L'ESERCIZIO CONCRETO
 DELLA POVERTA' EVANGELICA

Don Mario Cascone

Vivere da cristiani nell’odierna società dell’opulenza, che si regge su meccanismi economici perversi, significa in concreto cercare di vivere la virtù della povertà evangelica, seguendo le indicazioni di Gesù e di tutta la parte migliore della storia della Chiesa.

L’esercizio di questa virtù, che certamente non è facile, può derivare solo da un’autentica conversione evangelica, che possa condurre ad un rapporto di totale affidamento a Dio. Il contrario di questo atteggiamento si chiama “mammona”, che è visto nel Vangelo come un idolo assolutamente in contrasto col Dio vero. Insomma, o si confida in Dio o si confida in “mammona”: o l’uno o l’altro, mai l’uno e l’altro insieme.

            Vista in questa luce, la virtù della povertà evangelica non riguarda soltanto il retto uso dei beni terreni, ma la verità della nostra relazione verticale con Dio. Essa fa parte delle condizioni, anzi degli elementi costitutivi, del nostro rapporto con Dio. Per questo motivo S. Tommaso ha posto la pratica della povertà nell’ambito del dono spirituale del  santo timore di Dio.[1]

            L’esercizio della povertà evangelica si fonda sul riconoscimento di Dio come unica vera ricchezza della nostra vita. La conseguenza più immediata di questo riconoscimento è che si viva nel concreto la paternità di Dio come impegno di condivisione fraterna con tutti gli uomini e si venga progressivamente liberati, per grazia di Dio, dalla cupidigia, che spesso è alla base di tanti litigi nelle famiglie e di tante ingiustizie sociali.

Il riconoscimento della paternità di Dio, e, di conseguenza, del rapporto di fraternità con tutti gli uomini è alla base dell’esperienza spirituale di S. Francesco di Assisi, come si evince dalle parole da lui pronunciate, quando davanti al Vescovo si tolse i vestiti e li depose ai piedi di suo padre: “Ascoltatemi. Finora ho chiamato Pietro di Bernardone mio padre. Poiché ho deciso di servire soltanto Dio, restituisco a Pietro di Bernardone il danaro, per il quale tanto si arrabbia, e i vestiti che mi ha dati. D’ora innanzi potrò dire non ‘mio padre Pietro Bernardone’, ma Padre nostro che sei nei cieli”. Si tratta certamente di una applicazione “sine glossa” del detto evangelico: “Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me” (Mt 10, 37).[2]

  1.                  Verso alcuni precetti concreti

 

Analizzando i dati biblici risulta chiaro che la virtù della povertà evangelica non è qualcosa che può restare nel vago. Essa si incarna in alcune esigenze etiche, che per i seguaci di Cristo hanno valore normativo.[3]

            Sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento abbiamo individuato due linee di pensiero, a proposito dell’uso dei beni terreni: una sapienziale e una profetica. La riflessione sapienziale verte sulla necessità di non possedere né troppo né troppo poco, dal momento che entrambe queste situazioni allontanano da Dio. Questa riflessione, che certo risente dell’influsso di alcuni pensatori ellenistici, viene ripresa da Gesù in diverse circostanze: si pensi alla ricchezza che soffoca il “seme” della Parola di Dio (Mt 13, 22), al tema dell’abbandono a Dio (Lc 12, 13-34), alle difficoltà per il ricco di entrare nel Regno di Dio (Mt 19, 23-24).

