CONSULENZA GENITORIALE  - L’ESITO PIÙ BELLO DEL RAPPORTO D’AMORE

Abitanti di un modo di pensare

di Maria Cristina Koch
(psicoanalista)
    

    Attualmente, gli adulti si trovano impacciati nel gestire i rapporti di amicizia e guardano, inoltre, con gelosia e sospetto quelli dei figli. Riscoprire il valore dei rapporti profondi, magari proprio in famiglia, è un primo passo per combattere paura e solitudine.

Ma gli adulti hanno ancora voglia di amicizia? Questi adulti che ne hanno fatto un gran parlare, questa generazione che ha scritto libri importanti e organizzato mille dibattiti sul valore dell’amicizia, che l’ha definita l’esito più bello del rapporto d’amore, che ne ha indagato i risvolti più delicati nell’intreccio dei sessi, beh, sembra quasi che non sappia più che farsene.

Non la valuta inutile, né l’ha scartata dopo un esame attento, magari con qualche rimpianto: no, sembra proprio che ci si ritrovi impacciati, i movimenti appesantiti da una inusitata goffaggine nel maneggiare un legame che si pensava comodo e adattevole come un abito di casa. In fin dei conti, è da un po’ di tempo che non vi facciamo più affidamento: appunto, non è che ne abbiamo amputato la nostra esistenza ma è che non siamo più abituati a farci conto. È un bene, è un male? Proviamo a ragionarci un po’ assieme, cercando anche di comprendere se veramente non ne abbiamo più bisogno, dell’amicizia, e allora con che cosa l’abbiamo sostituita, o se, invece, potrebbe tornare a riallargare il respiro della nostra vita, anche di coppia, anche familiare.

Se torniamo a volgere indietro lo sguardo, sono veramente tanti i momenti vitali in cui ritroviamo presenti degli amici, dalle incerte angosce dell’adolescenza, in sussultante trasformazione verso una più definita giovinezza, ai larghi spazi di tempo dello studio, del lavoro, delle confidenze d’amore, del complicato impianto di un rapporto di coppia, di una famiglia che comincia con bambini urlanti di notte e un sonno persistente che avvelena le giornate e irrigidisce i sentimenti, della crescita impensabile, difficile e sveltissima di questi stessi bambini con il noto corteo di problemi, domande, sorrisi, sorprese, inquietudini e allegrie.

Lì, spesso, gli amici c’erano, con naturalezza, talvolta magari perfino ingombranti, ma presenti, cuciti stretti allo svolgersi della storia. E c’erano, anche, i momenti privati, quasi segreti, e le amiche con cui ridere e confidarsi e piangere e capire, c’erano gli amici dei colloqui seri quando occorreva prendere decisioni, le amiche appassionate e compassionevoli, le coppie di amici imbarazzati nel decidere con chi schierarsi in un dissenso, complici in silenzio e capaci di discrezioni senza abbandoni.

Ma, a ben riflettere, non è che gli amici fossero abitanti di un modo di pensare, di fare e di stare assieme che, insensibilmente, è scivolato via? Si sono allontanati dalla nostra singola esperienza quotidiana oppure, più radicalmente, è il nostro tempo di oggi che non li contempla, che ne fa a meno?

Gli amici dei ragazzi

Oggi, gli amici li hanno i nostri figli; quel vischioso e impenetrabile gruppo di coetanei che li governa un po’ in tutto indica i criteri di ogni comportamento, impone l’abbigliamento e l’andamento dei voti a scuola, decreta leggi dell’amicizia vera, norme per l’esclusione, sanzioni da irrogare, perdoni addolorati e rinnovate comprensioni. Mobile e compatto, aderente a includere tutti i membri e adesivo nel trattenerli.

Diciamocelo in segreto: non ci piacciono sempre gli amici dei nostri figli, ne siamo anche un po’ gelosi e irritati quando percepiamo come è grande la loro importanza, come pesa la loro parola e il loro parere, come ne risultano svalutati i nostri.

