alcuni comportamenti per darvi pronta risposta.(84) 61. Se in diverse circostanze è stato
necessario intervenire su questo tema, ribadendo anche il valore delle
intuizioni del Dottore Angelico e insistendo per l'acquisizione del suo
pensiero, ciò è dipeso dal fatto che le direttive del Magistero non sono
state sempre osservate con la desiderabile disponibilità. In molte scuole
cattoliche, negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II, si è potuto
osservare, in materia, un certo decadimento dovuto ad una minore stima, non
solo della filosofia scolastica, ma più in generale dello stesso studio della
filosofia. Con meraviglia e dispiacere devo costatare che non pochi teologi
condividono questo disinteresse per lo studio della filosofia. Diverse sono le ragioni che stanno alla
base di questa disaffezione. In primo luogo, è da registrare la sfiducia
nella ragione che gran parte della filosofia contemporanea manifesta,
abbandonando largamente la ricerca metafisica sulle domande ultime dell'uomo,
per concentrare la propria attenzione su problemi particolari e regionali,
talvolta anche puramente formali. Si deve aggiungere, inoltre, il
fraintendimento che si è creato soprattutto in rapporto alle « scienze umane
». Il Concilio Vaticano II ha più volte ribadito il valore positivo della
ricerca scientifica in ordine a una conoscenza più profonda del mistero
dell'uomo.(85) L'invito fatto ai teologi perché conoscano queste scienze e,
all'occorrenza, le applichino correttamente nella loro indagine non deve,
tuttavia, essere interpretato come un'implicita autorizzazione ad emarginare
la filosofia o a sostituirla nella formazione pastorale e nella praeparatio
fidei. Non si può dimenticare, infine, il ritrovato interesse per
l'inculturazione della fede. In modo particolare la vita delle giovani Chiese
ha permesso di scoprire, accanto ad elevate forme di pensiero, la presenza di
molteplici espressioni di saggezza popolare. Ciò costituisce un reale
patrimonio di cultura e di tradizioni. Lo studio, tuttavia, delle usanze
tradizionali deve andare di pari passo con la ricerca filosofica. Sarà questa
a permettere di far emergere i tratti positivi della saggezza popolare,
creando il necessario collegamento con l'annuncio del Vangelo.(86) 62. Desidero ribadire con vigore che lo
studio della filosofia riveste un carattere fondamentale e ineliminabile
nella struttura degli studi teologici e nella formazione dei candidati al
sacerdozio. Non è un caso che il curriculum di studi teologici sia
preceduto da un periodo di tempo nel quale è previsto uno speciale impegno
nello studio della filosofia. Questa scelta, confermata dal Concilio
Lateranense V,(87) affonda le sue radici nell'esperienza maturata durante il
Medio Evo, quando è stata posta in evidenza l'importanza di una costruttiva
armonia tra il sapere filosofico e quello teologico. Questo ordinamento degli
studi ha influenzato, facilitato e promosso, anche se in maniera indiretta,
una buona parte dello sviluppo della filosofia moderna. Un esempio
significativo è dato dall'influsso esercitato dalle Disputationes
metaphysicae di Francesco Suárez, le quali trovavano spazio perfino nelle
università luterane tedesche. Il venire meno di questa metodologia, invece,
fu causa di gravi carenze sia nella formazione sacerdotale che nella ricerca
teologica. Si consideri, ad esempio, la disattenzione nei confronti del
pensiero e della cultura moderna, che ha portato alla chiusura ad ogni forma
di dialogo o alla indiscriminata accoglienza di ogni filosofia. Confido vivamente che queste difficoltà
siano superate da un'intelligente formazione filosofica e teologica, che non
deve mai venire meno nella Chiesa. 63. In forza delle ragioni espresse, mi è
sembrato urgente ribadire, con questa Lettera enciclica, il forte interesse
che la Chiesa dedica alla filosofia; anzi, il legame intimo che unisce il
lavoro teologico alla ricerca filosofica della verità. Di qui deriva il
dovere che il Magistero ha di discernere e stimolare un pensiero filosofico
che non sia in dissonanza con la fede. Mio compito è di proporre alcuni
principi e punti di riferimento che ritengo necessari per poter instaurare
una relazione armoniosa ed efficace tra la teologia e la filosofia. Alla loro
luce sarà possibile discernere con maggior chiarezza se e quale rapporto la
teologia debba intraprendere con i diversi sistemi o asserti filosofici, che
il mondo attuale presenta. CAPITOLO
VI INTERAZIONE
La scienza della fede e le esigenze
della ragione filosofica 64. La parola di Dio si indirizza a ogni
uomo, in ogni tempo e in ogni parte della terra; e l'uomo è naturalmente
filosofo. La teologia, da parte sua, in quanto elaborazione riflessa e
scientifica dell'intelligenza di questa parola alla luce della fede, sia per
alcuni suoi procedimenti come anche per adempiere a specifici compiti, non
può fare a meno di entrare in rapporto con le filosofie di fatto elaborate
nel corso della storia. Senza voler indicare ai teologi particolari
metodologie, cosa che non compete al Magistero, desidero piuttosto richiamare
alla mente alcuni compiti propri della teologia, nei quali il ricorso al
pensiero filosofico si impone in forza della natura stessa della Parola
rivelata. 65. La teologia si organizza come scienza
della fede alla luce di un duplice principio metodologico: l'auditus fidei e
l'intellectus fidei. Con il primo, essa entra in possesso dei
contenuti della Rivelazione così come sono stati esplicitati progressivamente
nella Sacra Tradizione, nella Sacra Scrittura e nel Magistero vivo della
Chiesa.(88) Con il secondo, la teologia vuole rispondere alle esigenze
proprie del pensiero mediante la riflessione speculativa. Per quanto concerne la preparazione ad un
corretto auditus fidei, la filosofia reca alla teologia il suo
peculiare contributo nel momento in cui considera la struttura della
conoscenza e della comunicazione personale e, in particolare, le varie forme
e funzioni del linguaggio. Ugualmente importante è l'apporto della filosofia
per una più coerente comprensione della Tradizione ecclesiale, dei
pronunciamenti del Magistero e delle sentenze dei grandi maestri della
teologia: questi infatti si esprimono spesso in concetti e forme di pensiero
mutuati da una determinata tradizione filosofica. In questo caso, è richiesto
al teologo non solo di esporre concetti e termini con i quali la Chiesa
riflette ed elabora il suo insegnamento, ma anche di conoscere a fondo i
sistemi filosofici che hanno eventualmente influito sia sulle nozioni che
sulla terminologia, per giungere a interpretazioni corrette e coerenti. 66. Per quanto riguarda l'intellectus
fidei, si deve considerare, anzitutto, che la Verità divina, « a noi
proposta nelle Sacre Scritture, interpretate rettamente dalla dottrina della
Chiesa »,(89) gode di una propria intelligibilità così logicamente coerente
da proporsi come un autentico sapere. L'intellectus fidei esplicita
questa verità, non solo cogliendo le strutture logiche e concettuali delle
proposizioni nelle quali si articola l'insegnamento della Chiesa, ma anche, e
primariamente, nel far emergere il significato di salvezza che tali
proposizioni contengono per il singolo e per l'umanità. E dall'insieme di
queste proposizioni che il credente arriva a conoscere la storia della
salvezza, la quale culmina nella persona di Gesù Cristo e nel suo mistero
pasquale. A questo mistero egli partecipa con il suo assenso di fede. La teologia dogmatica, per parte
sua, deve essere in grado di articolare il senso universale del mistero del
Dio Uno e Trino e dell'economia della salvezza sia in maniera narrativa sia,
soprattutto, in forma argomentativa. Lo deve fare, cioè, mediante espressioni
concettuali, formulate in modo critico e universalmente comunicabile. Senza
l'apporto della filosofia, infatti, non si potrebbero illustrare contenuti
teologici quali, ad esempio, il linguaggio su Dio, le relazioni personali
all'interno della Trinità, l'azione creatrice di Dio nel mondo, il rapporto
tra Dio e l'uomo, l'identità di Cristo che è vero Dio e vero uomo. Le stesse
considerazioni valgono per diversi temi della teologia morale, dove è
immediato il ricorso a concetti quali: legge morale, coscienza, libertà,
responsabilità personale, colpa ecc., che ricevono una loro definizione a
livello di etica filosofica. E necessario, dunque, che la ragione del
credente abbia una conoscenza naturale, vera e coerente delle cose create,
del mondo e dell'uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina;
ancora di più, essa deve essere in grado di articolare tale conoscenza in
modo concettuale e argomentativo. La teologia dogmatica speculativa,
pertanto, presuppone ed implica una filosofia dell'uomo, del mondo e, più
radicalmente, dell'essere, fondata sulla verità oggettiva. 67. La teologia fondamentale, per
il suo carattere proprio di disciplina che ha il compito di rendere ragione
della fede (cfr 1 Pt 3, 15), dovrà farsi carico di giustificare ed esplicitare
la relazione tra la fede e la riflessione filosofica. Già il Concilio
Vaticano I, recuperando l'insegnamento paolino (cfr Rm 1, 19-20),
aveva richiamato l'attenzione sul fatto che esistono verità conoscibili
naturalmente, e quindi filosoficamente. La loro conoscenza costituisce un
presupposto necessario per accogliere la rivelazione di Dio. Nello studiare
la Rivelazione e la sua credibilità insieme con il corrispondente atto di
fede, la teologia fondamentale dovrà mostrare come, alla luce della conoscenza
per fede, emergano alcune verità che la ragione già coglie nel suo autonomo
cammino di ricerca. A queste la Rivelazione conferisce pienezza di senso,
orientandole verso la ricchezza del mistero rivelato, nel quale trovano il
loro ultimo fine. Si pensi, ad esempio, alla conoscenza naturale di Dio, alla
possibilità di discernere la rivelazione divina da altri fenomeni o al
riconoscimento della sua credibilità, all'attitudine del linguaggio umano a
parlare in modo significativo e vero anche di ciò che eccede ogni esperienza
umana. Da tutte queste verità, la mente è condotta a riconoscere l'esistenza
di una via realmente propedeutica alla fede, che può sfociare
nell'accoglienza della rivelazione, senza in nulla venire meno ai propri
principi e alla propria autonomia.(90) Alla stessa stregua, la teologia
fondamentale dovrà mostrare l'intima compatibilità tra la fede e la sua
esigenza essenziale di esplicitarsi mediante una ragione in grado di dare in
piena libertà il proprio assenso. La fede saprà così « mostrare in pienezza
il cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità. In tal modo la
fede, dono di Dio, pur non fondandosi sulla ragione, non può certamente fare
a meno di essa; al tempo stesso, appare la necessità per la ragione di farsi
forte della fede, per scoprire gli orizzonti ai quali da sola non potrebbe
giungere ».(91) 68. La teologia morale ha forse un bisogno
ancor maggiore dell'apporto filosofico. Nella Nuova Alleanza, infatti, la
vita umana è molto meno regolamentata da prescrizioni che nell'Antica. La
vita nello Spirito conduce i credenti ad una libertà e responsabilità che
vanno oltre la Legge stessa. Il Vangelo e gli scritti apostolici, comunque,
propongono sia principi generali di condotta cristiana sia insegnamenti e
precetti puntuali. Per applicarli alle circostanze particolari della vita
individuale e sociale, il cristiano deve essere in grado di impegnare a fondo
la sua coscienza e la forza del suo ragionamento. In altre parole, ciò
significa che la teologia morale deve ricorrere ad una visione filosofica
corretta sia della natura umana e della società che dei principi generali di
una decisione etica. 69. Si può forse obiettare che nella
situazione attuale il teologo, piuttosto che alla filosofia, dovrebbe ricorrere
all'aiuto di altre forme del sapere umano, quali la storia e soprattutto le
scienze, di cui tutti ammirano i recenti straordinari sviluppi. Altri poi, a
seguito di una cresciuta sensibilità nei confronti della relazione tra fede e
culture, sostengono che la teologia dovrebbe rivolgersi, di preferenza, alle
saggezze tradizionali, piuttosto che a una filosofia di origine greca ed
eurocentrica. Altri ancora, a partire da una concezione errata del pluralismo
delle culture, negano semplicemente il valore universale del patrimonio
filosofico accolto dalla Chiesa. Queste sottolineature, tra l'altro già
presenti nell'insegnamento conciliare,(92) contengono una parte di verità. Il
riferimento alle scienze, utile in molti casi perché permette una conoscenza
più completa dell'oggetto di studio, non deve tuttavia far dimenticare la
necessaria mediazione di una riflessione tipicamente filosofica, critica e
tesa all'universale, richiesta peraltro da uno scambio fecondo tra le
culture. Ciò che mi preme sottolineare è il dovere di non fermarsi al solo
caso singolo e concreto, tralasciando il compito primario che è quello di