            La riflessione profetica lega spesso l’accumulo di ricchezza all’oppressione del povero, e quindi all’ingiustizia sociale. Amos, Isaia e gli altri profeti denunciano la spogliazione del povero da parte del ricco, la sua prepotenza, la sua sete di dominio. Il piccolo furto dell’indigente è niente al confronto, e non viene considerato nemmeno furto, quando viene fatto sotto la costrizione della fame e della miseria. Anche questa linea di pensiero dell’A.T. viene ripresa da Gesù: si pensi al Magnificat (Lc 1, 53), alla parabola del povero Lazzaro (Lc 16, 19), alla formulazione contrapposta tra poveri e ricchi delle Beatitudini di Luca (Lc 6, 20-24).[4] Parecchie volte Gesù rivolge l’invito a spogliarsi delle ricchezze e a darle ai poveri. Si tratta di un invito che ha perciò due connotazioni:

1) non accumulare ricchezze terrene, ossia non essere pervasi dalla preoccupazione spasmodica di arricchirsi;

2) condividere con gli altri, in particolare con i poveri, ciò che si possiede.

Questo duplice invito ci fa capire che l’alternativa posta da Gesù non è fra ricchezza e povertà, ma fra ricchezza e Dio: la dedizione al Signore è tale, per il credente, che per lui non c’è altra ricchezza che la vita in Lui. In questa luce va vista la parabola del ricco stolto (Lc 12, 22 ss.), in cui si evince che c’è un arricchire per sé e un arricchire davanti a Dio. Il cristiano, che è cittadino del Regno, non cerca ricchezze per sé e, se ne possiede, non esita a condividerle. Egli infatti cerca prima di tutto il Regno e la sua giustizia (Mt 6, 33). Né l’avidità né l’avarizia fanno parte dello stile di vita del cristiano. Questi due termini, espressi in greco con la parola “pleonexia”, sono entrambi condannati da S. Paolo (Rm 1, 29; 1 Cor 6, 10; 2 Cor 9, 5; Col 3, 5; Ef 4, 19; 5, 3; 5, 5; 1 Tess 2, 5). Uguale condanna è espressa in Mc 7, 22 e Lc 12, 15.[5]

            Le conclusioni operative a questo punto non sono difficili da dedurre. Esse possono essere sintetizzate in due principi generali, che possiamo esprimere in termini evangelici:

  “Non accumulate tesori sulla terra…” (Mt 6, 19)

2° “Dio ama chi dona con gioia” (2 Cor 9, 7).[6]

Sono due precetti che si oppongono rispettivamente all’avidità e all’avarizia, conducendo il credente ad un atteggiamento di distacco nei confronti delle ricchezze terrene e di solidale carità con i più poveri. Questi due precetti incarnano in modo serio e concreto la virtù della povertà evangelica. Cerchiamo di analizzarli in modo particolareggiato, sforzandoci anche di concretizzarli in una casistica capace di fornire orientamenti chiari e precisi per il nostro agire di cristiani. Senza correre il rischio di cadere nel legalismo, pensiamo che sia necessario elaborare una casistica in questo campo, tenendo conto soprattutto del fatto che questo è un settore nel quale le preoccupazioni morali di molti cristiani appaiono piuttosto labili, quando non del tutto assenti.

2.                  “Non accumulate tesori sulla terra”

 

            In concreto questo primo principio consiste nel non cercare di arricchire, ossia nel non desiderare di possedere sempre di più. Naturalmente questo contrasta con tutta la cultura occidentale attuale, che è invece impostata sul criterio del massimo profitto economico e dell’accumulo di capitale. Di più: il sistema economico oggi è tale che la ricchezza genera necessariamente altra ricchezza. Anche coloro che intendono solo risparmiare, cioè non consumare tutto quello che possiedono al fine di assicurarsi qualche risorsa per il futuro, finiscono di fatto con l’accumulare beni materiali. E’ chiaro che la pura intenzione di risparmiare qualcosa con questo scopo, ossia per avere un minimo di serenità nel futuro, non è  in sé stessa espressione di bramosia o di avidità. Essa piuttosto va annoverata come atteggiamento virtuoso di prudenza e di parsimonia, come manier per non indulgere allo spreco consumistico e per guardare al domani con una certa tranquillità. Ciò evidentemente a patto che non si esageri e che, come vedremo in seguito, si scelgano strade moralmente valide per custodire i propri risparmi.