Ma non è poi questa la loro funzione? Gli amici non servono a rinsaldare la nostra identità nel rinsaldarsi del legame, nel contenere domande e interrogativi, dubbi e sconcerti al di qua del confine del mondo esterno, a cingerci di un abbraccio che ci protegge dagli altri? Questo hanno fatto per noi? Questo è quel che dobbiamo tollerare che facciano per i nostri figli?

L’amico è quello che ti accoglie e ti riconosce comunque: più di tua madre, più dei tuoi figli, più del tuo partner? E quanto, allora, la confidenza diretta e senza intermediari di un’amicizia, che fonda la sua validità nel più radicale disinteresse, va a intralciare il costituirsi di altri forti legami, dove invece l’interesse c’è e le aspettative pure, dove si chiedono risposte che determineranno comportamenti, dove la fedeltà è una promessa scambievole e non la naturalezza spontanea, dove la fiducia si rinnova scalino dopo scalino e non fluisce con l’innocenza dell’ovvietà più scontata. Sì che talvolta risultano più struggenti e laceranti, più lenti e difficili da assimilare i tradimenti della confidenza amicale che le stesse gloriose pene d’amore.

Ma allora, forse, qui c’è un filo da tirare: forse i tempi dell’amicizia, sia quelli della nostra storia privata, sia quelli un poco più generali di un trasformarsi del modo stesso di stare al mondo, sono i tempi della pienezza, i tempi della speranza e della passione, del progetto e della responsabilità in prima persona.

Forse l’amicizia è un legame che richiede di essere costantemente in competizione con altri, esclusivi, essenziali legami, forse gli amici valgono proprio perché li si sceglie in contrappunto, dibattito e conferma di altri ambiti affettivi, di altre persone carissime. Come dire? Un rapporto fondo d’amicizia richiede di poter essere distinto e confrontato con altri, fondi rapporti, non deve sostituirli, permettendo l’instaurarsi di un vago, diffuso e tiepido ambito d’affettività. L’amicizia è un’esperienza viva, nasce dalla ricchezza di rapporti variegati e non è la consolante panacea di una carenza di relazioni importanti.

Coltivare un sogno

Questo vuol forse andare a significare che siamo oggi un po’ più poveri di relazioni importanti? Che le presenze affidabili e certe dei nostri amici storici si collocavano come riferimenti sicuri in una vitale tempesta di emozioni, esperienze, tentativi, esplorazioni e ricerche? Commentavamo con loro ciò che andavamo facendo altrove per capirlo, per digerirlo e assimilarlo, ma il tempo dell’amicizia non era il tempo del fare, piuttosto della distanza giusta dal fare per potersi poi permettere di gustarlo golosamente.

Fare è anche coltivare un sogno, districarsi in un rapporto d’amore, lasciarsi destabilizzare da onde sempre più vigorose di dubbi e questioni: fare è fare se stessi, modellare la propria persona con ditate accurate o sbrigative o impazienti o delicatissime, e ancora intervenire a rifinire, modificare, segnare con energia decisa.

Al sicuro dalle emozioni

Per questo, allora, oggi non sappiamo che farcene degli amici, dell’amicizia, tutt’al più li usiamo per rallegrare una vacanza, per interrompere la monotonia di una serata. Siamo più poveri di relazioni importanti perché meno appassionati da un progetto, siamo più insicuri della nostra stessa legittimità a modellare la nostra persona, più incerti e intimoriti, diffidiamo del valore del nostro autonomo pensare e in qualche strano termine ci comportiamo come se pensassimo che se staremo abbastanza fermi e zitti, se sapremo mettere la sordina al nostro istinto vitale, la vita ci perdonerà e ci scorrerà vicino senza travolgerci.