manifestare il carattere universale del contenuto di fede. Non si deve,
inoltre, dimenticare che l'apporto peculiare del pensiero filosofico permette
di discernere, sia nelle diverse concezioni di vita che nelle culture, « non
che cosa gli uomini pensino, ma quale sia la verità oggettiva ».(93) Non le
varie opinioni umane, ma solamente la verità può essere di aiuto alla
teologia. 70. Il tema, poi, del rapporto con le
culture merita una riflessione specifica, anche se necessariamente non
esaustiva, per le implicanze che ne derivano sia sul versante filosofico che
su quello teologico. Il processo di incontro e confronto con le culture è
un'esperienza che la Chiesa ha vissuto fin dagli inizi della predicazione del
Vangelo. Il comando di Cristo ai discepoli di andare in ogni luogo, « fino
agli estremi confini della terra » (At 1, 8), per trasmettere la
verità da Lui rivelata, ha posto la comunità cristiana nella condizione di
verificare ben presto l'universalità dell'annuncio e gli ostacoli derivanti
dalla diversità delle culture. Un brano della lettera di san Paolo ai
cristiani di Efeso offre un valido aiuto per comprendere come la comunità
primitiva abbia affrontato questo problema. Scrive l'Apostolo: « Ora invece,
in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini
grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto
dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo »
(2, 13-14). Alla luce di questo testo la nostra
riflessione s'allarga alla trasformazione che si è venuta a creare nei
Gentili una volta arrivati alla fede. Davanti alla ricchezza della salvezza
operata da Cristo, cadono le barriere che separano le diverse culture. La
promessa di Dio in Cristo diventa, adesso, un'offerta universale: non più
limitata alla particolarità di un popolo, della sua lingua e dei suoi
costumi, ma estesa a tutti come patrimonio a cui ciascuno può attingere
liberamente. Da diversi luoghi e tradizioni tutti sono chiamati in Cristo a
partecipare all'unità della famiglia dei figli di Dio. E Cristo che permette
ai due popoli di diventare « uno ». Coloro che erano « i lontani » diventano
« i vicini » grazie alla novità operata dal mistero pasquale. Gesù abbatte i
muri di divisione e realizza l'unificazione in modo originale e supremo
mediante la partecipazione al suo mistero. Questa unità è talmente profonda
che la Chiesa può dire con san Paolo: « Non siete più stranieri né ospiti, ma
siete concittadini dei santi e familiari di Dio » (Ef 2, 19). In una così semplice annotazione è
descritta una grande verità: l'incontro della fede con le diverse culture ha
dato vita di fatto a una realtà nuova. Le culture, quando sono profondamente
radicate nell'umano, portano in sé la testimonianza dell'apertura tipica
dell'uomo all'universale e alla trascendenza. Esse presentano, pertanto,
approcci diversi alla verità, che si rivelano di indubbia utilità per l'uomo,
a cui prospettano valori capaci di rendere sempre più umana la sua
esistenza.(94) In quanto poi le culture si richiamano ai valori delle
tradizioni antiche, portano con sé — anche se in maniera implicita, ma non
per questo meno reale — il riferimento al manifestarsi di Dio nella natura,
come si è visto precedentemente parlando dei testi sapienziali e
dell'insegnamento di san Paolo. 71. Essendo in stretto rapporto con gli
uomini e con la loro storia, le culture condividono le stesse dinamiche
secondo cui il tempo umano si esprime. Si registrano di conseguenza
trasformazioni e progressi dovuti agli incontri che gli uomini sviluppano e
alle comunicazioni che reciprocamente si fanno dei loro modelli di vita. Le
culture traggono alimento dalla comunicazione di valori, e la loro vitalità e
sussistenza è data dalla capacità di rimanere aperte all'accoglienza del
nuovo. Qual è la spiegazione di queste dinamiche? Ogni uomo è inserito in una
cultura, da essa dipende, su di essa influisce. Egli è insieme figlio e padre
della cultura in cui è immerso. In ogni espressione della sua vita, egli
porta con sé qualcosa che lo contraddistingue in mezzo al creato: la sua
apertura costante al mistero ed il suo inesauribile desiderio di conoscenza.
Ogni cultura, di conseguenza, porta impressa in sé e lascia trasparire la
tensione verso un compimento. Si può dire, quindi, che la cultura ha in sé la
possibilità di accogliere la rivelazione divina. Il modo in cui i cristiani vivono la fede
è anch'esso permeato dalla cultura dell'ambiente circostante e contribuisce,
a sua volta, a modellarne progressivamente le caratteristiche. Ad ogni
cultura i cristiani recano la verità immutabile di Dio, da Lui rivelata nella
storia e nella cultura di un popolo. Nel corso dei secoli continua così a riprodursi
l'evento di cui furono testimoni i pellegrini presenti a Gerusalemme nel
giorno di Pentecoste. Ascoltando gli Apostoli, si domandavano: « Costoro che
parlano non sono forse tutti Galilei? E com'è che li sentiamo ciascuno
parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della
Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della
Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a
Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi e li udiamo
annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio » (At 2, 7-11).
L'annuncio del Vangelo nelle diverse culture, mentre esige dai singoli
destinatari l'adesione della fede, non impedisce loro di conservare una
propria identità culturale. Ciò non crea divisione alcuna, perché il popolo
dei battezzati si distingue per una universalità che sa accogliere ogni
cultura, favorendo il progresso di ciò che in essa vi è di implicito verso la
sua piena esplicazione nella verità. Conseguenza di ciò è che una cultura non
può mai diventare criterio di giudizio ed ancor meno criterio ultimo di
verità nei confronti della rivelazione di Dio. Il Vangelo non è contrario a
questa od a quella cultura come se, incontrandosi con essa, volesse privarla
di ciò che le appartiene e la obbligasse ad assumere forme estrinseche che
non le sono conformi. Al contrario, l'annuncio che il credente porta nel
mondo e nelle culture è forma reale di liberazione da ogni disordine
introdotto dal peccato e, nello stesso tempo, è chiamata alla verità piena.
In questo incontro, le culture non solo non vengono private di nulla, ma sono
anzi stimolate ad aprirsi al nuovo della verità evangelica per trarne
incentivo verso ulteriori sviluppi. 72. Il fatto che la missione
evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia
greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri
approcci. Oggi, via via che il Vangelo entra in contatto con aree culturali
rimaste finora al di fuori dell'ambito di irradiazione del cristianesimo,
nuovi compiti si aprono all'inculturazione. Problemi analoghi a quelli che la
Chiesa dovette affrontare nei primi secoli si pongono alla nostra
generazione. Il mio pensiero va spontaneamente alle
terre d'Oriente, così ricche di tradizioni religiose e filosofiche molto
antiche. Tra esse, l'India occupa un posto particolare. Un grande slancio
spirituale porta il pensiero indiano alla ricerca di un'esperienza che,
liberando lo spirito dai condizionamenti del tempo e dello spazio, abbia valore
di assoluto. Nel dinamismo di questa ricerca di liberazione si situano grandi
sistemi metafisici. Spetta ai cristiani di oggi, innanzitutto
a quelli dell'India, il compito di estrarre da questo ricco patrimonio gli
elementi compatibili con la loro fede così che ne derivi un arricchimento del
pensiero cristiano. Per questa opera di discernimento, che trova la sua
ispirazione nella Dichiarazione conciliare Nostra aetate, essi
terranno conto di un certo numero di criteri. Il primo è quello
dell'universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si
ritrovano identiche nelle culture più diverse. Il secondo, derivante dal
primo, consiste in questo: quando la Chiesa entra in contatto con grandi
culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle
ciò che ha acquisito dall'inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare
una simile eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio,
che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia. Questo
criterio, del resto, vale per la Chiesa di ogni epoca, anche per quella di
domani, che si sentirà arricchita dalle acquisizioni realizzate nell'odierno
approccio con le culture orientali e troverà in questa eredità nuove
indicazioni per entrare fruttuosamente in dialogo con quelle culture che
l'umanità saprà far fiorire nel suo cammino incontro al futuro. In terzo
luogo, ci si guarderà dal confondere la legittima rivendicazione della
specificità e dell'originalità del pensiero indiano con l'idea che una
tradizione culturale debba rinchiudersi nella sua differenza ed affermarsi
nella sua opposizione alle altre tradizioni, ciò che sarebbe contrario alla
natura stessa dello spirito umano. Quanto è qui detto per l'India vale anche
per l'eredità delle grandi culture della Cina, del Giappone e degli altri
Paesi dell'Asia, come pure delle ricchezze delle culture tradizionali
dell'Africa, trasmesse soprattutto per via orale. 73. Alla luce di queste considerazioni, il
rapporto che deve opportunamente instaurarsi tra la teologia e la filosofia
sarà all'insegna della circolarità. Per la teologia, punto di partenza e
fonte originaria dovrà essere sempre la parola di Dio rivelata nella storia,
mentre obiettivo finale non potrà che essere l'intelligenza di essa via via
approfondita nel susseguirsi delle generazioni. Poiché, d'altra parte, la
parola di Dio è Verità (cfr Gv 17, 17), alla sua migliore comprensione
non può non giovare la ricerca umana della verità, ossia il filosofare,
sviluppato nel rispetto delle leggi che gli sono proprie. Non si tratta
semplicemente di utilizzare, nel discorso teologico, l'uno o l'altro concetto
o frammento di un impianto filosofico; decisivo è che la ragione del credente
eserciti le sue capacità di riflessione nella ricerca del vero all'interno di
un movimento che, partendo dalla parola di Dio, si sforza di raggiungere una
migliore comprensione di essa. E chiaro, peraltro, che, muovendosi entro
questi due poli — parola di Dio e migliore sua conoscenza —, la ragione è
come avvertita, e in qualche modo guidata, ad evitare sentieri che la
porterebbero fuori della Verità rivelata e, in definitiva, fuori della verità
pura e semplice; essa viene anzi stimolata ad esplorare vie che da sola non
avrebbe nemmeno sospettato di poter percorrere. Da questo rapporto di
circolarità con la parola di Dio la filosofia esce arricchita, perché la
ragione scopre nuovi e insospettati orizzonti. 74. La conferma della fecondità di un
simile rapporto è offerta dalla vicenda personale di grandi teologi cristiani
che si segnalarono anche come grandi filosofi, lasciando scritti di così alto
valore speculativo, da giustificarne l'affiancamento ai maestri della
filosofia antica. Ciò vale sia per i Padri della Chiesa, tra i quali bisogna
citare almeno i nomi di san Gregorio Nazianzeno e sant'Agostino, sia per i
Dottori medievali, tra i quali emerge la grande triade di sant'Anselmo, san
Bonaventura e san Tommaso d'Aquino. Il fecondo rapporto tra filosofia e
parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori
più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per l'ambito occidentale,
personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain,
Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura
di Vladimir S. Solov'ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N.
Lossky. Ovviamente, nel fare riferimento a questi autori, accanto ai quali
altri nomi potrebbero essere citati, non intendo avallare ogni aspetto del
loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca
filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati
della fede. Una cosa è certa: l'attenzione all'itinerario spirituale di
questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità
e nell'utilizzo a servizio dell'uomo dei risultati conseguiti. C'è da sperare
che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i
suoi continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell'umanità. Differenti stati della filosofia 75. Come risulta dalla storia dei rapporti
tra fede e filosofia, sopra brevemente accennata, si possono distinguere
diversi stati della filosofia rispetto alla fede cristiana. Un primo è quello
della filosofia totalmente indipendente dalla Rivelazione evangelica:
è lo stato della filosofia quale si è storicamente concretizzata nelle epoche
che hanno preceduto la nascita del Redentore e, dopo di essa, nelle regioni
non ancora raggiunte dal Vangelo. In questa situazione, la filosofia
manifesta la legittima aspirazione ad essere un'impresa autonoma, che
procede cioè secondo le leggi sue proprie, avvalendosi delle sole forze della
ragione. Pur nella consapevolezza dei gravi limiti dovuti alla congenita
debolezza dell'umana ragione, questa aspirazione va sostenuta e rafforzata.