 Anche il problema di dover difendere la moneta dall’inflazione, attraverso diversi meccanismi economici, è un fatto universale e in qualche modo strutturale della nostra economia. In questo caso, però, non è per niente semplice determinare, per esempio, quale sia il giusto tasso di interesse, senza cadere quasi inevitabilmente in meccanismi perversi di speculazione.

            La constatazione che il sistema economico è perverso e la mentalità dominante è fondata sull’accumulo di capitali mette in seria crisi o rende vuoti tutti i discorsi sul primato dell’essere sull’avere, quali sono stati elaborati da G. Marcel e E. Fromm, e ripresi più volte dal Magistero della Chiesa. Occorre una critica a questo modello culturale: una critica che parta dalla testimonianza profetica dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà, che dimostrino il coraggio di andare controcorrente.

            Gli esempi per tradurre concretamente questa scelta di vita possono essere molti: scegliere una professione a scarso reddito ma ad alto contenuto umanizzante; rifiutare straordinari e doppi lavori, qualora si disponga di un reddito sufficiente, per dedicarsi ad attività di volontariato; non collaborare a quelle iniziative di alcune multinazionali, tese a massimizzare il profitto, magari a scapito, per esempio, dell’occupazione o della salute della gente; depositare i propri risparmi presso una banca etica, per essere in grado di seguire la destinazione di investimento dei propri soldi; incrementare il commercio equo e solidale, innescando processi di cooperazione internazionale.[7] Alcuni di questi esempi li riprenderemo più avanti.

            Questo modo di agire, specialmente se è condiviso da un numero crescente di persone, può cominciare a creare una nuova cultura ed a scalfire il principio della massimizzazione del profitto, che di fatto è alla base della miseria del Sud di questo nostro mondo. A questo proposito bisogna dire che è assai discutibile la tesi secondo cui massimizzare il profitto significa automaticamente aumentare la produzione e recare benefici, che si distribuiscono su tutti. I fatti ci dicono il contrario: non solo perché i criteri di scelta sul che cosa, come e dove produrre sono dettati unicamente dalla prospettiva del guadagno economico, ma anche perché di fatto l’economia basata sul massimo conseguimento di utili si traduce in una maggiore concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, a fronte di masse di popolazione che vivono al di sotto della soglia minima di sopravvivenza.[8]

            I seguaci di Cristo sono chiamati a testimoniare e predicare la logica del Vangelo, che con chiarezza esclude la tendenza ad accumulare ricchezza. Che cosa vuol dire questo nel concreto?

 

a)            Anzitutto vuol dire che il cristiano deve rifiutare ogni attività economica che abbia un carattere esclusivamente speculativo, a cominciare dal giocare in borsa o da certe attività di compravendita fatte esclusivamente a scopo di lucro. Anche il confidare troppo sulle lotterie può diventare peccato… Per non parlare del gioco di azzardo o delle scommesse…[9]

b)         In secondo luogo si pone la grossa questione delle attività esclusivamente finanziarie, che hanno come contenuto la manovra di denaro allo scopo di aumentarlo, di farlo fruttare, di investirlo nel modo più vantaggioso, laddove il “vantaggioso” è inteso ovviamente in termini pecuniari. E’ fuori discussione il fatto che il complesso sistema economico attuale richieda un’attività di raccolta di danaro e di collocazione di questi soldi in investimenti. E’ ovvio che chi svolge un’attività di questo genere debba essere remunerato. Il problema principale nasce, come si accennava prima, nel momento in cui si deve determinare il tasso di interesse: sia quello che l’operatore finanziario determina di dare ai tanti piccoli o medi risparmiatori, che gli affidano i propri capitali, sia quello che egli a sua volta chiede a chi gli domanda questi capitali per investirli. La determinazione di questo tasso di interesse nei mercati finanziari può variare tante volte anche in maniera indipendente dalle scelte dell’operatore finanziario. Le finanziarie in genere agiscono secondo un sistema piramidale, nel senso che quelle più piccole vengono inglobate via via da quelle più grandi, il cui unico interesse è quello di massimizzare i capitali, indipendentemente dai beni o dai servizi che vengono prodotti. Esiste quindi una particolare attività economica che consiste nel non produrre assolutamente nulla, ma nell’arricchirsi manovrando sia la produzione, sia il suo finanziamento, sia il valore del denaro da usarsi in entrambe le operazioni.

