UNA PREMESSA AL FARE

Riconoscere la voce dell’altro

di Paolo De Benedetti
(docente di giudaismo, Facoltà teologica dell’Italia settentrionale)
            

    È nella diversità che nasce l’ascolto profondo di Dio, dell’uomo e di ogni altra creatura. Unica premessa alla pace, all’ascolto ci si deve educare. Anche per non ridursi a sentire solo noi stessi.

Lo Shema’ («Ascolta», Dt 6,4 ss.), che ogni ebreo recita mattina e sera e – nel suo primo versetto – al momento di addormentarsi in punto di morte, non è propriamente una preghiera, ma, come dice anche Gesù, il primo comandamento. È l’apparizione di Dio in forma di voce, secondo quanto dichiarò Mosè agli ebrei: «Il Signore vi parlò da in mezzo al fuoco. Voi udivate voce di parole ma non vedevate figura, se non una voce» (Dt 4,12). Dio, a differenza di tutte le altre divinità che assediavano e tentavano Israele, parla: e così facendo dà all’uomo la dignità di "altro", di controparte, di suo prossimo. Per questo anche l’uomo ha il diritto di dire a Dio: Shema’ qolenu, «Ascolta la nostra voce». L’ascolto è il fondamento di reciprocità tra l’uomo e Dio.

Oggi nel mondo cristiano (e soprattutto in quello cattolico post-conciliare) si abusa del termine, che spesso si è ridotto a significare la debole attenzione prestata alle letture liturgiche e alla predica (nobilitata con la definizione di omelia). No, ascoltare (Dio o l’uomo, non importa) significa riconoscere che la voce dell’altro non è un rumore, ma la rivelazione di un io. L’altro (o, per dirla con una parola biblica, il prossimo) è perduto per noi, e noi per lui, quando tra i due manca la parola o manca l’ascolto. È l’esperienza che tante volte fecero Dio e Israele e che è testimoniata dai profeti e da numerosi salmi.


Il candelabro ebraico.

Ma, in concreto, che cosa significa ascoltare? È ascolto quello che mira soltanto a vedere confermate le mie idee, la mia comprensione? È ascolto quello fatto con animo giudicante o diffidente o impaziente?

L’ascolto implica una diversità: ascoltando, io apprendo dell’altro qualcosa che non so, che appunto lo fa diverso da me. La diversità, se da un lato esalta la "fantasia" del Creatore (i maestri di Israele notavano che – che a differenza delle monete coniate da un re, tutte con l’identica immagine del re – da un solo modello, Adamo, Dio aveva creato tutti gli uomini, e nessuno era identico all’altro), dal lato opposto rende possibile il contrasto. Sia il contrasto positivo, costituito, per esempio, dalla discussione filosofica, politica, giudiziaria, o su progetti, interpretazioni, modi di agire nella teoria e nella vita quotidiana, sia quello negativo, mosso da ostilità, inimicizia, odio.

Non è un caso che la giustizia "giusta" imponga l’ascolto dell’indagato oltre che dell’accusa, mentre la giustizia "ingiusta", quella delle dittature e dell’assolutismo, neghi l’ascolto, perché nega l’altro. Un detto rabbinico impone di non giudicare l’altro se non ti sei trovato nella sua stessa situazione: ciò che fece Dio in Gesù, che sperimentò "per conto di Dio" (se così si può dire) l’essere uomo, la fragilità umana, la morte. È molto difficile giudicare (anche da questo ci mise in guardia Gesù), perché è difficile mettersi nella situazione dell’altro. L’ascolto è il rapporto non giudicante con l’altro.


La Torah esposta.