L'impegno filosofico, infatti, quale ricerca della verità nell'ambito
naturale, rimane almeno implicitamente aperto al soprannaturale. Di più: anche quando è lo stesso discorso
teologico ad avvalersi di concetti e argomenti filosofici, l'esigenza di
corretta autonomia del pensiero va rispettata. L'argomentazione sviluppata
secondo rigorosi criteri razionali, infatti, è garanzia del raggiungimento di
risultati universalmente validi. Si verifica anche qui il principio secondo
cui la grazia non distrugge, ma perfeziona la natura: l'assenso di fede, che
impegna l'intelletto e la volontà, non distrugge ma perfeziona il libero
arbitrio di ogni credente che accoglie in sé il dato rivelato. Da questa corretta istanza si allontana in
modo netto la teoria della cosiddetta filosofia « separata », perseguita da
parecchi filosofi moderni. Più che l'affermazione della giusta autonomia del
filosofare, essa costituisce la rivendicazione di una autosufficienza del
pensiero che si rivela chiaramente illegittima: rifiutare gli apporti di
verità derivanti dalla rivelazione divina significa infatti precludersi
l'accesso a una più profonda conoscenza della verità, a danno della stessa
filosofia. 76. Un secondo stato della filosofia è
quello che molti designano con l'espressione filosofia cristiana. La
denominazione è di per sé legittima, ma non deve essere equivocata: non si
intende con essa alludere ad una filosofia ufficiale della Chiesa, giacché la
fede non è come tale una filosofia. Con questo appellativo si vuole piuttosto
indicare un filosofare cristiano, una speculazione filosofica concepita in
unione vitale con la fede. Non ci si riferisce quindi semplicemente ad una
filosofia elaborata da filosofi cristiani, i quali nella loro ricerca non
hanno voluto contraddire la fede. Parlando di filosofia cristiana si
intendono abbracciare tutti quegli importanti sviluppi del pensiero
filosofico che non si sarebbero realizzati senza l'apporto, diretto o
indiretto, della fede cristiana. Due sono, pertanto, gli aspetti della
filosofia cristiana: uno soggettivo, che consiste nella purificazione della
ragione da parte della fede. Come virtù teologale, essa libera la ragione
dalla presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi sono facilmente
soggetti. Già san Paolo e i Padri della Chiesa e, più vicino a noi, filosofi
come Pascal e Kierkegaard l'hanno stigmatizzata. Con l'umiltà, il filosofo
acquista anche il coraggio di affrontare alcune questioni che difficilmente
potrebbe risolvere senza prendere in considerazione i dati ricevuti dalla Rivelazione.
Si pensi, ad esempio, ai problemi del male e della sofferenza, all'identità
personale di Dio e alla domanda sul senso della vita o, più direttamente,
alla domanda metafisica radicale: « Perché vi è qualcosa? ». Vi è poi l'aspetto oggettivo, riguardante
i contenuti: la Rivelazione propone chiaramente alcune verità che, pur non
essendo naturalmente inaccessibili alla ragione, forse non sarebbero mai
state da essa scoperte, se fosse stata abbandonata a sé stessa. In questo
orizzonte si situano questioni come il concetto di un Dio personale, libero e
creatore, che tanto rilievo ha avuto per lo sviluppo del pensiero filosofico
e, in particolare, per la filosofia dell'essere. A quest'ambito appartiene
pure la realtà del peccato, così com'essa appare alla luce della fede, la
quale aiuta a impostare filosoficamente in modo adeguato il problema del
male. Anche la concezione della persona come essere spirituale è una
peculiare originalità della fede: l'annuncio cristiano della dignità,
dell'uguaglianza e della libertà degli uomini ha certamente influito sulla
riflessione filosofica che i moderni hanno condotto. Più vicino a noi, si può
menzionare la scoperta dell'importanza che ha anche per la filosofia l'evento
storico, centro della Rivelazione cristiana. Non a caso, esso è diventato
perno di una filosofia della storia, che si presenta come un nuovo capitolo
della ricerca umana della verità. Tra gli elementi oggettivi della filosofia
cristiana rientra anche la necessità di esplorare la razionalità di alcune verità
espresse dalla Sacra Scrittura, come la possibilità di una vocazione
soprannaturale dell'uomo ed anche lo stesso peccato originale. Sono compiti
che provocano la ragione a riconoscere che vi è del vero e del razionale ben
oltre gli stretti confini entro i quali essa sarebbe portata a rinchiudersi.
Queste tematiche allargano di fatto l'ambito del razionale. Speculando su questi contenuti, i filosofi
non sono diventati teologi, in quanto non hanno cercato di comprendere e di
illustrare le verità della fede a partire dalla Rivelazione. Hanno continuato
a lavorare sul loro proprio terreno e con la propria metodologia puramente
razionale, ma allargando la loro indagine a nuovi ambiti del vero. Si può
dire che, senza questo influsso stimolante della parola di Dio, buona parte
della filosofia moderna e contemporanea non esisterebbe. Il dato conserva
tutta la sua rilevanza, pur di fronte alla deludente costatazione
dell'abbandono dell'ortodossia cristiana da parte di non pochi pensatori di
questi ultimi secoli. 77. Un altro stato significativo della
filosofia si ha quando è la stessa teologia a chiamare in causa la
filosofia. In realtà, la teologia ha sempre avuto e continua ad avere
bisogno dell'apporto filosofico. Essendo opera della ragione critica alla
luce della fede, il lavoro teologico presuppone ed esige in tutto il suo
indagare una ragione concettualmente e argomentativamente educata e formata.
La teologia, inoltre, ha bisogno della filosofia come interlocutrice per
verificare l'intelligibilità e la verità universale dei suoi asserti. Non a
caso furono filosofie non cristiane ad essere assunte dai Padri della Chiesa
e dai teologi medievali a tale funzione esplicativa. Questo fatto storico
indica il valore dell'autonomia che la filosofia conserva anche in questo
suo terzo stato, ma insieme mostra le trasformazioni necessarie e profonde
che essa deve subire. E proprio nel senso di un apporto
indispensabile e nobile che la filosofia fu chiamata fin dall'età patristica ancilla
theologiae. Il titolo non fu applicato per indicare una servile
sottomissione o un ruolo puramente funzionale della filosofia nei confronti
della teologia. Fu utilizzato piuttosto nel senso in cui Aristotele parlava
delle scienze esperienziali quali « ancelle » della « filosofia prima ». L'espressione,
oggi difficilmente utilizzabile in forza dei principi di autonomia a cui si è
fatto cenno, è servita nel corso della storia per indicare la necessità del
rapporto tra le due scienze e l'impossibilità di una loro separazione. Se il teologo si rifiutasse di avvalersi
della filosofia, rischierebbe di far filosofia a sua insaputa e di
rinchiudersi in strutture di pensiero poco adatte all'intelligenza della
fede. Il filosofo, da parte sua, se escludesse ogni contatto con la teologia,
si sentirebbe in dovere di impadronirsi per conto proprio dei contenuti della
fede cristiana, come è avvenuto con alcuni filosofi moderni. In un caso come
nell'altro, si profilerebbe il pericolo della distruzione dei principi
basilari di autonomia che ogni scienza giustamente vuole garantiti. Lo stato della filosofia qui considerato,
per le implicanze che comporta nell'intelligenza della Rivelazione, si
colloca insieme alla teologia più direttamente sotto l'autorità del Magistero
e del suo discernimento, come ho precedentemente esposto. Dalle verità di
fede, infatti, derivano determinate esigenze che la filosofia deve rispettare
nel momento in cui entra in rapporto con la teologia. 78. Alla luce di queste riflessioni, ben
si comprende perché il Magistero abbia ripetutamente lodato i meriti del
pensiero di san Tommaso e lo abbia posto come guida e modello degli studi
teologici. Ciò che interessava non era prendere posizione su questioni
propriamente filosofiche, né imporre l'adesione a tesi particolari. L'intento
del Magistero era, e continua ad essere, quello di mostrare come san Tommaso
sia un autentico modello per quanti ricercano la verità. Nella sua
riflessione, infatti, l'esigenza della ragione e la forza della fede hanno
trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto
egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione senza
mai umiliare il cammino proprio della ragione. 79. Esplicitando ulteriormente i contenuti
del Magistero precedente, intendo in questa ultima parte indicare alcune
esigenze che la teologia — anzi, prima ancora la parola di Dio — pone oggi al
pensiero filosofico e alle filosofie odierne. Come già ho rilevato, il
filosofo deve procedere secondo le proprie regole e fondarsi sui propri
principi; la verità, tuttavia, non può essere che una sola. La Rivelazione,
con i suoi contenuti, non potrà mai umiliare la ragione nelle sue scoperte e
nella sua legittima autonomia; per parte sua, però, la ragione non dovrà mai
perdere la sua capacità d'interrogarsi e di interrogare, nella consapevolezza
di non potersi ergere a valore assoluto ed esclusivo. La verità rivelata,
offrendo pienezza di luce sull'essere a partire dallo splendore che proviene
dallo stesso Essere sussistente, illuminerà il cammino della riflessione filosofica.
La Rivelazione cristiana, insomma, diventa il vero punto di aggancio e di
confronto tra il pensare filosofico e quello teologico nel loro reciproco
rapportarsi. E auspicabile, quindi, che teologi e filosofi si lascino guidare
dall'unica autorità della verità così che venga elaborata una filosofia in
consonanza con la parola di Dio. Questa filosofia sarà il terreno d'incontro
tra le culture e la fede cristiana, il luogo d'intesa tra credenti e non
credenti. Sarà di aiuto perché i credenti si convincano più da vicino che la
profondità e genuinità della fede è favorita quando è unita al pensiero e ad
esso non rinuncia. Ancora una volta, è la lezione dei Padri che ci guida in
questa convinzione: « Lo stesso credere null'altro è che pensare assentendo [...].
Chiunque crede pensa, e credendo pensa e pensando crede [...]. La fede se non
è pensata è nulla ».(95) Ed ancora: « Se si toglie l'assenso, si toglie la
fede, perché senza assenso non si crede affatto ».(96) CAPITOLO
VII ESIGENZE
E COMPITI ATTUALI Le esigenze irrinunciabili della
parola di Dio 80. La Sacra Scrittura contiene, in
maniera sia esplicita che implicita, una serie di elementi che consentono di
raggiungere una visione dell'uomo e del mondo di notevole spessore
filosofico. I cristiani hanno preso progressivamente coscienza della
ricchezza racchiusa in quelle pagine sacre. Da esse risulta che la realtà di
cui facciamo esperienza non è l'assoluto: non è increata, né si è
autogenerata. Dio soltanto è l'Assoluto. Dalle pagine della Bibbia emerge
inoltre una visione dell'uomo come imago Dei, che contiene precise
indicazioni circa il suo essere, la sua libertà e l'immortalità del suo
spirito. Non essendo il mondo creato autosufficiente, ogni illusione di
autonomia, che ignori la essenziale dipendenza da Dio di ogni creatura — uomo
compreso — porta a drammi che distruggono la ricerca razionale dell'armonia e
del senso dell'esistenza umana. Anche il problema del male morale — la
forma di male più tragica — è affrontato nella Bibbia, la quale ci dice che
esso non è riconducibile ad una qualche deficienza dovuta alla materia, ma è
una ferita che proviene dall'esprimersi disordinato della libertà umana. La
parola di Dio, infine, prospetta il problema del senso dell'esistenza e
rivela la sua risposta indirizzando l'uomo a Gesù Cristo, il Verbo di Dio
incarnato, che realizza in pienezza l'esistenza umana. Altri aspetti si
potrebbero esplicitare dalla lettura del testo sacro; ciò che emerge,
comunque, è il rifiuto di ogni forma di relativismo, di materialismo, di
panteismo. La convinzione fondamentale di questa «
filosofia » racchiusa nella Bibbia è che la vita umana e il mondo hanno un
senso e sono diretti verso il loro compimento, che si attua in Gesù Cristo.
Il mistero dell'Incarnazione resterà sempre il centro a cui riferirsi per
poter comprendere l'enigma dell'esistenza umana, del mondo creato e di Dio
stesso. In questo mistero le sfide per la filosofia si fanno estreme, perché
la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere in cui essa
stessa rischia di rinchiudersi. Solo qui, però, il senso dell'esistenza
raggiunge il suo culmine. Si rende intelligibile, infatti, l'intima essenza
di Dio e dell'uomo: nel mistero del Verbo incarnato, natura divina e natura
umana, con la rispettiva autonomia, vengono salvaguardate e insieme si
manifesta il vincolo unico che le pone in reciproco rapporto senza
confusione.(97) 81. E da osservare che uno dei dati più
rilevanti della nostra condizione attuale consiste nella « crisi del senso ».