            In sintesi, l’attività di raccogliere capitali e metterli a disposizione per investimenti produttivi a tasso di interesse ragionevole è, nelle strutture economiche attuali, necessaria e non condannabile moralmente. L’attività che invece controlla sia la produzione che la raccolta dei fondi, e lo fa in modo indiretto e difficilmente decifrabile, solleva parecchi problemi morali. Il confine tra le due attività non è sempre netto, per cui sarà di volta in volta necessario cercare di capire come stanno effettivamente le cose e assumere le decisioni morali più congrue, specialmente nel desiderio di non desiderare un accumulo di capitali che leda il diritto altrui e la giustizia sociale. Scrive a tal proposito V. Coda: “Il problema di combinare l’economico con il sociale nella realtà dell’impresa non si risolve riducendo l’economicità a un vincolo né traducendo le finalità sociali in condizioni vincolanti. Si risolve bensì integrando creativamente esigenze sociali e bisogni del mercato all’interno di visioni imprenditoriali vincenti, dotate di una loro intrinseca validità economica. Questa è la sola via di soluzione compatibile con la natura dell’impresa e la sua ragione di essere”.[10] E’ confortante che dal mondo aziendale ed economico venga questo richiamo alla necessità di combinare in maniera creativa i bisogni sociali e quelli del mercato.

c)            Certamente è obbligatorio sul piano morale esercitare un controllo sui propri investimenti. Purtroppo sappiamo che nell’attuale sistema è praticamente impossibile conoscere la destinazione dei propri risparmi. Il dovere morale, in questo caso, difficilmente potrà consistere nell’investire solo quando si abbia precisa conoscenza della fine fatta dai nostri risparmi. Consisterà però almeno nel cercare di sapere se c’è un uso sicuramente immorale dei nostri soldi. In quel caso bisognerà disinvestirli ed affidarli a chi offre maggiori garanzie sul piano morale. Non si può pretendere che chiunque abbia un conto in banca si trasformi in un esperto economico. Si può però esigere che ci si tenga informati, anche attraverso quotidiani non specializzati, e che, alla notizia o al fondato sospetto di un cattivo uso del proprio denaro, il cristiano cambi decisamente investimenti, anche ricevendo un tasso di interesse inferiore. E’ questo il discorso portato avanti oggi dalle cosiddette “banche etiche”.[11]

d)                             Fa certamente parte del divieto di arricchirsi la proibizione di qualsiasi forma di corruzione, intesa come offerta o accettazione di un vantaggio (lecito o illecito) allo scopo di ricevere o procurare un vantaggio ingiusto. Sia nella corruzione attiva che in quella passiva c’è ricerca di ricchezza. La corruzione non è detto che avvenga sempre attraverso soldi: in alcuni casi, infatti, può essere attuata attraverso concessione di privilegi, come ad esempio falsificazione di concorsi, scatti di carriera, titoli onorifici, sistemazione lavorativa di uno dei propri familiari ecc. Qualche volta, magari inconsapevolmente, certi generi di corruzione sono avvenuti anche all’interno di ambienti ecclesiastici. Ricordiamo che anche il perseguimento di un fine buono non può avvenire facendo ricorso a mezzi disonesti. Purtroppo oggi questa sembra essere una prassi generalizzata. Molti, anche fra i cristiani, corrono il rischio di accettarla passivamente e di non riscontrare in essa alcuna illiceità…

e)                           Infine è ovvio che faccia parte del divieto di “accumulare tesori sulla terra” anche la proibizione del furto. Nella tradizione teologico-morale cattolica il furto è stato inteso quasi esclusivamente come l’illecita violazione della proprietà altrui. In realtà difficilmente il ladro gode di questa violazione o la persegue direttamente. In genere egli è guidato, nell’atto del rubare, dall’avidità, ossia dalla brama di arricchirsi illecitamente alle spese di altri. Questa è la malizia più grave del furto, specialmente se si tiene conto che nell’attuale sistema economico è quasi impossibile arricchirsi, senza farlo a spese di altri.[12]

