IDEE Il futuro della fede in Occidente
La via italiana della modernità



Camillo Ruini



Vari anni fa, prima che iniziasse la cosiddetta «transizione», uscì un libro dal titolo Il caso italiano, che trattava della singolarità italiana - di allora - in una prospettiva prevalentemente politica ed economica. Ma esiste anche, e si è forse rafforzato, o almeno evidenziato, con il Giubileo, un «caso italiano» in chiave religiosa, anche al di là della presenza del Papa a Roma. La società e la cultura italiana, la nostra popolazione, sono certamente in parte secolarizzate e scristianizzate, ma in Italia sembrano essere particolarmente calzanti le parole del Papa sul passo dei credenti che non è stanco per il peso di duemila anni di storia (Incarnationis mysterium, 2). La Giornata mondiale della gioventù e tutto il Giubileo, eventi mondiali eppure anche in larga misura italiani, hanno fatto emergere sulla scena pubblica e mediatica una vitalità specificamente religiosa che certamente già esisteva ma che ha preso così migliore coscienza di sé. Si tratta di indizi, sempre in qualche misura controvertibili, mentre le correnti della scristianizzazione non hanno certo cessato di operare, e tuttavia è difficile negare che tali eventi hanno messo in luce come rimanga ben aperta la questione, o la sfida, del futuro - ossia in concreto il problema della capacità di futuro del cristianesimo - che da ormai due secoli è adoperata come arma contro il cristianesimo «credente» (non riducibile cioè a sola eredità culturale), che già Comte, Feuerbach e Marx davano per ormai fatalmente superato.
Tornando al caso italiano, quel poco di esperienza internazionale che ho potuto farmi mi ha mostrato come, da una parte, l'Italia sotto il profilo politico sia considerata un Paese non propriamente di primaria importanza, ma dall'altra parte sia un vero Paese di riferimento - al quale si guarda e dal quale molto si attende - in Europa e nel mondo, dal punto di vista religioso, in concreto del cattolicesimo e in certa misura di tutto il cristianesimo. Questo apprezzamento ha la sua motivazione anzitutto nella presenza e nel ruolo del Papa, ma riguarda anche la comunità dei cattolici italiani. Proprio per questo esiste, e non può essere lasciato tranquillamente senza risposta, un impegnativo ruolo storico della Chiesa italiana. A mio parere esso si rivolge anzitutto all'Occidente, per una ragione di affinità (l'Italia è parte dell'Occidente), ma anche perché l'Occidente stesso è attualmente il luogo della sfida decisiva per il cristianesimo. Una sfida che riguarda la sua capacità non soltanto di sopravvivere in questa società e cultura che cambiano tanto rapidamente, ma anche di impregnarle e di orientare il loro divenire, sia pure in maniera parziale e in concorso con molti altri fattori.
In proposito mi sembra fondata l'osservazione del teologo ortodosso Olivier Clément, secondo la quale il protestantesimo tende a dissolversi dentro la modernità, ossia nel confronto con essa (aggiungo di mio che questa è almeno la tendenza del protestantesimo liberale del XIX secolo, la quale rimane a tutt'oggi sostanzialmente preponderante - pur assumendo forme diverse, attualmente più «sociologiche» - nonostante le numerose reazioni che ha suscitato, da quella di K. Barth a quella di W. Pannenberg). A sua volta, sempre secondo Clément, l'ortodossia orientale tende, almeno finora, a rifiutare il confronto stesso con la modernità; occorre quindi trovare un nuovo atteggiamento teoretico e pratico, che non dissolva il cristianesimo nella modernità ma non eviti nemmeno il problema del suo inserimento nella realtà socio-culturale odierna: dovrà trattarsi, come è sempre avvenuto nel passato, di un inserimento «dialettico», che salvaguardi l'«alterità» della fede cristiana rispetto a tutto l'umano e nello stesso tempo la sua «amicizia per l'uomo», per usare le parole di Giorgio Rumi.
A mio parere la Chiesa cattolica, sia pure con fatica, sta costruendo negli ultimi decenni proprio questo tipo di rapporto con la modernità, a nzitutto in Occidente, e la Chiesa italiana è chiamata, in virtù del suo ruolo attuale, a svolgere una parte di rilievo in questa costruzione. La svolta del Vaticano II, con il programma del «dialogo», ed i suoi successivi tentativi di attuazione, con le tentazioni, le asperità, ma anche gli sviluppi che ne sono seguiti, o quanto meno la maggiore maturità che è stata acquisita, sono la forma concreta in cui questa costruzione sta procedendo e la sfida della modernità è stata raccolta.
Più precisamente, piuttosto che di «sfida» sembra meglio parlare di «autosfida» - in quanto la Chiesa cattolica è chiamata anzitutto a fare i conti con se stessa -, oltre che di «compito», che si pone a molteplici livelli.
