Officina della THEORÎA

L’antispecista impossibile e l’antispecismo possibile
- di Filippo Schillaci -





Un saggio di Filippo Schillaci sulla fenomenologia della militanza animalista. Si tratta di un testo importante che non dovrebbe passare inosservato per gli argomenti sollevati, argomenti che si inscrivono in una salda concezione materialista. Nondimeno alcuni punti meriterebbero di essere approfonditi. Eventuali contributi critici, positivi o negativi, saranno accettati volentieri.
a.s.








I mostri esistono ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni (…) pronti a credere e ad obbedire senza discutere

Primo Levi

0. Introduzione

Alcuni anni fa l’associazione Oltre la Specie organizzò una serie di incontri che avrebbero dovuto sfociare in un manifesto antispecista e, da lì, nella fondazione di un movimento che in esso si riconoscesse. Tutto finì in un nulla di fatto. A quel tempo io, sulla base di analoghe esperienze passate, decisi di non partecipare e, quando gli incontri finirono nel nulla, continuai il mio impegno all’interno del Movimento per la Decrescita. Qui esporrò il percorso che mi ha portato a questa scelta e spiegherò perché credo che chi si riconosce nell’antispecismo oggi debba aderire a un tale movimento. Quanto segue è un invito esplicito a operare questa scelta e come tale chiedo che sia letto.

Anticiperò intanto che il contenuto di questo testo consiste nel tentare di dimostrare che la fondazione di un efficace movimento antispecista è impossibile e che l’obiettivo del superamento del modello culturale specista è possibile solo agganciando questo obiettivo ad altre istanze di  liberazione che, anche se in maniera ancora inespressa, lo presuppongono. Dirò poi perché la decrescita rappresenta oggi secondo me l’unica strada percorribile per attuare questo obiettivo.

1. Strani fatti

Queste riflessioni nascono da sei anni di impegno personale all’interno di ciò che convenzionalmente chiamerò qui “movimento animalista” pur non avendo esso mai avuto, né accennando oggi ad avere, caratteristiche unitarie e dunque appunto di movimento. Intenderò col termine generico di animalismo l’insieme di animalismo convenzionale, antispecismo e ciò che ho a suo tempo chiamato specismo speculare[1].

L’esperienza cui accennavo, rivelatasi totalmente priva di qualsiasi risultato, è stata caratterizzata dal verificarsi sistematico, nei miei interlocutori, di comportamenti apparentemente privi di spiegazione razionale e sempre tali da condurre alla paralisi di qualsiasi iniziativa. Partirò col farne alcuni esempi, preceduti dalla seguente lettera di un lettore della Veganzetta[2]:

Non sono giovanissimo ed ho sulle spalle anni ed anni di vita da attivista in tutti i sensi in difesa degli animali e proprio per le tante esperienze vissute direttamente, sono arrivato alla conclusione che bisogna cercare di fermare o di isolare il più possibile la moda nata da qualche anno nell’animalismo di fare presidi un po’ per qualsiasi occasione il più delle volte senza aprire un dialogo con la controparte solo per il piacere di molti di scendere su una piazza o di appostarsi davanti ad un obiettivo ed urlare, meglio ancora se con un megafono davanti alla bocca. Non rinnego che nei primi tempi vi abbia partecipato anch’io ma proprio partecipandovi mi sono reso conto di quanto dannosi siano, soprattutto quelli fatti in seguito a suggestioni popolari senza un minimo di organizzazione ed è triste vedere persone che vi partecipano quasi senza sapere la vera motivazione e se la condividono, ancora più triste vedere al termine queste persone che si danno appuntamento al prossimo fine settimana per presidiare un altro posto e se questo posto non c’è chiedersi cosa possono presidiare e mai prima il perché farlo e come farlo. Penso che presidiare o organizzare una manifestazione non sempre sia sbagliato ma per farlo bisogna organizzarsi bene ed è importante come proporsi, tenendo ben presente lo scopo. Pur essendo da sempre animalista e da tanti anni vegano non mi sono mai sentito così diverso dalle altre persone ed ho riscontrato che proprio spargendo semi nella normalità si ottengono i migliori risultati. Ormai da un po’ di tempo parallelamente al mio lavoro di animalista ho affiancato l’impegno di far capire alle persone che chi vedono sbraitare in presidi spesso alquanto folcloristici non rappresentano tutto il mondo animalista ma per fortuna solo una piccola parte e spesso la più nociva. Rapportarsi con le persone, diffondere le nostre idee, cercare di cambiare le cose non è un’impresa facile, purtroppo nessuno di noi ha la bacchetta magica per farlo, quindi dovremmo attingere da chi è esperto in comunicazioni, o dalle formule collaudate della pubblicità, o dal mondo del marketing per raggiungere degli obiettivi ma nel mondo animalista esiste la regola del “io sono più bravo degli altri che non capiscono niente” e così ognuno cerca d’imporre le proprie idee ed i propri metodi, basta non accettare quelli di un altro, se poi non sono efficaci non importa, tanto la frase che ricorre normalmente è “la gente non capisce”.

Comportamenti standardizzati e ripetitivi che prescindono totalmente da qualsiasi analisi degli scopi e valutazione dei risultati e da qualsiasi rapporto con l’esterno: la descrizione contenuta in questa lettera rappresenta un compendio di quanto anch’io ho potuto constatare e che descriverò ora ricorrendo ai seguenti esempi.

1.1 La caccia. Molto del mio impegno in quei sei anni fu dedicato a un tema specifico: la caccia vista come problema di pubblica sicurezza. Ne scrissi a profusione, analizzai il problema al massimo livello di approfondimento di cui ero capace. Spiegai perché c’era da ritenere che quello fosse l’argomento che più di ogni altro potesse avere efficacia (cosa che poi si rivelò esatta). Le reazioni erano sempre di estremo apprezzamento, a volte entusiaste. Ma quando si trattava di passare a tradurre in pratica le mie parole tutto si azzerava e tutto proseguiva al solito ritmo di «Poveri fringuelli, sigh! Poveri bambi, sob!». L’esito era sempre il medesimo: nessuna efficacia, nulla che smuovesse l’indifferenza generale. Ma all’occasione successiva, nuovamente: «Poveri fringuelli, sigh! Poveri bambi, sob!». Mentre sull’argomento che più d’ogni altro agli occhi dell’opinione pubblica avrebbe potuto avere un valore schiacciante, ovvero le decine di morti umani provocate ogni anno dai cacciatori, silenzio tombale.

Avanzai fra le proposte di azione concreta quella di realizzare un gruppo di pressione tramite lettere ai giornali, una variante di quelli che Amnesty International attua nel campo dei diritti umani. Nuovo plauso generale ma poche adesioni. Tutti, ricevuta la mia mail contenente la proposta, la “facevano girare” ma a nessuno veniva in mente che essa potesse essere rivolta a lui. Le adesioni alla fine si contarono sulle dita di una mano e ben presto anch’esse cessarono. Nel giro di un paio di settimane rimasi solo. Gli animalisti dunque non amano scrivere? Tutt’altro. Scrivono, e tanto, ma, facciamoci caso, scrivono solo su gruppi di discussione di animalisti per animalisti.

Sei anni dopo partecipai, o meglio assistetti per la prima (e unica) volta a una manifestazione anticaccia[3]. Vi partecipavano circa mille persone. La risonanza mediatica fu pressoché nulla. Era ovvio pensare quale diversa efficacia avrebbe avuto un gruppo di pressione di quella entità eppure, mille persone erano disposte a fare centinaia di chilometri e perdere un’intera giornata per fare solo un paio d’ore di inutile chiasso ma non a impegnare quindici minuti alla settimana per comporre una lettera originale e spedirla a un giornale.