Bisognerebbe esaminare in coscienza anche le ripercussioni che certe nostre azioni, pur svolte nell’ambito della legalità, possono avere sugli altri, specialmente sui poveri. Le leggi civili dovrebbero tenere conto di queste ripercussioni e dovrebbero anche smascherare la disonestà di certi presunti “aiuti umanitari”, che in realtà sono fatti da alcune grandi multinazionali solo per incrementare i loro profitti. Accanto ai furti di piccolo cabotaggio, ci sono infatti quelli di grossa portata, che spesso rischiano di passare inosservati…

  3.                  “Dio ama chi dona con gioia”

 

Nel precetto che abbiamo finora esaminato si pone in gioco il proprio rapporto con Dio, nel senso che il cercare di arricchirsi, vissuto nell’avidità, può essere classificato come idolatria. “Non accumulare tesori sulla terra” non è allora solo un atteggiamento morale di rilevanza sociale, ma soprattutto una scelta consapevole e decisa di Dio: scelta che aborrisce ogni forma di idolatria.

Pur non cercando di arricchirsi, tuttavia è normale che il cristiano abbia la disponibilità di alcuni beni, frutto per lo più del suo onesto lavoro. Come deve utilizzarli? Senza dubbio deve farne uso secondo la logica del Regno di Dio, e quindi ha l’obbligo di provvedere a sé e alla sua famiglia, ma anche di condividere questi beni con chi è in difficoltà. Il bene dei fratelli è un criterio fondamentale nell’uso dei beni terreni.

            Il cristiano ha certamente il diritto-dovere di usare questi beni per la sua sussistenza, che non consiste proprio nella semplice sopravvivenza, ma anche nella tutela della sua salute, oltre che nel godimento moderato di beni culturali, di riposo e di svago. Tutto questo non può essere stabilito in termini rigorosi e precisi, ma varia a seconda della quantità di beni disponibili, delle persone che compongono il nucleo familiare, di ciò che serve per l’esercizio della propria professione, e soprattutto in misura della capacità che ognuno ha di rispondere alla chiamata di Dio su questo punto. Una casistica, anche la più dettagliata, non potrà mai invadere il campo della libertà personale, specie in materia di generosa condivisione dei propri beni. Certamente non è richiesta a tutti l’eroica spogliazione di tutto ciò che si possiede, a beneficio dei poveri; a tutti i cristiani però è richiesta la volontà di condivisione di ciò che non è strettamente necessario a sé e alla propria famiglia per condurre un’esistenza dignitosa.

            Bisogna puntare a che tutti i membri della società abbiano la possibilità non solo di sopravvivere, ma anche di condurre un’esistenza dignitosa, ossia che vivano secondo lo standard di un livello medio. Questo scopo si potrà raggiungere se ognuno di noi capirà che ciò che si possiede al di sopra di questo livello medio di tenore di vita, va condiviso.

Certamente questa condivisione va fatta in modo intelligente, possibilmente attraverso formule comunitarie che non vanifichino le iniziative, pur lodevoli, dei singoli. Ma la condivisione è obbligatoria e va fatta a favore dei più bisognosi, soprattutto allo scopo di suscitare sistemi economico-sociali alternativi a quelli attuali, e quindi capaci di non generare masse enormi di poveri, che vivono al di sotto della soglia minima dell’esistenza. Le testimonianze profetiche, in questo campo, servono da pungolo non indifferente per scuotere i colossi dell’economia mondiale e per offrire piccoli, ma significativi esempi di una convivenza fra gli uomini basata sull’amore solidale, più  che sulla spietata concorrenza. La possibile accusa di “ingenuità” ad una tale impostazione di vita è largamente superata dalla constatazione dei risultati meravigliosi che sempre nascono da queste iniziative: proprio la consapevolezza del conseguimento di questi risultati ci interpella in coscienza e ci fa sentire l’obbligatorietà della condivisione solidale.