I punti di vista, spesso di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si
sono talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all'affermarsi del
fenomeno della frammentarietà del sapere. Proprio questo rende difficile e
spesso vana la ricerca di un senso. Anzi — cosa anche più drammatica — in
questo groviglio di dati e di fatti tra cui si vive e che sembrano costituire
la trama stessa dell'esistenza, non pochi si chiedono se abbia ancora senso
porsi una domanda sul senso. La pluralità delle teorie che si contendono la risposta,
o i diversi modi di vedere e di interpretare il mondo e la vita dell'uomo,
non fanno che acuire questo dubbio radicale, che facilmente sfocia in uno
stato di scetticismo e di indifferenza o nelle diverse espressioni del
nichilismo. La conseguenza di ciò è che spesso lo
spirito umano è occupato da una forma di pensiero ambiguo, che lo porta a
rinchiudersi ancora di più in se stesso, entro i limiti della propria
immanenza, senza alcun riferimento al trascendente. Una filosofia priva della
domanda sul senso dell'esistenza incorrerebbe nel grave pericolo di degradare
la ragione a funzioni soltanto strumentali, senza alcuna autentica passione
per la ricerca della verità. Per essere in consonanza con la parola di
Dio è necessario, anzitutto, che la filosofia ritrovi la sua dimensione
sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita. Questa
prima esigenza, a ben guardare, costituisce per la filosofia uno stimolo
utilissimo ad adeguarsi alla sua stessa natura. Ciò facendo, infatti, essa
non sarà soltanto l'istanza critica decisiva, che indica alle varie parti del
sapere scientifico la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche
come istanza ultima di unificazione del sapere e dell'agire umano,
inducendoli a convergere verso uno scopo ed un senso definitivi. Questa
dimensione sapienziale è oggi tanto più indispensabile in quanto l'immensa
crescita del potere tecnico dell'umanità richiede una rinnovata e acuta
coscienza dei valori ultimi. Se questi mezzi tecnici dovessero mancare
dell'ordinamento ad un fine non meramente utilitaristico, potrebbero presto
rivelarsi disumani, ed anzi trasformarsi in potenziali distruttori del genere
umano.(98) La parola di Dio rivela il fine ultimo
dell'uomo e dà un senso globale al suo agire nel mondo. E per questo che essa
invita la filosofia ad impegnarsi nella ricerca del fondamento naturale di
questo senso, che è la religiosità costitutiva di ogni persona. Una filosofia
che volesse negare la possibilità di un senso ultimo e globale sarebbe non
soltanto inadeguata, ma erronea. 82. Questo ruolo sapienziale non potrebbe,
peraltro, essere svolto da una filosofia che non fosse essa stessa un sapere
autentico e vero, cioè rivolto non soltanto ad aspetti particolari e relativi
— siano essi funzionali, formali o utili — del reale, ma alla sua verità
totale e definitiva, ossia all'essere stesso dell'oggetto di conoscenza.
Ecco, dunque, una seconda esigenza: appurare la capacità dell'uomo di
giungere alla conoscenza della verità; una conoscenza, peraltro, che
attinga la verità oggettiva, mediante quella adaequatio rei et intellectus
a cui si riferiscono i Dottori della Scolastica.(99) Questa esigenza,
propria della fede, è stata esplicitamente riaffermata dal Concilio Vaticano
II: « L'intelligenza, infatti, non si restringe all'ambito dei fenomeni
soltanto, ma può conquistare la realtà intelligibile con vera certezza, anche
se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata e debilitata ».
(100) Una filosofia radicalmente fenomenista o
relativista risulterebbe inadeguata a recare questo aiuto
nell'approfondimento della ricchezza contenuta nella parola di Dio. La Sacra
Scrittura, infatti, presuppone sempre che l'uomo, anche se colpevole di
doppiezza e di menzogna, sia capace di conoscere e di afferrare la verità limpida
e semplice. Nei Libri Sacri, e in particolare nel Nuovo Testamento, si
trovano testi e affermazioni di portata propriamente ontologica. Gli autori
ispirati, infatti, hanno inteso formulare affermazioni vere, tali cioè da
esprimere la realtà oggettiva. Non si può dire che la tradizione cattolica
abbia commesso un errore quando ha compreso alcuni testi di san Giovanni e di
san Paolo come affermazioni sull'essere stesso di Cristo. La teologia, quando
si applica a comprendere e spiegare queste affermazioni, ha bisogno pertanto
dell'apporto di una filosofia che non rinneghi la possibilità di una
conoscenza oggettivamente vera, per quanto sempre perfezionabile. Quanto
detto vale anche per i giudizi della coscienza morale, che la Sacra Scrittura
suppone poter essere oggettivamente veri. (101) 83. Le due suddette esigenze ne comportano
una terza: è necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica,
capace cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca
della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. E un'esigenza,
questa, implicita sia nella conoscenza a carattere sapienziale che in quella
a carattere analitico; in particolare, è un'esigenza propria della conoscenza
del bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo, Dio stesso. Non
intendo qui parlare della metafisica come di una scuola specifica o di una
particolare corrente storica. Desidero solo affermare che la realtà e la
verità trascendono il fattuale e l'empirico, e voglio rivendicare la capacità
che l'uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica
in modo vero e certo, benché imperfetto ed analogico. In questo senso, la
metafisica non va vista in alternativa all'antropologia, giacché è proprio la
metafisica che consente di dare fondamento al concetto di dignità della
persona in forza della sua condizione spirituale. La persona, in particolare,
costituisce un ambito privilegiato per l'incontro con l'essere e, dunque, con
la riflessione metafisica. Ovunque l'uomo scopre la presenza di un
richiamo all'assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso
la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori
morali, nella persona altrui, nell'essere stesso, in Dio. Una grande sfida
che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il
passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento.
Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e
rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario
che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il
fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni
apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una
funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione. La parola di Dio fa continui riferimenti a
ciò che oltrepassa l'esperienza e persino il pensiero dell'uomo; ma questo «
mistero » non potrebbe essere rivelato, né la teologia potrebbe renderlo in
qualche modo intelligibile, (102) se la conoscenza umana fosse rigorosamente
limitata al mondo dell'esperienza sensibile. La metafisica, pertanto, si pone
come mediazione privilegiata nella ricerca teologica. Una teologia priva
dell'orizzonte metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre l'analisi
dell'esperienza religiosa e non permetterebbe all'intellectus fidei di
esprimere con coerenza il valore universale e trascendente della verità
rivelata. Se tanto insisto sulla componente
metafisica, è perché sono convinto che questa è la strada obbligata per
superare la situazione di crisi che pervade oggi grandi settori della
filosofia e per correggere così alcuni comportamenti erronei diffusi nella
nostra società. 84. L'importanza dell'istanza metafisica
diventa ancora più evidente se si considera lo sviluppo che oggi hanno le
scienze ermeneutiche e le diverse analisi del linguaggio. I risultati a cui
questi studi giungono possono essere molto utili per l'intelligenza della
fede, in quanto rendono manifesti la struttura del nostro pensare e parlare e
il senso racchiuso nel linguaggio. Vi sono cultori di tali scienze, però, che
nelle loro indagini tendono ad arrestarsi al come si comprende e come si dice
la realtà, prescindendo dal verificare le possibilità della ragione di scoprirne
l'essenza. Come non vedere in tale atteggiamento una conferma della crisi di
fiducia, che il nostro tempo sta attraversando, circa le capacità della
ragione? Quando poi, in forza di assunti aprioristici, queste tesi tendono ad
offuscare i contenuti della fede o a negarne la validità universale, allora
non solo umiliano la ragione, ma si pongono da se stesse fuori gioco. La
fede, infatti, presuppone con chiarezza che il linguaggio umano sia capace di
esprimere in modo universale — anche se in termini analogici, ma non per
questo meno significativi — la realtà divina e trascendente. (103) Se non
fosse così, la parola di Dio, che è sempre parola divina in linguaggio umano,
non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio. L'interpretazione di questa
Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione,
senza mai portarci ad attingere un'affermazione semplicemente vera;
altrimenti non vi sarebbe rivelazione di Dio, ma soltanto l'espressione di
concezioni umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di noi. 85. So bene che queste esigenze, poste
alla filosofia dalla parola di Dio, possono sembrare ardue a molti che vivono
l'odierna situazione della ricerca filosofica. Proprio per questo, facendo
mio ciò che i Sommi Pontefici da qualche generazione non cessano di insegnare
e che lo stesso Concilio Vaticano II ha ribadito, voglio esprimere con forza
la convinzione che l'uomo è capace di giungere a una visione unitaria e
organica del sapere. Questo è uno dei compiti di cui il pensiero cristiano
dovrà farsi carico nel corso del prossimo millennio dell'era cristiana. La
settorialità del sapere, in quanto comporta un approccio parziale alla verità
con la conseguente frammentazione del senso, impedisce l'unità interiore
dell'uomo contemporaneo. Come potrebbe la Chiesa non preoccuparsene? Questo
compito sapienziale deriva ai suoi Pastori direttamente dal Vangelo ed essi
non possono sottrarsi al dovere di perseguirlo. Ritengo che quanti oggi intendono
rispondere come filosofi alle esigenze che la parola di Dio pone al pensiero
umano dovrebbero elaborare il loro discorso sulla base di questi postulati e
in coerente continuità con quella grande tradizione che, iniziando con gli
antichi, passa per i Padri della Chiesa e i maestri della scolastica, per giungere
fino a comprendere le acquisizioni fondamentali del pensiero moderno e
contemporaneo. Se saprà attingere a questa tradizione ed ispirarsi ad essa,
il filosofo non mancherà di mostrarsi fedele all'esigenza di autonomia del
pensare filosofico. In questo senso, è quanto mai
significativo che, nel contesto attuale, alcuni filosofi si facciano
promotori della riscoperta del ruolo determinante della tradizione per una
corretta forma di conoscenza. Il richiamo alla tradizione, infatti, non è un
mero ricordo del passato; esso costituisce piuttosto il riconoscimento di un
patrimonio culturale che appartiene a tutta l'umanità. Si potrebbe, anzi,
dire che siamo noi ad appartenere alla tradizione e non possiamo disporre di
essa come vogliamo. Proprio questo affondare le radici nella tradizione è ciò
che permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero originale, nuovo e
progettuale per il futuro. Questo stesso richiamo vale anche maggiormente per
la teologia. Non solo perché essa possiede la Tradizione viva della Chiesa
come fonte originaria, (104) ma anche perché, in forza di questo, deve essere
capace di recuperare sia la profonda tradizione teologica che ha segnato le
epoche precedenti, sia la tradizione perenne di quella filosofia che ha
saputo superare per la sua reale saggezza i confini dello spazio e del tempo. 86. L'insistenza sulla necessità di uno
stretto rapporto di continuità della riflessione filosofica contemporanea con
quella elaborata nella tradizione cristiana intende prevenire il pericolo che
si nasconde in alcune linee di pensiero, oggi particolarmente diffuse. Anche
se brevemente, ritengo opportuno soffermarmi su di esse per rilevarne gli
errori ed i conseguenti rischi per l'attività filosofica. La prima è quella che va sotto il nome di eclettismo,
termine col quale si designa l'atteggiamento di chi, nella ricerca,
nell'insegnamento e nell'argomentazione, anche teologica, è solito assumere
singole idee derivate da differenti filosofie, senza badare né alla loro
coerenza e connessione sistematica né al loro inserimento storico. In questo
modo, egli si pone in condizione di non poter discernere la parte di verità
di un pensiero da quello che vi può essere di erroneo o di inadeguato. Una
forma estrema di eclettismo è ravvisabile anche nell'abuso retorico dei
termini filosofici a cui a volte qualche teologo s'abbandona. Una simile
strumentalizzazione non serve alla ricerca della verità e non educa la
ragione — sia teologica che filosofica — ad argomentare in maniera seria e
scientifica. Lo studio rigoroso e approfondito delle dottrine filosofiche,
del linguaggio loro peculiare e del contesto in cui sono sorte aiuta a
superare i rischi dell'eclettismo e permette una loro adeguata integrazione
nell'argomentazione teologica. 87. L'eclettismo è un errore di metodo, ma
potrebbe anche nascondere in sé le tesi proprie dello storicismo. Per
comprendere in maniera corretta una dottrina del passato, è necessario che
questa sia inserita nel suo contesto storico e culturale. La tesi
fondamentale dello storicismo, invece, consiste nello stabilire la verità di
una filosofia sulla base della sua adeguatezza ad un determinato periodo e ad
un determinato compito storico. In questo modo, almeno implicitamente, si
nega la validità perenne del vero. Ciò che era vero in un'epoca, sostiene lo
storicista, può non esserlo più in un'altra. La storia del pensiero, insomma,
diventa per lui poco più di un reperto archeologico a cui attingere per
evidenziare posizioni del passato ormai in gran parte superate e prive di
significato per il presente. Si deve considerare, al contrario, che anche se
la formulazione è in certo modo legata al tempo e alla cultura, la verità o
l'errore in esse espressi si possono in ogni caso, nonostante la distanza
spazio-temporale, riconoscere e come tali valutare. Nella riflessione teologica, lo storicismo
tende a presentarsi per lo più sotto una forma di « modernismo ». Con la
giusta preoccupazione di rendere il discorso teologico attuale e assimilabile
per il contemporaneo, ci si avvale soltanto degli asserti e del gergo
filosofico più recenti, trascurando le istanze critiche che, alla luce della
tradizione, si dovrebbero eventualmente sollevare. Questa forma di
modernismo, per il fatto di scambiare l'attualità per la verità, si rivela
incapace di soddisfare le esigenze di verità a cui la teologia è chiamata a
dare risposta. 88. Un altro pericolo da considerare è lo scientismo.