Seppi anche che quella manifestazione veniva ripetuta tutti gli anni, sempre nello stesso modo e sempre con esito mediatico nullo. L’attivista che mi spinse a partecipare, quando gli espressi le mie perplessità nei confronti di un tale “metodo” di lotta, rispose: «Le manifestazioni sono inutili, ma servono ad aumentare la coesione del movimento». Capii dopo che egli aveva profondamente ragione, anche se in un senso molto diverso da quello che credeva.

1.2 Il convegno inesistente. Uno dei miei ultimi tentativi fu rivolto alla realizzazione di un convegno sull’approccio religioso all’antispecismo. Non ero però la persona più adatta a realizzare questa idea, sia per inesperienza nell’organizzazione di simili eventi sia per scarsa conoscenza di un approccio molto lontano dal mio (sono ateo). Mi fu presentata proprio allora una persona il cui approccio era esattamente quello, e che era anche docente universitario: la persona giusta al posto giusto. Gli presentai l’idea ed egli si disse subito molto interessato. Ci incontrammo e definimmo un elenco di possibili relatori. Alcuni li avrei contattati io, gli altri lui. Nelle settimane successive feci quanto avevamo stabilito e comunicai passo passo le risposte ricevute al docente. Passò ancora del tempo e cominciai a notare che da lui invece non ricevevo alcuna notizia sul progredire del lavoro. Più volte nelle settimane, poi nei mesi seguenti gli scrissi domandando: cosa è stato fatto? Cosa rimane da fare? Cosa posso fare io? Ogni volta ricevevo una mail il cui contenuto era sempre lo stesso: ti risponderò fra pochi giorni. Una risposta che, ovviamente, non arrivava e che non arrivò mai. Ciò concluse ogni mio rapporto con questa persona (e pose fine a ogni mio tentativo di realizzare il convegno).

1.3 La riunione. Alcuni membri di una associazione antispecista decisero di fare una riunione. Io ero uno di coloro che dovevano partecipare. Cominciammo a scambiarci delle mail ma con il passare dei giorni mi accorgevo che l’argomento della riunione rimaneva avvolto nella nebbia. Sapevo che doveva esserci una riunione ma non sapevo perché. Parallelamente stavo facendo alcune riflessioni che sfociarono nella (poco) nota distinzione fra antispecismo e il già citato specismo speculare. Decisi che anziché partecipare a una riunione di cui nessuno riusciva a definire lo scopo sarebbe stato più proficuo da parte mia approfondire questa riflessione e poi sottoporla agli altri membri del gruppo. Lo feci. Delle cinque persone del gruppo tre reagirono in maniera fra lo stizzito (uno) e il fuoribondo (due). In tali reazioni il tema che io avevo posto veniva rigettato senza argomenti (dallo stizzito) o pressoché ignorato (dai fuoribondi); in ogni caso esso appariva di importanza trascurabile di fronte al fatto “gravissimo” che io non ero andato alla riunione. Durante gli incontri antispecisti, avvenuti pochi mesi dopo, l’argomento specismo speculare fu, che io sappia, ignorato e non mi risulta che sia stato mai più sollevato con la sola eccezione di un articolo di Adriano Fragano pubblicato sulla Veganzetta e rimasto a sua volta senza seguito.

1.4 La fondazione e il pub. Un piccolo gruppo di persone realizzò una Fondazione e comprò un casale con vari ettari di terra per realizzarvi una struttura di accoglienza per animali provenienti da situazioni di sfruttamento o maltrattamento. Poco tempo dopo alcune di queste persone andarono a vivere in città dove aprirono un pub venendo così meno a tutti i loro impegni nei confronti degli animali e mettendo in seria difficoltà i pochi rimasti.

Molti altri esempi avrei da raccontare ma sarebbero tutti facilmente riconducibili al filone definito dall’uno o dall’altro dei precedenti, che ho citato, è bene precisarlo, per la loro caratteristica di assoluta tipicità e che evidenziano le tre classiche tipologie di comportamento con cui ho dovuto costantemente scontrarmi: inaffidabilità, mancanza di metodo, mancanza di programmazione; tipologie che generano a loro volta quelle modalità di azione stereotipate e polverizzate che chiunque abbia praticato un po’ di “attivismo” ha potuto sperimentare e cui si accompagna una costante litigiosità interna. Il tutto derivante, come vedremo, da quella caratteristica “seminale” che è il primo motore di tutto il resto: l’autoreferenzialità.

E’ facile cadere nell’errore di attribuire tutto ciò a una generalizzata ottusità; è invece necessario mettersi alla ricerca del movente che spinge l’ “attivista” a essere tale, movente in cui, nonostante quanto egli crede in perfetta buona fede,  il cosiddetto “animale” ha un ruolo tutt’altro che centrale.

2 Divagando ma non troppo.

Vorrei chiarire a questo punto che io traggo esempi dal contesto animalista perché in esso si è svolta gran parte della mia esperienza, tuttavia tali situazioni non sono esclusive di quel contesto. In esso sono probabilmente più presenti per il motivo che diremo in seguito ma non gli sono peculiari. Ecco ad esempio due casi rispettivamente di inaffidabilità e autoreferenzialità pura tratti l’uno dal contesto della sinistra storica, l’altro da quello della sinistra movimentista del ’77.

Il primo è costituito dalla seguente lettera di Lelio Basso ai socialisti bresciani del 13 aprile 1945:

Cari Compagni,
ieri si è presentato il vostro Leone per ritirare i libri; è stato invitato a recarsi in un posto dove poteva avere una cassa vuota nella quale poi mettere la merce. Da quel momento non si è più visto Leone e se non si fosse presentato il caso fortunato di un compagno voi non avreste la stampa. Quindi è necessario che fra sei sette giorni rimandiate questo Leone o uno più sveglio e più volonteroso di compiere l’incarico ricevuto. Mi permetto però farvi osservare che è doloroso e mortificante constatare che voi Bresciani non abbiate compagni capaci di assolvere un compito tanto semplice e tanto importante.
Cordiali saluti.
[4]

Allo stesso modo, molti anni dopo, Giuseppe Impastato, in un suo scritto sull’attività di Radio Aut, si lamentava di come l’attività di certi gruppi di lavoro fosse costituita da incontri puramente conviviali, dove l’incontrarsi era fine a se stesso e privo di risultati concreti:

Sintomatico, a questo proposito, è stato il funzionamento di alcune commissioni: non momento di elaborazione politica e culturale, ma momento dello stare insieme (vedi tentata esperienza balneare della commissione cultura) a partire dal quale andare in sala trasmissioni per proporre non si sa bene cosa.[5]

Il movimento studentesco del ’77 ha fornito esempi macroscopici e su più larga scala dei medesimi comportamenti riscontrabili fra gli animalisti. Vi era un “signor Rossi movimentista” che si caratterizzava per un preciso e molto standardizzato modo di vestire (tenuta “alla Che Guevara” per gli uomini, abiti volutamente trasandati e poco femminili per le donne), per un certo modo di parlare e di atteggiarsi. Vi era insomma una rigorosa ortodossia movimentista che imponeva regole capillari su ogni aspetto, interiore ed esteriore, della vita “pubblica” del “militante”. E il gruppo era così attento a difendere tale ortodossia che, proprio come accade oggi nei vari gruppi animalisti, la caccia all’eretico era elemento pressoché quotidiano del suo esistere; basti pensare alla facilità con cui durante le assemblee scattavano i cori di “scemo-scemo” a ogni minima devianza dai concetti generalmente accettati.