Al sicuro da emozioni forti che ci turberebbero, risparmiamo con avarizia meticolosa le nostre energie, le conserviamo per chissà quando, ci abituiamo a una gestione miserella della giornata in cui l’attenzione più rilevante è dedicata all’evitare. Che cosa? Mah, evitare per abitudine le grane, le diffi-coltà, le contraddizioni, ma anche le speranze di troppo respiro (che poi finisce che si rimane delusi), l’impegno civile e sociale (tanto non cambia nulla), lo spendersi nella quotidianità che finisce per rinsecchirsi in una sequenza di impegni sempre più limitati, per quanto ci riusciamo, e dunque sempre più gravosi e insopportabili: chi di noi non ha sperimentato che ridurre la gamma degli impegni ne esalta il peso e che, all’opposto e per conferma, quante più cose si mettono in cantiere tante più se ne riescono a infilare nelle stesse, immutabili 24 ore? Chi non ha sperimentato che si riesce a studiare veramente per un esame solo quando il tempo è francamente ristretto e che proprio nella giornata ricolma di attività accade di ritagliare il tempo di una chiacchierata con il figlio?

La paura della fatica

Perché se alcune di queste considerazioni trovassero un senso, certo che potremmo rileggere diversamente anche il quadro abitualmente sconsolante dei ragazzi, dei nostri figli. Acquisterebbe diverso e inquietante significato la ricerca spasmodica e rigorosamente in gruppo di emozioni violente, di stordirsi di stanchezza e di rumore, di "farsi" di pastiglie dagli effetti sempre più rapidi: forse, oltre a mettere divieti per le sere dei sabati, noi adulti potremmo rialzare il tono del nostro convivere quotidiano, immettere una diversa consuetudine a maneggiare in famiglia le passioni, i sentimenti e le emozioni, imparando tutti insieme a tollerarne l’impatto senza fuggirle con la semplice strada della lite rapida, dello scontro interrotto bruscamente, dell’isolamento che evita liti e scontri.

E se noi adulti ci ritroviamo nell’angolo, impauriti dalla fatica del vivere appieno e desiderosi sostanzialmente che le nostre giornate vengano spinte in avanti fino a rotolare nella nota e rassicurante buca della sera, quando la televisione ci toglie di mano le redini e ci concede il "riposo", come possiamo stupirci che anche i nostri figli abbiano succhiato l’orrore della fatica e della stanchezza, che ritengano di non essere poi loro a dover definire la gamma delle opzioni e i contorni della loro stessa persona.

Il culto dell’armonia

Le frasi che ci siamo abituati a pensare e ripetere come pillole di saggezza («sono fatto così», «occorre accontentarsi nella vita», «non si può avere tutto», «il lavoro va eseguito, non gustato», come i compiti a scuola che, infatti, chiamiamo il lavoro dei ragazzi) finiscono per determinare uno stato di acquiescenza e di rassegnazione che, per converso, non può che portare a insorgenze violente ed estemporanee troppo spesso concluse in aggressioni.

E per certi aspetti anche il culto indiscusso dell’armonia, del benessere psico-fisico, dell’equilibrio da ricercare a ogni costo ha indirizzato plotoni di ragazzi a un uso contorto di un Oriente frainteso e banalizzato, una new age dai mille rivoli consumisti in cui i nostri figli tentano di entrare per mettere in pratica a loro modo il nostro precetto che serenità vuol dire assenza, evitamento, che saggezza vuol dire astinenza e distacco. Dai problemi, dalla fatica. Dagli altri.

E se cominciassimo in questi termini a inventare un rapporto d’amicizia già in famiglia? Si può essere amici dei propri figli solo quando si è compiutamente genitori, francamente e a viso aperto di un’altra generazione, curiosi del diverso e desiderosi di farsene turbare. E in coppia, possiamo introdurre nuovamente un rapporto d’amicizia? Che non sostituisca, non deleghi, che non sia un rimedio che copre con rassegnazione? Chissà che ci ritroviamo stupefatti a scoprirci ancora circondati da belle persone da farsi amiche e da antiche frequentazioni che con la nostra stessa timidezza e timore si erano lasciati allontanare allontanandosi.

E chissà che la certezza di un cerchio di amici possa sostenere la nostra irrimediabile solitudine nell’affrontare in prima persona la nostra stessa esistenza: compito difficoltoso, dubbio, quasi certamente senza grandi esiti, ma che Iddio ci protegga dall’esserne esonerati!

Maria Cristina Koch