Questa concezione filosofica si rifiuta di ammettere come valide forme di
conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive,
relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e
teologica, sia il sapere etico ed estetico. Nel passato, la stessa idea si
esprimeva nel positivismo e nel neopositivismo, che ritenevano prive di senso
le affermazioni di carattere metafisico. La critica epistemologica ha
screditato questa posizione, ed ecco che essa rinasce sotto le nuove vesti
dello scientismo. In questa prospettiva, i valori sono relegati a semplici
prodotti dell'emotività e la nozione di essere è accantonata per fare spazio
alla pura e semplice fattualità. La scienza, quindi, si prepara a dominare
tutti gli aspetti dell'esistenza umana attraverso il progresso tecnologico.
Gli innegabili successi della ricerca scientifica e della tecnologia contemporanea
hanno contribuito a diffondere la mentalità scientista, che sembra non avere
più confini, visto come è penetrata nelle diverse culture e quali cambiamenti
radicali vi ha apportato. Si deve costatare, purtroppo, che quanto
attiene alla domanda circa il senso della vita viene dallo scientismo
considerato come appartenente al dominio dell'irrazionale o dell'immaginario.
Non meno deludente è l'approccio di questa corrente di pensiero agli altri
grandi problemi della filosofia, che, quando non vengono ignorati, sono
affrontati con analisi poggianti su analogie superficiali, prive di
fondamento razionale. Ciò porta all'impoverimento della riflessione umana,
alla quale vengono sottratti quei problemi di fondo che l'animal rationale,
fin dagli inizi della sua esistenza sulla terra, costantemente si è posto.
Accantonata, in questa prospettiva, la critica proveniente dalla valutazione
etica, la mentalità scientista è riuscita a fare accettare da molti l'idea
secondo cui ciò che è tecnicamente fattibile diventa per ciò stesso anche
moralmente ammissibile. 89. Foriero di non minori pericoli è il pragmatismo,
atteggiamento mentale che è proprio di chi, nel fare le sue scelte, esclude
il ricorso a riflessioni teoretiche o a valutazioni fondate su principi
etici. Notevoli sono le conseguenze pratiche derivanti da questa linea di
pensiero. In particolare, vi si è venuta affermando una concezione della
democrazia che non contempla il riferimento a fondamenti di ordine
assiologico e perciò immutabili: la ammissibilità o meno di un determinato
comportamento si decide sulla base del voto della maggioranza parlamentare.
(105) E chiara la conseguenza di una simile impostazione: le grandi decisioni
morali dell'uomo vengono di fatto subordinate alle deliberazioni via via assunte
dagli organi istituzionali. Di più: è la stessa antropologia ad essere
fortemente condizionata, mediante la proposta di una visione unidimensionale
dell'essere umano, dalla quale esulano i grandi dilemmi etici, le analisi
esistenziali sul senso della sofferenza e del sacrificio, della vita e della
morte. 90. Le tesi fin qui esaminate conducono, a
loro volta, a una più generale concezione, che sembra oggi costituire
l'orizzonte comune a molte filosofie che hanno preso congedo dal senso
dell'essere. Intendo riferirmi alla lettura nichilista, che è insieme il
rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva. Il nichilismo,
prima ancora di essere in contrasto con le esigenze e i contenuti propri
della parola di Dio, è negazione dell'umanità dell'uomo e della sua stessa
identità. Non si può dimenticare, infatti, che l'oblio dell'essere comporta
inevitabilmente la perdita di contatto con la verità oggettiva e,
conseguentemente, col fondamento su cui poggia la dignità dell'uomo. Si fa
così spazio alla possibilità di cancellare dal volto dell'uomo i tratti che
ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o a una
distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine. Una
volta che si è tolta la verità all'uomo, è pura illusione pretendere di
renderlo libero. Verità e libertà, infatti, o si coniugano insieme o insieme
miseramente periscono. (106) 91. Nel commentare le linee di pensiero
appena ricordate non è stata mia intenzione presentare un quadro completo della
situazione attuale della filosofia: essa, del resto, sarebbe difficilmente
riconducibile ad una visione unitaria. Mi preme sottolineare che l'eredità
del sapere e della sapienza si è, di fatto, arricchita in diversi campi.
Basti citare la logica, la filosofia del linguaggio, l'epistemologia, la
filosofia della natura, l'antropologia, l'analisi approfondita delle vie
affettive della conoscenza, l'approccio esistenziale all'analisi della
libertà. D'altro canto, l'affermazione del principio d'immanenza, che sta al
centro della pretesa razionalista, ha suscitato, a partire dal secolo scorso,
reazioni che hanno portato ad una radicale rimessa in questione di postulati
ritenuti indiscutibili. Sono nate così correnti irrazionaliste, mentre la
critica metteva in evidenza l'inanità dell'esigenza di autofondazione
assoluta della ragione. La nostra epoca è stata qualificata da
certi pensatori come l'epoca della « post-modernità ». Questo termine,
utilizzato non di rado in contesti tra loro molto distanti, designa l'emergere
di un insieme di fattori nuovi, che quanto ad estensione ed efficacia si sono
rivelati capaci di determinare cambiamenti significativi e durevoli. Così il
termine è stato dapprima impiegato a proposito di fenomeni d'ordine estetico,
sociale, tecnologico. Successivamente è stato trasferito in ambito
filosofico, restando però segnato da una certa ambiguità, sia perché il
giudizio su ciò che è qualificato come « post-moderno » è a volte positivo ed
a volte negativo, sia perché non vi è consenso sul delicato problema della
delimitazione delle varie epoche storiche. Una cosa tuttavia è fuori dubbio:
le correnti di pensiero che si richiamano alla post-modernità meritano
un'adeguata attenzione. Secondo alcune di esse, infatti, il tempo delle
certezze sarebbe irrimediabilmente passato, l'uomo dovrebbe ormai imparare a
vivere in un orizzonte di totale assenza di senso, all'insegna del
provvisorio e del fuggevole. Parecchi autori, nella loro critica demolitrice
di ogni certezza, ignorando le necessarie distinzioni, contestano anche le
certezze della fede. Questo nichilismo trova in qualche modo
una conferma nella terribile esperienza del male che ha segnato la nostra
epoca. Dinanzi alla drammaticità di questa esperienza, l'ottimismo
razionalista che vedeva nella storia l'avanzata vittoriosa della ragione,
fonte di felicità e di libertà, non ha resistito, al punto che una delle
maggiori minacce, in questa fine di secolo, è la tentazione della
disperazione. Resta tuttavia vero che una certa
mentalità positivista continua ad accreditare l'illusione che, grazie alle
conquiste scientifiche e tecniche, l'uomo, quale demiurgo, possa giungere da
solo ad assicurarsi il pieno dominio del suo destino. Compiti attuali per la teologia 92. In quanto intelligenza della Rivelazione,
la teologia nelle diverse epoche storiche si è sempre trovata a dover
recepire le istanze delle varie culture per poi mediare in esse, con una
concettualizzazione coerente, il contenuto della fede. Anche oggi un duplice
compito le spetta. Da una parte, infatti, essa deve sviluppare l'impegno che
il Concilio Vaticano II, a suo tempo, le ha affidato: rinnovare le proprie
metodologie in vista di un servizio più efficace all'evangelizzazione. Come
non pensare, in questa prospettiva, alle parole pronunciate dal Sommo
Pontefice Giovanni XXIII in apertura del Concilio? Egli disse allora: « E
necessario che, aderendo alla viva attesa di quanti amano sinceramente la
religione cristiana, cattolica, apostolica, questa dottrina sia più
largamente e più profondamente conosciuta, e che gli spiriti ne siano più
pienamente istruiti e formati; è necessario che questa dottrina certa ed
immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e
presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo ». (107) Dall'altra parte, la teologia deve puntare
gli occhi sulla verità ultima che le viene consegnata con la Rivelazione,
senza accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi. E bene per il teologo
ricordare che il suo lavoro corrisponde « al dinamismo insito nella fede
stessa » e che oggetto proprio della sua ricerca è « la Verità, il Dio vivo e
il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo ». (108) Questo compito,
che tocca in prima istanza la teologia, provoca nello stesso tempo la
filosofia. La mole dei problemi che oggi si impongono, infatti, richiede un
lavoro comune, anche se condotto con metodologie differenti, perché la verità
sia di nuovo conosciuta ed espressa. La Verità, che è Cristo, si impone come
autorità universale che regge, stimola e fa crescere (cfr Ef 4, 15)
sia la teologia che la filosofia. Credere nella possibilità di conoscere una
verità universalmente valida non è minimamente fonte di intolleranza; al
contrario, è condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo tra le
persone. Solamente a questa condizione è possibile superare le divisioni e
percorrere insieme il cammino verso la verità tutta intera, seguendo quei
sentieri che solo lo Spirito del Signore risorto conosce. (109) Come
l'esigenza di unità si configuri concretamente oggi, in vista dei compiti
attuali della teologia, è quanto desidero ora indicare. 93. Lo scopo fondamentale a cui mira la
teologia consiste nel presentare l'intelligenza della Rivelazione ed il
contenuto della fede. Il vero centro della sua riflessione sarà,
pertanto, la contemplazione del mistero stesso del Dio Uno e Trino. A questi
si accede riflettendo sul mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio: sul
suo farsi uomo e sul conseguente suo andare incontro alla passione e alla
morte, mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e ascensione alla
destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e ad
animare la sua Chiesa. Impegno primario della teologia, in questo orizzonte,
diventa l'intelligenza della kenosi di Dio, vero grande mistero per la
mente umana, alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte
possano esprimere l'amore che si dona senza nulla chiedere in cambio. In
questa prospettiva si impone come esigenza di fondo ed urgente una attenta
analisi dei testi: in primo luogo, dei testi scritturistici, poi di quelli in
cui si esprime la viva Tradizione della Chiesa. A questo riguardo si
propongono oggi alcuni problemi, solo parzialmente nuovi, la cui coerente
soluzione non potrà essere trovata prescindendo dall'apporto della filosofia. 94. Un primo aspetto problematico riguarda
il rapporto tra il significato e la verità. Come ogni altro testo, così anche
le fonti che il teologo interpreta trasmettono innanzitutto un significato,
che va rilevato ed esposto. Ora, questo significato si presenta come la
verità su Dio, che da Dio stesso viene comunicata mediante il testo sacro.
Nel linguaggio umano, quindi, prende corpo il linguaggio di Dio, che comunica
la propria verità con la mirabile « condiscendenza » che rispecchia la logica
dell'Incarnazione. (110) Nell'interpretare le fonti della Rivelazione,
pertanto, è necessario che il teologo si domandi quale sia la verità profonda
e genuina che i testi vogliono comunicare, pur nei limiti del linguaggio. Quanto ai testi biblici, e in particolare
ai Vangeli, la loro verità non si riduce certo alla narrazione di semplici
avvenimenti storici o alla rilevazione di fatti neutrali, come vorrebbe il
positivismo storicista. (111) Questi testi, al contrario, espongono eventi la
cui verità sta oltre il semplice accadere storico: sta nel loro significato nella
e per la storia della salvezza. Questa verità trova piena
esplicitazione nella lettura perenne che la Chiesa compie di tali testi nel
corso dei secoli, mantenendone immutato il significato originario. E urgente,
pertanto, che anche filosoficamente ci si interroghi sul rapporto che
intercorre tra il fatto e il suo significato; rapporto che costituisce il
senso specifico della storia. 95. La parola di Dio non si indirizza ad
un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur
risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti,
formulano una verità stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si
possa conciliare l'assolutezza e l'universalità della verità con
l'inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la
esprimono. Come ho detto precedentemente, le tesi dello storicismo non sono
difendibili. L'applicazione di un'ermeneutica aperta all'istanza metafisica,
invece, è in grado di mostrare come, dalle circostanze storiche e contingenti
in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi
espressa, che va oltre questi condizionamenti. Con il suo linguaggio storico e
circoscritto l'uomo può esprimere verità che trascendono l'evento
linguistico. La verità, infatti, non può mai essere limitata al tempo e alla
cultura; si conosce nella storia, ma supera la storia stessa. 96. Questa considerazione permette di
intravedere la soluzione di un altro problema: quello della perenne validità
del linguaggio concettuale usato nelle definizioni conciliari. Già il mio
venerato Predecessore Pio XII nella sua Lettera enciclica Humani generis affrontava
la questione. (112) Riflettere su questo argomento non è facile,
perché si deve tenere seriamente conto del senso che le parole acquistano
nelle diverse culture e in epoche differenti. La storia del pensiero,
comunque, mostra che attraverso l'evoluzione e la varietà delle culture certi
concetti di base mantengono il loro valore conoscitivo universale e perciò la
verità delle proposizioni che li esprimono. (113) Se così non fosse, la
filosofia e le scienze non potrebbero comunicare tra loro né potrebbero
essere recepite da culture diverse da quelle in cui sono state pensate ed
elaborate. Il problema ermeneutico, dunque, esiste, ma è risolvibile. Il
valore realistico di molti concetti, d'altronde, non esclude che spesso il
loro significato sia imperfetto. La speculazione filosofica molto potrebbe
aiutare in questo campo. E auspicabile, pertanto, un suo particolare impegno
nell'approfondimento del rapporto tra linguaggio concettuale e verità, e
nella proposta di vie adeguate per una sua corretta comprensione. 97. Se compito importante della teologia è
l'interpretazione delle fonti, impegno ulteriore e anche più delicato ed
esigente è la comprensione della verità rivelata, o l'elaborazione
dell'intellectus fidei. Come già ho accennato, l'intellectus fidei richiede
l'apporto di una filosofia dell'essere, che consenta innanzitutto alla teologia
dogmatica di svolgere in modo adeguato le sue funzioni. Il pragmatismo
dogmatico degli inizi di questo secolo, secondo cui le verità di fede non
sarebbero altro che regole di comportamento, è già stato rifiutato e
rigettato; (114) ciò nonostante, rimane sempre la tentazione di comprendere
queste verità in maniera puramente funzionale. In questo caso, si cadrebbe in
uno schema inadeguato, riduttivo, e sprovvisto dell'incisività speculativa
necessaria. Una cristologia, ad esempio, che procedesse unilateralmente « dal
basso », come oggi si suole dire, o una ecclesiologia, elaborata unicamente
sul modello delle società civili, difficilmente potrebbero evitare il
pericolo di tale riduzionismo. Se l'intellectus fidei vuole
integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve ricorrere alla
filosofia dell'essere. Questa dovrà essere in grado di riproporre il problema
dell'essere secondo le esigenze e gli apporti di tutta la tradizione
filosofica, anche quella più recente, evitando di cadere in sterili
ripetizioni di schemi antiquati. La filosofia dell'essere, nel quadro della
tradizione metafisica cristiana, è una filosofia dinamica che vede la realtà
nelle sue strutture ontologiche, causali e comunicative. Essa trova la sua
forza e perennità nel fatto di fondarsi sull'atto stesso dell'essere, che
permette l'apertura piena e globale verso tutta la realtà, oltrepassando ogni
limite fino a raggiungere Colui che a tutto dona compimento. (115) Nella
teologia, che riceve i suoi principi dalla Rivelazione quale nuova fonte di
conoscenza, questa prospettiva trova conferma secondo l'intimo rapporto tra
fede e razionalità metafisica. 98. Considerazioni analoghe si possono
fare anche in riferimento alla teologia morale. Il recupero della
filosofia è urgente anche nell'ordine della comprensione della fede che
riguarda l'agire dei credenti. Di fronte alle sfide contemporanee nel campo
sociale, economico, politico e scientifico la coscienza etica dell'uomo è
disorientata. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor ho rilevato
che molti problemi presenti nel mondo contemporaneo derivano da una « crisi
intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene,
conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione
della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria,
ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui spetta di applicare la
conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere
così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è
orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare,
in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale
visione fa tutt'uno con un'etica individualistica, per la quale ciascuno si
trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri ».