Negli anni ’90 constatai un’analoga uniformità quando, trovandomi coinvolto in un master universitario sui new media pesantemente inquinato dalla presenza della Sezione Comunicazione della Confindustria, mi accorsi dell’estremo grado di standardizzazione che caratterizzava i suoi emissari. Dicevano tutti le stesse cose, si atteggiavano e vestivano tutti nello stesso modo, perfino il taglio dei capelli variava pochissimo dall’uno all’altro.

Ma c’era una differenza fra questi ultimi e gli animalisti, i “settantasettini” e gli alternativi in genere: nessuna traccia di caccia all’eretico. Anche perché fra essi non ci sono eretici (mi immagino esista un processo di selezione a monte[6]). Al contrario, ciò che colpisce in una organizzazione come la Confindustria è che essa riunisce membri (aziende) fra i quali, per loro natura, esiste un rapporto di concorrenzialità e che tuttavia riescono a essere alleati. Al contrario il movimento alternativo si configura come un insieme sconnesso di minuti frammenti che riescono a essere antagonisti pur essendoci, in linea di principio, gli elementi perché siano alleati.

Un discorso analogo a quello fatto per la Confindustria vale all’interno di ogni singola azienda, in cui si cercherebbero invano episodi come quelli narrati nel precedente paragrafo. Comportamenti standardizzati sì, e in maniera forse ancor più radicali di quelli movimentisti, ma in un contesto fortemente caratterizzato da metodo, affidabilità, programmazione perseguiti al massimo grado. Un discorso a parte merita l’autoreferenzialità, che anche qui è fortemente presente, poiché l’azienda, come pure l’alleanza di aziende, è in funzione esclusiva di se stessa. Ma mentre nel movimento animalista questo è un difetto, in quest’altro contesto è un punto di forza. Vedremo fra poco perché.

3. Strumenti di diagnosi.

Sono tre concetti molto semplici che traggo rispettivamente da H. Laborit, K. Polanyi e E. Goldsmidth.

- Laborit: ogni organismo biologico dotato di sistema nervoso ha un solo scopo: conservare la propria struttura. Per conseguire tale scopo esso deve costruire attorno a sé uno “spazio gratificante”, ovvero un contesto che ne soddisfi le esigenze psicofisiche. Tutto il resto è finzione. O, come dicono i marxisti, sovrastruttura.

- Polanyi: esistono due tipi di aggregazione fra esseri umani: la comunità e la società a scopo specifico. La comunità è un’aggregazione naturale governata da regole condivise spontaneamente dai suoi membri, le quali hanno lo scopo di assicurarne la stabilità nel tempo. La società a scopo specifico è un’aggregazione artificiale governata da regole formalizzate e che persegue uno scopo dichiarato, esterno al gruppo stesso.

- E. Goldsmidth. Si definisce omeotelico il comportamento di un individuo tale da essere in sintonia col mantenimento della struttura del sistema cui appartiene. Eterotelico è un comportamento tale da essere antitetico rispetto alla conservazione della struttura del sistema.

4. Diagnosi.

4.1 Autoreferenzialità. Partiamo dal caso delle diserzioni alla Fondazione animalista: un individuo necessita di un ambiente che gli garantisca il mantenimento della propria struttura e allo stesso tempo che gli consenta di costruire attorno a sé uno spazio gratificante. Il signor Rossi “inserito” trova soddisfatte entrambe queste sue necessità nel gruppo dominante, dal quale dunque avverte l’esigenza assoluta e irrinunciabile di essere accettato. Egli aderisce così a esso in maniera totale e acritica, ne assorbe ogni dettame comportamentale e si fa con ciò ulteriore diffusore di esso. Il signor Rossi “alternativo” è tale perché richiede per sé uno spazio gratificante di una tipologia diversa da quella che il gruppo dominante gli offre. Egli dunque cerca altri individui aventi un’analoga esigenza e forma con essi un “gruppo alternativo”, costruendo all’interno di tale gruppo il proprio spazio gratificante. Egli manifesterà in tale contesto una adesione acritica ai modelli comportamentali che da esso verranno, del tutto analoga a quella che il signor Rossi “inserito” mostra nei confronti dei modelli che gli vengono dal gruppo dominante. Tuttavia il “gruppo alternativo” è “gruppo a sé” solo per uno o al più due dei tre elementi su cui si regge una società umana: il modello culturale e, a volte, la struttura sociale. Manca sempre il terzo, che poi è in realtà quello da cui derivano gli altri due: le strutture produttive, quelle che gli assicurano la conservazione materiale, ovvero il perseguimento del suo unico e vero scopo di organismo biologico: la preservazione della propria struttura. Per questo aspetto il “gruppo alternativo” continua ad appoggiarsi al gruppo dominante, a dipendere totalmente da esso. Vi è dunque nell’individuo una scissione (del tutto anomala e dunque instabile) fra esigenza di mantenimento della propria struttura ed esigenza di creazione di uno spazio gratificante. Poiché la prima (altrimenti detta istinto di conservazione) ha sempre una forza superiore a ogni altra, ecco che, quando le circostanze lo fanno ritenere opportuno, il signor Rossi “alternativo” cessa di essere tale e ritorna fra le solide braccia del gruppo dominante.

Significativamente nelle aziende, o comunque nei luoghi di lavoro, tali defezioni non si verificano anche quando lo spazio che circonda l’individuo è tutt’altro che gratificante. Motivo: il sistema in quel caso è necessario al mantenimento della struttura dell’individuo, ovvero si è in una situazione di omeotelia.

Diciamolo meglio: l’azienda, pur essendo una società a scopo specifico, è altamente stabile rispetto alle sollecitazioni provenienti dal suo interno perché lo scopo specifico (il lucro) è omeotelico rispetto al mantenimento della struttura dell’azienda stessa. Benché fra gli individui che la compongono non vi sia alcun legame di solidarietà, anzi tutt’altro, il fortissimo antagonismo interno non è mai tale da provocare la disintegrazione della struttura aziendale perchè essa rappresenta il sistema da cui dipende la conservazione della struttura degli individui che lo compongono (ovvero il posto di lavoro). Ogni antagonismo sarà dunque frenato da questo limite che ciascuno sentirà come obbligato senza bisogno di alcuna coercizione esterna. La società a scopo specifico “azienda” è dunque, sotto questo aspetto, anche una comunità[7].

Anche i gruppi animalisti sono esempi perfetti di società a scopo specifico ma in questo caso lo scopo è neutro o perfino eterotelico rispetto alla conservazione della struttura del gruppo. Di fatto l’animalismo è uno dei pochi movimenti di liberazione che non mira alla liberazione di se stesso ma di qualcun altro (un altro esempio sono alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani). Il suo scopo dichiarato è cioè esterno al gruppo e non correlato con lo scopo reale, fisiologico di ogni organismo, biologico o sociale che sia: perdurare. In certi casi, dicevo, può esistere perfino una relazione di eterotelia fra i due scopi: si pensi a cosa ne sarebbe di un’associazione anticaccia nel caso che la caccia venisse abolita.

A questo punto però dobbiamo chiarire che una società a scopo specifico, in quanto aggregazione innaturale, a meno che non intervengano elementi coercitivi, tende o a disgregarsi o ad assumere spontaneamente la struttura di una comunità, quasi sempre, in questo caso, di una comunità internamente strutturata, ovvero gerarchizzata. Lo scopo specifico infatti è soltanto una sovrastruttura culturale, che serve esclusivamente a circoscrivere i modelli comportamentali che definiscono l’identità di gruppo. E’ sotto gli occhi di tutti infatti come molte associazioni (non solo animaliste) divengano ben presto autoreferenziali, ovvero la loro azione reale diverge dallo scopo dichiarato mirando piuttosto alla sola perpetuazione dell’associazione stessa.

