UN FENOMENO DIFFICILE DA INTERPRETARE

Varcare la porta della loro stanza

di Aldo Geranzani
(rettore del Collegio San Carlo di Milano)
            

    Non basta studiare la realtà adolescenziale, bisogna comprenderla attraverso la relazione. Se alle spalle del ragazzo non vi è una forma comunicativa familiare positiva, facilmente, egli cerca solidarietà nel gruppo e questo, spesso, ripropone al suo interno modalità relazionali del mondo degli adulti.

Strana la società in cui viviamo: ha bisogno sempre di sapori forti. E così, per accorgersi del disagio dei giovani, gli adulti devono imbattersi in qualche emergenza: quella delle cosiddette baby-gang è probabilmente l’ultimo campanello d’allarme che si è fatto sentire in tal senso.

Le vicende di "teppistelli" nell’ultimo anno hanno conquistato spazio sui giornali. Dalla cronaca sono riusciti ad arrivare in prima pagina e hanno richiamato l’attenzione del mondo adulto, tanto che si sono cercate parole di esperti per l’analisi del fenomeno. Purtroppo la legge dell’informazione, che fa dell’emergenza e del clamore la modalità consueta per la considerazione di una notizia, ha rimandato lo spazio pacato per la riflessione intorno al problema. Già questo è indicativo. Che problemi tanto seri del mondo giovanile, connessi alla questione dell’educare, vengano affrontati in maniera semplificante e con forme di decodifica di basso profilo, rischia d’essere la forma della rimozione del problema, proprio nel momento in cui se ne parla. Non vorremmo cadere nello stesso errore.

Il fenomeno delle baby-gang non è di così facile lettura; credo che nessuno abbia una ricetta pronta per decodificare questi episodi. Ci si trova smarriti, anche perché l’immediata e comprensibile reazione emotiva lascia poi il posto al: «non mi riguarda, storie di periferia, società senza valori...» e via dicendo. Ma quando capita che siano implicati figli di buona famiglia e magari figli di amici, allora vanno in crisi questi semplificanti schemi mentali.

Anch’io potrei cullarmi sul fatto che il fenomeno non ha mai visto miei studenti implicati come attori ma, casomai, come vittime. Ma ciò che non è mai capitato potrebbe succedere domani. Mi sembra giusto, quindi, riflettere sul fenomeno in termini pacati: senza allarmismo inutile e senza sottovalutare il disagio di questi ragazzi, che ha certamente sorgenti nascoste e forse impensate. Le risposte facili non esistono in campo educativo, sono sempre meno scontate di quanto sembri.

Se il fenomeno delle baby-gang non è di facile lettura, lo stesso andrebbe detto, più in generale, per la realtà adolescenziale e giovanile in genere. Per quanto celebrata, mitizzata, messa in scena dal mondo adulto, questa età resta un’incognita per molti. I mass media, a parole, ci dicono di tutto di questa età. Ma, per quanto molti discorsi siano ben fatti e molte analisi ineccepibili, non riescono a colmare quei silenzi di casa che certe sere sono più spessi dei muri, quando ci si interroga su quel figlio o quella figlia che fino a ieri ci diceva tutto e adesso è un mistero.

Prima ancora di affrontare il problema delle baby-gang andrebbe affrontato, o almeno inquadrato, lo sfondo e le ragioni della difficile comprensione di questo arco di età. Anzitutto ci si dimentica che si tratta di osservare un’età e delle generazioni che sono incredibilmente dinamiche, soggette a forme spinte di cambiamento, per le quali non è detto che i modelli interpretativi di ieri possano funzionare anche oggi; inoltre, l’accelerazione al mutamento tipica della nostra società accresce la velocità con la quale i passaggi generazionali avvengono; noi crediamo di avere a che fare con una generazione e invece si tratta già di un’altra. Tutto ciò non permette di dare per scontato le chiavi di lettura di fenomeni caratterizzanti il mondo adolescenziale e giovanile.

Ma, soprattutto, non basta "osservare", fare appello a chiavi di lettura calate dall’alto, ridurre persone a un fenomeno da studiare, magari ammantandosi di un linguaggio sociologico, psicologico, pedagogico di sicuro effetto. L’utilità indubbia di queste chiavi di lettura, che è bene conoscere, non deve far dimenticare l’atteggiamento vero da cui partire, che è piuttosto l’esercizio infinito della comprensione, dell’ascolto, della vicinanza. Per parlare delle persone di questa età occorre, innanzitutto, il coraggio della relazione con loro.