            Anche in questo caso cerchiamo di capire quali scelte concrete comporta l’applicazione di questo principio:

a)  Anzitutto comporta il dovere di pagare le tasse, precisando con chiarezza che il sistema fiscale, per essere giusto, deve obbedire ai principi della giustizia distributiva. [13]Sarebbe un sistema ingiusto se facesse pagare a tutti le stesse tasse e se i benefici si ridistribuissero su tutti in parti eguali. La pressione fiscale è giusta se ognuno paga in proporzione al reddito che possiede e se i benefici vanno a chi più ne ha bisogno, soprattutto in termini di servizi.

            Pagare le tasse è, in questa luce, la maniera più semplice per dare del proprio ai fratelli. Questo modo di contribuire al bene comune ottiene però il suo scopo più nobile nella misura in cui chi amministra il sistema fiscale agisce secondo giustizia e sa utilizzare, anche con una certa creatività solidaristica, i fondi a sua disposizione. Non basta perciò solo pagare le tasse, bisogna anche darsi da fare per garantire la presenza di governi onesti e capaci.

            In ogni caso il dovere di pagare le tasse rimane un obbligo di giustizia. In questo senso non si può dire che si tratti semplicemente di obbedire alle leggi dello Stato, magari trovando la maniera migliore per aggirarle: è stato questo, in fondo, uno dei risultati più nefasti della teoria delle cosiddette “leggi mere poenales”, elaborata in passato nell’ambito della teologia morale cattolica, secondo cui le leggi civili non obbligano in coscienza, ma solo in “foro esterno”. Chi le trasgredisce, insomma, non commette peccati, ma al massimo paga la sanzione prevista per questa trasgressione. E’ chiaro che una tale concezione non ha favorito il senso civico ed in tanti casi ha fatto trionfare la regola del “fatta la legge, trovato l’inganno”…[14]

            Si tratta anche di operare una trasformazione culturale, che aiuti a superare l’idea secondo cui non si può spogliare nessuno di quello che si è legittimamente guadagnato. Una tale idea, di stampo individualistico e non solidaristico, porta ad una resistenza quasi istintiva nel pagamento delle tasse. Non so quanto esageri E. Chiavacci nell’affermare: “Riteniamo fermamente che per un cristiano pagare le tasse sia un atto quasi sacro, da compiersi di fronte a Dio, come il primissimo dovere di carità”.[15]

            In quest’ottica il Chiavacci precisa che la tassazione indiretta, quella cioè che si esercita sui consumi, è per sua natura più ingiusta, perché è uguale per tutti. Più giusta, invece, è la tassazione diretta sui redditi o sulle rendite. Dovere di un buon governo è quello di costringere al massimo le imposte indirette, specie quelle sui beni di prima necessità.

 

b)  Al di là del dovere di pagare le tasse c’è anche quello di elargire altre offerte, in modo libero e secondo le possibilità di ognuno, per i bisogni particolari, che lo Stato non è in grado di alleviare. Sarebbe bello se in ogni famiglia si ponesse un tetto ragionevole di sussistenza, ivi comprese la previdenza per possibili bisogni futuri e una somma per l’onesto svago e il riposo. La decisione profetica consisterebbe nello stabilire che tutto quello che supera questo tetto, va dato, in modo sapiente, magari attraverso organizzazioni specializzate. Probabilmente non è preferibile l’idea di gesti sporadici, anche se particolarmente generosi. Quello che influisce di più sul sistema economico e su quello culturale è una prassi abituale di generosa liberalità, che possibilmente provenga da una buona capacità di rinunciare a consumi superflui.