In passato facevo una distinzione fra aggregazioni formalizzate (le associazioni ufficiali) e aggregazioni movimentiste, cioè spontanee[8]. Oggi non più, avendo constatato che gli stessi discorsi valgono anche per queste ultime: anche lì esiste la figura del leader (etologicamente: il capobranco) che viene seguito in maniera acritica indipendentemente dalla qualità della sua azione. La LAV e Agire Ora sotto questo aspetto sono indistinguibili.

Contrariamente a quanto insegna la psicologia delle masse e a quanto effettivamente avviene in una comunità, in una società a scopo specifico il fallimento del leader nel conseguire lo scopo stesso non intacca la fiducia dei suoi adepti perché tale fallimento, essendo esterno al gruppo l’oggetto dello scopo, non intacca la struttura del gruppo stesso.

La persistente mancanza di risultati in altre parole non lede il prestigio del capo di turno (sembra essere un punto irrinunciabile che ci sia sempre un capo di turno) perché non è il gruppo a fare le spese della cronica sconfitta.

La litigiosità fra gruppi e l’incessante caccia all’eretico è spiegabile con la necessità di avere la costante presenza di un “nemico” da combattere. Questo comportamento affonda probabilmente le sue radici nel substrato istintuale dell’animale umano perché il gruppo nasce atavicamente come alleanza fra uguali  a scopo di protezione contro i pericoli esterni (il diverso) e la loro presenza - e la paura di essi - è istintivo elemento di coesione. La caccia all’eretico è dunque un momento di consolidamento della struttura del gruppo e di verifica della sua uniformità interna, ovvero della sua “purezza”.

Questo quadro fornisce una spiegazione anche per il comportamento del docente nonché per la vicenda della riunione e del successivo insabbiamento della questione dello specismo speculare.

Quanto al primo, è facile dedurre che il momento “comunitario” dell’incontro in cui si prendono le decisioni sui passi successivi sia il fine, non il mezzo (vedi il testo di Impastato e la definizione di Polanyi: la comunità ha se stessa come fine) mentre il momento in cui c’è da lavorare individualmente per conseguire il fine esterno (il convegno), ovvero lo scopo specifico, sia visto come inessenziale essendo il fine comunitario ormai conseguito. Analogo discorso vale per il fallimento del gruppo di pressione anticaccia confrontato con la massiccia partecipazione alle manifestazioni: il primo richiede un’attività individuale, manca totalmente il requisito dell’happening, non è riconoscibile in esso alcuna identità di gruppo. Happening e identità di gruppo che si realizzano al contrario nelle manifestazioni, nei presidi e perfino nei vari gruppi di discussione su Internet, per i quali valgono gli stessi discorsi fatti per i gruppi fisici.

E’ altrettanto facile dedurre che le furiose reazioni alla mia decisione di non partecipare alla riunione siano nate dal fatto che i partecipanti hanno visto in ciò un comportamento lesivo della coesione del gruppo e, più ancora, di negazione dei modelli comportamentali che caratterizzano l’identità del gruppo (“gruppo” è da intendersi qui in senso ristretto come gruppo dei partecipanti alla riunione). Ma un ruolo non trascurabile credo si debba attribuire (almeno in alcuni di loro) al fatto che io abbia contestualmente posto il problema dello specismo speculare. Per capire perché, dobbiamo considerare che antispecismo e specismo speculare sono oggi nient’altro che categorie astratte, non corrispondenti ad altrettanti gruppi reali distinti bensì a un unico gruppo: l’animalismo radicale. Al suo interno elementi di antispecismo e di specismo speculare si trovano mescolati in un calderone confuso al punto che elementi dell’uno e dell’altro si ritrovano a volte nella stessa persona. Si pensi ad esempio al caso di una persona che occupa un ruolo di primo piano in un’associazione che si autodefinisce antispecista e che ha scritto una validissima prefazione a un libro il cui contenuto costituisce una compiuta confutazione delle tesi dello specismo speculare mentre poco tempo dopo, in una mail privata, ha auspicato «l'estinzione dell'uomo che temo avverrà in maniera totale fra troppo tempo…»

Nel primo caso dunque questa persona abbraccia la tesi di una natura non intrinsecamente negativa dell’uomo, tipica appunto dell’antispecismo, nel secondo la stessa persona esprime un auspicio di estinzione dell’uomo che è tipico dello specismo speculare. Non credo che abbia importanza il fatto che queste due posizioni siano state espresse l’una in uno scritto pubblico, l’altra in uno privato. Credo piuttosto che questa persona non fosse consapevole della contraddizione perché entrambe queste tendenze fanno parte dell’identità del gruppo “animalisti radicali” che è l’unico che l’autrice riconosce e in cui si riconosce (più avanti nel secondo scritto ella si definisce “animalista incazzata”).

L’insabbiamento del problema dello specismo speculare dunque è strutturale alla morfologia di questo gruppo: distinguere fra i suoi due aspetti, rilevare anzi la contraddizione fra essi, oltre a non far parte dei modelli comportamentali del gruppo stesso è lesivo della sua integrità perché conduce strutturalmente a una scissione. Una scissione che a volte, come si è visto, può essere anche con se stessi, costringendo a sottoporre il proprio modello culturale (animalismo radicale) al vaglio dell’analisi critica (antispecismo o specismo speculare?), che in questo caso necessita di essere profonda. Ma l’adesione al modello culturale del proprio gruppo di appartenenza, abbiamo detto, è tipicamente acritica e dunque ciò che lo mette in crisi viene rimosso: non per ipocrisia, sia chiaro, ma per l’intervenire di automatismi psichici di autodifesa: se il mio spazio gratificante viene dal gruppo ho bisogno di credere nel gruppo e dunque di rimuovere qualunque entità, materiale o ideologica, che possa minarne l’integrità.

4.2 Ulteriore, non fortuita, divagazione. Fino a che punto tali meccanismi di accettazione acritica assumano un ruolo invasivo e dominante può essere compreso notando che essi sono presenti perfino in quello che dovrebbe essere il regno perfetto dell’analisi critica e della ragione: la scienza. Basti citare il caso, riferito da E. Fromm, della zoologa J. Van Lawick-Goodall la quale, commentando alcune sue osservazioni sulle abitudini alimentari degli scimpanzé, afferma di aver visto «scimpanzé che mangiavano carne piuttosto frequentemente», e ciò dopo aver riferito che «sessantotto mammiferi (in gran parte primati) furono uccisi e mangiati nel giro di 45 mesi, su per giù uno e mezzo al mese, da un gruppo di 50 scimpanzé»[9] il che non giustifica l’affermazione precedente, anzi la nega. Dunque? Dunque possiamo facilmente immaginare che in una sociocultura caratterizzata dall’abnorme consumo di carne e dalla giustificazione “culturale” che ciò fa parte della “natura biologica” dell’uomo, sia ritenuto ovvio che gli esseri più vicini (o, secondo il senso comune, meno lontani) dall’uomo stesso debbano essere a loro volta tendenzialmente carnivori. Questa convinzione, essendo definitoria dell’identità del gruppo “sociocultura dominante” in cui la zoologa evidentemente si identifica, è radicata a un livello psichico più profondo di quello dell’osservazione obiettiva della realtà e dell’analisi razionale di essa. Nessuna esperienza, nessuna evidenza può dunque scalfirla.