(116) Nell'intera Enciclica ho sottolineato
chiaramente il fondamentale ruolo spettante alla verità nel campo della
morale. Questa verità, riguardo alla maggior parte dei problemi etici più
urgenti, richiede, da parte della teologia morale, un'attenta riflessione che
sappia mettere in evidenza le sue radici nella parola di Dio. Per poter
adempiere a questa sua missione, la teologia morale deve far ricorso a
un'etica filosofica rivolta alla verità del bene; a un'etica, dunque, né
soggettivista né utilitarista. L'etica richiesta implica e presuppone
un'antropologia filosofica e una metafisica del bene. Avvalendosi di questa
visione unitaria, che è necessariamente collegata alla santità cristiana e
all'esercizio delle virtù umane e soprannaturali, la teologia morale sarà
capace di affrontare i vari problemi di sua competenza — quali la pace, la
giustizia sociale, la famiglia, la difesa della vita e dell'ambiente naturale
— in maniera più adeguata ed efficace. 99. Il lavoro teologico nella Chiesa è in
primo luogo al servizio dell'annuncio della fede e della catechesi. (117)
L'annuncio o il kerigma chiama alla conversione, proponendo la verità di
Cristo che culmina nel suo Mistero pasquale: solo in Cristo, infatti, è
possibile conoscere la pienezza della verità che salva (cfr At 4, 12; 1
Tm 2, 4-6). In questo contesto, si capisce bene
perché, oltre alla teologia, assuma notevole rilievo anche il riferimento
alla catechesi: questa possiede, infatti, delle implicazioni
filosofiche che vanno approfondite alla luce della fede. L'insegnamento
impartito nella catechesi ha un effetto formativo per la persona. La
catechesi, che è anche comunicazione linguistica, deve presentare la dottrina
della Chiesa nella sua integrità, (118) mostrandone l'aggancio con la vita
dei credenti. (119) Si realizza così una singolare unione tra insegnamento e
vita che è impossibile raggiungere altrimenti. Ciò che si comunica nella
catechesi, infatti, non è un corpo di verità concettuali, ma il mistero del
Dio vivente. (120) La riflessione filosofica molto può
contribuire nel chiarificare il rapporto tra verità e vita, tra evento e
verità dottrinale e, soprattutto, la relazione tra verità trascendente e
linguaggio umanamente intelligibile. (121) La reciprocità che si crea tra le
discipline teologiche e i risultati raggiunti dalle differenti correnti
filosofiche può esprimere, dunque, una reale fecondità in vista della
comunicazione della fede e di una sua più profonda comprensione. CONCLUSIONE 100. A più di cento anni dalla
pubblicazione dell'Enciclica Æterni Patris di Leone XIII, a cui mi
sono più volte richiamato in queste pagine, mi è sembrato doveroso riprendere
di nuovo e in maniera più sistematica il discorso sul tema del rapporto tra
la fede e la filosofia. L'importanza che il pensiero filosofico riveste nello
sviluppo delle culture e nell'orientamento dei comportamenti personali e
sociali è evidente. Esso esercita una forte influenza, non sempre percepita
in maniera esplicita, anche sulla teologia e le sue diverse discipline. Per
questi motivi, ho ritenuto giusto e necessario sottolineare il valore che la
filosofia possiede nei confronti dell'intelligenza della fede e i limiti a
cui essa va incontro quando dimentica o rifiuta le verità della Rivelazione.
La Chiesa, infatti, permane nella più profonda convinzione che fede e ragione
« si recano un aiuto scambievole », (122) esercitando l'una per l'altra una
funzione sia di vaglio critico e purificatore, sia di stimolo a progredire
nella ricerca e nell'approfondimento. 101. Se il nostro sguardo si volge alla
storia del pensiero, soprattutto nell'Occidente, è facile vedere la ricchezza
che è scaturita per il progresso dell'umanità dall'incontro tra filosofia e
teologia e dallo scambio delle loro rispettive conquiste. La teologia, che ha
ricevuto in dono un'apertura e una originalità che le permettono di esistere
come scienza della fede, ha certamente provocato la ragione a rimanere aperta
davanti alla novità radicale che la rivelazione di Dio porta con sé. E questo
è stato un indubbio vantaggio per la filosofia, che ha visto così schiudersi
nuovi orizzonti su ulteriori significati che la ragione è chiamata ad
approfondire. E proprio alla luce di questa costatazione
che, come ho ribadito il dovere della teologia di recuperare il suo genuino
rapporto con la filosofia, così mi sento in dovere di sottolineare
l'opportunità che anche la filosofia, per il bene e il progresso del
pensiero, recuperi la sua relazione con la teologia. Troverà in essa non la
riflessione del singolo individuo che, anche se profonda e ricca, porta pur
sempre con sé i limiti prospettici propri del pensiero di uno solo, ma la
ricchezza di una riflessione comune. La teologia, infatti, nell'indagine
sulla verità è sostenuta, per sua stessa natura, dalla nota dell'ecclesialità
(123) e dalla tradizione del Popolo di Dio con la sua multiformità di saperi
e culture nell'unità della fede. 102. Insistendo in tal modo
sull'importanza e sulle vere dimensioni del pensiero filosofico, la Chiesa
promuove insieme sia la difesa della dignità dell'uomo sia l'annuncio del
messaggio evangelico. Per tali compiti non vi è oggi, infatti, preparazione
più urgente di questa: portare gli uomini alla scoperta della loro capacità
di conoscere il vero (124) e del loro anelito verso un senso ultimo e
definitivo dell'esistenza. Nella prospettiva di queste esigenze profonde,
iscritte da Dio nella natura umana, appare anche più chiaro il significato
umano e umanizzante della parola di Dio. Grazie alla mediazione di una
filosofia divenuta anche vera saggezza, l'uomo contemporaneo giungerà così a
riconoscere che egli sarà tanto più uomo quanto più, affidandosi al Vangelo,
aprirà se stesso a Cristo. 103. La filosofia, inoltre, è come lo
specchio in cui si riflette la cultura dei popoli. Una filosofia, che, sotto
la provocazione delle esigenze teologiche, si sviluppa in consonanza con la
fede, fa parte di quella « evangelizzazione della cultura » che Paolo VI ha
proposto come uno degli scopi fondamentali dell'evangelizzazione. (125)
Mentre non mi stanco di richiamare l'urgenza di una nuova evangelizzazione,
mi appello ai filosofi perché sappiano approfondire le dimensioni del vero,
del buono e del bello, a cui la parola di Dio dà accesso. Ciò diventa tanto
più urgente, se si considerano le sfide che il nuovo millennio sembra portare
con sé: esse investono in modo particolare le regioni e le culture di antica
tradizione cristiana. Anche questa attenzione deve considerarsi come un
apporto fondamentale e originale sulla strada della nuova evangelizzazione. 104. Il pensiero filosofico è spesso
l'unico terreno d'intesa e di dialogo con chi non condivide la nostra fede. Il
movimento filosofico contemporaneo esige l'impegno attento e competente di
filosofi credenti capaci di recepire le aspettative, le aperture e le
problematiche di questo momento storico. Argomentando alla luce della ragione
e secondo le sue regole, il filosofo cristiano, pur sempre guidato
dall'intelligenza ulteriore che gli dà la parola di Dio, può sviluppare una
riflessione che sarà comprensibile e sensata anche per chi non afferra ancora
la verità piena che la Rivelazione divina manifesta. Tale terreno d'intesa e
di dialogo è oggi tanto più importante in quanto i problemi che si pongono
con più urgenza all'umanità — si pensi al problema ecologico, al problema
della pace o della convivenza delle razze e delle culture — trovano una
possibile soluzione alla luce di una chiara e onesta collaborazione dei
cristiani con i fedeli di altre religioni e con quanti, pur non condividendo
una credenza religiosa, hanno a cuore il rinnovamento dell'umanità. Lo ha
affermato il Concilio Vaticano II: « Per quanto ci riguarda, il desiderio di
stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore della verità e condotto
con la opportuna prudenza, non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto
di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora la Sorgente, né coloro
che si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in diverse maniere ». (126)
Una filosofia, nella quale risplenda anche qualcosa della verità di Cristo,
unica risposta definitiva ai problemi dell'uomo, (127) sarà un sostegno
efficace per quell'etica vera e insieme planetaria di cui oggi l'umanità ha
bisogno. 105. Mi preme concludere questa Lettera
enciclica rivolgendo un ultimo pensiero anzitutto ai teologi, affinché
prestino particolare attenzione alle implicazioni filosofiche della parola di
Dio e compiano una riflessione da cui emerga lo spessore speculativo e
pratico della scienza teologica. Desidero ringraziarli per il loro servizio
ecclesiale. Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico
è una delle ricchezze più originali della tradizione cristiana
nell'approfondimento della verità rivelata. Per questo, li esorto a
recuperare ed evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità per
entrare così in un dialogo critico ed esigente tanto con il pensiero
filosofico contemporaneo quanto con tutta la tradizione filosofica, sia
questa in sintonia o invece in contrapposizione con la parola di Dio. Tengano
sempre presente l'indicazione di un grande maestro del pensiero e della
spiritualità, san Bonaventura, il quale introducendo il lettore al suo Itinerarium
mentis in Deum lo invitava a rendersi conto che « non è sufficiente la
lettura senza la compunzione, la conoscenza senza la devozione, la ricerca
senza lo slancio della meraviglia, la prudenza senza la capacità di
abbandonarsi alla gioia, l'attività disgiunta dalla religiosità, il sapere
separato dalla carità, l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio non sorretto
dalla grazia divina, la riflessione senza la sapienza ispirata da Dio ».
