LA BASE PER UNA PIENA COMUNIONE DELLE CHIESE CRISTIANE

L’ecumenismo della carità

di VINCENZO PAGLIA
      

    Ancora oggi, le difficoltà sulla via ecumenica non mancano. Tuttavia è necessario riaffermare e rafforzare lo spirito che ha guidato i grandi protagonisti dell’ecumenismo sino ad oggi (Giovanni XXIII, Paolo VI, il patriarca Atenagora). La "fraternità universale" dei cristiani è diventata ormai una ferma convinzione ecumenica. Il dialogo dell’amore non è una via secondaria rispetto al dialogo teologico. Al contrario, è la via che lo fonda. Il patriarca Atenagora diceva: «Il dialogo propriamente teologico deve nascere all’interno del dialogo d’amore». La teologia, in questo modo, viene come costretta dalla carità a privilegiare quel che unisce. La concordia tra i cristiani è lievito di fraternità tra i popoli.

Giovanni Paolo II, aprendo la Porta santa della Basilica di San Paolo assieme ai rappresentanti delle altre Chiese cristiane, all’inizio della settimana di preghiera per l’unità, vuole come forzare i cristiani a entrare meno divisi nel nuovo millennio. È un gesto da non sottovalutare, proprio perché rispetto all’ottimismo di qualche anno fa l’ecumenismo sembra segnare il passo, sino a far dire a qualcuno che siamo in una sorta di inverno ecumenico. C’è da dire in verità che purtroppo non mancano, all’interno delle varie Chiese cristiane, coloro che di fatto raffreddano il clima, magari sottolineando con troppa pervicacia quello che ancora divide gli uni dagli altri, mettendo in sordina il notevole cammino che nonostante tutto si è fatto.

Ovviamente non si tratta né di sottovalutare le divisioni che ancora esistono, né di essere ciechi di fronte ai problemi che di volta in volta sorgono, sia a livello teologico che storico, culturale, psicologico, pratico, e così oltre. Le difficoltà sulla via ecumenica non sono a senso unico, attraversano infatti l’intero arco delle confessioni cristiane, spesso anche all’interno delle stesse "famiglie". Ma senza dubbio il cammino compiuto sino a oggi, con gli enormi frutti che ha portato, deve restare un punto di non ritorno, anche se non è del tutto scontato, sia per difficoltà interne alle Chiese sia per un clima più generale. Lo stesso processo di globalizzazione, ad esempio, potrebbe spingere a rinchiudersi in una sorta di soggettivismo confessionale e autoreferente. Le riflessioni a tale riguardo sarebbero molte, ma ci porterebbero lontano.

Una cosa però è opportuno sottolineare: alla base del cammino ecumenico è necessario riaffermare e rafforzare lo spirito che ha guidato i grandi protagonisti dell’ecumenismo sino a oggi. Questo spirito lo si può esprimere nell’attitudine a cercare ciò che unisce, piuttosto che quel che divide. Era quel che amava ripetere Giovanni XXIII e che Paolo VI riprese fino a condurlo a Gerusalemme per lo storico abbraccio con il patriarca ecumenico Atenagora.


Il patriarca Teoctist con altri metropoliti all’Incontro "Popoli e Religioni"
(Bucarest, 1998), organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio.

Cercare quel che unisce. Giovanni Paolo II ha fatto pienamente suo questo spirito e lo ha trasfuso in tutti i suoi incontri ecumenici, come esplicitamente afferma: «Papa Giovanni XXIII... era solito dire che ciò che ci divide come confessori di Cristo è molto minore di quanto ci unisce. In questa affermazione è contenuta l’essenza stessa del pensare ecumenico. Il Concilio Vaticano II è andato nella medesima direzione... Esistono dunque le basi per un dialogo, per l’estensione dello spazio dell’unità, che deve andare di pari passo con il superamento delle divisioni, in grande misura conseguenze della convinzione del possesso esclusivo della verità.

«Le divisioni sono certamente contrarie a quanto aveva stabilito Gesù... Tuttavia questi diversi modi di intendere e praticare la fede in Cristo possono essere in certi casi anche complementari; non è certo detto che debbano necessariamente escludersi fra loro. Occorre buona volontà per costatare quanto le varie interpretazioni e pratiche della fede possano reciprocamente contenersi e integrarsi. Bisogna stabilire anche in quale punto si situa il confine della reale divisione, al di là del quale si compromette la fede. È legittimo affermare che tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa il divario non è molto profondo».