4.3 Inaffidabilità, assenza di metodo e di programmazione. Possiamo a questo punto interpretare queste tre modalità di comportamento come sintomi derivati dall’autoreferenzialità.

Il caso del docente universitario, del fallimento del gruppo di pressione anticaccia, della misteriosa scomparsa del compagno Leone, catalogabili come inaffidabilità, hanno un’unica causa: lo scopo specifico (la realizzazione del convegno, la fine della caccia, la vittoria del socialismo) non è lo scopo reale. Lo scopo reale è la propria aggregazione al gruppo in quanto sede del proprio spazio gratificante. Affinché ciò avvenga occorre, abbiamo detto, tenere un certo numero di comportamenti conformi. In un gruppo anticaccia, ad esempio, approvare entusiasticamente una valida proposta di azione contro la caccia fa parte di tali comportamenti. Non però la sua attuazione, quando essa comporta delle pratiche innovative rispetto a quelle già adottate dal gruppo, e che a loro volta sono percepite dai membri come totalmente definitorie della sua identità. Ogni gruppo è infatti caratterizzato da un certo insieme ben definito e immutabile di modalità di comportamento: nel caso degli animalisti la manifestazione, le mail di protesta (sempre “con testo-tipo da personalizzare”), la petizione, il presidio, la riunione e poco altro. I contenuti delle quali a loro volta sono rigidamente determinati e immutabili.

Ogni azione inoltre è chiusa in sé, non relazionata alle altre da qualsiasi cosa che possa chiamarsi programmazione, piano a medio-lungo termine, metodo. Tutto appare guidato da un perenne agire a caso, improvvisando, oggi qui, domani altrove, ripetendo sempre gli stessi schemi, indipendentemente dal fatto che siano risultati o meno efficaci, o addirittura controproducenti, come ben raccontava il lettore della Veganzetta. Dunque, cronica assenza di programmazione e di qualunque cosa che possa chiamarsi metodo (l’assenza della prima facilmente riconducibile all’assenza del secondo): ma cosa c’è da programmare, cosa significa darsi un metodo se l’obiettivo reale è soltanto la perpetuazione del gruppo?

Cose come presidi, manifestazioni e incontri vari hanno chiaramente a questo punto la stessa valenza che il compositore John Cage attribuiva ai concerti: happening e nient’altro, in cui il fatto di ascoltare musica è un semplice pretesto. Se interpretiamo allo stesso modo le iniziative “animaliste” tutto quadra, compreso il fatto che costoro spesso diano all’esterno una pessima immagine di se stessi – e, cosa ben più grave, delle idee che propugnano –. Tale immagine, così come l’immancabile inefficacia dell’azione, è un dettaglio irrilevante. L’unica cosa che conta è esserci, e l’unica immagine che conta è quella che si dà agli altri partecipanti all’happening. L’azione, in altre parole, è tutta rivolta all’interno del gruppo. Le modalità di azione, giova ripeterlo perché questo è il concetto chiave, vengono ripetute ogni volta sempre uguali, indipendentemente dalla loro (in)efficacia, perché esse definiscono l’identità del gruppo, che è l’unica cosa che conta.

Infine, tale ineliminabile natura autoreferenziale del gruppo assume connotati tanto più negativi quanto maggiore è la distanza fra scopo reale e scopo specifico. Per questo motivo essi sono particolarmente nefasti nei gruppi animalisti, nei quali, essendo l’oggetto dello scopo specifico le specie animali non umane, tale distanza è massima.

Questo scenario consente di spiegare un ulteriore fatto altrimenti paradossale. Una non trascurabile parte dei protagonisti degli “strani fatti” sopra narrati svolge lavori di alto livello: medico specialista, ricercatore, ingegnere informatico, docente universitario… lavori in cui doti di organizzazione, metodo, affidabilità, programmazione del lavoro sono assolutamente necessarie. Come è possibile che tutto ciò cessi di esistere nel momento in cui queste stesse persone operano in quanto animalisti all’interno del movimento animalista? E’ possibile semplicemente perché nella loro attività professionale essi operano all’interno di un certo, ben definito, gruppo e ne assumono automaticamente i modelli comportamentali, pena l’esclusione dal gruppo stesso (licenziamento). Questa è la parte della loro vita sociale che assicura loro il mantenimento della propria struttura di organismo biologico. Nel loro impegno “movimentista” e “alternativo” queste stesse persone operano all’interno di un gruppo di tutt’altro genere, del quale assumono altrettanto automaticamente i, diversissimi, comportamenti, condizione anche qui necessaria per essere accettati come parte del gruppo. Questo è il contesto che assicura loro il dispiegamento del proprio spazio gratificante. Questi due opposti modelli di comportamento sono dunque semplicemente omeotelici rispetto all’identità dei due diversi gruppi in cui si realizzano, gruppi entrambi necessari alla vita dell’organismo biologico “signor Rossi animalista”.

5 Una via per l’antispecismo.

5.1 Premessa: il gruppo come sistema dinamico. Sulla base di quanto detto credo si possa giungere a ipotizzare che un qualsiasi raggruppamento durevole di individui appartenenti a una qualsiasi specie animale sociale (fra cui ovviamente l’uomo) si possa modellizzare come un sistema dinamico tendente spontaneamente verso uno stato stabile “conveniente”, nella determinazione del quale l’analisi critica razionale della realtà da parte degli individui membri del gruppo gioca un ruolo tendente all’irrilevante, essendo al contrario determinante in ciò un insieme complesso di relazioni fra cause ambientali e automatismi culturali e biologici interni all’individuo stesso. Ripeto: automatismi.

Questa caratteristica del gruppo, essendo strutturale alla sua formazione e al suo mantenimento, è irriformabile. Si può pensare esclusivamente di agire sugli automatismi per modificare, in maniera graduale, la configurazione dello stato stabile.

5.2 Conseguenze teoriche. E’ utile a questo punto richiamare la distinzione fra ciò che Marco Maurizi in un suo scritto di qualche anno fa chiamava antispecismo metafisico e antispecismo storico[10].

L’animalismo convenzionale e l’antispecismo (per lo specismo speculare varrebbe un discorso a sé ma la natura intrinsecamente nichilista di quest’ultimo rende superfluo che lo si affronti nell’ambito di questo discorso) hanno in comune il fatto di essersi dati come sovrastruttura culturale l’antispecismo metafisico, consistente nel credere che l’evoluzione del pensiero determini i fatti della Storia, e non ne sia al contrario determinata. Ciò equivale a definire l’identità di gruppo ponendo la cosiddetta “questione animale” esclusivamente in termini di filosofia morale e postulando che bastino gli argomenti di essa a mutare gli eventi concreti.

Questa impostazione presuppone che l'uomo sia un animale morale ma non è così: l'uomo al più è, come tutti gli animali sociali, un animale culturale, dove il suo essere tale si concretizza nel formulare, secondo il sistema di automatismi sopra descritto, modelli di cultura, ovvero visioni del mondo che hanno lo scopo di giustificare a posteriori il suo agire. Lo specismo è il più evidente e, oggi, generalizzato di questi modelli. Questa è la visione in cui si colloca l’antispecismo storico[11].

Il fatto che l'adesione al modello culturale del proprio gruppo da parte di un individuo sia acritica implica ovviamente che essa prescinde dal valore di ogni argomento contrario. Ecco perché i pur buoni, ottimi, eccellenti argomenti dell'antispecismo morale sono inefficaci: fanno appello alla ragione, non all'istinto di gruppo che è e rimane più forte perché, in un animale sociale (il “signor Rossi inserito”), è fortemente legato al vero e unico scopo di ogni sua azione: ancora una volta la conservazione della propria struttura, a sua volta fortemente legata alla conservazione della struttura del gruppo (il “sistema dominante”).