Di fronte alle baby-gang la reazione emotiva fa posto alla certezza di non esserne coinvolti. Ma quando capita che siano implicati ragazzi di buona famiglia e magari figli di amici, allora vanno in crisi i nostri semplici schemi mentali.

A volte, durante alcuni colloqui con i genitori, ho l’impressione che si sia preferito leggere libri su come educare i figli e guardare trasmissioni che promettevano ricette in tal senso, piuttosto che fare il primo passo per tornare a casa un po’ prima e varcare la soglia della loro stanza.

Ritengo che ogni analisi, forma di studio, chiave interpretativa nei confronti della realtà adolescenziale e giovanile non dovrebbero mai venir meno a questo principio: le forme della comprensione devono nascere e radicarsi nella relazione con le persone di cui si parla, non in una osservazione solo esterna che fa dei soggetti gli oggetti di un crudo discorrere. Anche nel caso di una baby-gang.

Se facessimo questo sforzo, ci accorgeremmo subito che ci affidiamo troppo a figure della comprensione e della relazione col mondo adolescenziale e giovanile di basso profilo.

La nostra nostalgia

Il nostro mondo di adulti troppo spesso celebra adolescenti e giovani manifestando apertamente la nostra nostalgia per la loro vita scanzonata, per l’eterna aria da sabato pomeriggio che li attornia, per i loro anni in tasca. Nello stesso tempo, però, ricorda loro, con un pizzico di riserva cinica, che un giorno o l’altro dovranno mettere la testa a posto, i piedi per terra, e via dicendo; insomma, dovranno smetterla e darsi una sistemata, come è successo a noi.

Attraversata da questa ambivalenza, la nostra relazione di adulti è soggetta, talvolta, al trasformarsi in "compagnoneria", raccolta di confidenze amicali al limite della complicità, se li invidiamo; oppure si caratterizza per l’erigersi a gestione e organizzazione della loro vita, delle loro amicizie, del loro tempo, se la preoccupazione che ci muove è la definizione di un loro profilo professionale e della loro identità.

In alcuni casi, meno numerosi di quanto non possa sembrare, la comprensione e la relazione si sono ridotte a nulla, vuoi perché ormai i canali si sono definitivamente interrotti, vuoi perché dietro la maschera di una grande liberalità, paterna o materna comprensione, si nasconde una forma di disinteresse che così recita: «non mi interessa ciò che combini, hai libertà a briglia sciolta purché, tornato la sera a casa, io non debba fare i conti con eventuali problemi».

Devo dire che, per quanto vi siano genitori che rientrano nelle figure indicate, la maggior parte di quelli che conosco e che hanno iscritto i loro figli alla scuola che dirigo, li vedo interpretare figure ben più qualificate del rapporto tra adulto e adolescente; dialogando con loro, li sento responsabilmente impegnati nella costruzione di un rapporto significativo coi loro figli. Ma, anche in questo caso, emergono sensibilità diverse.

Ci sono genitori che sono attenti ai risultati entro una logica di breve periodo, altri che trovo più attenti ai processi profondi di crescita della personalità e, quindi, ragionano su tempi lunghi. Tra i primi c’è chi considera la scuola come un luogo dove si offrono informazioni, tecniche, metodologie, dove si va per guadagnarsi il più velocemente possibile la promozione, a qualsiasi costo; altri sono più sensibili alla formazione e all’impegno educativo che la proposta didattica adduce con sé, per questo vedono la scuola come un’ottima palestra che aiuta a crescere anche attraverso la competizione.

C’è, poi, chi ragiona sui tempi lunghi della crescita: alcuni fra questi vedono la scuola come pregiudiziale per una garanzia di sicuro successo professionale, come se si trattasse dell’iscrizione a un particolare club che apre molte porte e permette di fare conoscenze; c’è chi, più sensibile alla dimensione educativa, chiede che la scuola metta le basi per una futura professionalità da viversi come realizzazione di sé e, indipendentemente da quel che concretamente sarà, come missione.

Ai genitori, così come ai professori, a ogni adulto che ha a che fare con un impegno educativo, mi sono accorto di non dover chiedere solamente di verificarsi e ritrovarsi in una di queste figure, per potersi migliorare. C’è un compito e una sfida ancor più difficili che ci aspettano. Certo, non è cosa che si può fare tutti i giorni, ma quando viene il momento dobbiamo essere pronti.

Si tratta della sfida al confronto aperto con i nostri figli, alla testimonianza intorno alle cose in cui non loro ma noi crediamo, speriamo, amiamo, le paure e le gioie che ci segnano, le riuscite e le sconfitte che abbiamo conosciuto nel lavoro, nelle relazioni, il tormento degli interrogativi che ancora abbiamo dentro.