In effetti, da quando i cristiani hanno imparato a guardarsi in modo diverso, si è attuata una svolta storica di incredibili dimensioni nei rapporti tra le Chiese cristiane. Lo nota Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint, il suo manifesto sull’ecumenismo, scrivendo: «È la prima volta nella storia che l’azione in favore dell’unità dei cristiani ha assunto proporzioni così grandi e si è estesa ad un ambito tanto vasto... Uno sguardo d’insieme sugli ultimi trenta anni fa meglio comprendere molti dei frutti di questa comune conversione al vangelo di cui lo Spirito di Dio ha fatto strumento il movimento ecumenico.

Avviene ad esempio che – nello spirito del Discorso della montagna – i cristiani appartenenti a una confessione non considerino più gli altri come nemici o stranieri, ma vedano in essi dei fratelli e delle sorelle» (n. 41). L’esortazione a guardare quel che unisce non nasce perciò da una sorta di romanticismo ecumenico, che taluni magari tacciano anche di semplicismo, e quindi da mettere tranquillamente da parte. Esso, in verità, si radica nel cuore stesso delle Chiese, perché fondato sul patrimonio che Dio ha loro donato e che viene, in certo modo, manifestato con la felice espressione di "Chiese sorelle".


Lo storico abbraccio tra Paolo VI e Atenagora nel 1967.

Credo sia utile fermare un po’ l’attenzione sull’appellativo "Chiese sorelle", che le Chiese amano scambiarsi. Il termine nasce all’interno del mondo ortodosso, ma Paolo VI lo riprese, nel Breve Anno ineunte, del 25 luglio 1967, scrivendo ad Atenagora. «In ogni Chiesa locale – scrive Paolo VI – si realizza il mistero d’amore divino. Non è forse questa la ragione dell’espressione tradizionale e tanto bella per cui le Chiese locali amavano designarsi quali "Chiese sorelle"? Questa vita di Chiese sorelle noi l’abbiamo vissuta durante secoli, celebrando insieme i Concili ecumenici, che hanno difeso il deposito della fede da ogni alterazione. Ora, dopo un lungo periodo di divisione e d’incomprensione reciproca, il Signore ci concede di riscoprirci come Chiese sorelle, nonostante gli ostacoli che nel passato si sono frapposti tra noi».

Questo sta a dire che al di là di tutte le rotture del passato e di tutte le divisioni del presente, un fatto si impone: che lo si voglia o no, i cristiani sono tra loro fratelli e sorelle. E le Chiese, soprattutto cattoliche e ortodosse, non possono non dirsi sorelle. Paolo VI usò questo termine anche con la Chiesa anglicana nel 1970, in occasione della canonizzazione dei 40 martiri inglesi, chiedendosi quando la Chiesa cattolica romana avrebbe potuto «abbracciare la sua sempre diletta sorella nell’unica autentica comunione della famiglia di Cristo». E Giovanni Paolo II ne ha fatto una costante del suo pontificato.

Nell’enciclica Ut unum sint il Pontefice scrive ai cattolici: «L’appellativo tradizionale di "Chiese sorelle" dovrebbe incessantemente accompagnarci in questo cammino» (n. 56) per il ritrovamento della piena comunione. In Polonia, era l’8 giugno 1987, aveva detto: «Sono lieto che anche nella mia patria si possono scorgere i segni di questa nuova coscienza nella Chiesa cattolico-romana e nelle altre Chiese cristiane sorelle». Più volte, fin dall’inizio del suo pontificato, chiama le Chiese d’Oriente, "sorelle". Al patriarca Dimitrios, auspicando una nuova stagione nell’ecumenismo, ricordava che «per un millennio le due Chiese sorelle avevano saputo crescere insieme e sviluppare le loro grandi tradizioni vitali». E ai partecipanti al V simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, nel 1982, diceva: «Saluto con affetto e venerazione queste Chiese (quelle d’Oriente) che vengono dal primo millennio e sono proiettate verso il terzo millennio dell’era cristiana. Le contemplo come Chiese sorelle, formanti insieme, nello Spirito Santo e nella celebrazione dell’Eucaristia, l’unico corpo di Cristo».

Esse, assieme alle Chiese d’Occidente «hanno generato il dinamismo spirituale dell’Europa, condizionandone per ciò stesso il destino» (incontro ecumenico di Bari 1984). E non cessa di chiamare sorelle le Chiese ortodosse nei suoi interventi, ai collaboratori nel governo centrale, nell’enciclica Slavorum Apostoli, nella presentazione del nuovo Codice di Diritto Orientale Cattolico, e altre volte ancora.