Non è evitabile, in primo luogo, l'autosfida intellettuale, anche in tempi di, più o meno reale, «pensiero debole». In proposito mi ricollego, in maniera libera, a quanto ha osservato il cardinale Ratzinger nel suo recente intervento su MicroMega: l'agnosticismo, o il pensiero debole, oggi diffuso contiene spesso un consapevole o inconsapevole ateismo, che ha la sua principale, anche se per lo più implicita, motivazione in un certo modo di intendere l'evoluzione cosmica, come un'evoluzione senza senso né scopo, governata in ultima analisi soltanto dal caso e dalla necessità. Questo genere di evoluzione rappresenterebbe la spiegazione almeno potenzialmente «scientifica» (tale cioè da poter essere prima o poi verificata scientificamente) di tutta la realtà: se così fosse, Dio sarebbe irrilevante e inutile, alla fine non esisterebbe. Si tratta di mostrare come questo discorso sia reversibile, partendo proprio dall'enorme successo, teoretico e soprattutto pratico ed operativo, delle scienze e delle tecnologie. Non penso ad impossibili «prove» scientifiche di Dio, ma vorrei osservare come lo stesso successo delle scienze e delle tecnologie spinga gli uomini di scienza a porsi sempre di più domande formalmente non scientifiche sul fondamento e sulla «intelligibilità» della realtà naturale - compresa la realtà umana - ed a riaprire così questioni filosofiche e propriamente metafisiche, compresa la questione di Dio.
Soprattutto è importante osservare come domande di questo genere non siano eludibili, non soltanto per motivi esistenziali - che hanno a che fare cioè con il nostro bisogno di dare un senso alla vita - ma anche per motivi rigorosamente intellettuali, in concreto per non porre limiti a priori alla nostra curiosità intellettuale, ossia alla ricerca del «perché», che è la molla di ogni sviluppo delle conoscenze, comprese a pieno titolo le conoscenze scientifiche.
Il secondo compito, o autosfida, è quello della vita, sia personale sia sociale e politica (la dimensione e la valenza pubblica sono infatti essenziali per il cristianesimo, fin dalle sue origini, come ha mostrato il grande esegeta H. Schlier). Questo compito abbraccia inevitabilmente l'etica, come principio regolatore della vita stessa, che per di più appartiene al contenuto centrale della fede ebraica e cristiana (al di là dei rapporti variegati che possono sussistere tra fenomeno religioso e fenomeno morale).
In realtà la fede, rispetto alla vita delle persone, e anche in qualche misura a quella dei popoli, è principio o impulso di superamento della pura logica dell'interesse - personale o di gruppo - e dello scambio. Questo impulso deve chiaramente fare i conti con la ricerca dei propri interessi, e tuttavia non è una pura velleità, ma un fattore di migliore umanizzazione: oggi ciò appare evidente, ad esempio, riguardo al tema della povertà mondiale, sebbene siano da rifuggire letture unilateralmente populiste.
Quanto alla sfera pubblica, possiamo dire che oggi sempre più la fede in Dio passa - e deve passare - nella società e nella politica attraverso la strada della libertà, ossia del consenso liberamente formato e acquisito.
Finalmente, perché sia possibile questo ruolo del cristianesimo riguardo alla vita conc reta, in un contesto caratterizzato dalla libertà, diventa più che mai necessaria e decisiva l'autosfida della santità, ossia della sequela di Cristo, come principio effettivo di tutte le proprie scelte di vita. Così l'autosfida del cristianesimo si rivela però per quello che essa è, ad ogni suo livello: prima che autosfida, o compito, grazia che ci arriva gratuitamente e a cui ci apriamo nella misura in cui facciamo spazio alla preghiera, fino alla contemplazione e alla mistica. Questo della preghiera è l'aspetto in qualche modo percepibile anche empiricamente di quel fattore di incidenza storica che solo il credente può e deve mettere in conto: Dio che opera efficacemente in noi.
Forse è possibile indicare anche in questo campo, che ha più direttamente a che fare con l'Eterno e con la sua misteriosa e sovrana libertà, qualcosa di specifico per il nostro tempo: una santità cioè non fuori dal nostro tempo e dalle responsabilità per la vita quotidiana, e perciò davvero universale, nel senso di una chiamata rivolta concretamente a tutti, come la propone il Concilio Vaticano II dopo San Francesco di Sales. Sembra particolarmente fecondo, in proposito, uno spunto offerto dal Vaticano II nella Gaudium et spes (n. 37), secondo il quale i cristiani possono non soltanto «usare» ma anche «fruire», o godere, di questo mondo (è questa in qualche modo una rivoluzione, rispetto a Sant'Agostino ed alla tradizione di spiritualità largamente prevalente), sempre però in libertà e povertà di spirito: si tratta di un approccio positivo e gioioso - in luogo della fuga e del disprezzo del mondo - che non può ignorare però il «regno del peccato» e la croce che lo sconfigge e che non deve equivalere pertanto a una mondanizzazione del cristianesimo. Questa via verso la santità in concreto è forse ancora più difficile di quella tradizionale, ma sembra l'unica oggi praticabile per coloro che intendono impegnarsi nella sequela di Cristo vivendo e operando dentro al nostro mon do, ai suoi problemi e alle responsabilità che esso ci impone.
Concludo osservando come nell'attuale situazione di libertà e di pluralismo il cristianesimo ridiventi fatalmente testimoniante e missionario: si tratta di qualcosa a cui tutti dobbiamo, faticosamente, adattarci e abituarci, dentro e fuori della Chiesa. Questo orientamento potrebbe a qualcuno apparire impraticabile, ma in realtà è già in atto, sia pure su scala iniziale. Per i credenti, rifiutarlo vorrebbe dire peccare contro la speranza: tentazione questa che oggi è presente, ma che rimane una tentazione, come tale da sconfiggere con l'aiuto di Dio.


Camillo Ruini



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