L’animalismo morale-metafisico, basandosi sui soli argomenti della filosofia morale, per sua natura rimane isolato da ogni altra corrente di pensiero perché non sente il bisogno di collocare le sue tesi in un contesto storico. Esso insomma pretende di risolvere la questione animale lasciando immutato tutto il resto.

E cade così fra l’altro nel paradosso di voler diffondere un modello culturale che tenda ad azzerare i livelli di aggressività rivolti al cerchio più esterno (le specie non umane) senza preoccuparsi dei cerchi più interni (la violenza intraspecifica).

In concreto, esso dà vita come abbiamo visto a società a scopo specifico il cui coerente funzionamento presupporrebbe l’esistenza di un qualcosa chiamato altruismo per il quale non esiste una sede biologica nel cervello di nessun essere senziente e che è dunque una mera astrazione. L’animalismo morale-metafisico è dunque a sua volta un’astrazione, qualcosa che pencola nel vuoto e rimane privo di agganci alla realtà comportamentale (dunque storica) e biologica dell’animale uomo.

E’ vero che, a differenza dell’animalismo convenzionale, l’antispecismo in realtà è teoricamente consapevole che la questione animale implica una completa mutazione dell’assetto dell’uomo sulla Terra, tuttavia esso continua a essere metafisico ovvero a mettere in primo piano la cosiddetta “questione morale” come se da essa potesse venire la scossa che conduce al mutamento sociale.

Mi risulta che a tutt’oggi, almeno in Italia, Marco Maurizi sia stato l’unico a mettere in primo piano l’impostazione storica. Tuttavia anch’egli, pur avendo condotto a fondo, e in maniera estremamente illuminante, l’analisi della genesi e dell’evoluzione storica dello specismo e della cultura del dominio, prescinde dal problema di quale possa essere un possibile assetto alternativo dell’uomo sulla Terra. Ciò è evidentissimo ad esempio in un suo recente saggio in cui, nonostante il promettente titolo (Verso una società post-neolitica[12]), conclude con una resa totale su questo punto: «E’ impossibile dire in che modo l’attuale prassi di trasformazione dell’esistente verrebbe a sua volta trasformata se, come auspichiamo, il tema del dominio sull’animale dovesse essere preso sul serio e divenire tema di dibattito politico» e si adagia nelle frasi finali in vaghi auspici per un indefinito futuro[13].

L’antispecismo dunque, perfino nelle sue espressioni più avanzate, si caratterizza per la totale mancanza di qualsiasi progettualità sociale. Apparentemente, quando per antispecismo si intende quello di impostazione storica, ciò è inesplicabile. In realtà vedremo che partire da esso equivale a comportarsi come quel costruttore che tentasse di costruire un edificio iniziando dal tetto.

Da parte mia, non mi sono posto qui il compito di affrontare il problema di enunciare una tale progettualità (anche perchè qualcun altro, significativamente estraneo al contesto antispecista, lo ha fatto[14]) bensì di indicare una possibile via attraverso cui si possa giungere a essa e la si possa tradurre in pratica.

Partiamo da questa semplice considerazione: l'antispecismo storico, al contrario di quello metafisico, nel cercare di individuare le leve su cui agire riconosce l’importanza delle dinamiche sociali che legano l’individuo al proprio gruppo e che determinano il comportamento di quest’ultimo.

Questa idea di antispecismo dunque, se compiutamente sviluppata, non parte dall’antispecismo bensì da un modello di società umana compatibile con esso. Quale?

Può pensarsi una umanità rispettosa della vita non umana e che allo stesso tempo mantenga inalterata una struttura produttiva e sociale basata sulla competizione interna? E può pensarsi un modello culturale che descrive la società umana secondo livelli gerarchici invalicabili omettendo di estendere tale gerarchia alle specie non umane? Ovviamente no.

E allora il primo gradino di una società umana antispecista è la costruzione di una società umana del bene comune, intendendo con ciò un organismo sociale egualitario basato non sull’altruismo (perché inesistente) bensì sul concetto di cooperazione o “bene comune” in quanto forma di relazione migliore (più efficiente) per il perseguimento dell’interesse di ciascuno. L’unico modo che ho per agire a mio vantaggio è agire per il bene di tutti. Ma tutti chi? Qui si pone il problema dei confini, senza rimuovere i quali si ricadrebbe nei vari “…ismi” che ben conosciamo.

Su questa base che è la società umana del bene comune è dunque necessario innestare (e l’evidenza della crisi ecosistemica globale ci aiuta in ciò avendolo reso ormai un elemento palesemente irrinunciabile) la necessità di uscire da una prassi, e conseguentemente da un pensiero, unicamente concentrato sulla parte, anche quando questa parte è l’umano nella sua interezza planetaria, e di entrare in un’ottica di idee in cui l’interconnessione funzionale di tutte le cose all’interno della biosfera sia considerata – come di fatto è – un a priori cui conformare ogni azione.  “Tutte le cose” significa, com’è ovvio a questo punto, esattamente tutte, viventi e perfino non viventi della Terra. Se ogni cosa dipende da ogni altra infatti non può essere posto un confine all’idea di bene comune ed ecco dunque formulata la necessità di includere in essa le forme viventi non umane, senza bisogno di ricorrere a fantasiosi concetti "morali" come il cosiddetto altruismo, bensì ricorrendo semplicemente all’unica spinta che muove un organismo vivente, individuo o collettività che sia: la conservazione della propria struttura, la quale dipende dalla struttura del gruppo sociale di appartenenza, la quale a sua volta dipende dal “metagruppo” biosfera.

Si potrà obiettare che tutto ciò richiede da parte del “signor Rossi” un grado di elaborazione razionale di concetti e relazioni che è incompatibile con la natura acritica della sua visione del mondo e dei suoi comportamenti fondamentali. In realtà questo modello culturale si presta a essere riformulato in forma mitica e a trovare attuazione nell’idea di tabù che è parte di tutte le socioculture umane. Si può ipotizzare in altre parole un modello culturale centrato sul tabù appunto di non nuocere ad alcuna parte del mondo vivente perché ogni azione si propaga circolarmente fino a ritornare amplificata su chi l’ha compiuta. Modelli culturali simili li ritroviamo effettivamente in vari popoli “primitivi” e soprattutto li ritroviamo nel Buddhismo che è probabilmente il modello culturale più omeotelico oggi esistente. Il modello di cultura che ho qui prospettato dunque non è un’ennesima astrazione teorica ma può concretamente funzionare nel mondo reale.

Riassumiamo: l’antispecista puro, cioè formato su basi esclusivamente etico-morali, è una semplice astrazione metafisica priva di consistenza storica. L’antispecismo come forza sociale prima e modello culturale generalizzato poi, può realizzarsi, ma solo in senso storico, ovvero solo se inserito nelle reali dinamiche di formazione e funzionamento di un gruppo umano; solo tenendo conto di esse e “funzionando” con esse.

Chi si identifica nell’idea antispecista dovrà porsi pertanto come primo obiettivo l’edificazione di una società umana del bene comune, basata cioè su prassi egualitarie e cooperative, da utilizzare come terreno di coltura per l’estensione di tali prassi anche alle specie non umane. Queste due fasi non devono essere considerate temporalmente separate perché il formarsi della prima aprirà spontaneamente spazi all’innestarsi su di essa della seconda.