Anche nei rapporti con le antiche Chiese d’Oriente, ad esempio con quella siro-ortodossa, nella dichiarazione cristologica comune, si parla ancora di Chiese sorelle. Al di là di alcune necessarie precisazioni di ordine teologico, che esulano da queste riflessioni, quel che è necessario sottolineare è il clima che questo appellativo suscita e, nel contempo, la via che prospetta. Giovanni Paolo II nella cattedrale ortodossa di Bialystok, in Polonia, chiarì che: «Il dire "Chiese sorelle" non è soltanto una frase di circostanza, ma una fondamentale categoria ecumenica di ecclesiologia. Su di essa dovrebbero basarsi le reciproche relazioni tra tutte le Chiese». Mi sono dilungato un poco su questo tema perché la realtà che il termine esprime, rende ragione dell’impegno a guardare maggiormente ciò che unisce le Chiese cristiane.


Il prof. Andrea Riccardi.

Ecumenismo della carità. La "fraternità universale" dei cristiani, infatti, è diventata ormai una ferma convinzione ecumenica, come scrive la stessa enciclica Ut unum sint (n. 42). Questo sta a dire che il dialogo dell’amore – proprio quello che deve esserci tra sorelle e fratelli – resta centrale nell’ecumenismo; non è una via laterale o parallela, e neppure è secondaria rispetto, ad esempio, al dialogo teologico. Al contrario è la via che lo fonda. Il patriarca Atenagora, con grande sapienza ecclesiale ed ecumenica, diceva: «Il dialogo propriamente teologico deve nascere all’interno del dialogo d’amore». La teologia, in questo modo, viene come costretta dalla carità a privilegiare e a sottolineare ciò che ci unisce, come del resto è accaduto nella realizzazione delle numerose Dichiarazioni comuni tra le Chiese, che hanno sgombrato il campo da tanti equivoci. I teologi conoscono bene le distorsioni metodologiche derivate da un clima contrapposto e avvelenato dalla polemica. E a ragione mons. Walter Kasper, nuovo segretario del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, parlando in Germania in occasione della dichiarazione comune sulla "Giustificazione" tra la Chiesa cattolica e la Federazione luterana mondiale, accennava ai rischi dell’idolatria di formule teologiche. E in effetti, il decisivo progresso compiuto dal dialogo teologico è potuto avvenire proprio perché la ricerca della verità si è mossa sulla via della carità. È questa del resto l’esortazione dell’apostolo: veritatem facientes in charitate (Ef 4,15).

Il dialogo teologico deve ovviamente continuare su non pochi punti che ancora dividono le Chiese. Basti pensare, ad esempio, alla questione del primato del vescovo di Roma, che tuttavia lo stesso Giovanni Paolo II ha posto sul tappeto perché se ne discuta. Ho inoltre appena ricordato l’accordo con i luterani firmato ad Augsburg nell’ottobre scorso. È stato un evento sottovalutato dall’opinione pubblica, ma decisivo in Occidente per riprendere i fili di una frattura che ha pesato per quasi mezzo millennio. Tuttavia se il clima di carità si affievolisce, lo stesso dialogo teologico segnerà il passo, perché sarà logico dare spazio alla rivendicazione di posizioni e alla difesa di privilegi con la conseguente sottolineatura di quel poco che divide, ma che diventa molto quando gli occhi son fissi solo su quello. È perciò urgente che i cristiani si immergano nel campo vasto della carità, anche perché la storia corre veloce e "rema contro", per certi versi, perché spinge al riacuirsi di conflitti, di estraneità e di incomprensioni. Per questo credo che l’allargamento dello spazio della carità è prioritario, oggi, nella vita delle Chiese cristiane. E il campo di impegno comune è vastissimo: si va dall’aiuto ai bisognosi a quello per i paesi poveri, dall’impegno per la giustizia a quello del rispetto per i diritti umani, e così via. L’incontro e l’accordo nella carità non solo danno nuova forza al dialogo teologico e ne favoriscono la ricezione, ma consolidano l’ecumenismo in un terreno più sicuro che fa superare quei problemi concreti che continuano a presentarsi e che, altrimenti, rischiano di allontanare ancora una volta gli uni dagli altri.

L’esempio dei martiri, nella prospettiva del dialogo dell’amore, fa davvero riflettere. L’enciclica Ut unum sint non a caso si apre con il richiamo ai martiri del nostro secolo, nei quali l’unità è già perfetta. Questa preziosa eredità, comune a tutte le Chiese cristiane, non è solo una memoria gloriosa del secolo passato. È invece un tesoro preziosissimo per la vita spirituale ed ecumenica di tutti.