 

c)  Nella linea del dare e del condividere si situa anche il dovere di non recare danno agli altri. Ci sono oggi forme di dannificazione dolosa di vario tipo, che costituiscono sempre una violazione della carità: i tifosi che, arrabbiati perché la loro squadra ha perso, distruggono vetrine e automobili; l’abitudine di deturpare i muri e i monumenti con scritte varie; il danneggiamento degli ambienti scolastici o di lavoro. Dietro questi comportamenti si nasconde l’idea che ognuno può fare il proprio comodo, senza rispetto alcuno per gli altri. Da qui si arriva ad un esasperato individualismo e all’idea che chi ha successo è bravo, e chi non ce l’ha si arrangi… [16]

            Danneggiare beni pubblici significa sottrarre risorse preziose alla comunità e impostare la propria vita sulla base di un sostanziale egoismo. Particolarmente grave è l’atteggiamento di disinteresse per ciò che non è nostro, anche quando momentaneamente viena da noi usato. E’ grave anche porre condizioni che possano nuocere agli altri: si pensi alla guida spericolata o alla mancata osservanza delle leggi di sicurezza sul lavoro, che spesso viene dettata dal motivo di risparmiare dei soldi… Tutti questi comportamenti ledono i doveri di giustizia e coltivano una mentalità individualistica, dalla quale sgorgano, quasi inevitabilmente, forme più o meno gravi di litigiosità sociale.

 

d)  In ultimo, il principio della condivisione e del generoso dono delle nostre risorse ai fratelli passa attraverso il grave dovere di restituire ciò che è stato ingiustamente sottratto agli altri e di riparare il danno arrecato, almeno per quanto questo sia possibile. Sarebbe un pentimento sterile quello che consistesse nella sola ammissione della colpa di aver rubato o di aver arrecato danni ad altri. Il pentimento è reale nella misura in cui passa attraverso l’impegno di restituzione del maltolto e di riparazione del danno causato. Ciò potrà avvenire talora anche in forma anonima, per venire incontro a forme più o meno giustificate di timore di uscire allo scoperto o per evitare di causare guai maggiori. Ma dovrà avvenire, nel senso che è necessario legare, sul piano morale, la colpa su questi punti con la restituzione e la riparazione.[17]

 

4.                  “Vieni, Padre dei poveri!”

 

La testimonianza di coloro che vivono nella sobrietà e nella povertà evangelica reca un beneficio all’intera società e plasma una nuova cultura, capace di sovvertire la mentalità dominante. Lo stile di vita di pochi può diventare a poco a poco quello di molti, specialmente quando la testimonianza è autentica e fascinosa.

            E’ amaro constatare che il cristianesimo non sia riuscito a impedire che la società occidentale cadesse sotto il dominio del denaro e di un’economia fondata sulla massimizzazione del profitto. La Chiesa deve cercare di vivere nella povertà per poter parlare ai poveri del nostro tempo e per essere la Chiesa dei poveri. Facendo questo essa segue l’esempio del suo Signore Gesù, che è disceso nella povertà della nostra condizione umana, ha fatto propria la nostra povertà, allo scopo di liberarci da essa e di darci la ricchezza senza fine.

            Per imitare il suo Signore il cristiano non utilizza la rivoluzione violenta, ma quella della testimonianza. Il rivoluzionario guarda lontano, sacrifica persone e cose per realizzare il suo sistema, non si arresta di fronte alle lacrime e al sangue, purché si affermi lo scopo della sua lotta. Il cristiano invece non guarda soltanto lontano, ma anche vicino, interessandosi di ogni povero che incontra lungo la strada. Egli comincia dalla carità concreta e immediata, pur ponendosi il problema di rimuovere le cause della povertà.[18] Il servizio che i cristiani possono rendere ai poveri del nostro mondo è, in particolare, quello di aiutarli ad uscire dalla loro povertà attraverso l’istruzione e l’educazione, ossia aiutandoli a conquistare con le proprie mani la vittoria sulla loro miseria.