5.3 Conseguenze pratiche. Ogni tentativo di fondare un movimento antispecista puro non è altro che il tentativo di dare corpo a un’ennesima società a scopo specifico destinata nella migliore delle ipotesi a divenire autoreferenziale. Un movimento antispecista puro inoltre non può che essere di stampo metafisico. Di riflesso, un movimento antispecista storico non può essere un movimento antispecista puro. Occorre dunque accettare l’incompletezza dell’istanza antispecista isolata dal contesto storico-biologico in cui opera l’animale umano, smettere di tentare di fondare un movimento antispecista e aderire invece a quei movimenti che cercano di costruire una società del bene comune, essendo questo un obiettivo condiviso e necessario all’istanza antispecista, con preferenza per quelle realtà che hanno già maturato almeno a livello embrionale una qualche consapevolezza ecosistemica o che abbiano nel proprio retroterra culturale i presupposti per maturarlo. Partire in essi dalle premesse condivise e poi dedurre da tali premesse i concetti ulteriori.

In Italia il gruppo che più di ogni altro presenta oggi tali caratteristiche è il Movimento per la Decrescita Felice. Potenzialmente potrebbero esserlo anche i gruppi della sinistra marxista, tuttavia i fatti mostrano che essi sono ancora chiusi in un orizzonte strettamente antropocentrico che lascia poco spazio perfino per l’ecologismo classico. Ben diverso sarebbe il discorso se essi facessero propria l’importante lezione della Scuola di Francoforte, dalla quale non a caso è venuta sia la critica dell’antropocentrismo che quella dello sviluppismo. Ma a tutt’oggi essi sembrano molto distanti da ciò[15].

Anche le idee della decrescita sono allo stato attuale racchiuse entro un orizzonte prevalentemente umano, tuttavia l’accentuata sensibilità ecologista che la caratterizza crea un terreno fertile per innestarvi il concetto successivo: l’interconnessione funzionale fra l’uomo e tutte le altre specie viventi. La decrescita rappresenta un fertile terreno di coltura per le idee dell’antispecismo anche per un altro motivo: prassi della crescita e ideologia del dominio (comprendo in essa l’antropocentrismo) sono nati contemporaneamente, col passaggio dal paleolitico al neolitico; la seconda per giustificare la prima. La decrescita ha dunque bisogno dell’antispecismo come quest’ultimo ha bisogno di essa.

Faccio abitualmente il seguente paragone. Paragonando a un edificio un assetto sostenibile ed eticamente corretto dell’uomo sulla Terra possiamo dire che l’antispecismo ne rappresenta il tetto e la decrescita i muri portanti. Il primo, da solo, non può sussistere perché rimane sospeso sul vuoto; i secondi da soli sarebbero destinati a disfarsi ben presto sotto le intemperie[16].

Cosa aspettarsi dal Movimento per la Decrescita? Esattamente la stessa cosa che è accaduta a me per anni nei gruppi animalisti: tanti benebravobis e poi… che tutto continui come prima. Perché? Perché anche qui valgono i discorsi fatti prima: tutto ciò che è in linea con l’identità di gruppo viene automaticamente approvato, ma questo non scalfisce l’insieme concreto, fissato una volta per tutte, di comportamenti reali che definiscono quella identità. Dunque si sarà applauditi in un gruppo della decrescita quando si parlerà contro la pratica dell’allevamento ma le stesse persone che un attimo prima hanno applaudito mangeranno subito dopo della salsiccia “genuina perché biologica”. Spiegazione: la condanna verbale delle pratiche antiecologiste e antietiche (nel senso dell’etica ecologista) fa parte dei comportamenti che definiscono l’identità di quel gruppo, il vegetarismo no. E poiché l’adesione a questi modelli comportamentali è, ancora una volta, acritica, nessuno percepirà la stridente contraddizione.

Allo stesso modo in un gruppo animalista tutti si indigneranno di fronte a un cacciatore che in un bosco uccide una dozzina di uccelli ma tutti resteranno indifferenti di fronte alla notizia che quel bosco è stato raso al suolo per costruirvi un centro commerciale. Naturalmente è ovvio che ciò ha comportato la morte - immediata sotto le ruspe o successiva per fame a seguito della distruzione dell’habitat - di tutti gli animali che vivevano in esso, ma questo sarà rimosso dall’immaginario dell’animalista il quale non esiterà in seguito anche a fare i propri acquisti (rigorosamente vegani, beninteso) in quel centro commerciale. Spiegazione: la condanna della caccia fa parte dei comportamenti che definiscono l’identità del gruppo animalista, la condanna della deforestazione, del consumismo e della cementificazione selvaggia no. L’animalista insomma non è portatore di un’istanza più avanzata di quella ecologista, come spesso si legge nei testi animalisti e in particolare in quelli antispecisti; entrambi sono portatori di un pezzetto di verità che, proprio perché parziale, sconfina spesso nel suo opposto, ovvero nella falsità, pur senza esserlo intenzionalmente.

Un altro problema col quale bisogna aspettarsi di dover interagire è che anche nei gruppi della decrescita, a meno che non siano organizzati in ecovillaggi, ovvero comunità autosufficienti, manca quell’elemento fondamentale che sono le strutture produttive, con tutti gli elementi di instabilità già descritti.[17]

Allora, si dirà, se anche lì ci si ritrova nella stessa situazione, perchè preferire questi contesti? Perché in essi fra scopo reale di una comunità (mantenere la propria struttura) e scopo dichiarato (costruire una società del bene comune) esiste una relazione di omeotelia. Questi raggruppamenti hanno cioè in sé il germe della loro futura stabilità, cosa che manca nei gruppi animalisti, dove fra scopo reale (anche qui mantenere la propria struttura) e scopo specifico (fare qualcosa per qualcun altro) non c’è correlazione o, quando c’è, essa è strutturalmente eterotelica. E questo è un male irrimediabile.

Rimane il problema degli automatismi culturali, che nessun argomento razionale può scalfire. Una sola soluzione è possibile: pervadere il gruppo, affiancando i propri modelli comportamentali a quelli già acquisiti affinché si espandano progressivamente fino a coinvolgere l’intero gruppo. Una sorta di strategia virale[18] su piccola scala.

Un punto fondamentale è che la componente della decrescita antispecista all’interno del gruppo della decrescita non dovrà mai contrapporsi né dissentire, ma semplicemente fare: nel primo caso essa otterrebbe l’effetto opposto a quello voluto poiché si porrebbe come esterna al gruppo ed attiverebbe i suoi anticorpi. Invece, dovrà costantemente miscelare in maniera naturale i modelli comportamentali comuni, dunque generalmente accettati, a quelli che si vuol far accettare in modo da far perdere ogni percezione di differenza. Ad esempio, citare frequentemente l’allevamento accanto all’energia nucleare, la pratica vegana nel contesto dei comportamenti a impatto zero o in quello della nonviolenza, ecc. La componente antispecista non dovrà essere nemmeno percepita come sottogruppo bensì come parte attiva, perfettamente amalgamata nel gruppo.

Una precisazione non meno fondamentale: quella che ho qui prospettato non è una tattica furbesca per deviare le idee di “qualcun altro” infiltrando occultamente in esse le “proprie”. Interpretare in tal modo quanto ho detto significherebbe non aver compreso il concetto centrale di questa riflessione, ovvero che decrescita e antispecismo sono due parti, essenziali l’una all’altra, di un’unica verità. Unire i concetti dell’uno a quelli dell’altra è pertanto uno sbocco naturale: la pratica vegana è realmente nonviolenta e a basso impatto, la zootecnia è veramente improponibile nella stessa misura in cui lo è l’energia nucleare. E l’antispecista è, proprio in quanto tale, davvero parte naturale e attiva di un gruppo della decrescita che pertanto non è da considerarsi come “qualcun altro”.