Non si tratta infatti solo di alcuni "eroi" solitari, bensì di una massa di uomini e di donne, appartenenti a tutte le confessioni cristiane, che nel corso dell’ultimo secolo hanno testimoniato la fede cristiana sino all’effusione del sangue. Si inizia dalle stragi dei cristiani armeni e siriaci all’inizio del secolo sino a quelli del comunismo, del nazismo eppoi dei regimi totalitari susseguitisi nei vari continenti. Il loro sangue è una scuola di amore e di unità per tutte le Chiese. È un segno in più di quel che già ci unisce.

Far emergere questi tesori di unità e gustarli assieme con maggiore frequenza e visibilità è la via perché l’ecumenismo tocchi anche il cuore della gente e si allarghi in quella fraternità ch’è patrimonio di tutti. Roberto Angeli, un prete italiano finito nel lager nazista per aver aiutato gli ebrei, scrive: «Nella baracca 26 di Dachau, in mezzo a preti cattolici di ogni paese, pastori protestanti, pope ortodossi, tutti sacerdoti allo stato puro – senza poteri, né orpelli, né privilegi – rosi dalla fame e dal freddo, torturati dai pidocchi e dalla paura, senza più nessuna dignità oltre quella invisibile del sacerdozio, imparammo a scoprire l’essenza della vita e della fede». Davvero il martirio è una grande scuola di unità per tutti.

Ecumenismo di popolo. L’ecumenismo non è una questione semplicemente ecclesiastica o unicamente di rapporti tra le Chiese. È ben di più. L’ecumenismo è una chiamata, una vera e propria vocazione alle Chiese perché rispondano ai bisogni del mondo di oggi. Le Chiese cristiane debbono sentire congiuntamente la responsabilità di essere segno e strumento dell’unità della famiglia umana. Esse, infatti, non possono più vivere per sé stesse, ma perché gli uomini e le donne si riconoscano tutti figli dell’unico Padre. Posta in questa prospettiva, la dimensione ecumenica spinge la Chiesa oltre i suoi stessi confini, nel senso di porre l’unione delle Chiese al servizio dell’unità della famiglia umana. Nel mese di novembre scorso, per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, si è tenuto un incontro ecumenico dal significativo titolo "Chiese sorelle, popoli fratelli". Questa espressione, pronunciata qualche decennio addietro dal Patriarca Atenagora, è stata ripresa in questa occasione per sottolineare il rapporto che c’è tra l’unione delle Chiese cristiane e la fraternità tra i popoli. Quattro patriarchi orientali, quattro cardinali, con altri capi di Chiese, metropoliti, vescovi, teologi e laici, hanno vissuto per tre giorni gli uni accanto agli altri un momento di singolare comunione. E una delle domande centrali, posta fin dall’inizio dalla relazione introduttiva del prof. Andrea Riccardi, è stata proprio quella relativa al rapporto tra le divisioni dei cristiani e quelle dei popoli. Ed è stato unanime l’esortazione alle Chiese perché fin dall’inizio del terzo millennio evitino di ripiegarsi su sé stesse, con il rischio di favorire conflitti e divisioni, e si adoperino invece ad accrescere la comunione tra loro per favorire un nuovo rapporto tra i popoli.

La fraternità dei cristiani è un lievito per la fraternità tra gli uomini. Giovanni Paolo II, nel messaggio inviato ai partecipanti all’incontro, ha scritto: «Non possiamo perciò ritardare il passo verso l’unità delle Chiese. Ogni ritardo, infatti, rischia non solo di diminuire la gioia fraterna, ma di renderci complici delle divisioni che in varie parti della terra si acuiscono. Quanto più si rafforza la fraternità tra le Chiese tanto più si aiutano i popoli a riconoscersi come fratelli. La fraternità, infatti, è un’energia che travalica ogni confine e porta i suoi frutti per tutto il genere umano». L’incontro a Bucarest tra il patriarca Teoctist e Giovanni Paolo II, che ha emozionato le centinaia di migliaia di cristiani presenti al punto da scoppiare nel grido unanime: "Unità! Unità!", è forse l’immagine più evocativa della via ecumenica che le Chiese debbono percorrere in questo millennio. Non si abbracciano solo i pastori, ma con loro anche i popoli.

Segue: Incontri nella cittadella ecumenica di Ottmaring

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