Bloc Notes

Nota su un articolo
di Susann Witt-Stahl

di
A.S.





Che l’americana PeTA sia una associazione screditata nel cuore e nella mente di moltissimi animalisti e' cosa difficilmente confutabile. Ma in genere le critiche restano sempre a livello pellicolare e non riescono ad andare oltre la “malefatta di giornata”. Il saggio “Auschwitz non sta sul vostro piatto” ha il merito di delineare con pochi tratti e grazie ad una sensibilità allenata all’analisi, la mania di grandezza del tutto fuori luogo della “più grande associazione animalista del mondo”. La tendenza a “rumoreggiare” per conquistare l’attenzione dei media nella società dell’effimero attraverso soluzioni eclatanti e star del cinema (soluzioni che si spengono in virtù della perfetta integrazione di quella associazione in un tessuto sociale specista che sostanzialmente ne ignora gli intenti) rende la PeTA (e tutte le sue consorelle del mondo) un’organizzazione difficile da apprezzare.

La sua natura istituzionale la rende ostaggio della società specista che essa contrasta soltanto in relazione a ciò che attiene il destino riservato agli animali. In realtà la PeTA non combatte la società americana. Basta ricordare i pasti vegetariani spediti al fronte irakeno per i bravi ragazzi mandati a servire la Patria in un momento tanto difficile. La PeTA combatte, al massimo, gli atti crudeli degli uomini sugli animali immaginando che basti semplicemente un cambiamento di visione del problema da parte delle moltitudini per risolvere la questione; insomma, pretende un cambiamento impossibile se una società che viene difesa nella sua sostanziale interezza, rimane immutata nelle sue strutture profonde. Il problema animale, per associazioni come questa, non è una costruzione storica che si incarna nelle modalità con cui la società riproduce materialmente se stessa, ma un semplice accidente al quale si può porre rimedio con semplice buona volontà collettiva.

Naturale perciò che i metodi della PeTA siano quelli che l’organizzazione stessa reclamizza con tanta intraprendenza e così bene descritti nel saggio di Witt-Stahl. Naturale, allora, sarà la ricerca dell’effetto, della trovata pubblicitaria, della ideazione sensazionalista capace di fare breccia nel cuore della gente (per il tempo strettamente necessario in cui lo spettatore si trova calamitato nell’ambiente percettivo costruito da quella organizzazione). E naturale è anche l’ossessivo e goffo riferimento a testimonial d’occasione secondo la prassi reclamistica inaugurata in America e diffusasi così pervasivamente nel resto del mondo.

Allora la campagna PeTA che si richiama all’Olocausto risulta criticabile, prima ancora che per le osservazioni di Witt-Stahl inerenti alla illegittimità del confronto, per il suo uso sconsiderato e sottolineato con espressioni pienamente centrate, in particolare con le righe conclusive:

La PeTA ha rielaborato secondo i mezzi dell’industria culturale l’olocausto e lo sterminio degli animali, e con ciò promosso uno sviluppo che reifica l’orrore riducendolo a una merce standardizzata. La Shoah viene, nella migliore delle ipotesi, messa in fila tra la gamma dei prodotti: nelle città si mostrano foto enormi di montagne di cadaveri vicino a manifesti pubblicitari per il formaggio fresco Almette, per gli assorbenti Carefree e la Diet-Cola; alla fine la campagna pubblicitaria della PeTA mostra di non essere altro che un triste prodotto di scarto delle forze integrative del capitalismo avanzato. Chi “ordina” l’orrore dell’olocausto riceve il prodotto PeTA, garantito, e in aggiunta facili soluzioni contro il millenario dominio violento dell’uomo sugli ultimi degli ultimi. Il minimo che il consumatore può fare – dice la PeTA – per “fermare l’olocausto degli animali” è intraprendere uno stile di vita vegetariano. Ovviamente c’è anche un numero di telefono dove si può ordinare il “vegetarian starter kit”.

Un passaggio veramente notevole! Non ci si può sorprendere se in certe persone si trovino divertentissimi esempi di una logica dell’altro mondo. Chiamano “omicidi” le uccisioni degli animali, definizione che, con tutta la buona volontà, disturba le orecchie; si inventano con leggerezza citazioni mai pronunciate dai soggetti a cui vengono attribuite e, a chi fa notare l’incongruenza (per non parlare di “falso”), rispondono che, anche se non documentate, non si può dire che non l’abbiano mai proferite (sic!); inventano nuovi sillogismi oniricoaristotelici del tipo: “Le vittime dell’olocausto furono trattate come animali, e così, logicamente possimo concludere che gli animali sono trattati come le vittime dell’olocausto” – [Matt Prescott, creatore della campagna PeTA].

Infine, è definitiva la sottolineatura con la quale Witt-Stahl provvede a licenziare il saggio:

Se si cercasse una spiegazione su come la PeTA riesca a far quadrare il cerchio: ovvero sedersi al tavolo assieme a chi commette “l’olocausto” nei confronti degli animali per chiedere migliori condizioni per le vittime – cioè cooperare con i “nazisti” – si cercherebbe inutilmente sul sito Masskiling.

Chiusa di provata maestria con cui si scopre il carattere di artificio per mezzo del quale la PeTA sfrutta l’immagine dell’Olocausto con mezzi decisamente strumentali e pubblicitari.

In realtà ci sarebbe da aggiungere molto anche sullo strano concetto che questa associazione ha dell'animalismo. In un messaggio pubblico (17 giugno 2005) si citano i passi che seguono:

1) [.] Ingrid Newkirk [.] ha dichiarato in una conferenza stampa che non ci sono segni di "dolore o sofferenza " nei diciotto animali che la polizia ha scoperto ad Ahoskie nei cassonetti di un centro commerciale, ne' nei 13 scoperti in un furgone intestato alla PeTA. Agli animali e' stata praticata un'iniezione letale, ha sostenuto Newkirk.
2) Del resto, la PeTA ha sempre ucciso animali. In un articolo del 2003, pubblicato dal 'New Yorker', era compresa la storia di come il capo della PeTA, Ingrid Newkirk, sia giunta ad occuparsi di diritti animali dopo che alcuni gattini randagi vennero soppressi nel rifugio cui li aveva consegnati. Comincio' a lavorare in un rifugio negli anni Settanta, in cui, ha spiegato "mi recavo a lavorare molto presto, prima che arrivasse chiunque altro, e uccidevo personalmente gli animali. Perche' non potevo sopportare l'idea che gli altri impiegati li maltrattassero. Devo averne ucciso un centinaio. A volte, dozzine ogni giorno". [.]
3) "Il personale dei rifugi sapeva che sarebbe stato necessario sopprimere alcuni animali - che non sempre sono "simpatici, belli, o di piccola taglia", sostiene Newkirk.
4) Nel 1991, la PeTA ha soppresso 18 conigli e 14 galli che aveva precedentemente "salvato" da un centro di ricerca. "Proprio non abbiamo i soldi" per accudirli, dichiaro' all'epoca l'ex direttore della PeTA Alex Pacheco. Il rifugio della PeTA non aveva piu' spazio.

Che senso possa avere, pertanto, il riferimento all’Olocausto quando si adotta una logica persino dubbia sul piano protezionista, resta semplicemente un mistero oscuro.




Data: 16/01/06

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