Per arrivare a tanto, si tratta di vivere il rapporto con loro dentro la legge semplice, e terribile per chi ha fretta, del rapporto educativo: il tempo dedicato a capire te e a stare con te chiede almeno altrettanto tempo dedicato a capire me e a stare con me. Ma è questo tempo che oggi purtroppo ci manca.

Ho l’impressione che, troppo spesso, ci evitiamo la responsabilità grande del testimoniare loro qualcosa che possa durare una vita, che la possa riempire, preferendo offrire loro cose utili, anche importanti, ma non decisive, definitive, radicali. E neppure ci facciamo carico di chiedere loro di cercare qualcosa di grande, di definitivo, di radicale. Li affidiamo ai balocchi, alle vacanze, viaggi, esperienze, alla giostra delle cose; li dovremmo invece affidare alla vita, chiedendo loro di smetterla di camminare in circolo, affinché possano intraprendere il loro viaggio. Nel distacco da noi li sentiremo finalmente grandi.

Ritengo che la vera eredità che i genitori lasciano ai figli siano le radici dalle quali trarre l’alimento dei valori e e le ali per spiccare voli verso orizzonti futuri che noi adulti nemmeno in sogno potremmo visitare.

E, comunque, prima o poi capita. Perché succede che a poco a poco se ne vanno lontano da noi; forse non fisicamente, ma con le loro emozioni, i pensieri, le parole. Non più uno di famiglia, ma che sta in famiglia mentre cerca qualcosa di più: degli amici, un amore, una realizzazione.

Ho visto ragazzi accompagnati da un’attenzione rispettosa e serena per questa loro stagione di vita, altre volte ne ho visti alcuni attorniati da uno sguardo un po’ distratto e superficiale del mondo adulto che non riusciva a vedere le profondità relazionali della dinamica della crescita, in alcuni casi ho visto fare di tutto per impedire questa forma di distacco, di assunzione di autonomia, di inserimento in un gruppo, talmente si era gelosi per la propria creatura.

Dalla periferia alla Milano "bene"

Ma al di là di come avvenga il passaggio, resta il fatto che il mondo adolescenziale e giovanile cerca prepotentemente una via di uscita e superamento alla ristretta rete di relazioni familiari: nasce così il bisogno dei pari, del gruppo.

È nell’ordine delle cose che questa ricerca avvenga: prima o poi il rapporto generazionale di tipo verticale lascia il posto a quello orizzontale perché la famiglia va stretta, «il papà stressa e la mamma peggio». È nell’ordine della normalità che questo passaggio sia avvertito come uno strappo dai genitori e come l’ingresso in uno stadio di vita più significativo e irrimediabilmente alternativo, almeno agli inizi, rispetto al precedente nucleo familiare da parte del ragazzo. Ma il gruppo, per quanto segnato da originali dinamiche rispetto alla famiglia, alla fine vive anch’esso di relazioni. E, quindi, la qualità della comunicazione appresa in famiglia è pregiudiziale per una qualità comunicativa interna al gruppo.

Il problema delle baby-gang, credo, va posto qui. Prima o poi i nostri figli vivranno un’esperienza di gruppo. Ma la qualità delle relazioni che sapranno attuare all’interno di questo che sentiranno come il loro mondo si lega alla qualità delle relazioni che il nucleo familiare, la scuola, gli adulti che hanno avuto vicino hanno saputo offrire loro.

Per questo il fenomeno delle baby-gang si connette ai ragazzi di periferia, ma anche a quelli della "Milano-bene": perché la qualità delle relazioni e delle forme comunicative dei loro mondi di appartenenza non è detto che sia povera e angusta solo presso chi socialmente è meno abbiente; anzi, superata una certa soglia, in molti casi è vero il contrario.

Quando si hanno alle spalle forme comunicative e relazionali di carattere familiare non certo esaltanti, se non addirittura problematiche o gravemente segnate da superficialità e incomunicabilità, c’è il rischio che il gruppo diventi, per chi vive nell’assenza di queste relazioni e comunicazioni significative, l’orizzonte primo ed esaustivo della realtà personale, della rete comunicativa.