La principale difficoltà è la solita: il numero. Per ottenere effetti sensibili sulle pratiche che definiscono l’identità di un gruppo occorre un numero significativo di individui che abbiano compiuto il percorso sopra riassunto: la fusione funzionale fra l’idea di una società umana del bene comune e un’estensione di essa a tutte le forme viventi sulla Terra attraverso il concetto di interdipendenza di tutte le cose. Ma è proprio questo numero significativo che oggi manca e che non so come possa venirsi a formare.

Qui questa riflessione si chiude.

Filippo Schillaci (aprile 2010)

 

Postilla

Non bisogna credere che gli attivisti della decrescita siano tutti del tipo “salsiccia genuina”. Benché i vegetariani fra essi siano una minoranza, anche molti fra coloro che non lo sono accolgono in genere con favore e attenzione questo tema e in generale il tema del rispetto per le specie non umane. Alcuni mesi fa, dopo una conferenza sulla decrescita organizzata dal gruppo milanese una persona scrisse a me e alla mia compagna:

Mi è piaciuto che vi siate dichiarati subito vegetariani, pur senza innescare polemica con noi altri che (nonostante le chiacchiere) non lo eravamo "troppo"... Sai, guardandovi non avrei pensato il contrario. Voglio dire,  hai mai conosciuto gente nervosa, scontrosa, irosa, prepotente.... che è vegetariana? Anche il cibo influenza il nostro carattere, l'armonia psicofisica... Io credo e ripeto spesso che: “bisogna sempre offrire qualcosa di buono al nostro corpo se vogliamo che l'anima continui ad abitarci”.

Chi conosce il reale panorama del mondo vegano in Italia non potrà non sorridere di fronte a un’immagine così candida di esso ma questo dà, credo, la misura della fertilità del terreno che la decrescita rappresenta per le idee dell’antispecismo. Un terreno in cui sarebbe semplicemente folle non seminare.

Aggiungo che in vari scritti di esponenti della decrescita ho trovato riferimenti molto chiari alla necessità di abbattere il confine fra le specie; uno di essi era interamente incentrato sul dolore animale. Inoltre, un membro di Legambiente vicino alla decrescita da me recentemente incontrato mi disse di aver particolarmente apprezzato, nel mio libro, proprio il capitolo sull’antropocentrismo. Beninteso, sono solo embrioni ma embrioni che, se ben nutriti, io credo che possano dar vita a sviluppi importanti.


Note


[1] Rimando a: Antispecismo e specismo speculare, una distinzione sommersa (http://www.gondrano.it/diritti/lab/a&ssarticolo.htm)

[2] Giancarlo Vescovi. Mail inviata alla redazione della Veganzetta il 7 luglio 2008.

[3] Ne diedi un dettagliato resoconto in Comunicazione zero  (http://www.gondrano.it/desert/firenze07.htm

[4] Fondazione Basso, L’archivio Basso e l’organizzazione del partito (1943-45), F. Angeli, Milano, 1988, p. 176.

[5] G. Impastato e altri, Radio aut, materiali di un’esperienza di controinformazione, Edizioni Alegre, Roma, 2008, p. 25.

[6] E’ probabilmente più corretto dire che la vera differenza è fra gruppi pianificati e gruppi spontaneisti. Nei primi è pianificata anche la procedura di affiliazione per cui solo individui dotati a priori di un adeguato grado di omologazione (o omologabilità) vengono accettati. Nei secondi invece anche l’affiliazione è spontanea per cui la selezione deve avvenire a posteriori tramite le dinamiche relazionali interne al gruppo. La pretesa di totale omologazione dell’individuo da parte del gruppo in altre parole è comunque presente, solo che nei gruppi pianificati si manifesta in maniera programmata e a priori, ecco perché risulta invisibile.

[7] Non dobbiamo infatti considerare una comunità necessariamente caratterizzata da rapporti di solidarietà interna. Si veda a questo proposito R. Benedict, Modelli di cultura, Feltrinelli, Milano, 1970.

[8] Si veda: Gerarchie animaliste e movimento animalista (http://www.gondrano.it/desert/geranim.htm

[9] Passi citati in E. Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondatori, Milano, 1975, p. 154.

[10] M. Maurizi, Nove Tesi su Antispecismo Storico e Antispecismo Metafisico, in Rinascita Animalista, http://www.liberazioni.org/ra/ra/index.html, 20 marzo 2005.

[11] In un suo intervento su un gruppo di discussione Marco Maurizi parla anch’egli di automatismi culturali, tuttavia non è chiaro quale importanza egli attribuisca a essi nella definizione del modello culturale di un gruppo. Non è pertanto detto che questa visione dell’antispecismo storico coincida totalmente con la sua.

[12] M. Maurizi, Verso una società post neolitica, in Liberazioni n. 9, Luglio 2009 (http://www.liberazioni.org/liberazioni/MauriziM-09.htm).

[13] Dopo aver letto questo testo Marco Maurizi mi ha scritto precisando fra l’altro quanto segue: «Nella tua osservazione critica sul mio scritto credo che ci sia un equivoco. Il titolo “promettente” diceva “verso una società post-neolitica” non “la società post-neolitica”, fermo restando – non mi nascondo dietro un dito – che io non scriverei (…) mai un saggio che abbia per argomento: “signore e signori ecco a voi la società post-neolitica”. Il punto di equivoco è però un altro: la differenza tra un ideale regolativo ed un progetto. L’ideale regolativo si pone al di là della sfera del realizzabile (che è appunto quella dell’agire strumentale), non perché invochi qualcosa di impossibile, ma perché la sua funzione non è quella di indicare ricette per l’azione immediata. L’ideale regolativo serve come immagine contro-fattuale che permette di leggere in negativo gli aspetti falsi ed errati della realtà con cui lo si confronta. Non è quindi né un’utopia né un progetto da realizzare: è un punto di osservazione diverso sul mondo che giudica del mondo. Il suo effetto sull’azione è perciò indiretto. Tutt’altra cosa nel caso di un progetto, come lo intendi tu, che muove appunto da una precisa rappresentazione del fine e da un’analisi dei mezzi e delle risorse per raggiungerlo. Non so se le due cose sono in contraddizione o se si integrino.» (M. Maurizi, messaggio di posta elettronica inviatomi il 22 aprile 2010.)

[15] Ho accennato a questo problema in Quali interlocutori per la decrescita? (http://www.gondrano.it/oikos/mdfH.htm). Sulla critica dell’antropocentrismo nella scuola di Francoforte: M. Maurizi, L’animale dialettico, in Liberazioni n. 4, febbraio 2008 (http://www.liberazioni.org/liberazioni/articoli/MauriziM-05.htm). Su marxismo e decrescita: M. Badiale, M. Bontempelli, Marx e la decrescita (http://www.megachipdue.info/tematiche/kill-pil/3078-marx-e-la-decrescita-per-un-buon-uso-del-pensiero-di-marx.html) che tuttavia ignora la Scuola di Francoforte e cerca piuttosto nel pensiero originario di Marx i punti di contatto col contesto della decrescita. L’orizzonte rimane inevitabilmente confinato nel contesto umano.

[16] Ho trattato questo argomento nel cap. 13 (Cosa non ri-produrre) di Vivere la decrescita, Edizioni per la Decrescita Felice, Roma, 2009.

[17] Anche se è possibile che essi siano progressivamente attenuati dalla tendenza all’autoproduzione di beni che è uno dei punti cardine di tali gruppi.

[18] Vedi P. Nigra, Il sistema federativo, cit.



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16/08/10