            Non è possibile però per i cristiani offrire questa testimonianza e questo aiuto ai più poveri senza una solida spiritualità. Non si può reggere a lungo un cammino controcorrente, se non c’è qualcosa, anzi Qualcuno, che ci spinge ad agire, a lottare, a sperare e ad osare. Noi sappiamo bene però che sul mare agitato della storia soffia sempre lo Spirito del Signore, che spinge le nostre povere barche… a condizione che esse siano messe in mare! Bisogna rischiare, avventurandosi in un’impresa affascinante, che viviamo nell’abbandono all’azione dello Spirito. E’ Lui che nel bellissimo inno del “Veni Creator” cantiamo con le parole: “Vieni, Padre dei poveri!”.

 

 

 



[1] S. TOMMASO, S. Th. II-II, 19,12; III, 35, 7.

[2] Cit. in: Y. CONGAR, Il posto della povertà nella vita cristiana in una civiltà  del benessere, in: Concilium, anno II, fasc. 3 (1966), p. 26.

 

[3] Cfr. R. SCHNACKENBURG, Messaggio morale del Nuovo testamento, Paideia, brescia 1990; W. SCHRAGE, Etica del Nuovo Testamento; R. FABRIS, La scelta preferenziale per i poveri nella Bibbia, in: sito web: www. spin.it/accri (associazione di cooperazione cristiana internazionale), 2000.

[4] Cfr. J. DUPONT, Le beatitudini, Paoline, Roma 1972.

[5] Cfr. R. FABRIS, op. cit.

[6] Ci rifacciamo ampiamente a E. CHIAVACCI, Teologia Morale, vol. 3/1: Teologia morale e vita economica, Cittadella, Assisi 1985, pp. 170-222.

[7] E’ veramente un  segno profetico per i nostri tempi il diffondersi delle banche etiche, delle esperienze di commercio equo e solidale e di cooperazione internazionale. E’ da segnalare anche il sistema di economia di comunione, elaborato dal Movimento dei Focolari e già studiato in numerose pubblicazioni.

[8] Cfr. A. NICORA, Sobrietà e castità, virtù del cristiano, Piemme, Casale Monferrato 1997.

[9] Il Catechismo della Chiesa Cattolica chiarisce in proposito che i giochi d’azzardo e le scommesse “non sono in se stessi contrari alla giustizia. Diventano moralmente inaccettabili allorchè privano la persona di ciò che le è necessario per far fronte ai bisogni propri e altrui. La passione del gioco rischia di diventare una grande schiavitù” (n.2413).

[10] V. CODA, L’orientamento strategico dell’impresa, UTET, Torino 1991, p.169.

[11] Le banche etiche promuovono lo sviluppo dell’economia di solidarietà, sostenendo finanziariamente progetti che si propongono la riduzione del disagio delle fasce deboli della popolazione, la salvaguardia dell’ambiente, la cooperazione con i Paesi poveri. Il risparmiatore che si rivolge a Banca etica ha la possibilità di indicare la propria preferenza nella destinazione dei fondi, scegliendo volontariamente di ricevere un tasso di interesse più basso rispetto a quello delle altre banche, ma avendo la possibilità di conoscere la destinazione dei suoi risparmi.

[12] Cfr. E. CHIAVACCI, op.cit., pp.205-207.

[13] Cfr. H. FITTE, Teologia e società. Elementi di teologia morale sociale, Apollinare Studi, Roma 2000, pp. 252-260; G. CONCETTI, Etica fiscale: perché e fin dove è giusto pagare le tasse, Piemme, casale Monferrato, 1995.

  [14] Cfr. G. GATTI, Morale sociale e della vita fisica, LDC. Leumann (TO), 1990, pp. 60-61.

  [15] E. CHIAVACCI, op.cit., p.214.

[16] Ibidem pp. 217-221.

[17] Cfr. CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA n.2412.

[18] Y. CONGAR, Il posto della povertà nella vita cristiana in una civiltà  del benessere, in: Concilium, anno II, fasc. 3 (1966), pp. 32-33.

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