Il rapporto con i pari, di per sé già altamente significativo, facilitato ed emotivamente coinvolgente, diventa un’esperienza salvifica totalizzante, esaustiva; diventano vincenti le forme della identificazione collettiva sul definirsi della identità personale, la rete di relazioni che il gruppo vive al suo interno esaurisce lo spazio delle comunicazioni possibili e, indirettamente, da ciò ne consegue una spontanea chiusura all’incontro e alla relazione con altri, l’insorgere di pregiudiziali forme di svalutazione manichea e disposizione aggressiva verso chi non è del gruppo, è un esterno. La comparsa del fantasma dei nemici permette, per altro, un forte grado di coesione interna, e forme intense di relazione nel gruppo.

Anche il gruppo, insomma, come la famiglia, può essere il luogo in cui gli appartenenti rischiano di ritrovarsi dinanzi povertà espressive e comunicative, superficialità, chiusure. Ma queste, in ultima analisi, hanno la loro causa in quelle. È, probabilmente, in questo orizzonte di povertà comunicative che nasce una banda.

La logica dell’avere

Dietro al bullismo di alcuni adolescenti, l’omertà e la complicità, l’aggressività verso chi risulta più debole, il bisogno di trasgredire, eccetera, ci sta questo strano cocktail di povertà comunicative familiari prima, gruppali poi, e quella povertà nell’ordine della scoperta di sé, dal momento che la propria realizzazione è stata affidata alla logica dell’avere, del potere, della competizione, dell’acquisizione degli status symbol, a quanto di noi dicono gli altri.

Ma questo mondo adolescenziale e giovanile non è forse lo specchio del nostro mondo adulto?

Forse noi sappiamo meglio difenderci da tutto questo: loro non ancora. Più che colpevoli, certi ragazzi sono vittime di un mondo adulto che conosce esso stesso difficoltà alla parola, crisi comunicative, incapacità alla pazienza della mediazione, all’accordo, alla relazione con le alterità, e che fa dell’utile e della violenza modalità risolutive dell’agire, dimentico dei tempi lunghi che sono richiesti da una crescita in sapienza, età e grazia. L’unica differenza sta solo nel fatto che il mondo degli adulti ha strategie migliori. Non serve, quindi, scandalizzarsi per la pagliuzza nell’occhio di una baby-gang quando il nostro mondo adulto ha una trave nel suo. C’è dismissione di responsabilità da parte degli adulti nei confronti del mondo adolescenziale e giovanile. Si chiede alla scuola, a qualche organizzazione, alla parrocchia che si faccia carico di riuscire dove nessuno sa più che cosa fare. Ma non basta.

A parte queste zone educative di frontiera, e alcune famiglie che tengono, c’è in giro troppa inerzia, appiattimento che annoia, proposte deboli che spingono i giovani a cercare altrove sensazioni forti. Protetti all’inverosimile, difesi dal sacrificio e dalle frustrazioni, sono le vittime sacrificali perfette dei modelli sociali edonistici prevalenti. La concretezza degli adulti, il bisogno di risultati li ha intaccati e hanno perso la loro capacità di sognare. Parlano di soldi, e trasformano il valore delle cose e di tutto nel prezzo di tutto: ma nulla può pagare certe cose di altissimo valore.

Strano esito: l’adulto fa molte cose per il suo ragazzo, e a fin di bene, ma troppo spesso ciò significa impedire ai ragazzi di maturare e scegliere, di scoprire la vita. Bisognerebbe tornare a scegliere la parte migliore, quella connessa a una vita più contemplativa; bisognerebbe avere il coraggio di dissacrare certi falsi miti che tarpano le ali e impediscono le scelte grandi; dovremmo noi tutti tornare a parlare quotidianamente delle ragioni della vita più che delle cose con cui cercare di riempirla. Dovremmo tornare a dar loro (e prima a noi stessi) delle sfide alte da vincere, dei sentieri erti da percorrere: da lì viene la gioia del vivere che sconfigge la loro noia mortale.

Aldo Geranzani

* Per le linee guida qui illustrate, ringrazio Daniele Banfi, Damiano Caron e lo psicologo Stefano Monti.

A CHI LA COLPA?

Per la maggioranza dei francesi (75%), la mancanza d’autorità dei genitori è la principale causa dei gravi episodi di violenza scolastica che hanno interessato la Francia quest’ultimo anno. Lo ha segnalato un sondaggio realizzato dal quotidiano cattolico francese La Croix. L’assenza di educazione e di sorveglianza verso i figli è prevalente sulle altre motivazioni del diffondersi dell’aggressività tra i giovani: le condizioni socio-economiche (24%), i film e i videogiochi (15%). Ne escono praticamente "innocenti" i professori ritenuti responsabili solo dal 2% degli intervistati.

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