Tirocinio familiare

Ma ascoltare l’altro esige un’educazione che è un vero e proprio tirocinio da compiersi nella famiglia, nella scuola, nella Chiesa, nel lavoro (tutti luoghi in cui oggi ci si ascolta assai poco), sempre su due versanti: insegnare ad ascoltare e imparare ad ascoltare. E poi? Qui passa il grande confine tra l’astratto e il concreto. Ascoltare è nella sua essenza una semplice premessa, non solo al conoscere, ma anche al fare. Anzi, paradossalmente, al fare prima che ascoltare. Non intendiamo qui rinnegare le cose dette sopra, ma intendiamo riferirci a una lezione biblica. Quando Mosè scese dal Sinai con la Torah e in un grande rito di suggello dell’Alleanza la lesse al popolo, questo rispose (traduciamo fedelmente): «Tutto quello che il Signore ha parlato, eseguiremo e ascolteremo» (Es 24,7).

Il testo, secondo un’interpretazione diffusa, vuole sottolineare il primato dell’ortoprassi («eseguiremo») sulla "teologia" («ascolteremo»); ma vuole anche sottolineare l’identità di ascolto e azione.

I veri ascoltatori sono gli operatori di pace, coloro che rispondono con l’azione anche alle domande mute di chi non sa fare domande, come insegna il rito pasquale ebraico. Si sa che il mondo è pieno di voci mute, non solo umane, ma di animali innumerevoli. Il protagonista del romanzo di I.B. Singer, Lo schiavo, Jacob, era stato venduto come schiavo a un contadino in un remoto angolo della Polonia del secolo XVII, e custodiva la mandria del padrone: «Spesso gli sembrava che il bestiame si lamentasse: "Tu sei un uomo e noi non siamo che vacche. Quale giustizia vi è in ciò?". Lui placava gli animali accarezzandone il collo, dando loro manate sui fianchi e nutrendoli con qualche golosità. "Padre", pregava spesso, "Tu sai perché le hai create. Sono opera della tua mano. Al termine dei loro giorni anche per loro dev’esservi la salvezza"».

Ciò che aveva già detto l’ebreo Paolo nella Lettera ai Romani: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza d’essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,19-22).


Copertina del XIX secolo del "Cantico dei cantici".

Un «silenzio sottile»

Ascoltare la voce dell’altro, ascoltare chi non ha voce, ascoltare il gemito del creato è facile solo per una retorica devota. Infatti, anche quando non ce ne rendiamo conto, noi ascoltiamo principalmente noi stessi. E tutte queste voci che ci cercano sono poi voce di Dio: ma non è la voce di tuono che risuonava sul Sinai, ma la «voce di silenzio sottile» che parlava al profeta Elia sullo stesso monte (1Re 19,12). E allora sorge la domanda: perché a noi, che non siamo profeti, Dio non fa udire meglio la voce del nostro prossimo (uomo, animale, pianta)? Sarebbe presuntuoso tentare una risposta: forse ci offrono non una risposta, ma una via le parole della fanciulla del Cantico: «Una voce! Il mio diletto! Eccolo, viene saltellando per i monti...» (Ct 2,8): l’amata sente quella voce lontana perché c’è l’amore. E questo orecchio d’amore – anche là dove non diventa eros – ci viene comandato proprio nei riguardi del prossimo: «Ama il prossimo tuo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,18). Che non è un consiglio di perfezione, ma un precetto uguale a «non uccidere» o a «non avrai altro Dio fuori che me», per citare due comandamenti che non sono riservati ai santi.

Paolo De Benedetti
   

LA PROSTITUTA E OSEA

Tra i libri biblici che riscuotono interesse e su cui si ritorna sovente, quasi mai compare quello del profeta Osea.

Per una migliore comprensione storica e simbolica di questo profeta, Giacoma Limentani, autrice di saggi biblici e fine conoscitrice dell’ebraico, con Il profeta e la prostituta (Paoline, lire 20.000, disegni di Francesco Pennisi) fornisce una puntuale narrazione ragionata, corredata anche del testo originale a fronte della traduzione italiana.

La vicenda di Osea incomincia con un ordine sconcertante del Signore: «Prenditi per moglie una prostituta», simbolo di quel popolo eletto, Israele, che si prostituiva a falsi idoli.