(128) Il mio pensiero è rivolto pure a quanti
hanno la responsabilità della formazione sacerdotale, sia accademica
che pastorale, perché curino con particolare attenzione la preparazione
filosofica di chi dovrà annunciare il Vangelo all'uomo di oggi e, più ancora,
di chi dovrà dedicarsi alla ricerca e all'insegnamento della teologia. Si
sforzino di condurre il loro lavoro alla luce delle prescrizioni del Concilio
Vaticano II (129) e delle disposizioni successive, dalle quali emerge
l'inderogabile e urgente compito, a cui tutti siamo chiamati, di contribuire
a una genuina e profonda comunicazione delle verità di fede. Non si
dimentichi la grave responsabilità di una previa e adeguata preparazione del
corpo docente destinato all'insegnamento della filosofia sia nei Seminari che
nelle Facoltà ecclesiastiche. (130) E necessario che questa docenza comporti
la conveniente preparazione scientifica, si presenti in maniera sistematica
proponendo il grande patrimonio della tradizione cristiana e si compia con il
dovuto discernimento dinanzi alle esigenze attuali della Chiesa e del mondo. 106. Il mio appello, inoltre, va ai filosofi
e a quanti insegnano la filosofia, perché abbiano il coraggio di
ricuperare, sulla scia di una tradizione filosofica perennemente valida, le
dimensioni di autentica saggezza e di verità, anche metafisica, del pensiero
filosofico. Si lascino interpellare dalle esigenze che scaturiscono dalla
parola di Dio ed abbiano la forza di condurre il loro discorso razionale ed
argomentativo in risposta a tale interpellanza. Siano sempre protesi verso la
verità e attenti al bene che il vero contiene. Potranno in questo modo
formulare quell'etica genuina di cui l'umanità ha urgente bisogno,
particolarmente in questi anni. La Chiesa segue con attenzione e simpatia le
loro ricerche; siano pertanto sicuri del rispetto che essa conserva per la
giusta autonomia della loro scienza. Vorrei incoraggiare, in particolare, i
credenti che operano nel campo della filosofia, perché illuminino i diversi
ambiti dell'attività umana con l'esercizio di una ragione che si fa più
sicura e acuta per il sostegno che riceve dalla fede. Non posso non rivolgere, infine, una
parola anche agli scienziati, che con le loro ricerche ci forniscono
una crescente conoscenza dell'universo nel suo insieme e della varietà
incredibilmente ricca delle sue componenti, animate ed inanimate, con le loro
complesse strutture atomiche e molecolari. Il cammino da essi compiuto ha
raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi che continuano a
stupirci. Nell'esprimere la mia ammirazione ed il mio incoraggiamento a
questi valorosi pionieri della ricerca scientifica, ai quali l'umanità tanto
deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a proseguire nei
loro sforzi restando sempre in quell'orizzonte sapienziale, in cui
alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche s'affiancano i valori
filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica ed
imprescindibile della persona umana. Lo scienziato è ben consapevole che « la
ricerca della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o
dell'uomo, non termina mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra
dell'immediato oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono
l'accesso al Mistero ». (131) 107. A tutti chiedo di guardare in
profondità all'uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla
sua costante ricerca di verità e di senso. Diversi sistemi filosofici,
illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può
decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando
solo in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza dell'uomo non potrà mai
essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta
di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all'ombra della
Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà
il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all'amore e alla
conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé. 108. Il mio ultimo pensiero è rivolto a
Colei che la preghiera della Chiesa invoca come Sede della Sapienza.
La sua stessa vita è una vera parabola capace di irradiare luce sulla
riflessione che ho svolto. Si può intravedere, infatti, una profonda
consonanza tra la vocazione della Beata Vergine e quella della genuina
filosofia. Come la Vergine fu chiamata ad offrire tutta la sua umanità e
femminilità affinché il Verbo di Dio potesse prendere carne e farsi uno di
noi, così la filosofia è chiamata a prestare la sua opera, razionale e
critica, affinché la teologia come comprensione della fede sia feconda ed
efficace. E come Maria, nell'assenso dato all'annuncio di Gabriele, nulla
perse della sua vera umanità e libertà, così il pensiero filosofico,
nell'accogliere l'interpellanza che gli viene dalla verità del Vangelo, nulla
perde della sua autonomia, ma vede sospinta ogni sua ricerca alla più alta
realizzazione. Questa verità l'avevano ben compresa i santi monaci
dell'antichità cristiana, quando chiamavano Maria « la mensa intellettuale
della fede ». (132) In lei vedevano l'immagine coerente della vera filosofia
ed erano convinti di dover philosophari in Maria. Possa, la Sede della Sapienza, essere il
porto sicuro per quanti fanno della loro vita la ricerca della saggezza. Il
cammino verso la sapienza, ultimo e autentico fine di ogni vero sapere, possa
essere liberato da ogni ostacolo per l'intercessione di Colei che, generando
la Verità e conservandola nel suo cuore, l'ha partecipata all'umanità intera
per sempre. Dato a Roma, presso San Pietro, il 14
settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, dell'anno 1998,
ventesimo del mio Pontificato. (1) Già lo scrivevo nella mia prima
lettera enciclica Redemptor hominis: « Siamo diventati partecipi di
questa missione di Cristo-profeta e, in forza della stessa missione, insieme
con lui serviamo la verità divina nella Chiesa. La responsabilità per tale
verità significa anche amarla e cercarne la più esatta comprensione, in modo
da renderla più vicina a noi stessi e agli altri in tutta la sua forza
salvifica, nel suo splendore, nella sua profondità e insieme semplicità ». N. 19: AAS 71
(1979), 306. (2) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 16. (3) Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen
gentium, 25. (4) N. 4: AAS
85 (1993), 1136. (5) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione
Dei Verbum, 2. (6) Cfr Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei
Filius, III: DS 3008. (7) Ibid., IV: DS 3015;
citato anche in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 59. (8) Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei
Verbum, 2. (9) Lett. ap. Tertio millennio
adveniente (10 novembre 1994), 10: AAS 87 (1995), 11. (10) N. 4. (11) N. 8. (12) N. 22. (13) Cfr
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla
divina Rivelazione Dei Verbum, 4. (14) Ibid., 5. (15) Il Concilio Vaticano I, a cui fa
riferimento la sentenza sopra richiamata, insegna che l'obbedienza della fede
esige l'impegno dell'intelletto e della volontà: « Poiché l'uomo dipende
totalmente da Dio come suo creatore e signore e la ragione creata è
sottomessa completamente alla verità increata, noi siamo tenuti, quando Dio
si rivela, a prestargli, con la fede, la piena sottomissione della nostra
intelligenza e della nostra volontà » (Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei
Filius, III; DS 3008). (16) Sequenza nella solennità del
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. (17) Pensées,
789 (ed. L. Brunschvicg). (18) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past.
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22. (19) Cfr
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla
divina Rivelazione Dei Verbum, 2. (20) Proemio e nn. 1. 15: PL 158,
223-224.226; 235. (21) De vera religione, XXXIX, 72: CCL
32, 234. (22) « Ut te semper desiderando quaererent
et inveniendo quiescerent »: Missale Romanum. (23) Aristotele, Metafisica, I, 1. (24) Confessiones, X, 23, 33: CCL
27, 173. (25) N. 34: AAS 85 (1993), 1161. (26) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Salvifici
doloris (11 febbraio 1984), 9: AAS 76 (1984), 209-210. (27) Cfr
Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulle
relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate,
2. (28) E questa un'argomentazione che
perseguo da molto tempo e che ho espresso in diverse occasioni. « Che è
l'uomo e a che può servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male? (Sir 18,
7) [...]. Queste domande sono nel cuore di ogni uomo, come ben dimostra il
genio poetico di ogni tempo e di ogni popolo, che, quasi profezia
dell'umanità, ripropone continuamente la domanda seria che rende
l'uomo veramente tale. Esse esprimono l'urgenza di trovare un perché
all'esistenza, ad ogni suo istante, alle sue tappe salienti e decisive così
come ai suoi momenti più comuni. In tali questioni è testimoniata la
ragionevolezza profonda dell'esistere umano, poiché l'intelligenza e la
volontà dell'uomo vi sono sollecitate a cercare liberamente la soluzione
capace di offrire un senso pieno alla vita. Questi interrogativi, pertanto,
costituiscono l'espressione più alta della natura dell'uomo: di conseguenza
la risposta ad esse misura la profondità del suo impegno con la propria
esistenza. In particolare, quando il perché delle cose viene indagato
con integralità alla ricerca della risposta ultima e più esauriente, allora
la ragione umana tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In effetti,
la religiosità rappresenta l'espressione più elevata della persona umana,
perché è il culmine della sua natura razionale. Essa sgorga dall'aspirazione
profonda dell'uomo alla verità ed è alla base della ricerca libera e
personale che egli compie del divino »: Udienza generale del 19 ottobre 1983,
1-2: Insegnamenti VI, 2 (1983), 814-815. (29) « [Galileo] ha dichiarato
esplicitamente che le due verità, di fede e di scienza, non possono mai
contrariarsi « procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura sacra e la
natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come
osservantissima esecutrice degli ordini di Dio » come scrive nella lettera al
Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613. Non diversamente, anzi con
parole simili, insegna il Concilio Vaticano II: « La ricerca metodica di ogni
disciplina, se procede [...] secondo le norme morali, non sarà mai in reale
contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno
origine dal medesimo Dio » (Gaudium et spes, 36). Galileo sente nella
sua ricerca scientifica la presenza del Creatore che lo stimola, che previene
e aiuta le sue intuizioni, operando nel profondo del suo spirito ». Giovanni
Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 10 novembre 1979:
Insegnamenti, II, 2 (1979), 1111-1112. (30) Cfr
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla
divina Rivelazione Dei Verbum, 4. (31) Origene, Contro Celso, 3, 55: SC
136, 130. (32) Dialogo con Trifone, 8,1: PG
6, 492. (33) Stromati I, 18, 90, 1: SC 30,
115. (34) Cfr ibid., I, 16, 80, 5: SC
30, 108. (35) Cfr ibid., I, 5, 28, 1: SC 30,
65. (36) Ibid., VI, 7, 55, 1-2: PG 9,
277. (37) Ibid., I, 20, 100, 1: SC 30,
124. (38) S. Agostino, Confessiones VI,
5, 7: CCL 27, 77-78. (39)
Cfr ibid., VII, 9, 13-14: CCL 27, 101-102. (40) De praescriptione haereticorum,
VII, 9: SC 46, 98. « Quid ergo Athenis et Hierosolymis? Quid academiae et
ecclesiae? ». (41) Cfr Congregazione per l'Educazione
Cattolica, Istr. sullo studio dei Padri della Chiesa nella formazione
sacerdotale (10 novembre 1989), 25: AAS 82 (1990), 617-618. (42) S. Anselmo, Proslogion, 1: PL
158, 226. (43) Id., Monologion, 64: PL 158,
210. (44) Cfr Summa contra Gentiles, I,
VII. (45) Cfr Summa Theologiae, I, 1, 8
ad 2: « cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat ». (46) Cfr Giovanni Paolo II, Discorso ai
partecipanti al IX Congresso Tomistico Internazionale (29 settembre 1990): Insegnamenti,
XIII, 2 (1990), 770-771. (47) Lett. ap. Lumen Ecclesiae (20
novembre 1974), 8: AAS 66 (1974), 680. (48) Cfr I, 1, 6: « Praeterea, haec
doctrina per studium acquiritur. Sapientia autem per infusionem habetur, unde
inter septem dona Spiritus Sancti connumeratur ». (49) Ibid., II, II, 45, 1 ad 2; cfr
pure II, II, 45, 2. (50) Ibid., I, II, 109, 1 ad 1 che
riprende la nota frase dell'Ambrosiaster, In prima Cor 12,3: PL 17,
258. (51) Leone XIII, Lett. enc. Æterni
Patris (4 agosto 1879): ASS 11 (1878-1879), 109. (52) Paolo VI, Lett. ap. Lumen
Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974), 683. (53) Lett. enc. Redemptor hominis (4
marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 286. (54) Cfr Pio XII, Lett. enc. Humani
generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 566. (55) Cfr
Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. prima
sulla Chiesa di Cristo Pastor Aeternus: DS 3070; Conc. Ecum.
Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 25 c. (56) Cfr Sinodo di Costantinopoli, DS 403. (57) Cfr Concilio di Toledo I, DS 205;
Concilio di Braga I, DS 459-460; Sisto V, Bolla Coeli et terrae
Creator (5 gennaio 1586): Bullarium Romanum 4/4, Romae 1747,
176-179; Urbano VIII, Inscrutabilis iudiciorum (1o aprile 1631): Bullarium
Romanum 6/1, Romae 1758, 268-270. (58) Cfr
Conc. Ecum. Viennense, Decr. Fidei
catholicae, DS 902; Conc. Ecum. Lateranense V, Bolla Apostolici
regiminis, DS 1440. (59) Cfr Theses a Ludovico Eugenio
Bautain iussu sui Episcopi subscriptae (8 settembre 1840), DS 2751-2756; Theses
a Ludovico Eugenio Bautain ex mandato S. Cong. Episcoporum et Religiosorum
subscriptae (26 aprile 1844), DS 2765-2769. (60) Cfr S. Congr. Indicis, Decr. Theses
contra traditionalismum Augustini Bonnetty (11 giugno 1855), DS 2811-2814. (61) Cfr Pio IX, Breve Eximiam tuam (15
giugno 1857), DS 2828-2831; Breve Gravissimas inter (11
dicembre 1862), DS 2850-2861. (62) Cfr S. Congr. del S. Officio, Decr. Errores
ontologistarum (18 settembre 1861), DS 2841-2847. (63) Cfr Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm.
sulla fede cattolica Dei Filius, II: DS 3004; e can. 2, 1: DS
3026. (64) Ibid., IV: DS 3015,
citato in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 59. (65) Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla
fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3017. (66) Cfr
Lett. enc. Pascendi dominici gregis
(8 settembre 1907): ASS 40
(1907), 596-597. (67) Cfr Pio XI, Lett. enc. Divini
Redemptoris (19 marzo 1937): AAS 29 (1937), 65-106. (68)
Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950),
562-563. (69) Ibid.,
l.c., 563-564. (70) Cfr Giovanni Paolo II, Cost. ap. Pastor
Bonus (28 giugno 1988), artt. 48-49: AAS 80 (1988), 873; Congr.
per la Dottrina della Fede, Istr. sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum
veritatis (24 maggio 1990), 18: AAS 82 (1990), 1558. (71) Cfr Istr. su alcuni aspetti della «
teologia della liberazione » Libertatis nuntius (6 agosto 1984),
VII-X: AAS 76 (1984), 890-903. (72) Il Concilio Vaticano I, con parole
tanto chiare quanto autoritative, aveva già condannato questo errore,
affermando da una parte che « quanto a questa fede [...], la Chiesa cattolica
professa che essa è una virtù soprannaturale, per la quale sotto
l'ispirazione divina e con l'aiuto della grazia, noi crediamo vere le cose da
lui rivelate, non a causa dell'intrinseca verità delle cose percepite dalla
luce naturale della ragione, ma a causa dell'autorità di Dio stesso, che le
rivela, il quale non può ingannarsi né ingannare »: Cost. dogm. Dei Filius
III: DS 3008, e can.3. 2: DS 3032. Dall'altra parte, il
Concilio dichiarava che la ragione mai « è resa capace di penetrare [tali
misteri] come le verità che formano il suo oggetto proprio »: ibid.,
IV: DS 3016. Da qui traeva la conclusione pratica: « I fedeli cristiani
non solo non hanno il diritto di difendere come legittime conclusioni della
scienza le opinioni riconosciute contrarie alla dottrina della fede, specie
se condannate dalla Chiesa, ma sono strettamente tenuti a considerarle
piuttosto come errori, che hanno solo una ingannevole parvenza di verità »: ibid.,
IV: DS 3018. (73)
Cfr nn. 9-10. (74) Ibid.,
10. (75) Ibid.,
21. (76)
Cfr ibid., 10. (77)
Cfr Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 565-567;
571-573. (78) Cfr
Lett. enc. Æterni Patris (4 agosto 1879): ASS 11 (1878-1879), 97-115. (79) Ibid.,
l.c., 109. (80)
Cfr nn. 14-15. (81)
Cfr ibid., 20-21. (82) Ibid., 22; cfr Giovanni Paolo
II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 8: AAS 71
(1979), 271-272. (83) Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam
totius, 15. (84) Cfr Giovanni Paolo II, Cost. ap. Sapientia
christiana (15 aprile 1979), art. 79-80: AAS 71 (1979), 495-496;
Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis (25 marzo 1992), 52: AAS
84 (1992), 750-751. Cfr pure alcuni commenti sulla filosofia di S.
Tommaso: Discorso al Pontificio Ateneo Internazionale Angelicum (17 novembre
1979): Insegnamenti II, 2 (1979), 1177-1189; Discorso ai partecipanti
dell'VIII Congresso Tomistico Internazionale (13 settembre 1980): Insegnamenti
III, 2 (1980), 604-615; Discorso ai partecipanti al Congresso
Internazionale della Società « San Tommaso » sulla dottrina dell'anima in S.
Tommaso (4 gennaio 1986): Insegnamenti IX, 1 (1986), 18-24. Inoltre,
S. Congr. per l'Educazione Cattolica, Ratio fundamentalis institutionis
sacerdotalis (6 gennaio 1970), 70-75: AAS 62 (1970), 366-368;
Decr. Sacra Theologia (20 gennaio 1972): AAS 64 (1972),
583-586. (85) Cfr Cost. past. sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes, 57; 62. (86)
Cfr ibid., 44. (87)
Cfr Conc. Ecum. Lateranense V, Bolla Apostolici
regimini sollicitudo, Sessione VIII: Conc. Oecum. Decreta, 1991,
605-606. (88) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm.
sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 10. (89) S. Tommaso d'Aquino, Summa
Theologiae, II-II, 5, 3 ad 2. (90) « La ricerca delle condizioni nelle
quali l'uomo pone da sé le prime domande fondamentali sul senso della vita,
sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che l'attende dopo la morte,
costituisce per la teologia fondamentale il necessario preambolo, affinché,
anche oggi, la fede abbia a mostrare in pienezza il cammino ad una ragione in
ricerca sincera della verità ». Giovanni Paolo II, Lettera ai partecipanti
al Congresso internazionale di Teologia Fondamentale a 125 anni dalla « Dei
Filius » (30 settembre 1995), 4: L'Osservatore Romano, 3 ottobre
1995, p. 8. (91) Ibid. (92)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past.
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 15; Decr. sull'attività
missionaria della Chiesa Ad gentes, 22. (93) S. Tommaso d'Aquino, De Caelo,
1, 22. (94) Cfr
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 53-59. (95) S.
Agostino, De praedestinatione sanctorum, 2,5: PL 44, 963. (96) Id., De
fide, spe et caritate, 7: CCL 64, 61. (97) Cfr
Conc. Ecum. Calcedonense, Symbolum,
Definitio: DS 302. (98) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor
hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 286-289. (99) Cfr, ad esempio, S. Tommaso d'Aquino,
Summa Theologiae, I, 16,1; S. Bonaventura, Coll. in Hex., 3, 8,
1. (100) Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 15. (101) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis
splendor (6 agosto 1993), 57-61: AAS 85 (1993), 1179-1182. (102) Cfr
Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla
fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3016. (103) Cfr
Conc. Ecum. Lateranense IV, De
errore abbatis Ioachim, II: DS 806. (104) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm.
sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 24; Decr. sulla formazione
sacerdotale Optatam totius, 16. (105) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium
vitae (25 marzo 1995), 69: AAS 87 (1995), 481. (106) Nello stesso senso scrivevo nella
mia prima Lettera enciclica a commento dell'espressione del Vangelo di S.
Giovanni: « Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi » (8, 32):
«Queste parole racchiudono una fondamentale esigenza ed insieme un
ammonimento: l'esigenza di un rapporto onesto nei riguardi della verità, come
condizione di un'autentica libertà; e l'ammonimento, altresì, perché sia
evitata qualsiasi libertà apparente, ogni libertà superficiale e unilaterale,
ogni libertà che non penetri tutta la verità sull'uomo e sul mondo. Anche
oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a noi come Colui che porta all'uomo
la libertà basata sulla verità, come Colui che libera l'uomo da ciò che
limita, menoma e quasi spezza alle radici stesse, nell'anima dell'uomo, nel
suo cuore, nella sua coscienza, questa libertà »: Lett. enc. Redemptor
hominis (4 marzo 1979), 12: AAS 71 (1979), 280-281. (107) Discorso di apertura del Concilio
(11 ottobre 1962): AAS 54 (1962), 792. (108) Congr. per la Dottrina della Fede,
Istr. sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum veritatis (24
maggio 1990), 7-8: AAS 82 (1990), 1552-1553. (109) Ho scritto nell'Enciclica Dominum
et vivificantem, commentando Gv 16, 12-13: « Gesù presenta il
Consolatore, lo Spirito di verità, come colui che “insegnerà” e “ricorderà”,
come colui che gli “renderà testimonianza”; ora dice: “Egli vi guiderà alla
verità tutta intera”. Questo “guidare alla verità tutta intera”, in
riferimento a ciò di cui gli Apostoli “per il momento non sono capaci di
portare il peso”, è in necessario collegamento con lo spogliamento di
Cristo per mezzo della passione e morte di croce, che allora, quando
pronunciava queste parole, era ormai imminente. In seguito, tuttavia, diventa
chiaro che quel “guidare alla verità tutta intera” si ricollega, oltre che
allo scandalum Crucis, anche a tutto ciò che Cristo “fece ed insegnò”
(At 1, 1). Infatti, il mysterium Christi nella sua globalità
esige la fede, poiché è questa che introduce opportunamente l'uomo nella
realtà del mistero rivelato. Il “guidare alla verità tutta intera” si
realizza, dunque, nella fede e mediante la fede: il che è opera dello Spirito
di verità ed è frutto della sua azione nell'uomo. Lo Spirito Santo deve
essere in questo la suprema guida dell'uomo, la luce dello spirito umano »:
n. 6: AAS 78 (1986), 815-816. (110) Cfr
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla
divina Rivelazione Dei Verbum, 13. (111) Cfr Pontificia Commissione Biblica,
Istr. sulla verità storica dei Vangeli (21 aprile 1964): AAS 56
(1964), 713. (112) « E chiaro che la Chiesa non può
essere legata ad un qualunque sistema filosofico effimero; ma quelle nozioni
e quei termini, che con generale consenso furono composti attraverso parecchi
secoli dai dottori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e comprensione
del dogma senza dubbio non poggiano su di un fondamento così caduco. Si
appoggiano invece a principi e nozioni dettate da una vera conoscenza del
creato; e nel dedurre queste conoscenze, la verità rivelata, come una stella,
ha illuminato, per mezzo della Chiesa, la mente umana. Perciò non c'è da
meravigliarsi se qualcuna di queste nozioni non solo sia stata adoperata in
Concili Ecumenici, ma vi abbia ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito
allontanarcene »: Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42
(1950), 566-567; cfr Commissione Teologica Internazionale, Doc. Interpretationis
problema (ottobre 1989): Ench. Vat. 11, nn. 2717-2811. (113) « Quanto al significato stesso delle
formule dogmatiche, esso nella Chiesa rimane sempre vero e coerente, anche
quando è maggiormente chiarito e meglio compreso. Devono, quindi, i fedeli
rifuggire dall'opinione la quale ritiene che le formule dogmatiche (o qualche
categoria di esse) non possono manifestare la verità determinatamente, ma
solo delle sue approssimazioni cangianti che sono, in certa maniera,
deformazioni e alterazioni della medesima »: S. Congr. per la Dottrina della
Fede, Dich. sulla difesa della dottrina cattolica circa la Chiesa, Mysterium
Ecclesiae (24 giugno 1973), 5: AAS 65 (1973), 403. (114) Cfr Congr. S. Officii, Decr. Lamentabili
(3 luglio 1907), 26: ASS 40 (1907), 473. (115) Cfr Giovanni Paolo II, Discorso al
Pontificio Ateneo « Angelicum » (17 novembre 1979), 6: Insegnamenti,
II, 2 (1979), 1183-1185. (116) N. 32: AAS 85 (1993),
1159-1160. (117) Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Catechesi
tradendae (16 ottobre 1979), 30: AAS 71 (1979), 1302-1303; Congr.
per la Dottrina della Fede, Istr. sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum
veritatis (24 maggio 1990), 7: AAS 82 (1990), 1552-1553. (118) Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Catechesi
tradendae (16 ottobre 1979), 30: AAS 71 (1979), 1302-1303. (119)
Cfr ibid., 22, l. c., 1295-1296. (120)
Cfr ibid., 7, l. c., 1282. (121)
Cfr ibid., 59, l. c., 1325. (122) Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm.
sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3019. (123) « Nessuno può fare della teologia
quasi che fosse una semplice raccolta dei propri concetti personali; ma
ognuno deve essere consapevole di rimanere in stretta unione con quella
missione di insegnare la verità, di cui è responsabile la Chiesa »: Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 19: AAS 71
(1979), 308. (124) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulla
libertà religiosa Dignitatis humanae, 1-3. (125) Cfr Esort. ap. Evangelii
nuntiandi (8 dicembre 1975), 20: AAS 68 (1976), 18-19. (126) Cost. past sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 92. (127) Cfr ibid., 10. (128) Prologus, 4: Opera omnia,
Firenze 1891, t. V, 296. (129) Cfr
Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulla
formazione sacerdotale Optatam totius, 15. (130) Cfr Giovanni Paolo II, Cost. ap. Sapientia
christiana (15 aprile 1979), artt. 67-68: AAS 71 (1979), 491-492. (131) Giovanni Paolo II, Discorso
all'Università di Cracovia per il 600o anniversario dell'Alma Mater
Jagellonica (8 giugno 1997), 4: L'Osservatore Romano, 9-10 giugno
1997, p. 12. (132) « 'e noerà tes písteos tràpeza »: Omelia
in lode di Santa Maria Madre di Dio, dello pseudo Epifanio: PG 43,
493. |
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